Emmanuel Lévinas (1906-1995) – Un mondo senza volto ha bisogno della carezza, che è accoglienza, e non chiede altro che essere partecipe dell’infinito, della traccia di infinito presente sul volto dell’alterità.

Emmanuel Lévinas 01
Salvatore Bravo

Un mondo senza volto

 

La contemporaneità con i suoi ritmi competitivi procede per sottrazione ed eliminazione dell’umano per sostituirlo con l’omologazione senza volto e senza identità. Il consumo è usura del mondo, della storia, dei processi identitari. Il nulla del nichilismo avanza parallelamente alle proiezioni della crescita del PIL e del postulato del possesso. In questo contesto – privo di riferimenti ontologici ed metafisici – si è stranieri a se stessi ed all’alterità, ci si vede senza guardare e sentire la presenza dell’altro che evapora e si trasforma in semplice mezzo per fini spesso ignoti. La vicinanza, la fratellanza è ridotta a semplice biologia nei migliori dei casi. Il sentire empatico dell’altro è solo un limite da cui fuggire, ogni educazione sentimentale e razionale è trascesa in nome dell’efficienza, dell’individualismo e della produttività. L’alterità è un non io, la cui antitesi all’io deve restare perenne: è interdetto lo sguardo asimmetrico sull’altro. La letteratura e la filosofia sono marginalizzate, in quanto veicolo di un’educazione – dicono sentimentale – che il turbocapitalismo non può consentire, poiché “rischiano” di far cadere la parete di fango della competizione. L’intero sistema globale – con i suoi mezzi di comunicazione veloci – è strutturato sulla divisione, sulla violenza dell’atomismo globale. Sono, così, presenti due livelli. Un primo livello ideologico che osanna la vicinanza spaziale, la raggiungibilità di ogni meta geografica, di ogni ambizione; livello però dietro cui si cela il secondo, ovvero la verità della distanza, dell’atomistica globale: ciascuno è solo un mezzo per le ambizioni personali, ogni spazio geografico è a disposizione per il proprio godimento veloce. I popoli, e le singole persone, sono sul mercato a disposizione di chi ne può godere in proporzione al proprio censo. L’altro/a, in tale contesto, è senza volto. Nessuna meraviglia panica ci prende in sua presenza, è solo presenza anonima e sostituibile. Senza il volto, non vi è legame comunitario. Il volto invoca la vicinanza all’altro/a, lo stupore della presenza, e nel contempo, certo, anche la distanza dell’altro. Tale distanza va attraversata, ma ci si approssima senza conquistare, perché la vita dell’altro/a non è delimitabile in variabili enumerabili. L’altro/a è la presenza dell’infinito nella nostra vita, infinito mondano e terreno nel quale si ritrova la propria umanità, l’essere fratelli nel mistero della presenza che non può essere espressa in parole, in coincidenza tra l’io ed il tu. Il faticoso attraversare lo spazio che ci separa non è mai colmato, la meraviglia è ad ogni passo dinanzi allo splendore della scoperta dell’alterità:

 

«L’essenza della società sfugge se viene considerata simile al genere che unisce gli individui simili. Esiste ovviamente un genere umano come genere biologico e la funzione comune che gli uomini possono esercitare nel mondo come totalità, consente di applicare loro un concetto comune. Ma la comunità umana che è instaurata dal linguaggio nel quale gli interlocutori restano assolutamente separati non costituisce l’unità del genere. Essa viene definita come parentela tra gli uomini. Il fatto che tutti gli uomini siano fratelli non è spiegato dalla loro somiglianza né da una causa comune di cui sarebbero l’effetto come succede per le medaglie che rinviano allo stesso conio che le ha battute. La paternità non si riconduce ad una causalità cui gli individui parteciperebbero misteriosamente e che determinerebbe, in base ad un effetto non meno misterioso, un fenomeno di solidarietà. Il fatto originario della paternità è costituito dalla mia responsabilità di fronte ad un volto che mi guarda come assolutamente estraneo e l’epifania del volto coincide con questi due momenti. La paternità non è una causalità: ma l’instaurazione di un’unicità con la quale l’unicità del padre coincide e non coincide. La non coincidenza consiste concretamente nella mia posizione come fratello, implica altre unicità al mio fianco, così che la mia personale unicità riassume ad un tempo la sufficienza dell’essere e la mia parzialità, la mia posizione di fronte all’altro come volto».[1]

 

L’infinito dell’altro/a, il mio infinito
L’approssimarsi fenomenologico all’altro/a non si materializza semplicemente nella conoscenza dell’altro/a, ma rivela che l’essere umano non è riducibile a variabili biologiche, economiche o a calcolo per prestazioni. In ogni essere umano alberga un’eccedenza che sfugge alla quantità:

«Il senso e il volto d’altri ed ogni riferimento alla parola si situa già all’interno del faccia a faccia originario del linguaggio. Ogni riferimento alla parola presuppone l’intelligenza del significato originario, intelligenza, però, che, prima di lasciarsi interpretare come “coscienza di”, è società e obbligo. Il significato è l’Infinito ma l’Infinito non si presenta ad un pensiero trascendentale, e neppure l’attività sensata, ma in Altri; mi affronta e mi mette in questione e mi obbliga per la sua stessa essenza di infinito». [2]

L’integralismo del calcolo, l’ossessiva competizione quantificata al centesimo denota – dietro i trionfi docimologici – il timore dell’infinito, della metafisica, timore che si rimuove con il calcolo, con la volontà di potenza della misura, della riconducibilità di ogni ente al calcolo: esorcizzare la paura ed il dubbio dell’infinito. Il pregiudizio verso l’infinito, la velocità con cui è eliminato dalla discussione, è la spia di un malessere che si cela dietro il trionfo del calcolo millimetrico: persone ed enti sono omologati dalla cattiva fratellanza del calcolo.

 

Violenza del meccanicismo relazionale
L’infinito dell’altro rompe la successione meccanica e causale con cui si organizza l’efficienza del mondo. Per poter navigare verso l’altro, verso l’infinito mondano bisogna sospendere l’attività di conquista, bisogna rinunciare all’aggressività del desiderio di possesso, è necessario introdurre l’ascolto, e con esso un nuovo modello di razionalità, in cui il logos è anche “sentire” l’infinito dell’altro. L’infinito mondano si offre come dono solo se ci si libera dalle sovrastrutture che condizionano la visione dell’altro:

«La relazione con Altri come relazione con la sua trascendenza – la relazione con altri che mette in questione la brutale spontaneità del suo destino immanente – introduce in me ciò che non era in me. Ma questa “azione” sulla mia libertà mette appunto fine alla violenza e alla contingenza e, anche in questo senso, instaura la Ragione».[3]

 

L’infinito mondano è lo scacco all’integralismo della razionalità che non conosce pensiero, ma solo calcolo, poiché l’infinito non è riconducibile a nessun rassicurante elemento empirico. L’alterità ed il suo volto non possono essere oggetto di conquista, l’altro/a non lo/a si possiede, semplicemente il volto dell’altro/a ci è di ausilio per uscire dalle gabbie delle categorie, delle delimitazioni. Il volto ci mostra i limiti della ragione calcolante e la compresenza di più possibilità e mondi nello stesso spazio e nello stesso arco temporale. Vi è etica solo nella concretezza infinita dell’altro/a, nel deporre le armi del calcolo, affinché l’altro/a possa essere ascoltato.

 

La carezza
Come attraversare gli spazi che ci dividono per la condivisione non proprietaria?
Lévinas non ha dubbi: con la carezza. Essa è simbolo concreto di una vicinanza che va alla scoperta dell’altro/a. La carezza è induttiva, non ha universali trascendentali entro cui costringere l’alterità. La carezza si appella alla veglia con cui si rinuncia alla coscienza vigile del concetto, alla razionalità attiva, per tendere verso l’asimmetria dell’altro. La carezza si avvicina all’altro/a con la gioia panica della scoperta. Se l’altro/a è infinito che vive con noi, tra di noi e con noi, non resta che perdere la posizione di soggetto dai confini netti e respingenti per esporsi ad un’esperienza di conoscenza in cui si rischia di naufragare, nella quale preclusioni e sovrastrutture si mostrano a contatto con l’infinito nella loro accidentale verità. La carezza è marcia verso l’infinito dell’altro, in cui l’altro/a non è toccato/a, non diviene proprietà, ma presenza in cui si riconosce la propria solitudine ed il bisogno di trascenderla, senza mai colmarla. La carezza non è parola: quest’ultima necessita di calcoli, obiettivi, e mezzi, mentre la carezza è visione concreta dell’infinito dell’altro/a. La carezza diviene parola dopo aver vissuto l’esperienza del volto, parola che non può, quindi, esprimere l’indicibile. Dal viaggio nell’infinito non si torna eguali, il volto dell’altro/a ci parla di verità che ci completano, mai in senso definitivo. L’individualismo narcisistico che vive nel culto del medesimo, nella violenza quotidiana del possesso e della conquista palesa la sua verità, e con essa la necessità storica ed ontologica della sua trascendenza. Il medesimo narcisista, l’affermazione della soggettività guerriera e bellicosa mai paga di sé, è veicolo del solo calcolo, del paradigma della violenza che divora l’altro/a come – nel contempo –cannibalizza il mondo in tutte le sue espressioni e degenera in irrazionalità, nel cattivo infinito dell’illimitato. Il narcisismo ipertrofico è il cattivo infinito della contemporaneità, la razionalità cieca che nell’immediato vive dei suoi trionfi, ma presto dimostra potenzialità distruttive impensabili e non calcolabili. La carezza è la via maestra verso l’etica, verso la comunità, è azione politica, poiché sente la vicinanza e la vive come progetto comunitario: l’etica ha inizio nella dualità concreta del mondo e nel mondo. Lévinas inquieta, perché ha sentito, pensato e guardato la contemporaneità nei suoi tragici sviluppi, ha conosciuto nei campi di sterminio della seconda guerra mondiale un mondo senza carezza e senza tenerezza, ha dedicato la sua opera filosofica ad indicarci i pericoli che ha vissuto e conosciuto e che possono ripetersi, se si rinuncia alla metafisica ed all’etica:

 

«La carezza non agisce, non si impadronisce di possibili. Il segreto che essa viola non la informa come un’esperienza. Esso turba la relazione dell’io con sé e con il non io. Un non io amorfo trascina l’io in un avvenire in cui esso evade e perde la sua posizione di soggetto. La sua “intenzione” non va più verso la luce, verso il sensato. Totalmente passione, essa compatisce la passività, la sofferenza, l’evanescenza della tenerezza commossa. Essa muore per questa morte e soffre per questa sofferenza. Commozione, sofferenza senza sofferenza, si consola già compiacendosi nella sua sofferenza». [4]

 

La carezza è accoglienza che non chiede altro di essere partecipe dell’infinito, della traccia di infinito presente sul volto dell’alterità. La carezza sospende la rete di significati per ricreare il mondo in una prospettiva che lascia cadere le ideologie ed il totalitarismo del possesso.

Salvatore Bravo

[1] E. Lévinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 2018, pp. 218-219.

[2] Ibidem, pag. 212.

[3] Ibidem, pag. 209.

[4] Ibidem, pp. 266-267.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Franco Toscani – Karl Marx e il significato della “Comune” di Parigi. La “Comune” sarà celebrata per sempre come la gloriosa messaggera di una nuova società. La sua testimonianza, il suo patrimonio e la sua eredità risiedono essenzialmente nella «sovrabbondanza di umanità dalla parte degli oppressi».

Karl Marx e la Comune di Parigi
Karl Marx, Die Klassenkämpfe in Frankreich: 1848 bis 1850

Die Klassenkämpfe in Frankreich: 1848 bis 1850 è una raccolta di articoli pubblicati nel 1850 da Karl Marx (1818-1883) sulla «Neue Rheinische Zeitung» e poi riuniti in volume da Friedrich Engels (Berlin, der Expedition des Vorwärts, 1895). 
La traduzione italiana, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, uscì a Milano nel 1896 dalle edizioni della Critica sociale e venne ripubblicata più volte (nel 1902, 1922,  1925 e poi nel dopoguerra).

Franco Toscani

 Karl Marx
e il significato della Comune di Parigi

 

 

I.
Marx e il significato essenziale della Comune di Parigi
come “governo del popolo per il popolo”.
‘Paris, arbeitend, denkend, kämpfend, blutend…’

Se le rivoluzioni sono per Marx “le locomotive della storia” (“Die Revolutionen sind die Lokomotiven der Geschichte”),[1] quella della Comune parigina del 1871 fu per lui la locomotiva più trainante e fondamentale, una vera e propria stella polare del suo pensiero e della sua attività politica come dirigente della Prima internazionale dei lavoratori. In vari scritti e occasioni Marx non cessa di lodare la duttilità, l’iniziativa storica, la capacità di sacrificio, la novità e la grandezza dell’azione storica della Comune, per quanto destinata a essere sopraffatta dalla reazione borghese.

Com’era sua consuetudine, per scrivere (fra il maggio e il giugno 1871) ciò che nel merito rimane il suo testo principale, Der Bürgerkrieg in Frankreich. Adresse des Generalrats der Internationalen Arbeiterassoziation (La guerra civile in Francia. Indirizzo del Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori), egli si documentò con grande accuratezza sull’esperienza rivoluzionaria francese (su cui scrisse pure due abbozzi preparatori), lavorò su materiali forniti da giornali francesi, inglesi e tedeschi, esaminò sia pubblicazioni che sostenevano la Comune sia quelle che si opponevano ad essa, utilizzò pure lettere e racconti orali di non pochi partecipanti all’esperienza della Comune e reduci dalla Francia (tra cui Léo Frankel, Eugène Varlin, Auguste Serraillier, Paul Lafargue, Yelisaveta Tomanovskaya, Pyotr Lavrov), si avvalse dei risultati cui era giunto nei suoi studi precedenti sulle lotte di classe in Francia (come Der Achtzehnte Brumaire des Louis-Napoleon, 1851-1852).[2]

Dal 18 marzo al 28 maggio 1871 resistette e operò alacremente, in condizioni di terribili avversità, la “gloriosa rivoluzione operaia” (die ruhmvolle Arbeiterrevolution, cfr. MEOC XXII, 287) della Comune, messa in atto da chi cercò di prendere in mano il proprio destino e seppe giungere sino all’estremo sacrificio di sé nella lotta per la salvezza nazionale (la Pariser Kommune era infatti agli occhi di Marx, giustamente, die wahrhaft nationale Regierung, il vero governo nazionale, cfr. MEOC, XXII, 303) e per una nuova, migliore società.

Analizzando con grande cuore, intelligenza e passione questa esperienza rivoluzionaria, Marx ritiene che il proletariato parigino, nel momento della disfatta e dei tradimenti delle classi dominanti, abbia deciso di padroneggiare il proprio destino assumendo “la direzione degli affari pubblici” (die Leitung der öffentlichen Angelegenheiten), prendendo “il potere di governo” (die Regierungsgewalt); tale presa di potere non avvenne impadronendosi semplicemente della macchina statale-militare-burocratica già data e usandola per i propri fini, ma cercando di spezzarla (come l’autore del Capitale scrive anche in una lettera a Ludwig Kugelmann del 12 aprile 1871) in quanto strumento di dominio di classe (Klassenherrschaft) e di asservimento sociale (cfr. MEOC XXII, 293-294 e 770, n. 429).

Riflettendo sullo stato borghese caratterizzato da un potere esecutivo centralizzato, il pensatore tedesco interpreta la sollevazione parigina come una rivoluzione contro il carattere essenzialmente repressivo del potere statale e capace di proporre, in nuce, un modello alternativo di potere e di istituzione municipale e statale.

La neue Kommune, per Marx, “rompe il moderno potere dello stato” (die moderne Staatsmacht bricht) proprio nel suo tentativo caparbio di porre termine alla perpetuazione (Verewigung) dell’asservimento sociale (gesellschaftliche Knetschaft. Cfr. MEOC XXII, 298, 300).

Pur assediata e in mezzo a mille inenarrabili difficoltà, la Comune voleva essere infatti e, per il breve tempo che le fu concesso, riuscì effettivamente ad essere il “governo della classe lavoratrice” (Regierung der Arbeiterklasse), “un governo del popolo per il popolo” (eine Regierung des Volks durch das Volk), capace di porre fine alla separazione fra stato e società, al dispotismo del potere.

Essa fu un nobile e grandioso tentativo di ripensare radicalmente la stessa nozione di potere politico o (leggiamo nel primo abbozzo de La guerra civile in Francia) “la riassunzione da parte del popolo per il popolo della sua vita sociale. Non è stata una rivoluzione per trasferirlo da una frazione delle classi dominanti all’altra, ma una rivoluzione per abbattere questa stessa orribile macchina della dominazione di classe” ( cfr. MEOC XXII, 299, 304, 486).

Nel primo abbozzo Marx così riassume il senso essenziale della rivoluzione parigina: “E’ il popolo che agisce per sé stesso da sé stesso” (MEOC XXII, 463).

Essa sorse come “la rivolta di una città provata dalla guerra e umiliata dalla sconfitta”[3] e divenne un “mezzo organizzato d’azione”, un “mezzo razionale” per condurre la lotta delle classi “nel modo più razionale ed umano” (cfr. MEOC XXII, 490), per rendere il potere al servizio della società e non più contro o sopra di essa.

E’ pure rimarchevole il fatto, ben documentato, che nel periodo dell’esperienza rivoluzionaria comunarda vi fu più ordine e sicurezza per le strade, diminuirono drasticamente gli assassinii, i furti, le aggressioni: “Non più cadaveri sui tavoli dell’obitorio, non più insicurezza nelle vie. Parigi non era mai stata così tranquilla. Al posto delle cocottes, le eroiche donne di Parigi! Una Parigi virile, inflessibile, che combatte, che lavora, che pensa! Una Parigi piena di magnanimità! Di fronte al cannibalismo dei suoi nemici, metteva i suoi prigionieri solamente in condizioni di non nuocere!” (MEOC, 507).

Continua Marx nel primo abbozzo: “Soltanto i proletari, infiammati da un nuovo compito sociale da portare a termine per tutta la società, il compito di sbarazzarsi di tutte le classi e del dominio di classe, erano gli uomini che potevano distruggere lo strumento di quella dominazione di classe – lo Stato, il potere governativo centralizzato ed organizzato, che pretendeva di essere il signore anziché il servo della società”(MEOC XXII, 487).

Nel primo abbozzo, Marx sottolinea la semplice e cristallina grandezza della Comune in questo modo: “La Comune – il riassorbimento del potere dello Stato da parte della società, in quanto sue forze vitali invece che in quanto forze che la controllano e la assoggettano, da parte delle stesse masse popolari, che formano la loro stessa forza al posto della forza organizzata per reprimerle – la forma politica della loro emancipazione sociale al posto della forza artificiale della società esercitata dai loro nemici per opprimerle (la loro stessa forza che viene loro opposta ed organizzata contro di loro). Questa forma era semplice come tutte le grandi cose” (MEOC XXII, 488).

Secondo Marx, la forma politica inaugurata dalla Comune (“la forma politica dell’emancipazione sociale, della liberazione del lavoro”, “la forma comunale di organizzazione politica”) assume un valore che va ben oltre i confini pur importanti della capitale francese; il modello parigino è esemplare, indicativo e regolativo per tutta la Francia, valido sia per tutti i grandi centri industriali del paese sia per i più piccoli villaggi di campagna: “Tutta la Francia organizzata in Comuni che lavorano per sé e si governano da sé, l’esercito permanente sostituito dalle milizie popolari, l’esercito dei parassiti dello Stato destituito, la gerarchia clericale rimpiazzata dall’insegnante pubblico, i giudici di Stato trasformati in organismi comunali, il suffragio per la rappresentanza nazionale non più una questione d’intrallazzi per un governo onnipotente, ma l’espressione deliberata di comuni organizzate, le funzioni dello Stato ridotte a poche funzioni per scopi generali nazionali” (cfr. MEOC XXII, 490-491).

L’unità nazionale e politica va garantita e organizzata attraverso la costituzione comunale e il contributo delle iniziative locali. La struttura del potere e dello stato va ricostituita e rifondata per assecondare e favorire il libero movimento e sviluppo della società.

Mettendo in discussione lo stato borghese, la Commune de Paris voleva contrastare e superare der rein unterdrückende Charakter der Staatsmacht (“il carattere puramente repressivo del potere dello stato”) e la Knechtung (asservimento) del lavoro al capitale, per trasformare il lavoro in un “lavoro libero e associato (freie und assoziierte Arbeit)” e restituire il suo libero movimento (freie Bewegung) alla società (cfr. MEOC, XXII, 294-295, 298, 300).

Essa – intesa come “la forma politica finalmente scoperta” (die endlich entdeckte politische Form) della “emancipazione economica del lavoro” (ökonomische Befreiung der Arbeit. Cfr. MEOC XXII, 299) – mirava concretamente a una rifondazione dei poteri istituzionali e statali su salde basi popolari e libertarie.

Marx prende in esame accuratamente le principali misure assunte durante il periodo di governo della Comune, come l’elettività, responsabilità e revocabilità – in qualunque momento – di tutti i funzionari pubblici e rappresentanti politici (legati a un mandat impératif dei loro elettori e remunerati con livelli salariali pari a quelli degli operai), l’abolizione dei privilegi economici previsti per il servizio pubblico, il controllo operaio della produzione (con l’attribuzione ai lavoratori delle fabbriche abbandonate o dismesse), la soppressione dell’esercito permanente e la sua sostituzione col popolo in armi, la separazione fra stato e chiesa, il carattere laico, popolare, gratuito, libero e aperto a tutti dell’istruzione, etc. .

Marx elenca minuziosamente, entrando nei dettagli, le ordinanze, i decreti, i provvedimenti di tipo economico-finanziario presi dalla Comune assediata (operante sotto gli occhi dei vincitori prussiani da una parte e dell’esercito francese agli ordini di Thiers dall’altra, con Bismarck e Thiers di fatto alleati e concordi nel tentativo di stroncarla) a favore delle classi popolari e nella direzione di una maggiore giustizia sociale; in particolare, l’autore di Das Kapital sottolinea il valore del decreto del 16 aprile 1871 (pubblicato sul “Journal officiel de la République française” il 17 aprile 1871 e ritenuto da Engels il più importante dell’intera esperienza rivoluzionaria comunarda), che sanciva la consegna alle cooperative operaie delle officine e delle manifatture che erano state chiuse o per la fuga dei capitalisti o per una sospensione da essi decisa del lavoro; tale decreto avviava la trasformazione effettiva in senso socialista della produzione (cfr. MEOC XXII, 304, 773, n. 454).

La Comune aveva anche cominciato a valorizzare concretamente la soggettività, il protagonismo e la dignità delle donne. In Der Bürgerkrieg in Frankreich Marx rileva con sollievo, letizia e calore che nella Parigi comunarda “sono ricomparse le vere donne di Parigi (die wirklichen Weiber von Paris) – eroiche, nobili e leali, come le donne dell’antichità (wie die Weiber des Altertums). Una Parigi che lavorava, pensava, lottava, dava il proprio sangue – quasi dimentica, nel suo portare in grembo una società nuova, dei cannibali alle sue porte -, radiosa nell’entusiasmo della sua storica iniziativa! (Paris, arbeitend, denkend, kämpfend, blutend, über seiner Vorberaitung einer neuen Gesellschaft fast vergessend der Kannibalen vor seinen Toren, strahlend in der Begeisterung seiner geschichtlichen Initiative!)” (MEOC XXII, 307). Perciò i comunardi furono concretamente – senza alcuna retorica – degli eroi e la loro testimonianza resta unica.

Quest’immagine vitale della Parigi comunarda, simbolica di un nuovo mondo (neue Welt) che stava sorgendo è da Marx duramente contrapposta a quella del vecchio mondo (alte Welt) marcio e decadente di Versailles: “La Parigi del signor Thiers (…) la Parigi ricca, capitalista, dorata, oziosa (…) si accalcava a Versailles, saint Denis, Rueil e Saint Germain con i suoi lacchè, i suoi furfanti, con la sua bohême di letterati e le sue cocottes (…), considerava la guerra civile come un gradevole diversivo, guardando lo svolgimento della battaglia attraverso i binocoli, contando i colpi di cannone, e giurando sul proprio onore e su quello delle sue prostitute che lo spettacolo (das Schauspiel) era allestito assai meglio di quello solito della Porte Saint Martin” (MEOC XXII, 308).

Accadde così che i francesi controrivoluzionari e i prussiani militaristi, cioè vinti e vincitori agirono di concerto per soffocare nel sangue la sollevazione del popolo parigino, alleati nell’organizzazione degli orrori (Schandtaten) e delle infamie (Niedertrachten), nello sterminio (Ausrottung) e nella carneficina (Blutbad) della Parigi rivoluzionaria (cfr. MEOC XXII, 313-314). Marx è durissimo anche nei confronti della Prussia bismarckiana, definita uno sgherro (Bravo), più precisamente uno sgherro codardo (feiger Bravo) e mercenario (gemieteter Bravo. Cfr. MEOC XXII, 319).

 

 

 

II.
Marx, l’ ‘esistenza operante’ e la lotta valorosa della Comune di Parigi

 

Ciò che importa maggiormente è comunque l’ “esistenza operante (arbeitendes Dasein)” della Comune nella direzione del superamento della vecchia società borghese (Bourgeoisgesellschaft): “Quale che sia il merito di ciascuna delle misure adottate dalla Comune, la sua misura più grande era la sua organizzazione, improvvisata col nemico straniero che premeva a una porta, e il nemico di classe dall’altra, dando prova con la propria vita della propria vitalità, confermando le sue tesi con la sua azione” (cfr. MEOC XXII, 304, 489).

La Comune non inseguì astratti ideali, ma cercò tenacemente e coraggiosamente di liberare gli elementi di una nuova società (neue Gesellschaft) dalla vecchia società borghese putrescente. La Pariser Kommune non pretendeva di poter agire secondo l’infallibilità (Unfehlbarkeit), come tutti i governi di vecchio stampo, ma operava nella totale trasparenza e pubblicità dei suoi atti e decreti, senza nascondere tutte le sue manchevolezze (Unvollkommenheiten); anche per questo essa aveva cominciato ad avviare una meravigliosa trasformazione (wunderbare Verwandlung. Cfr. MEOC XXII, 306) nella pratica del potere e nella concezione stessa del potere, inteso non come dominio, ma come servizio e poter-essere nella direzione di una vita degna e di una società più giusta e libera.

In generale, contro ogni tipo di centralizzazione dispotica e arbitraria, il vecchio sistema di potere centralistico avrebbe dovuto essere sostituito dall’ “autogoverno dei produttori” (Selbstregierung der Produzenten) e l’autorità avrebbe dovuto essere intesa come un servizio alla società, non come potere repressivo o dominio su di essa; al posto di una investitura gerarchica del potere, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in comuni.

Intenzione della Comune era di restituire “al corpo sociale tutte le forze fino allora assorbite dallo Stato parassita che si nutre della società e ne ostacola il libero movimento. Con questo solo atto avrebbe dato inizio alla rigenerazione della Francia (die Wiedergeburt Frankreichs)” (cfr. MEOC XII, 297-298).

Il contrario della Comune è lo stato borghese repressivo, il quale non è che l’apparenza spettrale dello stato concepito nella sua separazione dalla società. L’intenzione di Marx è dunque, nel riferimento concreto all’esperienza della Comune, quella di esaltare il “libero movimento” della società, la sua liberazione dalle catene e dai privilegi economico-politici esistenti, la relativa autonomia della società, sempre repressa, fino ad allora, dallo Stato parassita e vampiro che si nutre di tutte le forze sociali.

Ciò è rimarchevole e particolarmente degno di nota in riferimento a quel che saranno nel XX secolo il totalitarismo comunista bolscevico, i regimi repressivi del Partito unico identificato con lo Stato, la vera e propria idolatria del Partito-Stato, che non ha nulla a che fare, evidentemente, con l’originaria proposta marxiana.

L’esistenza e la Costituzione della Comune implicano “la libertà municipale locale (die lokale Selbstregierung)”, l’esautoramento della monarchia (la quale in Europa è “il normale ingombro e l’indispensabile copertura del dominio di classe (Klassenherrschaft)”) e la fondazione delle istituzioni repubblicane su basi autenticamente democratiche (cfr. MEOC XXII, 299). La sua è una forma politica “espansiva”, come “governo della classe operaia” che pone fine al dominio borghese e all’asservimento sociale, operando in totale trasparenza e pubblicità.

Mirando all’ “espropriazione degli espropriatori” (quella Enteignung der Enteigner di cui Marx aveva già parlato in Das Kapital), la Comune intendeva realizzare l’emancipazione dei lavoratori, incentivare la produzione cooperativa secondo un piano comune (gemeinsamer Plan), porre fine alla moderna schiavitù del lavoro salariato e ridare un nuovo senso, una nuova dignità alla parola lavoro e ai lavoratori, considerando la terra e il capitale come “semplici strumenti di un lavoro libero e associato” (cfr. MEOC XXII, 300).

Rappresentando tutti gli elementi sani della società francese, come governo operaio e popolare, “audace campione dell’emancipazione del lavoro (der kühne Vorkämpfer der Befreiung der Arbeit)”, la Comune era il “vero governo nazionale” e aveva un forte carattere internazionale, aveva “annesso alla Francia gli operai di tutto il mondo” (cfr. MEOC XXII, 303-304), aveva cominciato a realizzare l’internazionalismo proletario, la solidarietà internazionale dei lavoratori, nominando ad esempio ministro del lavoro il tedesco Léo Frankel; essa era pienamente consapevole di iniziare una nuova era storica, ma non le fu concesso tempo.

Sapendo che la causa dei lavoratori è dovunque la stessa e che il nemico è dovunque lo stesso, la Comune fu così anche una grande e genuina espressione della solidarietà e dell’internazionalismo proletario e popolare contro ogni miope nazionalismo, contro ogni tipo di imperialismo militaristico e guerrafondaio.

Marx coglie con grande lucidità questo aspetto – ripreso con forza qualche decennio dopo da Rosa Luxemburg – e sembra quasi ammonire/presagire circa le immani sventure e i macelli umani preparati dai nazionalismi e dall’imperialismo che si manifesteranno anche e soprattutto nelle guerre mondiali del ventesimo secolo: “Lo sciovinismo della borghesia è soltanto la suprema vanità che dà una copertura nazionale a tutte le sue pretese. E’ un mezzo, grazie agli eserciti permanenti, per perpetuare lotte internazionali, per sottomettere in ogni paese i produttori scagliandoli contro i loro fratelli di ogni altro paese, un mezzo per ostacolare la collaborazione internazionale delle classi operaie, prima condizione della loro emancipazione” (MEOC XXII, 502).

L’anti-imperialismo, l’anti-militarismo, l’anti-nazionalismo e l’internazionalismo della Comune furono dimostrati concretamente il 16 maggio 1871 dall’abbattimento, tramite un decreto del 12 aprile, della colonna Vendôme, simbolo del militarismo (das kolossale Symbol des Kriegsruhms) e dei bourgeois chauvins (borghesi sciovinisti) francesi, eretta a Parigi tra il 1806 e il 1810 per celebrare le vittorie militari di Napoleone; per la precisione, il décret del 12 aprile decideva la demolizione della colonne Vendôme in quanto “monumento di barbarie, simbolo di forza bruta e di falsa gloria, affermazione del militarismo, negazione del diritto internazionale” (cfr. MEOC XXII, 304, 475, 503, 772, n. 451).

Quanto la Comune aveva messo in moto era troppo, era insopportabile, ” ‘impossibile’ comunismo” (‘unmöglicher’ Kommunismus) agli occhi delle sanguisughe e dei vampiri del proletariato, della camarilla reazionaria e dei suoi pennivendoli, del vecchio mondo borghese e aristocratico attaccato ai propri immensi privilegi, ricchezze e poteri, vizi e lussi, roso dalla rabbia e dal desiderio di vendetta alla vista della bandiera rossa (die rote Fahne…das Symbol der Republik der Arbeit) sventolante sull’Hôtel de Ville; la Comune stava dimostrando infatti la realizzabilità del ” ‘possibile’ comunismo” (‘möglicher’ Kommunismus. Cfr. MEOC XXII, 300-301).

Nessuno si aspettava miracoli (Wunder) dalla Comune, che portò avanti la rivoluzione in condizioni di enormi difficoltà, né essa aveva “utopie belle e pronte da introdurre par décret du peuple“; piuttosto, “nella piena coscienza della sua missione storica” (im vollen Bewuβtsein ihrer geschichtlichen Sendung), essa agiva con tenacia ed “eroica risoluzione” (Heldenentschluβ), senza alcuna inutile violenza e senza ferocia, con “modestia, coscienza ed efficienza”, con “moderazione” (βigung), “umanità” (Menschlichkeit) e “magnanimità” (Hochherzigkeit), come seppe dimostrare ad esempio Flourens (cfr. MEOC XXII, 291, 300-301, 315, 534).

L’unico vero errore della Comune fu, a parere di Marx, quello di non marciare immediatamente su Versailles, all’inizio ancora indifesa, per arginare le manovre di Thiers e dei Rurali (i “Ruraux”), per impedire la riorganizzazione della controrivoluzione, degli sciacalli ” ‘Ordungsmänner’, die Reaktionäre von Paris” (cfr. MEOC XXII, 289).

 

III.
La Comune di Parigi gravida di futuro e messaggera d’una nuova società

Il tono di Marx è giustamente commosso e pieno di indignazione, tutto il suo scritto è lucidissimo e, insieme, pervaso da una forte tonalità etico-politica che anche noi facciamo nostra ancor oggi, anzi, più che mai oggi, in questi nostri tempi così disincantati, grigi e fiacchi dal punto di vista della solidarietà e della tensione etico-politica.

Con l’eccezione dei più incalliti reazionari e dei ricchi capitalisti, perfino la grande maggioranza della classe media (bottegai, commercianti, artigiani) riconobbe la capacità di gestione sociale della Comune, che seppe impostare una efficace politica di alleanze fra il proletariato e i settori intermedi della società parigina e, ad esempio, con la “Loi sur les échéances” (un decreto del 17 aprile 1871 pubblicato sul “Journal officiel de la République française”), “stabilì che tutti i debiti fossero rateizzati in tre anni senza interessi, alleviando così la situazione della piccola borghesia e svantaggiando i creditori, i grandi capitalisti” (cfr. MEOC XXII, 301, 771, n. 440).

Nel primo abbozzo de La guerra civile in Francia Marx scrive a questo proposito: “Per la prima volta nella storia, la piccola e media borghesia si è apertamente stretta intorno alla Rivoluzione degli operai, e l’ha proclamata come il solo strumento della propria salvezza e di quella della Francia! Forma con loro la grande massa della Guardia nazionale, siede con loro nella Comune, e per loro media nell’Union républicaine! (…)

Di fronte ai disastri collezionati dalla Francia in questa guerra, alla sua crisi da collasso nazionale ed alla sua rovina finanziaria, questa classe media sente che non la classe corrotta di coloro che vogliono essere gli schiavisti della Francia, ma soltanto le virili aspirazioni ed il potere erculeo della classe operaia possono portarla in salvo!

Sente che solo la classe operaia può emanciparla dal dominio dei preti, convertire la scienza da strumento del dominio di classe in una forza popolare, trasformare gli stessi uomini di scienza da manutengoli del pregiudizio di classe, da parassiti dello Stato a caccia di posizioni, e da alleati del capitale, in liberi funzionari del pensiero! La scienza può interpretare la sua parte autentica solo nella Repubblica del Lavoro” (MEOC XXII, 496-497).

Praticando il realismo rivoluzionario, la Comune aveva cominciato a cercare alleanze pure nel mondo contadino, proclamando ad alta voce – in un appello del 10 aprile 1871 dei “lavoratori di Parigi” (“Les travailleurs de Paris”) “aux travailleurs des campagnes” – che la sua vittoria era “la sola speranza” anche dei contadini francesi (cfr. MEOC XXII, 302, 772, n. 445).

Con la sua politica saggia e lungimirante di alleanze già operante nelle prime settimane di vita della Comune attraverso le prime misure prese, era facile prevedere un effetto contagio e una larga diffusione anche nelle campagne e in tutto il paese del consenso popolare all’operato dei comunardi. Perciò la maggiore preoccupazione dei controrivoluzionari e della canaglia reazionaria capeggiata da Thiers fu quella di isolare la Parigi comunarda dal resto del paese, “in modo da bloccare la diffusione della peste bovina” (cfr. MEOC XXII, 303).

Nel secondo abbozzo de La guerra civile in Francia, Marx è giustamente durissimo nel sintetizzare il reale significato della reazione (Reaktion) di Versailles, della Paris des Verfalls (Parigi del declino): “Alla Parigi che combatte, che lavora, che pensa, elettrizzata dall’entusiasmo dell’iniziativa storica, piena di eroica realtà, la nuova società nel suo travaglio, si oppone a Versailles la vecchia società, un mondo di antiquate simulazioni e di menzogne accumulate. (…) Non c’è niente di reale in loro al di fuori della loro comune cospirazione contro la vita, il loro egoismo dettato dall’interesse di classe, il loro desiderio di nutrirsi della carcassa della società francese, i loro comuni interessi di schiavisti, il loro odio verso il presente, e la loro guerra contro Parigi” (MEOC XXII, 544).

Nelle ultime pagine di Der Bürgerkrieg in Frankreich Marx si sofferma con grande commozione, indignazione e amarezza – che avvertiamo pienamente anche noi oggi nel riferire e riflettere su quanto allora avvenne – sugli accordi fra Thiers e Bismarck (nemici nella guerra tra Francia e Prussia nel 1870, ma alleati nello stroncare l’esperienza rivoluzionaria comunarda del 1871) per pianificare la repressione e la carneficina della Comune, ossia l’ “indicibile infamia del 1871. L’eroismo sino al sacrificio di sé (der selbstopfernde Heldenmut) con cui la popolazione di Parigi – uomini, donne e ragazzi – ha combattuto per otto giorni dopo l’entrata dei versagliesi riflette tanto la grandezza della loro causa (die Gröβe ihrer Sache), quanto le azioni infernali della soldatesca riflettono lo spirito innato di questa civiltà di cui essi sono i vendicatori mercenari. Una civiltà gloriosa, invero, il cui grande problema è come riuscire a sbarazzarsi dei mucchi di cadaveri che ha prodotto, dopo la fine della battaglia!” (MEOC XXII, 314).

In tutto il suo scritto Marx non risparmia disprezzo e sarcasmo, ampiamente giustificati, nei confronti di quella che chiama la feccia (Bande), la Reaktion, i vari Thiers, Favre, Desmarets, Vinoy, Galliffet, etc., ossia i principali infami esponenti degli sterminatori della Comune, coloro che hanno posto fine all’esperienza e alla vita della “serena Parigi lavoratrice” (das heitere Arbeiter-Paris der Kommune, cfr. MEOC XXII, 315), che aveva osato combattere ogni Klassenherrschaft (dominio di classe), ogni statalismo repressivo e dispotico, per tendere alla rigenerazione (Wiedergeburt) dell’intera Francia.

Questa Pariser Kommune, in mezzo ai misfatti e ai tradimenti delle classi dominanti (herrschende Klassen), fu agli occhi di queste ultime una vera Sphinx (sfinge) capace di tormentare l’angusto Bourgeoisverstand (intelletto borghese); essa fu die proletarische Revolution, l’avvio del governo dell’Arbeiterklasse, la cui opera fu interrotta tragicamente dalle “prodezze cannibalesche dei banditi di Versailles” (kannibalische Taten der Versailler Banditen. Cfr. MEOC XXII, 291, 293).

In Der Bürgerkrieg in Frankreich sferzante e costante è il sarcasmo di Marx sull’ipocrisia e sul conformismo borghesi, sulla Zivilisation und Gerechtigkeit der Bourgeoisordnung (civiltà e giustizia dell’ordine borghese), il cui vero volto – essendo una “civiltà nefasta” (schmäliche Zivilisation) fondata sull’ “asservimento del lavoro” (Knechtung der Arbeit) – si mostra, specialmente nel momento delle violenze e del massacro finali, sotto l’aspetto di “aperta barbarie e vendetta senza legge” (unverhüllte Wildheit und gesetzlose Rache. Cfr. MEOC XXII, 314-315).

Nella brutale repressione della Comune, di quella che fu un’autentica rivoluzione proletaria, la società borghese mostrò il suo volto più rivoltante e rivelatore, il suo spirito di vendetta e la sua ferocia di classe: “La sua guerra contro Parigi non è nient’altro che una pusillanime chouannerie sotto la protezione delle baionette prussiane. E’ una spregevole cospirazione per assassinare la Francia, per salvaguardare i privilegi, i monopoli ed il lusso delle classi degenerate, svigorite e putrefatte che l’hanno trascinata in un abisso dal quale può essere salvata solo dalla mano erculea di una vera rivoluzione sociale” (Primo abbozzo, in MEOC XXII, 449).

La conclusione di Der Bürgerkrieg in Frankreich è amara: “La cospirazione della classe dominante per abbattere la Rivoluzione mediante una guerra civile portata avanti sotto il patrocinio dell’invasore straniero (…) è culminata nella carneficina di Parigi. Bismarck gongola (schaut) di fronte alle rovine di Parigi, (…) di fronte ai cadaveri del proletariato di Parigi” (MEOC XXII, 318).

Da parte di Marx l’interpretazione degli avvenimenti parigini del 1871 è cruda e realistica, non lascia spazio a edulcorazioni e a facili consolazioni. La sconfitta della Comune è un fatto, la tragedia immensa, ma, nonostante quest’esito così indubbio e doloroso, la Comune – questo evento straordinario – è incontestabilmente esistita, anzi annuncia la rovina futura della Bourgeoisgesellschaft e il prossimo avvento d’una nuova società.

La sveglia è stata comunque data a tutti i popoli europei e al proletariato internazionale; l’ “eroico sacrificio di sé” (seine heroische Selbstopferung, cfr. MEOC XXII, 315) dei comunardi non è avvenuto invano, per chi sappia trarre un insegnamento da quanto accaduto: un nuovo mondo è possibile.

Si tratta ora, per Marx e per l’Internazionale, di proseguire la lotta; non vi sono per lui dubbi su chi alla fine vincerà, se “i pochi sfruttatori o l’immensa maggioranza lavoratrice” (cfr. MEOC, XXII, 319).

Il messaggio della Comune resta dunque un grande e permanente messaggio di solidarietà internazionale del proletariato e dei popoli nella lotta per l’emancipazione sociale, per giungere – attraverso lunghe e difficili lotte e tutte le contraddizioni della storia – alla Befreiung, a una nuova società senza dominio di classe e a una “repubblica sociale” (come leggiamo nel primo abbozzo, cfr. MEOC XXII, 497).

Così Marx conclude – con parole che, mutatis mutandis, ancor oggi rimangono per noi valide e stimolanti – l’Indirizzo del Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori, Der Bürgerkrieg in Frankreich: “La Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata per sempre come la gloriosa messaggera di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia (Das Paris der Arbeiter, mit seiner Kommune, wird ewig gefeiert werden als der ruhmvolle Vorbote einer neuen Gesellschaft. Seine Märtyrer sind eingeschreint in dem groβen Herzen der Arbeiterklasse). I suoi sterminatori, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna, dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti” (MEOC XXII, 320).

La sua testimonianza, il suo patrimonio e la sua eredità risiedono essenzialmente nella “sovrabbondanza di umanità dalla parte degli oppressi” (MEOC XXII, 537).

Per quanto feroci, nessuna carneficina e nessuna repressione potranno cancellare il fatto incontestabile che la Comune parigina è stata (come leggiamo nel secondo abbozzo de La guerra civile in Francia) una “rivoluzionaria rivendicazione del futuro (…). La Comune di Parigi può cadere, ma la Rivoluzione sociale a cui ha dato inizio trionferà. Il suo luogo di nascita è ovunque” (MEOC XXII, 546-547).

La lotta di classe (Klassenkampf) sempre risorgerà dal suo terreno sorgivo che è la stessa società moderna. Come ha rilevato giustamente Lelio Basso, il saggio marxiano sulla Comune non ha soltanto “un valore di elogio funebre per la posterità”.[4]

Noi oggi non abbiamo e non possiamo avere alcuna certezza di “trionfo”, né possiamo rivendicare in alcun modo il futuro, ma indubbiamente la testimonianza luminosa della Comune, “gravida di un mondo nuovo” (cfr. il primo abbozzo di Der Bürgerkrieg in Frankreich, MEOC XXII, 481), non cessa ancora di risplendere per noi e di indicarci il difficile cammino della civiltà planetaria, pure nell’epoca per tanti aspetti tenebrosa e rischiosa dell’attuale cosiddetta “globalizzazione”.

Franco Toscani

Piacenza, autunno 2017


[1] Cfr. K. Marx, Die Klassenkämpfe in Frankreich (1850), trad. it. di P. Togliatti, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. X, a cura di A. Aiello, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 121.

[2]Nelle pagine seguenti faremo riferimento alla seguente edizione italiana in cui sono compresi (insieme ad altri scritti) sia Der Bürgerkrieg in Frankreich (La guerra civile in Francia, 1871, pp. 275-321) sia i due abbozzi preparatori sopra citati (pp. 433-518, 519-558): K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. XXII (d’ora in poi cit. con la sigla MEOC XXII), trad. it. di S. Bracaletti, V. Morfino, M. Vanzulli, F. Vidoni, a cura di M. Vanzulli, La Città del Sole-Editori Riuniti, Napoli 2008. Per i vent’anni della Comune, nel 1991 Engels curò una rilevante edizione tedesca in cui, oltre a Der Bürgerkrieg in Frankreich, pubblicò i due abbozzi preparatori, assieme al primo e al secondo Indirizzo del Consiglio generale dell’Internazionale sulla guerra franco-prussiana del 1870. Si tenga presente pure una pregevole edizione italiana degli scritti marxiani sul tema: K. Marx, Scritti sulla Comune di Parigi, a cura di P. Flores d’Arcais, Samonà e Savelli, Roma 1971.

[3] L. Basso, Socialismo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1980, p. 195. In questo libro di Lelio Basso le pagine 192-197 sono dedicate in modo esplicito e assai stimolante all’interpretazione marxiana della Comune.

[4] L. Basso, Socialismo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1980, p. 193.


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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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William Edward Burghardt Du Bois (1868-1963) – Lo scopo della lotta è trasformare la speranza in atto progettuale e comunitario: non abbiamo diritto a stare in disparte in silenzio mentre si gettano i semi di un raccolto di disastro per i nostri bambini, neri e bianchi.

William E.B Du Bois 01
Sulla Linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti
Salvatore Bravo

La linea invisibile


La lotta è sospensione dell’atomistica delle solitudini
Lottare è un atto linguistico
Compelle intrare”
Dispersioni
Il capitale orienta le tensioni in senso orizzontale
La nave dello Stato non è trasportata da un’inarrestabile marea di democrazia
L’alternativa alla linea del colore è la comunità


Non abbiamo diritto a stare in disparte in silenzio mentre si gettano i semi di un raccolto di disastro per i nostri bambini, neri e bianchi.
W.E. B. Du Bois

La lotta è sospensione dell’atomistica delle solitudini
La lotta è sospensione dell’atomistica delle solitudini, è atto comunitario con il quale il soggetto esce dalla falsa sicurezza dell’ignavia per incontrarsi con se stesso attraverso lo sguardo degli altri: ha smesso di temere se stesso e la propria condizione materiale. Lo schiavo liberato ha categorie per leggere e condividere la cartografia sociale dell’esclusione. Non si nasce esclusi, non si nasce vittime, ma vi è un sistema – nella sua unità dinamica e olistica sovrastrutturale e strutturale – che lavora per produrre per servi.

La lotta è la speranza che infrange la cappa del presente per trasformare quella speranza in atto progettuale e comunitario. La rivolta nel segno della ragione-logos si esplica mediante parole, atti, gesti che costituiscono la trama che strappa dalla passività fatale, dallo stato di gettatezza per la prassi. La lotta è già vittoria, poiché il servo concede a se stesso una possibilità: non si legge e non si ritrova più nella lingua del vincitore.

Lottare è un atto linguistico
Lottare è un atto linguistico, è un nuovo segno significante che consente l’esodo dalla lingua dei padroni, e dunque è libertà. Il servo è tale se resta nel perimetro linguistico del padrone, se non rompe la barriera dei significati che si ergono minacciosi e tracciano linee di confine, orditi gerarchici indiscutibili. Nel linguaggio del padrone e signore la cultura è solo decorativa, l’orpello della propria vanità, il mezzo con cui tracciare il confine tra “inclusi ed esclusi”.

Per il lottatore liberato dalla lingua angusta del capitale, l’utile perde l’aureola per essere solo una delle innumerevoli manifestazioni dei significati umani, il lottatore reinventa con il suo linguaggio le sue relazioni. All’utile sostituisce il valore in sé, la libertà ai vincoli che stringono la mente nei lacci dell’utile. La cultura e la conoscenza non sono mezzi, ma la gioia di esserci e di conoscersi:

«Questo è lo scopo della lotta: essere un collaboratore nel regno della cultura, fuggire la morte e l’isolamento, e coltivare e utilizzare i suoi migliori poteri. Questi poteri, del corpo e della mente, sono stati in passato talmente sprecati e dispersi da far loro perdere ogni efficacia, e farli apparire come assenza di potere, come debolezza».[1]

Compelle intrare”
Il lottatore deve riconoscere “la linea del colore” che divide in modo ideologico lo sfruttato dallo sfruttatore. La linea del colore è il taglio netto che divide l’umanità, che costringe “compelle intrare”  (Luca 14, 23) i servi ad entrare in categorie che servono al vincitore per giustificare il potere, categorie superstiziose perché mai messe in discussione, poste fuori dello spazio e del tempo. Il nero è sulla linea del colore decisa dal bianco, ma per renderla eterna dev’essere naturalizzata, collocata in una dimensione indiscutibile, per cui si fa appello alla religione, a Dio, alla scienza. Di volta in volta la linea del colore si riempie di nuovi contenuti ideologici, di nuove rimozioni per restare fissa nella testa degli oppressori e degli oppressi:

 

«Questo sinistro commercio, cu cui l’Impero britannico e gli Stati Uniti d’America sono stati in gran parte costruiti, è costato all’Africa nera più di 100 milioni di anime, ha provocato la distruzione della sua vita politica e sociale e ha lasciato il continente in uno stato di indigenza tale da cagionare ogni forma di aggressione e sfruttamento. “Di colore” nel comune sentire del mondo è diventato sinonimo di “inferiorità”, la parola “Negro” ha perso l’iniziale maiuscola e “Africa” è solo un’altra parola per “barbarie” e “bestialità”. È così che il mondo ha cominciato a investire nel pregiudizio razziale. La “linea del colore” ha iniziato a fruttare i profitti».[2]

 

La linea del colore ha la sua verità, la sua sostanza: il profitto, per cui si sposta, assume nuove geometrie, è sempre vitale, ma nella sua metamorfosi, nel suo inseguire trafelata il profitto resta sempre uguale.

 

Dispersioni
La lotta è attività sempre minacciata dall’assimilazione, l’oppressore conosce bene quanto l’umiliato voglia dimenticare la condizione di suddito. Un essere umano, a cui è stata tolta la dignità di persona ed entificato, vuole fuggire da se stesso, dalla consapevolezza di essere stato mezzo e strumento nel disprezzo dell’oppressore. Il disprezzo subìto lede la capacità di credere in un futuro possibile e diverso dal presente. Pertanto il lottatore talvolta cade nella trappola della rimozione, perché non ha attraversato la potenza immane del negativo. Ancora una volta dinanzi alla visione della propria morte ha indietreggiato, per cui – per cancellare l’onta della dignità violata –, vuole essere uguale all’oppressore, desidera essere altro rispetto alla propria storia. È due volte vittima, perché si fonde e confonde con l’oppressore. La linea del colore scava in lui la sua traccia indelebile, si assimila e resta solo un servo con una nuova maschera sociale:

 

«Ogni passo in questa direzione viene oggi ostacolata dall’assurda filosofia Negra del “disperdersi, liquidare, aspettare, scappare”. Ancora oggi molti dei suoi leader più giovani e istruiti pensano addirittura che, visto che dove ci sono pochi Negri, o dove non ve ne sono affatto, il problema di razza non è così acuto, questa potrebbe essere una soluzione! Pensano infine che il problema di dodici milioni di Negri, in maggioranza lavoratori poveri e ignoranti, si risolverà con la graduale e continua fuga dalla propria razza di quelli tra noi che appartengono a classi benestanti e istruite, che entreranno tra le fila della grande massa del popolo americano, abbondonando il resto alla sofferenza, all’indifferenza e alla morte».[3]

Il capitale orienta le tensioni in senso orizzontale
La lotta è incrinata dal pregiudizio, dalla linea del colore che divide gli oppressi, al punto da impedire loro di verticalizzare la lotta. Il capitale orienta le tensioni in senso orizzontale, divide il fronte dei lavoratori, usa i pregiudizi, l’irrazionale quale mezzo per contrastare pericolosi fronti unitari. Si sollecitano i fantasmi razziali per compattare il fronte della razza padrona ed occultare il vero volto del potere:

 

«Il successo dell’aggressione economica richiede che in patria vi sia una stretta unione tra capitale e lavoro. Ora, le rivendicazioni della classe lavoratrice bianca non solo sul terreno salariale, ma più in generale su quello delle condizioni di lavoro e di una propria voce nella gestione dell’industria rendono difficile la pace industriale. La pacificazione dei lavoratori è stata raggiunta, da una parte, attraverso sforzi di ogni tipo per un socialismo di Stato, dall’altra, attraverso la minaccia esplicita di aprire la competizione con la manodopera di colore».[4]

La nave dello Stato non è trasportata da un’inarrestabile marea di democrazia
W.E.B Du Bois non crede nel cammino inarrestabile della democrazia, anzi tale visione è utile al potere, perché rassicura i servi, insegna loro che la loro partecipazione alla prassi non è necessaria, ma è sufficiente attendere e la macchina della democrazia trionferà. A tale ideologia chi lotta deve opporre la domanda supportata da categorie veritative forti che possano smascherare i travestimenti del potere, la ridda delle forme in cui in modo demagogico si confonde. Bisogna imparare a porre domande, a cercare risposte per non cadere nella trappola dell’apparenza, del semplicismo e della pigrizia cognitiva:

«La teoria su cui si basa questo dispotismo democratico non è mai stata spiegata in modo chiaro. La maggior parte dei filosofi vede la nave dello Stato come trasportata da un’inarrestabile grande marea di democrazia, in cui alcuni vortici producono qua e là momentanei ritardi. Altri, quando cominciano a guardare le cose da vicino, diventano incerti. Stiamo tornando, si chiedono, all’aristocrazia e al dispotismo? Al dominio del più forte? Gridano e si stropicciano gli occhi: come possono non riconoscere che nella realtà che li circonda la democrazia si sta rafforzando?
È il paradosso in cui sono caduti molti filantropi, che ha curiosamente ingannato molti i socialisti e che ha riconciliato capitani di industria e imperialisti con la “democrazia”. È lo stesso paradosso che permette che il rapidissimo avanzare della democrazia dell’America proceda di pari passo, nei suoi stessi gangli vitali, con un crescente atteggiamento aristocratico e di odio nei confronti delle razze di colore, e che giunge a giustificare e difendere la disumanità che non esita a bruciare esseri umani sulla pubblica piazza».[5]

L’alternativa alla linea del colore è la comunità
L’alternativa alla linea del colore è la comunità che si fa guida senza i capi, perché la dimensione comunitaria è attività politica che entra nel quotidiano per unire, per guardare con sospetto ogni acclamazione sulla fine “della linea del colore”, perché la lotta ha un inizio, ma non ha una fine:

«Se il mondo scuro scoprirà lentamente che il socialismo è la sola risposta alla linea del colore, allora i popoli di colore del mondo diventeranno socialisti e i neri americani marceranno per forza tra le loro fila. Non tanto come guide, quanto piuttosto spinti dal loro stesso popolo».

Salvatore Bravo

***

[1] William E.B. Du Bois, Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, il Mulino, Bologna 2010, p. 107.

[2] Ibidem, p. 235.

[3] Ibidem, p. 291.

[4] Ibidem, p. 241.

[5] Ibidem, p. 237.

Sandro Mezzadra, Introduzione a W.E.B. Du Bois, Sulla linea del colore, Il Mulino, Bologna, , 2010.

William Edward Burghardt Du Bois (1868-1963), storico e sociologo, teorico politico e romanziere, è stato non soltanto la più importante figura nella politica e nella cultura afroamericana del Novecento, ma a tutti gli effetti uno dei più grandi intellettuali statunitensi del secolo: un “gigante”, come lo definì Martin Luther King nel suo ultimo discorso pubblico prima di essere assassinato. Du Bois fu anche tra i fondatori della più importante organizzazione americana per i diritti civili e padre del movimento panafricano. A lui si devono concetti divenuti ormai d’uso corrente nel mondo anglosassone,da quello di “doppia coscienza” a quello della “linea del colore”. Il volume presenta per la prima volta al lettore italiano un’ampia raccolta degli scritti politici del sociologo afroamericano, documentando l’intera parabola di sviluppo del suo pensiero. A guidare la lettura, l’introduzione di Sandro Mezzadra, che colloca l’opera e l’azione politica di Du Bois nel contesto della storia afroamericana del Novecento.

W. E. B. Du Bois nel 1904
W. E. B. Du Bois nel 1918
Frontespizio della seconda edizione di The Souls of Black Folk

Guillaume De Lorris (1200-1238), Jean de Meun (1250-1305) – La vera nobiltà nasce dal buon cuore e nella capacità e volontà di vivere i valori che a parole si propugnano. Chiunque vi aspiri si guardi dall’orgoglio e dall’ignavia, si dedichi allo studio, si liberi da ogni villania. Gli amori muoiono quando gli amanti vogliono imporsi come signori.

Guillaume De Lorri-Jean de Meun-Romanzo della Rosa

La vera nobiltà nasce dal buon cuore, perché la nobiltà ereditaria non è una nobiltà di valore quando le manca la nobiltà del cuore; per questo vi si deve mostrare il valore degli antenati che la conquistarono con le grandi opere che seppero compiere. La nobiltà degli intellettuali si misura sulla loro capacità e volontà di vivere i valori che a parole si propugnano. La nobiltà nell’intellettuale si nutre dello spirito dell’antico per trasformarla in carne vissuta. Non vi è nobiltà nel chierico corrotto come nello studioso che lascia i grandi del passato tra le righe del manuale e non li rende attuali.
La nobiltà dell’intellettuale vive nello studio, nella gioia che sospende l’utile per la contemplazione attiva del sapere.

Salvatore Bravo

Leggere «Il Romanzo della Rosa»

La verità vive nelle opere degli esseri umani: emerge improvvisa dopo il suo andamento carsico. Il Romanzo della Rosa (1237) poema allegorico di 21.780 ottosillabe di Guillaume De Lorins e Jean De Meun ne è un esempio. È l’odissea della verità nelle sue disavventure, è l’affrontamento tra verità e opinione, tra processi di umanizzazione ed entificazione dell’essere umano. Dominio e  suo smascheramento. Ipostatizzare, rappresentare i rapporti di potere come immutabili, sclerotizzare i processi di conoscenza per impedire alla verità di riemergere e riavviare il cammino dell’uomo nella storia è sempre un risultato parziale e momentaneo. La verità in forme inaspettate nel tempo riemerge, smaschera, accusa l’ideologia e la falsa coscienza. Nel Medioevo – perennemente posto sotto accusa dalla ragione illuministica e tecnocratica – il Romanzo della Rosa rivela una verità eterna degli esseri umani: la relazione di potere aliena, nega la naturale disposizione alla condivisione, al dono. La relazione di coppia è il luogo emotivo nel quale la prassi comunitaria si concretizza nel governo delle passioni duali che divengono modello per una giusta comunità. La relazione si umanizza nella libertà dell’uguaglianza, dei bisogni autentici ascoltati. Se la sovrastruttura di potere rende disomogenee le geometrie delle relazioni, se le fissa in ruoli predeterminati dalle gerarchie di potere, senza la condivisione, si disperde l’essenza umana, e resta solo uno scheletro formale privo di linfa vitale. Nel regno del potere l’essere umano è solo un atomo chiuso in se stesso, incapace di elaborare relazioni ontologicamente fondate, e si attua la morte dello spirito nella cecità da cui siamo avviluppati nel pensare e sentire l’altro:

«Compagno, ecco lo stupido villano geloso, sia gettata ai lupi la sua carne! Che io vi porgo come esempio: egli è gonfio di gelosia e vuole essere il padrone della donna; ma anche lei non deve far da sola padrona, ma essere sua pari e sua compagna, come loro consiglia la legge. E anche lui deve essere il suo compagno senza farsene signore e padrone; e quando lui la sottopone a quei tormenti e non la considera come sua eguale, e anzi la fa vivere in un tale disagio, credete che questo a lei non dispiaccia e che l’amore tra di loro non fallisca, checché ne possa lei dire? Sì senza dubbio. Mai sarà amato dalla sua donna colui che vuole esserne chiamato il signore, perché è normale che gli amori muoiano quando gli amanti vogliono imporsi come signori».[1]


Le gerarchizzazioni sono innaturali, costringono in ruoli, disegnano emotività che impediscono il naturale fluire delle passioni, della comunicazione. Al loro posto la struttura sociale costringe il corpo vissuto in un’armatura innaturale. Le donne – come ogni essere umano – non nascono nel segno delle catene. Non esistono oppressioni ed oppressori per natura. È la cultura delle civiltà che elabora i codici dell’oppressione, che cade nella trappola di Tucidide, ovvero della paura, del bisogno di controllo acquisitivo; solo con la violenza perpetua ed il controllo continuo può tenere salda l’armatura del potere. La verità non può essere scalfita dalle sovrastrutture, per cui silenziosa riemerge: la natura oppressa, rimossa, calcificata nelle abitudini del cattivo potere riprende il suo territorio:

 

«D’altra parte le donne sono nate libere; la legge le opprime, togliendo loro la libertà in cui erano state messe da Natura; perché Natura non è così sciocca, se ci pensiamo bene, da aver fatto nascere Mariotta soltanto per Robin, né Robin per Marietta, o per Agnese o per Pierina, ma ci ha fatto caro figliolo, non dubitarne, tutte per tutti e tutti per tutte, ognuno in comune per ognuno, e ognuno in comune per ognuna; e anche quando loro sono fidanzate, prese legalmente e maritate per evitare le separazioni, le contese e le uccisioni, e per favorire la buona crescita dei figli dei quali insieme hanno cura, le signore e le signorine, siano brutte o siano belle, si danno da fare in tutti i modi per ritrovare la loro libertà».[2]

 

La vera nobiltà
La nobiltà non è di ordine acquisitivo
, non è un possesso del blasone o genetico. Ogniqualvolta un gruppo sociale o culturale si dichiara nobile per natura, ponendo un confine tra sé e gli altri, costruisce la trama ideologica del potere. La nobiltà è potenzialmente in ogni essere umano, prescinde le condizioni materiali di provenienza. Ciò smentisce ogni sistema di esclusione che si autorappresenta come legittimo referente della natura e della nobiltà. La nobiltà è “nel buon cuore”, nella capacità di ascoltare ed accogliere. Solo tali attitudini sono degne di dare la patente di nobiltà, perché universalizzano, favoriscono il passaggio dal singolare all’universale. Ci si rende piccoli per poter aprirsi all’alterità, l’intero corpo vissuto diviene intenzionalità dell’ascolto:

«La vera nobiltà nasce dal buon cuore, perché la nobiltà ereditaria non è una nobiltà di valore quando le manca la nobiltà del cuore; per questo vi si deve mostrare il valore degli antenati che la conquistarono con le grandi opere che seppero compiere, perché quando essi lasciarono questo mondo portarono via con sè tutte le loro virtù, e lasciarono agli eredi gli averi, senza che quelli potessero da loro ricevere di più. Hanno gli averi, ma senza nulla di più, né nobiltà di valore, a meno che non facciano in modo di essere nobili in grazia della loro intelligenza o delle loro virtù. I chierici sono in maggior vantaggio in fatto di cortesia, nobiltà e saggezza, rispetto ai principi e ai re che sono privi di cultura letteraria, e ora ve ne dico la ragione: perché il chierico vede nelle scritture […] tutte le malvagità da cui ci si deve allontanare e tutte le bontà che si devono praticare. Vede nelle vite degli antichi le villanie di tutti i villani e tutti gli atti degli uomini cortesi e la somma delle cortesie; insomma, egli vede scritto nei libri tutto ciò che si deve evitare o seguire […]. E quelli che non sono di cuore nobile, sappiano che ciò avviene perché hanno il cuore malvagio, […]. Per questo i chierici che non hanno cuore nobile e generoso valgono meno di tutti, perché schivano il bene che conoscono e inseguono i vizi che vedono; e davanti all’imperatore celeste i chierici che s’abbandonano ai vizi dovrebbero essere puniti più severamente dei laici sciocchi e ignoranti, che non vedono nelle scritture le virtù che quelli disdegnano e disprezzano. […] Chiunque aspiri alla nobiltà si guardi dall’orgoglio e dall’ignavia, si dedichi […] allo studio, e si liberi da ogni villania. Abbia cuore umile, cortese e gentile, in ogni luogo e verso ogni persona, tranne soltanto verso i suoi nemici, quando non si può fare pace con loro».[3]

La nobiltà degli intellettuali si misura sulla loro capacità e volontà di vivere i valori che a parole si propugnano. La nobiltà nell’intellettuale si nutre dello spirito dell’antico per trasformarla in carne vissuta. Non vi è nobiltà nel chierico corrotto come nello studioso che lascia i grandi del passato tra le righe del manuale e non li rende attuali.
La nobiltà dell’intellettuale vive nello studio, nella gioia che sospende l’utile per la contemplazione attiva del sapere.

Il Romanzo della Rosa ci narra di un Medioevo sconosciuto che parla a tutta l’umanità, travalica i confini del tempo per ricongiungersi all’eterno radicarsi della verità nella storia.

Salvatore Bravo

 

[1] Guillaume De Lorris, Jean De Meun, Il Romanzo della Rosa, Feltrinelli, Milano 2016, p. 188.

[2] Ibidem, p. 260.

[3] Ibidem, pp. 336-337.

 

 

 

Guillaume de Lorris
Jean de Meun
Jean de Meun
I due autori, Jean de Meun e Guillaume de Lorris.

Due testi e molti misteri. Il “Romanzo della Rosa” è costituito da due parti scritte da autori diversi a distanza di una quarantina di anni. Due parti molto diverse e la seconda sembra essere la palinodia della prima. I dubbi sull’identità degli autori, su eventuali interpolazioni di Jean de Meun nella prima parte, sul senso del poema come opera complessiva sono ripercorsi nell’introduzione di Mariantonia Liborio. Quello che sembra sicuro è che il “collage” dei due testi mostra come in quel mezzo secolo di iato fra la prima e la seconda metà del XIII secolo fossero profondamente cambiati i modelli culturali: dagli ideali e dalle forme letterarie cortesi del Roman di Guillaume de Lorris all’approccio filosofico-enciclopedico di Jean de Meun. E un passaggio che si verifica, in forme diverse, anche nella letteratura del sì fra i poeti siciliani e Dante. È dunque importante rileggere il “Romanzo della Rosa” nella sua diversificata completezza. Al di là dei problemi filologici e narratologici, il poema è davvero uno dei fondamenti della cultura europea: una rilettura dell’ars amandi ovidiana che diventa una fenomenologia della conquista amorosa e del desiderio; una perfetta compenetrazione di allegoria e narrazione che anticipa la Commedia dantesca.

Gabriel Marcel (1889-1973) – La tecnica si rivela incapace di salvare l’uomo da se stesso, e l’uomo si mostra pronto anche a concludere con il nemico, che porta infondo a sé, le più terribili alleanze. La vita in un mondo regolato sull’idea di funzione è esposta alla disperazione, sbocca nella disperazione, perché in realtà questo mondo è vuoto.

GabrielMarcel 01
Edvard Munch, Melanconia.

Salvatore Bravo

Il postulato della malinconia

 

L’epoca delle passioni tristi ha le sue ragioni. La malinconia esistenziale è stata ontologizzata: essa accade semplicemente. Dinanzi a tale constatazione ideologica è necessario smascherare il misticismo esistenziale-positivistico, il quale ha come fondamento il postulato della malinconia. Il capitalismo assoluto favorisce il diffondersi e l’affermarsi di filosofie da integrare col sistema vigente, che possano valere da sgabello-pseudofondamento per giustificare il clima di umor nero dello stato presente. Scienze e filosofie di tal genere – con l’arretrare della speranza – favoriscono la gabbia d’acciaio del sistema capitale. L’esistenza defraudata, saccheggiata delle sue possibilità di senso e di speranza – ed omologata sull’impersonale – diviene la giustificazione al consumo illimitato e consolatorio. Il capitalismo ha trovato nel ciclo produzione-consumo il balsamo alle passioni tristi, presentandosi come il consolatore degli afflitti, ma in realtà ne è la causa sottesa.
La filosofia dev’essere radicale nella sua critica sociale, nella prassi della consapevolezza. Gabriel Marcel lo è stato. Nella contingenza attuale il pensiero radicale deve includere nell’orizzonte critico filosofi di differente orientamento di pensiero per costruire processi plurali di critica. Gabriel Marcel, nella sua archeologia della tristezza esplicita, coglie lo strato profondo della tristezza e della disperazione: esse sono determinate dalla riduzione dell’essere umano a sola funzione. In tal modo la persona è presa in un vortice siderale di mortificazione ed alienazione, poiché è resa ente inerte che deve sottostare alle leggi del capitalismo alleato con la tecnocrazia e con la psicologia adattiva che rappresentano l’essere umano come un ente fisico che deve sottostare alle sole funzioni di natura fisico-biologica iscritte nel corpo vissuto.
Le funzioni vitali delineano l’essere umano come rispondente ad apparati e movimenti anatomici che devono solo consumare per vivere; le funzioni sociali sono curvate sullo scambio, sulla compravendita ed il plusvalore; la funzione psicologica media l’attività anatomica con le funzioni sociali.
L’io minimo è già in Gabriel Marcel, è l’elemento di congiunzione tra le funzioni vitali e sociali e specialmente il mezzo attraverso il quale il dio capitale si perpetua. Si è in tal modo appendice del sistema, atomo che si muove nello spazio predefinito dal capitale. La prigione è ovunque, nella lingua, nei messaggi che sollecitano risposte stereotipate, nella libertà tradotta nel solo significato mercantile, nella circolazione di idee rispondenti ai “bisogni capitali”:

 

«L’individuo tende ad apparire non solo a se stesso ma anche agli altri come un semplice fascio di funzioni. Per ragioni storiche estremamente profonde e che senza dubbio comprendiamo ancora soltanto in parte, l’individuo è stato sempre più portato a trattare se stesso come un aggregato di funzioni, la gerarchia delle quali gli appare d’altronde problematica, soggetta in ogni caso alle più contraddittorie interpretazioni. Funzioni vitali in primo luogo; è appena sufficiente indicare il ruolo che in questa direzione hanno potuto svolgere da una parte il materialismo storico, dall’altro il freudismo. Funzioni sociali, in secondo luogo: funzione consumatore, funzione produttore, funzione cittadino, ecc. Tra le une e le altre v’è certo teoricamente posto per le funzioni psicologiche. Ma si vede subito che le funzioni propriamente psicologiche tenderanno ad essere sempre più interpretate sia in rapporto alle funzioni vitali, sia in rapporto alle funzioni sociali, la loro autonomia sarà precaria, come sarà contestata la loro specificità».[1]

 

La struttura economica si palesa nella cultura della funzione per poter dominare e riprodursi. Il corpo è funzione del consumo e del produrre, la psiche deve orientarsi all’individualizzazione del piacere, dell’apparire che separa, le funzioni sociali sono orientate alla competizione crematistica. Ogni possibilità altra è censurata mediante la pletora di stimoli e messaggi unidirezionali. L’orizzonte vitale ed esistenziale è così compresso sul presente, sull’immediato, sulla soddisfazione delle funzioni prestabilite, pena la marginalità sociale ed il silenzio dell’escluso.

 

Funzione e disperazione
Un buon osservatore non può non cogliere la disperazione del consumo compulsivo come della solitudine di coloro che sono disfunzionali rispetto alle richieste del mercato. L’essere umano è valutato per le prestazioni tradotte in linguaggio matematico, i mezzi di misurazione sempre più precisi “nanometrici” spingono ad una competizione senza limiti, c’è sempre un record da battere. Come nello sport, l’asticella è spostata sempre in più in alto, sempre più irraggiungibile e tagliente. Si è vincenti, nella società liquida, per un tempo sempre minore, si è esposti alla marginalità con una facilità e una velocità non sempre razionalizzabile. Il pensionato è la punta dell’iceberg della insocievole socievolezza del capitalismo assoluto, è l’immagine percettiva evidente della violenza della riduzione dell’essere umano a funzione la cui durata è ad obsolescenza programmata.
Il pensionato è riammesso tra i vivi solo se può essere parte di un nuovo mercato. Per entrarvi deve imitare e concorrere con il giovanilismo, aggiungendo alla disperazione la frustrazione di un traguardo impossibile e della negazione della propria identità:

 

«Non c’è bisogno di insistere sopra l’impressionante di soffocante tristezza che sale da un mondo così regolato sulla funzione. Mi limiterà qui ad evocare l’immagine penosa del pensionato, o anche quella strettamente connessa delle domeniche cittadine, quando la gente a passeggio dà precisamente la sensazione dei pensionati della vita. In un mondo di tal genere la tolleranza, che si concede al pensionato, ha qualcosa di derisorio e di sinistro. Ma non c’è solo la tristezza di chi guarda questo spettacolo; c’è anche il sordo, intollerabile malessere avvertito da colui che si vede ridotto a vivere come se si confondesse effettivamente con le proprie funzioni; e questo malessere dimostra a sufficienza che esiste un errore o un abuso d’atroce interpretazione, che un ordine sociale sempre più disumano e una filosofia ugualmente disumana (la quale, se ha performato questo ordine, si è in seguito su di esso modellato) hanno nella stessa misura contribuito a radicare nelle intelligenze senza difesa. […] La vita in un mondo regolato sull’idea di funzione è esposta alla disperazione, sbocca nella disperazione, perché in realtà questo mondo è vuoto, perché suona vuoto, se resiste alla disperazione, ciò avviene unicamente nella misura in cui giocano, in seno a tale esistenza e in suo favore, certe forze segrete che essa non ha la capacità di pensare o di riconoscere».[2]

 

L’essere umano resta tale malgrado il vuoto siderale in cui si muove. La resistenza è possibile, in quanto la profondità di ciascuno, il pensiero, ha la possibilità di raccogliersi per concettualizzare. Il pensiero è la forza metafisica che non si lascia cancellare dalla violenza del capitale. La disperazione è il sintomo attraverso il quale si può uscire dalla caverna che imprigiona, indica la presenza di una insoddisfazione metafisica che può essere il percorso che porta all’emancipazione.

 

Il pericolo
La tecnica, malgrado i suoi risultati, non riesce a salvare l’essere umano dalla disperazione, dalla dolorosa constatazione esistenziale che l’essere umano non è una funzione. Dinanzi a tale condizione vi sono opzioni, vie che si possono percorrere: compromesso con la tecnocrazia che diviene complicità, mentre la prassi nelle sue forme plurali riumanizza ciò che la tecnocrazia ha svuotato con il suo dogmatico incedere:

 

«È qui la ragione per cui può sembrare che oggi siamo entrati nell’epoca stesa della disperazione: non abbiamo smesso di credere alla tecnica, cioè di considerare la realtà come un insieme di problemi, e nello stesso tempo il fallimento globale della tecnica è tanto chiaramente visibile quanto lo sono i suoi trionfi parziali. Alla domanda: cosa può l’uomo? Rispondiamo di nuovo: l’uomo può ciò che può la sua tecnica; ma nello stesso tempo dobbiamo riconoscere che questa tecnica si rivela incapace di salvarlo da lui stesso, e l’uomo si mostra pronto anche a concludere con il nemico, che porta infondo a sé, le più terribili alleanze. Abbandonato alla tecnica (“livrè à la technique”), ho detto: cioè nel senso che l’uomo è sempre più incapace di dominarla, o meglio di dominare la propria maestria (“maîtriser sa propre maîtrise”)». [3]

 

Il mito del pastore
Bisogna sottrarsi al mito dell’abbandono e del “pastore”. Non si può che evadere rispetto a tale pericoloso ed insidioso bisogno: la tecnica è il pastore che muove le greggi, le compatta nel sogno della deresponsabilizzazione. La tecnocrazia assolve il compito del pastore che guida con sicurezza i suoi armenti. La prassi non può che iniziare con l’abbandono del mito del pastore che scorre nelle tecnologie, in ogni atto quotidiano. Pertanto la prassi necessita di una cesura, prima ed imprescindibile, rispetto al bisogno di una età dell’oro in cui il pastore guidava ed ogni necessità politica era inesistente e sconosciuta. Si deve dire addio all’archetipo di Crono, divinità che nell’età dell’oro guidava il cosmo senza l’intervento e la responsabilità umana:

 

«STRANIERO: Hai seguito bene il discorso. Quanto alla tua domanda sul fatto che tutto veniva generato spontaneamente per gli uomini non riguarda affatto il ciclo che c’è ora, ma anche questo si verificava in quello anteriore. Allora il dio guidava innanzitutto la stessa rotazione, prendendosene totalmente cura, e cosa che avviene allo stesso modo anche adesso in alcuni luoghi tutte le parti del cosmo venivano ripartite dagli dèi che le governavano: e dei demoni divini come fossero pastori avevano ripartito anche gli animali viventi secondo i generi e i gruppi, e ciascuno bastava in tutto a ciascun gruppo essendo esso stesso pastore, sicché non vi era nessun essere selvatico e nessuno procurava cibo all’altro, e non esisteva affatto guerra né rivolta. Ma vi sarebbe molto altro da dire riguardo a quel che segue a tale assetto dell’universo. Quanto si dice degli uomini e della loro vita in cui tutto si generava spontaneamente, si è detto per questo motivo. Il dio li guidava ed era loro capo, come adesso gli uomini, che sono animali più vicini alla natura divina, portano al pascolo le altre specie a loro inferiori: quando il dio li portava al pascolo non vi erano forme di governo, né acquisti di donne e di figli. Tutti ritornavano in vita dalla terra, e non vi era alcun ricordo delia situazione precedente: questi beni allora mancavano, però avevano abbondanza di frutti dagli alberi e da molta altra vegetazione, senza esser generati mediante l’agricoltura, ma offerti spontaneamente dalla terra. Nudi e senza coperte vivevano trascorrendo la maggior parte del tempo all’aria aperta: le stagioni erano temperate perché non provassero dolore, e avevano confortevoli letti costituiti dall’erba abbondante che cresceva di continuo dalla terra. La vita di cui stai ascoltando il racconto, Socrate, è quella di coloro che vissero al tempo di Crono: questa di adesso, invece, che il discorso indica come del tempo di Zeus, tu stesso la stai sperimentando di persona. Saresti in grado e vorresti giudicare la più felice fra queste due esistenze?». [4]

 

Per trascendere la disperazione si deve affrontare la dialettica, il conflitto con il desiderio regressivo di essere liberi da colpe come da responsabilità. Solo il ritorno del politico e del metafisico possono inaugurare un’esistenza che sia a dimensione di esseri umani e non di semplici enti. La disperazione è l’effetto di un’umanità oggetto di logiche che manipolano per devitalizzare il potenziale creativo e politico della persona e della comunità. Per trascendere la depressione delle passioni tristi è necessario ribaltare la passività in attività, affinché ciò accada bisogna attraversare la caverna mediante un non facile riorientamento gestaltico. Le modalità di tale prassi sono plurime, certamente senza mettere in epochè il consumo per contemplarlo ed ascoltare ciò che cela, tale processo non può iniziare. Le istituzioni dedite alla formazione possono ritrovare il loro senso divenendo luoghi comunitari del logos che emancipa con l’esame critico dei modi di produzione, elaborando, così, processi antiadattivi.

 

Salvatore Bravo

 

[1] Gabriel Marcel, Manifesti metodologici di una filosofia concreta, Minerva italica, 1972, p. 69.

[2] Ibidem, p. 72.

[3] Ibidem, p. 96.

[4] Platone, Politico, Ousia, p. 10.

Gilles Lipovetsky e la società della seduzione. Se il capitalismo immateriale avanza senza limiti, ciò è possibile perché mancano le narrazioni veritative. Se la Filosofia si limita ad una critica sociologica e non propone la verità come centro di un processo rivoluzionario, la sua critica è solo puro parlare senza effetti.

Gilles Lipovetsky 01
Salvatore Bravo

Gilles Lipovetsky e la società della seduzione

Se il capitalismo immateriale avanza senza limiti, ciò è possibile perché mancano le narrazioni veritative. Se la Filosofia si limita ad una critica sociologica e non propone la verità come centro di un processo rivoluzionario, la sua critica è solo puro parlare senza effetti.

Capitalismo immateriale
Il capitalismo si autofeconda mediante un movimento perennemente innovativo. Non solo è capace di adattarsi alle circostanze storiche, ma fagocita i movimenti di emancipazione e di liberazione riducendoli a merce, e abbattendo persino le frontiere che esso stesso ha creato. Siamo dinanzi ad una nuova fase che rende il capitalismo certamente non diverso dalla sua essenza, ma con effetti amplificati dai mezzi utilizzati. Le fasi del capitalismo rivelano, in modo sempre più esponenziale, la sua intrinseca natura: si installa nelle relazioni umane, entra nella vita degli uomini per trasformarla in plusvalore, sostituisce il concetto con la gestualità seduttiva. La fase attuale è “rivoluzionaria”, perché accelera tale automatismo. Il capitalismo immateriale utilizza il digitale e gli algoritmi non solo per produrre, ma per orientare le scelte e la vita dei soggetti sussunti al suo invisibile potere.

L’incanto
L’incanto del capitalismo immateriale è nella narrazione che esso fa di se stesso: promette la pienezza, producendo a ciclo continuo – con sogni di onnipotenza narcisistica – una nuova percezione del tempo incentrata sul bisogno-desiderio. I bisogni-desideri sono l’incanto della speranza mondana, il tempo dura quanto è necessario per desiderare e consumare, il disincanto è subito compensato da un nuovo sogno. È l’eterno ritorno nella prospettiva dell’homo consumericus. La forza dell’incanto del capitalismo immateriale è nel non lasciare tempo al consumatore; non vi devono essere archi temporali vuoti, in cui il pensiero può concettualizzare con profondità, giustapporre i sogni ed i disincanti in modo sempre più veloce consente il radicamento dell’incantatore e lo sradicamento da se stesso, dal logos e dalla comunità del soggetto. L’homo consumericus vive su un palcoscenico il cui copione è stato scritto da altri, ma ha l’illusione di essere l’attore principale dello spettacolo, lo si coinvolge nella rappresentazione del prodotto da vendergli, gli si danno informazioni, lo si porta sui luoghi di produzione, assapora la storia dei prodotti, assiste alla spettacolarizzazione della vendita, l’emozione gradualmente lo distoglie dal logos, la pedina si autopercepisce come il sovrano delle merci tra le merci:

«Il capitalismo contemporaneo è stato definito “capitalismo immateriale”, intendendo con tale espressione il ruolo primordiale che rivestono oggi nell’economia le tecnologie digitali al pari dei servizi, del “capitale umano”, del “capitale di conoscenze”, del “capitale di conoscenze”. Siamo in un’economia immateriale nel senso che le risorse della creazione di valore si basano su fattori immateriali come le conoscenze, le qualità del comportamento, l’innovazione, l’invenzione. Il punto da sottolineare è che più il capitalismo diventa “immateriale” e più si confonde con il capitalismo incantatore. Il che significa che il capitalismo immateriale non designa soltanto un “capitalismo cognitivo” centrato sugli algoritmi, i dati digitali, i saperi astratti e matematizzati, ma anche un sistema che si adopera per stimolare i desideri, le emozioni, i sogni e il cui obiettivo è creare e rinnovare prodotti e servizi che piacciano al consumatore e li colpiscano (racconti, musiche, svaghi, divertimenti, stili, ecc.). Di conseguenza, il capitalismo immateriale è anche, paradossalmente, un capitalismo emotivo ed artistico».[1]

Si deve emozionare per favorire processi di regressione di massa: le piccole emozioni che lo spettacolo della merce offre invitano al sogno ed alla fuga dalla storia. La manipolazione dei significati è tale che la parola cultura – che per tradizione e significato si connota per essere il processo di liberazione dalla superstizione e dalla sudditanza per eccellenza – è associata allo spettacolo. Ogni attività culturale dev’essere economicamente proficua e nel contempo deve emozionare: luci, spettacoli, postazioni mediatiche sono la nuova esca con cui incantare lo spettatore-consumatore. La stimolazione sensoriale in continua ascesa – sempre più intensa negli eventi provoca meraviglia, stupore, inebetimento che prepara all’acquisto. Il pensiero è così sostituito dall’incanto, dalla fugace emozione; si viaggia in ogni parte del globo, si visitano monumenti, per tornare a casa con esperienze sensoriali velocemente sostituite da ulteriori emozioni. Il corpo è diventato il luogo sul quale affluiscono momenti emozionali, i quali non sono oggetto di riflessione, ma di veloce godimento. Il corpo è il luogo della guerra, della conquista, è solo carne da mercato.

Il sogno
Il consumatore coltiva i sogni di grandezza, vive il sogno nella forma del destino personale e privato, può essere parte di una famiglia o di una comunità, ma le vive come estranee, distanti, un limite al suo narcisismo. Si afferma l’astrazione in forme sempre più radicali, la vita reale, il contesto storico, sono cancellati in nome dell’incanto di una promessa che riguarda il soggetto stesso, che – ormai slegato da ogni ambito – vive il delirio regressivo del diritto a tutto e specialmente la possibilità che il “tutto” si realizzi solo per lui. Il ritmo veloce dei bisogni-desideri del consumatore causa uno scollamento sempre più incolmabile tra il principio di piacere ed il principio di realtà. Il capitalismo immateriale fa del popolo una massa di seduttori in posa per uno sguardo, per un licke. La seduzione sterilizza i popoli, i quali – svuotati dalle loro tradizioni culturali, dallo spirito della lingua materna – non hanno nulla da trasmettere alle nuove generazioni. L’irrilevanza è il nuovo paradigma. Non resta che la seduzione con le sue miserie, in cui l’altro è solo un mezzo per soddisfare il proprio narcisismo:

«Una seduzione che non dipende più né dalla politica, né dal sacro, né dall’ideologia, ma da un’offerta concreta, multiforme, continuamente cangiante, che si rivolge all’individuo privato e ai suoi piaceri: alla seduzione-politico-ideologica è subentrata una seduzione privatizzata ed esperienziale centrata sul rapporto con se stesso. Una forza di attrazione sostenuta non dall’immaginario di un futuro migliore per l’umanità, ma dalle promesse di godimenti immediati dell’individuo».[2]

 

La seduzione
Il gioco esiziale della seduzione non esclude nessuno. Il modo di produzione capitalistico si installa ovunque ed in chiunque, per cui la seduzione – ultima frontiera della sussunzione – è trasversale, riempie il vuoto dei concetti. Con il ritrarsi del logos, il vuoto è abitato dalla seduzione, dall’apparire autoidolatra.
Ci troviamo innanzi ad una nuova forma di seduzione: alla relazione duale del gioco della seduzione tradizionale si sostituisce l’atomismo seduttivo, in cui l’altro è l’oggetto che deve confermare il fascino del seduttore. Ai contenuti, alla passione che guida all’ascolto dell’altro subentra la solitudine del piacere privato, alla parola significante subentra il gesto. Anzi il linguaggio è sempre più elementare, deve parlare la fisicità, la posa che mentre proclama la libertà, in realtà desidera sedurre e dominare:

«Meno i politici hanno grandi idee, più si sforzano di acquisire una grande visibilità e sono presi dal panico all’idea di rimanere o diventare sconosciuti. Quando le grandi ambizioni di cambiare il mondo scompaiono, resta la magia della celebrità, poiché permette di provare la giubilazione di farsi vedere, mostrarsi, provare il godimento narcisistico della divinizzazione di sé. Poiché la visibilità sociale modifica la percezione di sé, aumenta il senso del proprio valore, lusinga l’ego e la stima di sé: essa è uno strumento di autoseduzione che intensifica il sentimento di esistere e di essere “importanti».[3]

Il grande seduttore è oggetto della forza che vorrebbe esercitare, la frustrazione e l’alienazione sono parte della sua esperienza, ma la velocità con cui vive e consuma i suoi gesti, i desideri, i bisogni indotti lascia che il malessere muto resti sullo sfondo: si possiede tutto, ma non si vive nulla, il mondo diviene in tal modo un accumulo inaudito di merce e possibilità senza sapore. Il narcisismo seduttivo dell’homo consumericus si ribalta in frigidità sostanziale, la velocità con cui le emozioni si susseguono lasciano il vuoto. Non vi è memoria, non vi è traccia, per cui i piaceri e le emozioni sono sempre più forti e pericolosi, in modo da avere l’illusione di vivere con pienezza:

«Il senso di alienazione di sé rimanda al fatto che viviamo in un mondo di velocità sfrenata il quale ci diventa sempre più estraneo, impenetrabile, insoddisfacente poiché cancella ogni vera appropriazione personale. Possediamo sempre più libri o DVD, ma non ci prendiamo il tempo di “digerirli”; navighiamo rapidamente sulle pagine della rete senza leggere nulla fino in fondo; facciamo zapping su qualunque cosa; guardiamo la televisione per ore senza trarne veramente piacere; non ci prendiamo il tempo di imparare perché questo tempo divora troppo tempo; ci sentiamo impotenti di fronte alla complessità degli oggetti tecnologici i cui modelli cambiano in continuazione».[4]

Pedagogisti dell’edonismo
La pedagogia alimenta la didattica veloce, i saperi minimi, l’offerta formativa, esperienze da vivere e vendere su un mercato del lavoro in perenne metamorfosi e che esige il continuo sacrificio dei suoi lavoratori. Pedagogia complice del sistema, gli economisti sono affiancati da “esperti della didattica”, che invitano a sostituire i contenuti con esperienze didattiche incentrate su obiettivi minimi, perché nulla deve fermare l’incanto dei consumi: il tempo utilizzato per capire è sottratto al consumo, per cui gli appelli degli esperti a non dare troppi compiti, a non traumatizzare debiti (rimandare a settembre nella neolingua dell’economicismo), a non dare compiti per le vacanze, al sabato libero, a posticipare l’inizio delle lezioni, altrimenti il sistema potrebbe incepparsi nel pensiero e nel contenuti. Il liceo classico è sconsigliato, perché astratto, perché il vecchiume delle lingue morte potrebbe disorientare nella scelta universitaria che dev’essere “libera”, ma orientata verso le facoltà produttive, ovvero tecniche. Sono i nuovi oratores che circolano nelle istituzioni per mutarne la natura, per asservirle alle logiche del mercato.
Lipovetscky, dinanzi all’avanzare del nuovo capitalismo immateriale, ritiene che l’unico argine sia la cultura. L’istituzione scolastica deve arginare l’inebetimento con la formazione critica:

«Che cosa modificherà l’ethos consumistico? La riduzione dell’inebetimento di massa passa attraverso una formazione scolastica e artistica di qualità. È su questa che la nostra epoca deve investire affinché le sirene consumistiche rimangano al posto che spetta loro».[5]

 

Ipermodernismo
Lipovetsky si dichiara ipermodernista. Constata la fine delle grandi narrazioni, l’affermarsi del potere seduttivo che tutto pervade, e giudica la formazione il luogo dove tale deriva può essere letta ed arenarsi. Lipovetsky pecca di astrazione. Le istituzioni formative sono interne al sistema, così come i suoi operatori. Se il capitalismo immateriale avanza senza limiti, ciò è possibile perché mancano le narrazioni veritative e con esse il logos. Se la Filosofia ha rinunciato alla verità e si limita ad una critica sociologica che, per quanto acuta, non propone la verità come centro di un processo rivoluzionario, la sua critica è solo puro parlare senza effetti. Naturalmente gli appelli alla formazione non possono che restare tali, o anche essere accolti per colte discussioni-spettacolo. Il teatrino della democrazia formale è sempre in attività.
Un nuovo inizio è sempre possibile, è una scommessa, ma non può che avere l’abbrivio dalla metafisica che deve arginare il relativismo e la cultura dell’irrilevanza che legittima la riduzione a spettacolo di ogni manifestazione culturale e dell’essere umano.
Il pensiero debole non può che essere fonte di conferma dello stato attuale. Bisogna constatare il fallimento del postmodernismo con i suoi alfieri, per rimettere in cammino la storia con la sua verità. Il postmodernismo e l’ipermodernismo descrivono il capitalismo nella sua effettualità, il quotidiano vissuto entro il confine dell’utile, ma restano interni ad essi, perché non escono dalla gabbia del relativismo:

«L’antico principio secondo il quale l’acquisizione del sapere è inscindibile dalla formazione (Bildung) dello spirito, e anche della personalità, cade e cadrà sempre più in disuso. Questo rapporto fra la conoscenza ed i suoi fornitori ed utenti tende e tenderà a rivestire la forma di quello che intercorre fra la merce ed i suoi produttori e consumatori, vale a dire la forma valore. Il sapere viene e verrà prodotto per essere venduto, e viene e verrà consumato per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione: in entrambi i casi, per essere scambiato».[6]

L’oblio della verità e dei perché
L’oblio della verità, la rinuncia ad essa, non permette di uscire dal paradigma dell’utile. Si constatano gli effetti del capitalismo, ma lo si ipostatizza, in quanto ogni progettualità alternativa è annichilita dal vuoto ontologico e metafisico. Pertanto gli appelli rivolti alla formazione ricadono su stessi, non interrompono, né deviano il capitalismo dal suo onnipotente radicarsi. Il postmodernismo si aggira tra le rovine della dialettica marxista, l’impossibilità di prevedere la storia ha portato via con sé ogni metafisica della verità consegnando la filosofia ad un ruolo ancillare rispetto alle scienze ed all’economia. Per uscire dal postmodernismo ed approssimarsi alla verità è necessario, in primis, riattivare la catena dei perché senza i quali la storia è consegnata alla palude del relativismo nella quale il capitalismo immateriale può proliferare, in quanto non incontra alcun limite. La catena dei perché riporta in scena con la filosofia la speranza che mai è scissa dalla verità:

«È necessario dunque “riaprire la catena dei perché”. Prendo a prestito questa espressione del defunto Franco Fortini, che mi onorava della sua stima e della sua amicizia (e che non avrebbe quasi sicuramente condiviso né la lettera né lo spirito di questo saggio). Quando nel 1956 il sinedrio dei gran sacerdoti del comunismo, capitanati dal mediocre contadino ucraino Nikita Krusciov, decise di detronizzare il papa georgiano defunto Giuseppe Stalin, Franco Fortini scrisse che bisognava “riaprire la catena dei perché”, a cominciare ovviamente dai perché fondamentali rimossi, ed aprire un dibattito liberatore fra tutti coloro che praticavano il marxismo, sostenevano il socialismo e credevano nel comunismo».[7]

Senza le grandi domande non vi sono che piccole risposte, pertanto è necessario porre in epochè il relativismo.
Il linguaggio attuale è puramente descrittivo. Si utilizza il registro linguistico positivistico in ogni ambito, si vuole neutralizzare la domanda sostituendola con la descrizione senza spiegazione profonda. Il linguaggio neutro dev’essere smascherato nel suo vacuo spessore ideologico: si presenta come neutro ciò che in realtà non è che espressione degli interessi di parte. Il linguaggio anonimo vorrebbe convincere dell’oggettività delle decisioni politiche per inibire ogni domanda. La lingua inglese, lingua dei vincitori, insidia le patrie, logora le comunità ed erode la domanda filosofica, in quanto non solo sostituisce la creatività della lingua madre, ma specialmente è lingua utilizzata per le sole comunicazioni commerciali e tecniche. Lingue anonime, senza profondità, formano soggetti irrilevanti che credono nel destino degli eventi storici.
I perché fanno fatica ad emergere sotto la cappa della lingua alienata. La sfida è far riemergere, con i perché, un’altra lingua, un altro pensiero che possa leggere la lingua del capitale per trascenderla. Senza verità non vi è radicamento, né progetto: la filosofia senza la verità non è che parte dello sradicamento globale e del meccanicismo economicista.

Doppio furto
È necessaria la critica filosofica forte per mostrare in modo radicale che mentre si proclama la morte delle ideologie, si cela il dato essenziale: il capitalismo immateriale è ideologia che tutto pervade, ma non vuole essere sottoposto al giudizio dei singoli, delle comunità, dei popoli, per rendere il suo trionfo indiscutibile. Senza verità non vi è radicamento, né progetto. La filosofia senza la verità non è che parte dello sradicamento globale e del meccanicismo economicista. Con il capitalismo immateriale si commette un doppio furto: la proprietà e la verità. Ogni concetto di proprietà pubblica, in cui la comunità ritrova se stessa, è stato occultato e criminalizzato in nome dell’utile privato. I monumenti in cui è conservata la memoria dei popoli divengono “petrolio” per il plusvalore, ma specialmente la verità è il furto per eccellenza. E questo furto si perpetua ogni giorno a danno dei popoli. Senza verità non vi è consapevolezza, né politica, ma solo eterno tatticismo, finzione della partecipazione. Senza verità i popoli divengono plebe nel pascolo del capitalismo. L’urgenza, non solo filosofica, è la verità. Essa risorgerà al di fuori degli ambienti accademici. Solo con la verità vi può essere un nuovo inizio.

Salvatore Bravo

[1] Gilles Lipovetsky, Piacere e Colpire. La società della seduzione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019, pp. 217-218.

[2] Ibidem, pp. 218-219.

[3] Ibidem, p. 267.

[4] Ibidem, p. 347.

[5] Ibidem, pp. 387-388.

[6] Jean François Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 2019, p. 12.

[7] Costanzo Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance, Pistoia 2004, p. 5.

Erling Kagge – Solvitur ambulando. Camminare è un gesto sovversivo. È metafora del pensare. Camminare è sapere.

Erling Kagge 01

Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
fa voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.

K. Kavafis

Salvatore Bravo
La metafora del camminare

Camminare, in molte culture, è metafora del pensare. Chi cammina ha una meta, vive un’esperienza, elabora immagini e stimoli: con le immagini si configurano i concetti.
Si cammina con gli altri: il cammino è un incontro, è il rivelarsi dell’altro alla nostra presenza, ci si conosce ed auto-riconosce nello spazio pubblico nel quale si cammina. L’astratto è trasceso dal concreto nell’atto del camminare. Si cammina in uno spazio pubblico, si condivide lo spazio con il camminare e si impara a convivere in uno spazio dato. Nel camminare ci si riappropria dello pubblico spazio, si osserva la vita della propria comunità, si partecipa alle sue metamorfosi.
Camminare non è corsa fugace tra cose ed esseri umani: camminare è conoscenza. La storia di ogni comunità vive nei gesti del quotidiano: imparare a camminare, vivere lo spazio pubblico è esperienza di consapevolezza delle possibilità e delle potenzialità della comunità. In molte culture vivere è camminare. È immagine di un percorso con i suoi bivi. Nella sua dinamicità accade che il caso è sostituito gradualmente dal cammino verso un fine. Camminare svela la multilinearità dei percorsi, rivela la finitudine dinanzi all’immenso: anche Eraclito affermava che per quanto si cammini nella propria anima i confini non saranno mai raggiunti (fr. 45).
Lo spazio ed il tempo, il senso interno ed esterno sono dunque speculari:

«Le lingue create dagli uomini rispecchiano l’idea che la vita sia una lunga camminata. In sanscrito, una delle lingue più antiche al mondo e originaria dell’India, il concetto di passato è espresso con il termine gata, “quel che abbiamo camminato”, mentre il futuro si chiama anagāta “quel che non abbiamo ancora raggiunto”. Il termine gata è imparentato con il norvegese gått (“andato”). Come è naturale, in sanscrito il presente è associato al significato di “quel che si manifesta proprio di fronte a noi”, pratyutpanna».[1]

Mentre si cammina lo spazio ed il tempo seguono il ritmo del passo, se si accelera lo spazio ed in tempo si contraggono in segmenti brevi e tutto sfugge all’attenzione, ma se si rallenta il mondo entra in contatto con noi, i volti degli altri non hanno solo un profilo, comunicano con i loro gesti la loro storia, gli sguardi e i gesti sono simili a testi che invitano alla decodifica, all’ermeneutica senza la quale non vi è che un passaggio veloce in cui inizio e fine del percorso sono uguali. L’accelerazione dei ritmi, la corsa in funzione del “benessere fisico”, il giudizio sprezzante verso la lentezza è indicativo di forme di alienazione che si concretizzano in ritmi sempre più veloci: le tecnologie, le comunicazioni, la brevità dei testi con i msg, rafforzano i poteri che si installano nelle relazioni (Gestell). Il soggetto è cosi una cosa (Ding) dal ritmo veloce. Chi sa camminare sa studiare, sa emanciparsi, e ciò necessita dell’ascolto del proprio e dell’altrui ritmo.

 

L’esperienza del concreto
La cultura dell’astratto insegna la divisione, a parcellizzare senza sintesi. La Filosofia con il suo metodo genetico genealogico non enumera parti, ma le ricongiunge al fine di individuarne il fondamento. Il camminare non si può ridurre ad una semplice azione dipendente da una serie di organi, è piuttosto l’immagine dell’unità, dell’interazione dell’esterno e dell’interno: ogni gesto, ogni parola, ogni passo è relazione biunivoca col mondo, col contesto in cui la vita è in atto. La cultura dell’analisi, dell’atomizzazione non riguarda solo il sociale, ma è struttura cognitiva trasversale per cui ogni comportamento umano è diviso, analizzato nelle funzioni anatomiche, si perde in tal maniera il senso del gesto:

«I piedi sono in comunicazione con gli occhi, le orecchie, il naso, le braccia, il busto e le sensazioni, in un dialogo spesso troppo rapido perché la mente riesca ad afferrarlo. I piedi ci portano avanti con precisione. Percepiscono il suolo e tutto ciò con cui la zona plantare viene a contatto. Registrano impressioni e poi fanno un passo in avanti o di lato. I piedi sono strutture meccaniche forti e complesse. Con ventisei ossa, trentatré articolazioni e più di cento tendini, muscoli e legamenti, tengono il corpo eretto e in equilibrio. Hanno cominciato a svilupparsi prima che i nostri antenati assumessero la posizione eretta. Queste trasformazioni dipendevano dalla necessità di adeguarsi all’ambiente circostante per poter sopravvivere, ma nel corso del tempo – in oltre due milioni di anni – quel che una volta i norvegesi facevano per necessità è diventato un piacere. Non avendo più bisogno di farlo, attraversare un campo a piedi, scalare una montagna, inerpicarsi su una rupe o addentrarsi in un bosco alla ricerca di un posto per accendere un fuoco sono diventate attività di svago. I piedi, che hanno avuto il compito di aiutare l’uomo a sopravvivere e sono ancora importanti per la sopravvivenza in gran parte del mondo, oggi sono diventati i nostri mezzi per trovare una buona postazione in spiaggia, prendere una scorciatoia per tornare a casa, infilarsi in camera da letto o passeggiare per allontanare i problemi».[2]

 Contro ogni cultura dell’astratto, camminare rivela che si pensa con la totalità del corpo vissuto, ogni dualismo si annichilisce dinanzi all’osservazione fenomenologica. Pensare è camminare, i concetti prendono forma al ritmo del passo, al contatto con il mondo, le parole emergono nella concretezza della relazione. Socrate, nel Menone, cammina sulla spiaggia con lo schiavo; mentre camminano dialogano, si fermano: il dialogo sul teorema di Pitagora raffigurato sulla sabbia permette la concettualizzazione della teoria della reminiscenza. Merleau-Ponty nega l’esistenza della diade “esterno interno”, pensare implica la totalità concreta dell’essere umano, le scissioni sono elaborazioni posteriori:

«Socrate fu posto di fronte a un problema simile: “E come cercherai quello che tu ignori pienamente?”. Per duemilaquattrocento anni i filosofi si sono interrogati su questo dilemma – anche chiamato Paradosso di Menone, dal nome del sofista che avrebbe fatto la domanda a Socrate. Nel 1942 il filosofo Maurice Merleau-Ponty propose quella che secondo me è una buona risposta, nella quale può riconoscersi chiunque cammini molto: l’uomo pensa con tutto se stesso. Sia con la testa sia con il corpo. Merleau-Ponty partiva dal presupposto che il corpo non sia solo un insieme di atomi che compongono carne e ossa. Noi conosciamo, custodiamo i ricordi e riflettiamo con le dita dei piedi, i piedi, le gambe, le braccia, la pancia, il petto e le spalle. Non solo con la mente e con l’anima, sulle quali si era soffermato Socrate. Merleau-Ponty aveva afferrato qualcosa su cui in seguito si sono concentrati anche neurologi e psicologi: nella sua interezza l’uomo intrattiene un dialogo costante con quel che lo circonda. “Non v’è uomo interiore: l’uomo è nel mondo, e nel mondo egli si conosce”. Per elaborare quel che stiamo vivendo quando guardiamo, annusiamo o ascoltiamo qualcosa, utilizziamo informazioni che sono già immagazzinate nel corpo».[3]

 Socrate dialogava con tutti nell’agorà, era il tafano che infastidiva con le sue domande, ma le grandi domande esigono il vuoto del tempo, la sospensione dell’homo faber, il camminare è esperienza della lentezza della concettualizzazione. Kierkegaard viveva il pungolo nella carne nelle strade di Copenaghen:

«Quando il filosofo greco Diogene fu messo di fronte al paradosso che il movimento non esiste, rispose solvitur ambulando, ovvero: “Si risolve camminando“. Socrate se ne andava in giro per Atene, poneva domande, dialogava. Charles Darwin si metteva in moto due volte al giorno e aveva persino il suo thinking path, «percorso del pensiero». Come Socrate, anche Søren Kierkegaard era un filosofo della strada. “Camminando ho incontrato i miei pensieri migliori”, scrisse. Vagava per Copenaghen, interrogava i passanti, gli metteva un braccio sulle spalle e li seguiva per un pezzo, aspettava le risposte, poi li lasciava andare e proseguiva per conto suo. Alla fine se ne tornava a casa, dove invece non faceva entrare nessuno, e riversava nei libri le impressioni raccolte fuori». [4]

 

Seduti
Il mondo è organizzato per impedire l’autoriflessione, il pensiero concettualizzato. Dietro l’accelerazione dello spazio e del tempo, nella retorica del viaggio “a qualsiasi costo”, al girovagare interminabile per il pianeta per acquisire immagini da mostrare come trofei di caccia, vi è un valore aggiunto: non è solo l’economicismo a spingere verso il viaggio perenne in cui consumare se stessi ed il pianeta, ma specialmente è il pensiero, il concetto ad essere inibito. Viaggi organizzati contro ogni inconveniente, il mondo smart, è il mondo in cui, mentre ci si muove perennemente si sta seduti, si guarda il mondo, spettatori della società dello spettacolo. Il mondo è un grande spettacolo a cui si assiste passivamente nell’accadere degli eventi, liberi dalla responsabilità etica. Notoriamente lo spettatore è seduto anche quando sgambetta. L’ultimo uomo ha trovato la sua espressione massima nel capitalismo assoluto: deambulare per consumare, il diritto individuale contro ogni universale. Le navi da crociera all’arrembaggio di Venezia testimoniano che ci si può muovere, ma stare seduti, e quindi l’atto del creare concetti rallenta con l’aumentare del velocità:

«Il mondo è organizzato in modo da tenerci il più possibile seduti. L’invito alla posizione seduta è legato, da una parte, al desiderio delle autorità che tutti contribuiamo al prodotto interno lordo e, dall’altra, al bisogno delle imprese che, quando non produciamo, consumiamo».[5]

Camminare invece è rivoluzionario. Si impara a stare al passo con gli altri. Camminare è sintesi di individuo e collettività. La Rivoluzione francese è un camminare teleologico, la trasformazione del reale concettualizzato. Ghandi, con la marcia del sale, dimostra che un popolo in cammino non si può fermare, che il camminare è il concetto che diventa agire ed il potere teme la circolazione delle idee sui piedi molto più delle armi.

Ogni grande azione, trasformazione, prassi, inizia col camminare. Nella storia il camminare significa fendere le resistenze, trascendere le contraddizioni, dare avvio ad un nuovo inizio nel rispetto della memoria storica. Camminare è sapere:

«In sanscrito camminare non è solo una metafora del tempo, ma anche del “sapere”: gati. La metafora resiste anche in norvegese, in cui passare (gjennomgå) per qualcosa significa conoscerla. Chi ha creato la lingua sanscrita, tuttavia, ha voluto che il messaggio fosse ancora più chiaro e ha stabilito una regola: sarve gatyarthā jñānārthāś ca, tutte le parole che cominciano con “andare/camminare”, hanno anche il significato di “sapere”».[6]

 

Camminare con la dialettica

In Marx il rovesciamento della dialettica hegeliana, è riportare al centro il concreto. Ogni essere umano è all’interno di un determinato modo di produzione, appartiene alla sua storia. Le idee che lo attraversano, che lo definiscono, sono la sovrastruttura, ma struttura e sovrastruttura se gli danno concretezza, non esauriscono le possibilità umane. La dialettica è il cammino che trascende il livello ideologico per donargli l’universale. Nel Capitale Marx fa della dialettica il fondamento di una rivoluzione che ha il suo fondamento nella storia:

«Ho criticato l’aspetto mistico della dialettica hegeliana ormai trent’anni fa, quando appunto essa era ancora di moda. Ma Hegel non cessa dall’essere stato il primo ad esporre il movimento complessivo. In Hegel essa (la dialettica) cammina sulla testa; basta rimetterla in piedi per darle una fisionomia completamente ragionevole».

 

Senza cammino non c’è rivoluzione
Il quarto stato (1901) di Pellizza è un dipinto che raffigura la storia in cammino, l’atto del progredire attraverso l’avanzare del popolo non più plebe. Non si deve confondere il movimento con il camminare. Il movimento è il camminare depotenziato di ogni fine e concetto. Se soltanto ci si muove si è eterodiretti. Al movimento bisogna contrapporre l’autonomia del camminare. Le rivoluzioni cominciano con cammini lenti e solitari.
Camminare è un gesto sovversivo, senza il quale non vi è alcun inizio.

Salvatore Bravo

[1] Erling Kagge, Camminare. Un gesto sovversivo, Einaudi, Torino 2018, p. 10.

[2] Ibidem, p. 36

[3] Ibidem, pp. 43-44.

[4] Ibidem, p. 51.

[5] Ibidem, p. 53.

[6] Ibidem, p. 86.

Pierre Zaoui – L’arte della discrezione dipende da un gesto autenticamente metafisico. Fare filosofia oggi significa innanzitutto rinunciare all’apparizione e orientare i propri pensieri su ciò che è vivo, ben lontani dal circo mediatico.

Pierre Zaoui 01

 

Salvatore Bravo

Lo spirito del tempo (Zeitgeist) si rivela solo nella discrezione, nel sospendere l’attività meccanica ed automatica dello stimolo-risposta: il filosofo deve vivere la discrezione, deve essere la parola viva della discrezione che rompe la violenza del circo mediatico dei nuovi oratores.

 

 

La discrezione
La società dei bisogni senza comunità è il luogo dell’eccesso: ogni misura è negata, messa al bando. Il consumatore – come la merce – deve apparire, essere visibile: lo splendore del patibolo (il mercato) non può che essere atto di infinita potenza. La società pornografica deve esporre, vendere, apparire: nulla deve restare implicito, nulla deve sfuggire alle maglie del controllo mediatico. In tale maniera si ottiene un duplice effetto: il mercato, come sovrano assoluto, è sempiterno, si riproduce spinozianamente nei sudditi consumatori; nello stesso tempo il suddito è perennemente sottoposto alla vigilanza del consumo. Il modo di produzione capitalistico si autogenera nei sudditi. La democrazia liturgica, suo sgabello, forma il suddito imprenditore che vota per confermare la condizione di gettatezza di ciascuno. La formazione è minima e veloce come le relazioni umane: nulla deve interrompere il ciclo di produzione ed autoproduzione dell’angloglobalizzazione (Costanzo Preve). L’esporsi continuo al mondo e nel mondo è l’altro volto del declino di una virtù che permette lo spirito di scissione (Gramsci): la discrezione. Per discrezione si intende la virtù dello scomparire, del ritrarsi dal mondo e dai suoi stimoli, per pensare, per appartenersi mediante il concetto (Begriff). L’esperienza del pensare è paragonata da Platone all’esercizio della morte (Fedone, 64A-65A; 65B-E), perché attraverso di essa ci si sottrae al mondo, per pensare, per concettualizzare. Lo scomparire (discrezione) è dunque capacità non solo di pensare, ma è di ausilio al pensiero altrui: ogni comunità solidale ed autentica (Gemeinschaft) non può che apprezzare ed educare alla discrezione, poiché il ritrarsi è lasciare spazio all’altro perché possa elaborare un percorso maieutico. L’apparire continuo, la trasparenza, l’esposizione all’abbaglio mercantile ed all’essere tracciato è un modo per rendere nulla la possibilità del pensare, è la messa in atto, con l’esca del narcisismo, dei processi di alienazione (Entfremdung). L’essere umano estraneo a se stesso ed alla comunità è così più facilmente dominabile:

«La seconda, più profonda, perché l’idea stessa di una discrezione continua costituisce quasi una contraddizione in termini. Nel suo significato etimologico, infatti, discrezione viene dal latino discretio, che significa «discernimento, separazione, distinzione», cosa che si sente ancora nell’inglese discretion, e che ha stabilito il significato matematico di discontinuo. Non potremmo dunque essere costantemente discreti, dal momento che la discrezione stessa presuppone una dialettica più sottile dell’apparizione e della scomparsa, della mostrazione e del riserbo. In ogni caso, è in questo senso che l’arte della discrezione ci sembra dipendere da un gesto autenticamente metafisico, se non addirittura all’origine teologico, che mira a costituire il suo concetto differenziandolo da esperienze prossime ma distinte tra loro: quelle antiche e mondane del tatto, del pudore, del contegno, della cortesia, e quelle religiose dell’umiltà, del distacco o del ritiro dal mondo».[1]

 

Senza discrezione non vi è che la società dei bisogni (Gesellschaft), il regno animale dello spirito nel quale ogni atomo è in preda al desiderio compulsivo di apparire-accumulare per togliere spazio vitale all’altro.

 

Totalitarismi
I totalitarismi sono sistemi in cui alla politica, alla partecipazione, alla decisione da esplicarsi nei luoghi istituzionali si sostituisce l’ossessione del controllo: ogni cittadino è un potenziale oppositore, per cui è necessario individuare modalità con cui tracciare il pensiero, orientarlo verso un obiettivo, deviarlo dal soggetto per muoverlo verso obiettivi “graditi” ed “innocui”: microfisica del controllo, trionfo della tecnocrazia.
Il totalitarismo che stiamo vivendo, il capitalismo assoluto, quantifica ogni gesto, lo misura, lo archivia per studiarne le possibilità di sublimazione mercantile, pertanto invita a parlare, a mettersi continuamente sotto i riflettori, mette in campo la filologia delle espressioni per entrare nella mente ed impiantare il desiderio del sistema capitale (Gestell). Al soggetto non deve restare nulla, solo la liturgia, il velo di Maya della democrazia formale. Senza discrezione lo spazio pubblico, che si definisce tale rispetto alla discontinuità dell’apparire, non è più tale, e dunque non vi è politica, ma solo la violenza dell’atomismo sociale:

«I totalitarismi si sono spinti al punto di dare la caccia ai segreti di ciascuno fin dentro il suo organismo (con tutta una nuova farmacopea: siero della verità ecc.), fin nei suoi sogni (manipolandone il sonno). Certo, sono avvenute cose più terribili: le sevizie passate sotto silenzio, i massacri di massa, Auschwitz e Kolyma. Ma nell’ordine dell’infamia, può essere che questa impossibilità di nascondersi venga subito dopo questi orrori sconvolgenti. Perché una vita senza segreto, senza mistero, senza zone d’ombra, senza spazi interstiziali tra sé e gli altri, così come tra sé e sé, è una vita destinata al terrore assoluto e senza limiti, che alla fine distrugge in noi ogni residuo di umanità. Hannah Arendt l’aveva già capito molto bene sin dalla fine degli anni Quaranta: “Premendo gli uomini uno contro l’altro, il terrore totale distrugge lo spazio tra essi”. Ora, questo «spazio tra», questo Zweiraum, è lo spazio minimo della libertà, che permette di avvicinarsi e allontanarsi in modo alternato, di parlare e tacere, di farsi vedere e nascondersi, ed è uno spazio molto più vitale dell’immondo Lebensraum hitleriano. È in questo senso, d’altronde, che i sistemi totalitari si distinguono dalle semplici tirannie “ordinarie”: queste si accontentavano di eliminare gli oppositori politici palesi e la vita politica libera, ma lasciavano il resto della popolazione in una penombra più o meno tranquilla, mentre i sistemi totalitari fanno di ogni cittadino un potenziale oppositore o traditore, che va quindi sorvegliato e controllato costantemente. Le tirannie distruggevano ogni spazio e ogni tempo pubblico, i totalitarismi colonizzano e distruggono ogni spazio e ogni tempo, di tutti e di ciascuno. Le tirannie obbligano tutti alla discrezione, a ritirarsi dalla vita pubblica, ma i totalitarismi si spingono fino a distruggere la possibilità stessa della discrezione – quella che Hannah Arendt chiama desolazione (loneliness), ovvero una solitudine radicale e senza alcuna apertura possibile al di fuori di sé».[2]

I totalitarismi esigono che vi sia l’olocausto (hòlos, “tutto intero”, e kàiō, “brucio”) della discrezione, puntano sulla colonizzazione della mente, sulla separazione, sulla frammentazione. I processi di individualizzazione e soggettivizzazione sono finalizzati a rendere impossibile l’opposizione, a ridurla ad una presenza marginale e silenziosa, le luci del narcisismo di massa soverchiano lo spirito di scissione, lo rendono un’inutile variabile del sistema capitale.

 

Discrezione e filosofia
L’opposizione, il no concettualizzato, malgrado tutto esiste, perché se si crede nell’essenza della natura umana (Gattungswesen), non si può che agire e sperare, affinché la vita umiliata ed offesa possa riconoscere e razionalizzare lo stato presente. Il filosofo, per essere tale, deve sottrarsi al gioco dell’apparire per coltivare la discrezione, virtù del pubblico; la parola del filosofo e degli amici della conoscenza devono circolare, perché possa formarsi la consapevolezza pubblica, per la quale sono necessarie le contingenze storiche ed i concetti:

«Certo, Deleuze e Hegel sostengono filosofie antagoniste, ma è giocoforza constatare che sono d’accordo almeno su un punto, forse uno solo, però in concordanza assoluta: il grigio è il vero colore della vita dello spirito. Perché non bisogna lasciarsi imbrogliare dalla finta malinconia di Hegel: in verità, non rimpiange nulla degli ori e dei colori del passato, di un’arte del bello che non ha più nulla da dirci, ama il grigio, la secchezza del concetto, la riduzione di ciò che appare variopinto a ciò che scompare nella propria verità. E, altrettanto, non bisogna lasciarsi ingannare dall’apologia di Deleuze e Guattari in favore di tutti i desideri, di tutte le forme di vita: in verità, sono anch’essi sedotti quanto Hegel dall’asciuttezza e dalla spoliazione del pensiero, tanto da arrivare a sostenere, nell’Anti-Edipo, che non sopportano i marginali perché «danno troppo nell’occhio». Il punto è questo: dall’inizio del XIX all’alba del XXI secolo, i filosofi, anche i più distanti tra loro, hanno condiviso la passione per il discreto, l’impersonale, il non appariscente, vale a dire per il pensiero più che per il mostrato, e hanno anche mandato completamente in frantumi il modello antico e medievale che voleva che ogni non-apparizione, discrezione apparente, non lo fosse che in nome di un’apparizione più reale, in sé (ai propri occhi) o a venire (agli occhi di tutti, un giorno, nella posterità). La discrezione ha smesso di essere pensata e vissuta come l’attesa del suo contrario, è diventata affermazione di se stessa. Da un simile punto di accordo, si può trarre forse un unico insegnamento, ma di grande peso: fare filosofia oggi, quali che siano il suo livello e le sue pretese, significa innanzitutto rinunciare all’apparizione. Non tanto perché sarebbe un male in sé, ma perché vorrebbe dire rinunciare a pensare lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, che si trova appunto nella scomparsa, la discrezione. Da questo punto di vista, non bisogna dunque formalizzarsi troppo rispetto a tutti quelli che, ancora oggi, si lasciano reclutare nel circo mediatico o sociale: non sono colpevoli, stanno semplicemente dalla parte di uno spirito che è morto. Si tratta unicamente di orientare i propri pensieri su ciò che è vivo: tutto ciò che si vive, si crea, si pensa, si condivide oggi è ben lontano da un simile circo».[3]

 

Lo spirito del tempo (Zeitgeist) si rivela solo nella discrezione, nel sospendere l’attività meccanica ed automatica dello stimolo-risposta: il filosofo deve vivere la discrezione, deve essere la parola viva della discrezione che rompe la violenza del circo mediatico dei nuovi oratores.

Salvatore Bravo

[1] Pierre Zaoui, L’arte di scomparire. Vivere con discrezione, il Saggiatore, Milano 2015, pag. 18.

[2] Ibidem, pag. 55.

[3] Ibidem, pag. 64.

Andrea Tagliapietra – «La metafora dello specchio». Lo specchio, mostrando ciò che non può essere significato, cioè l’essere riflesso del riflesso, è testimone della verità dell’apparire in quanto darsi veritiero della menzogna.

Andrea Tagliapietra 01

Specchio ed auto-riconoscimento

Riflessioni di Salvatore Bravo


 I miti greci ci parlano, continuano a raccontare di noi, della eterna lotta per trascendere la soglia dalla caverna. I miti, relegati a sapere secondario, se ascoltati ci raccontano della condizione umana e della prassi, dell’agire della coscienza per uscire dal dominio dell’immagine irriflessa. Il testo di Andrea Tagliapietra, La metafora dello specchio, insegue il significato simbolico dello specchio – e dei miti afferenti – per rivelarci i processi di consapevolezza attraverso i significati custoditi nei simboli dei miti. Solo attraverso il processo di auto-riconoscimento allo specchio, colui che guarda può riconoscersi e riscoprirsi in una soggettività non più gettata o situata, ma pensata mediante la chiarezza del concetto e del linguaggio.
Lo specchio è metafora della verità e della necessità: si giunge al logos, alla ragione, mediante un processo concreto che parte dall’immediatezza dell’astratto ed arriva al concreto, nel quale il soggetto che si specchia si scopre implicato nel tutto, nei segni che si riflettono nel soggetto che guarda. Lo specchio è così immagine archetipica e metaforica di una crescita, di un passaggio senza il quale l’astratto prevale, annichilendo il soggetto nella trappola della doxa (δόξα). L’immagine che si mostra dev’essere interpretata, i segni devono essere correlati, la tela del mondo dev’essere ripensata e riscritta dal soggetto: senza tale attività il soggetto vive il silenzio dell’immediatezza, resta sulla soglia del logos. Lo specchio dona all’interpretante che oltrepassa la soglia dell’immagine la consapevolezza dell’illusione ed indica la via che porta alla verità, la svela (ἀλήθεια). Ciò che appare, il fenomeno (ϕαινόμενον), non è la verità, la filosofia è, dunque, attività che toglie all’immagine la sua illusione per restituire la verità. La filosofia guarda dietro l’immagine, non affonda nell’immagine, ma scopre che l’immagine riflessa è parte del soggetto; ogni feticismo cade per donare la complessità relazionale del segno:

«Lo specchio è la presenza del mondo a se stesso e, quindi, quello stesso specchio può solo mostrare la presenza, manifestarla, non dirla secondo i modi della rappresentazione, secondo il gioco dei significanti e dei significati. Lo specchio è la soglia del mondo dei segni e della mediazione, perciò è immediato e non si può significare. Lo specchio restituisce ciò che appare ma, insieme, mostra l’essere di ciò che appare, di ciò che è segno potenzialmente menzognero, indica la verità del suo essere altro da ciò che nel mondo dei segni appare. Nell’esprimere l’illusorietà della conoscenza lo specchio di Dioniso manifesta la conoscenza dell’illusione. Il mondo che appare è altro da ciò che vuole apparire: lo specchio, mostrando ciò che non può essere significato, cioè l’essere riflesso del riflesso, è testimone della verità dell’apparire in quanto darsi veritiero della menzogna».[1]

Lo specchio è anche metafora di una tragica verità, ci parla della regressione ad uno stato mitico nella contemporaneità. Ciò che appare sulla parete della caverna mediatica è accolta non solo come verità, ma specialmente come accade nel mito l’immagine riflessa reca una cesura tra il soggetto e l’oggetto, per cui non resta che il silenzio del logos, ciò che il soggetto guarda, quindi, non ha altro significato che l’immediato accadere. La fatalità ha il sopravvento sui processi di decodifica e responsabilità.

L’autoriconoscimento
L’autoriconoscimento deve passare per il doppio, ci si deve specchiare, guardarsi, riconoscersi, scindersi per arrivare alla consapevolezza di sé; senza lo sdoppiamento ed il pericolo di perdersi in esso, non è possibile attivare la consapevolezza che il soggetto pone il mondo, e dunque è implicato in esso, ne è responsabile con le sue azioni, con il suo agire, con il suo linguaggio. Il soggetto non può effettuare la sua catabasi, la sua discesa (κατάβασις), senza l’esperienza tragica ed emancipatrice del doppio. Se siamo parte del tutto, non ci si può esimere dalla responsabilità etica e politica. La morale emerge all’interno dei processi di rispecchiamento e riflessione su di esso; con la morale si delinea la politica: non siamo essere astratti, avulsi dal tutto, ma siamo all’interno di un mondo di significati che contribuiamo a formare:

«Tuttavia lo specchio di Dioniso insegna l’eccedenza: il dio che si specchia è parte di quel tutto mondo specchiato in cui, appunto, accade anche l’individuazione del dio che si specchia. Davanti allo specchio non più la violenza dell’Uno, non più la pretesa dell’Originale, bensì “tessere spezzate”, semplici metà, in una parola simboli: la metà è insieme l’unità e il doppio, se stessa come Uno e come metà dell’Uno, evocando l’unità della coppia, il maschile/femminile della bisessualità originaria che riunifica Eco la parola senza corpo al corpo del desiderio, al corpo di Narciso, ancora muto come il “segno” di un fiore».[2]

 

La medusa
Nel volto della medusa il mortale (βρότος), l’essere umano vive l’esperienza estrema, nel volto della medusa è riflessa l’alterità assoluta: il nulla. La medusa ha gli occhi cavi, nelle orbite non vi è che il buio del nulla. L’esperienza della medusa mostra al mortale la verità da cui l’essere umano fugge: il limite ontologico della morte. Solo la mediazione del logos può portare fuori il mortale dalla tragedia del nulla, il logos razionalizza il limite, lo ribalta in progetto e prassi pertanto lo trasforma, lo ricrea con il concetto, in tal modo le orbite della medusa non annichiliscono il mortale, ma il linguaggio con cui trascende il nulla gli consente di dare una forma al limite, di attribuire al tempo limitato il suo senso, strappandolo dall’angoscia del nulla che tutto fagocita e che trasforma in statua di sale:

«Il volto della Medusa cattura lo sguardo poiché lo isola dal tutto. Nello specchio di Dioniso il dio-fanciullo vedeva riflesso il mondo, qui, nella maschera della Gorgone, è il mortale che è chiamato all’esperienza più radicale di sé. Nello specchio del volto di Medusa l’uomo appare come mortale, facendo affiorare quell’arcaica esperienza del nulla a cui gli uomini ancora non danno i nomi dell’essere e del non essere».[3]

 

Narciso
Narciso si specchia nelle acque, scambia per corpo ciò che è acqua, ciò che è fugace. Narciso è il simbolo di un’autonomia impossibile, dell’atomizzazione che impedisce i processi di riconoscimento: ci si conosce nello sguardo dell’alterità, nella relazione concreta che ci rende gradualmente consapevoli della nostro sé rispetto all’altro e delle nostra potenzialità: senza l’intenzionalità concreta e reale ci si rinchiude in un vortice di autoreferenzialità che porta alla morte, all’alienazione perenne per cui si vive nell’inautentico, si vive la morte:

«Narciso scambia per un corpo ciò che è acqua (corpus putat esse quod unda est), non si accorge affatto dell’inconsistenza dell’oggetto del suo desiderio (spem sine corpore amat), né tantomeno che l’immagine della sua mira è una proiezione di quel corpo che, all’inizio del mito, si dichiarava interdetto a qualsiasi amante. Così il desiderio, per raggiungere il miraggio di una perfetta autonomia deve chiudersi in una “circolarità viziosa”, dove l’oggetto desiderato fa tutt’uno con il soggetto desiderante, e ciononostante viene simulato un andamento a spirale che impedisce il riconoscimento a vantaggio della peripezia infinita degli specchi». [4]

Il mito di Narciso è tra di noi, alla relazione con l’altro il sistema liberal sostituisce il desiderio immediato, per cui l’altro dev’essere l’eguale, dev’essere riportato al nostro desiderio. La categoria del medesimo di Levinas è il volto operativo della negazione dell’altro e dunque di noi stessi. Il narcisismo è il nulla che entra nel quotidiano e paralizza ogni prassi.

 

Marx e lo specchio
Le produzioni umane sono specchi, sono possibilità di decodificare il mondo in cui siamo, attraverso lo sguardo razionale che riflette e pensa, ciò che è separato è ricostruito nella sua genesi. In quello che produciamo c’è il segno del soggetto che opera, nell’azione produttiva il soggetto si scopre negato, alienato, costretto ad attività che non rispecchiano la sua essenza. Il passaggio è imprescindibile bisogna passare per le nostre produzioni per scoprire la rete relazionale che ci avvolge, i processi di disintegrazione ed alienazione mediante i quali il soggetto può ritrovare se stesso o perdersi:

«Troviamo questa metafora, alla lettera, nel testo marxiano, ove si legge “che le nostre produzioni sarebbero proprio come molti specchi [viele Spiegel], di cui la nostra essenza [Wesen] di rimando verrebbe illuminata [entgegenleuchtete]”. Qui l’essenza specchiata e rispecchiata sul piano degli oggetti mondani che non se ne stanno mai come “nature” isolate al di fuori della relazione teorico-pratica che istituisce il mondo conduce a un gioco tale la metafora da suggerire un oltrepassamento della parzialità che distingue cosa vera e immagine adeguata […]».[5]

Specchio in Marx sono le merci: ogni merce è specchio del plusvalore, il feticismo delle merci in cui l’umanità può alienarsi se non supera la divisione, la scissione, se non strappa la realtà in cui si muove alla naturalizzazione per scoprire che la realtà è posta dal soggetto, solo il soggetto consapevole può mettere in atto processi di liberazione.

 

Le gallerie dei passages
L’abbondanza delle merci si specchia nelle gallerie, le passeggiate non sono esperienza per ritrovarsi, nelle gallerie commerciali la merce si riflette ovunque, esse hanno un loro sguardo, mirano il passeggiatore lo avvinghiano con le luci degli specchi, lo avvolgono, gli tolgono il logos e la parola fino ad avere la potenza di ridurlo ad una appendice dell’abbondanza barocca delle merci, l’eccesso trabocca dalle vetrine e rompe ogni limite per dirigersi verso il passeggiatore:

«Le gallerie di specchi dei passages, che cominciano a disorientare il passante con la vertiginosa figa delle loro prospettive di cristallo e con l’incertezza barocca degli spazi delle strade cittadine, che si fanno interni, e degli interni che si aprono alla dimensione urbana, ospitano un doppio movimento per cui le cose, specchiandosi, sembrano possedere uno sguardo e gli sguardi degli occasionali spettatori di queste fantasmagoriche esposizioni di merci, posandosi sulle superfici riflettenti, vengono restituiti, nell’indifferenza, come oggetti accanto ad altri oggetti. Uomini e merci, esseri viventi e cose inanimate, messi in questo modo sullo stesso piano, vengono coinvolti in un movimento progressivo di dissoluzione ontologica che li trasforma, oltre l’intenzionalità degli sguardi, in una uniforme sequenza di sguardi».[6]

 Si arredano i locali pubblici in modo da farli apparire come superfici riflettenti; si è così avvinti nel bagliore, ogni distinzione tra esterno ed interno diviene labile in modo che il passeggiatore sia sempre all’interno di uno spazio fiabesco in cui l’essere ed il nulla, la verità e la menzogna siano indistinguibili.
Lo specchio nelle considerazioni di Benjamin, prepotentemente, ci parla dell’attualità: l’essere umano nella trappola delle merci rischia di essere egli stesso merce, di essere parte dell’indifferenziato, il regno delle merci è il luogo della quantità, l’essere umano in un mondo di soli merci diviene parte di un tutto da cui non si distingue, precipita tra le merci.

La metafora dello specchio nella sua vitalità significante ci svela il valore della cultura umanistica e la sua autonomia rispetto alla cultura tecno-scientifica, ma specialmente se si vuole vivere in un mondo umano la cultura umanistica è ambito culturale e formativo non contrattabile dei processi di umanizzazione. Il mito ci insegna a difenderci dagli specchi, dalla regressione, dal sonno del logos senza il quale si resta sul limitare dell’umanità.

 

Salvatore Bravo

[1] Andrea Tagliapietra, La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica [1991], Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 33.

[2] Ibidem, p. 131.

[3] Ibidem, p. 59.

[4] Ibidem, p. 90.

[5] Ibidem, p. 330.

[6] Ibidem, pp. 333-334.

Georg Simmel (1858-1918) – la sua analisi del denaro, della società ridotta a sterminato campo d’azione per la circolazione del denaro, del calcolo, del solo mezzo è già profetica degli stermini che verranno

Georg Simmel 01

 

La filosofia nichilistica del denaro

di Salvatore A. Bravo

 

Filosofia e pensiero radicale

Il pensiero filosofico dev’essere radicale, ovvero deve cogliere il fondamento del movimento fenomenico: solo con tale lavoro concettuale la filosofia raggiunge con lo scandaglio della filosofia la verità immanente della storia. La filosofia per sua disposizione cognitiva è amica della verità: verità eterna nella storia, e verità nella contingenza, nella congiuntura storica in cui gli esseri umani sono situati. La filosofia relativista è una contraddizione epistemologica, perché essa cerca la verità nelle sue espressioni polimorfe, nelle sue forme storiche, la insegue per un orientamento gestaltico di cui l’umanità ha sempre bisogno. La filosofia vive con gli esseri umani, è eterna come la verità. Gli esseri umani cercano la verità. L’umanità vive in tensione con la verità, dunque dove vi è filosofia, vi è umanità e verità.

 

Il mercato come religione dello spavento

L’attuale congiuntura storica caratterizzata dal capitalismo assoluto vorrebbe sostituire la verità e l’esercizio della ragione con il mercato, sostituire la ricerca della verità con la ricerca del mercato e per il mercato significa rompere gli ormeggi con la tradizione, per consegnarsi alla tempesta di un’impossibile navigazione. A tal fine il mercato dev’essere velato dal velo di Maya dell’ignoranza. Si deve essere servi, e per servire il padrone è necessario renderlo incomprensibile, ipostasi, altare su cui sacrificare il logos e la verità in nome del PIL. L’imperativo categorico del mercato impone di vivere da stranieri-migranti, da creature marginali, servi che adulano il mostro che potrebbe divorarli. Il mercato, per velarsi, si pone come religione cosmica e pagana: tempo ciclico in cui il futuro è assente, ma l’attimo ritorna eternamente nella forma della quantità come qualità sottratta, e timore reverenziale verso il dio sconosciuto che tutto può ed a cui tutto si deve. La religione dello spavento è la condizione del mercato a briglia sciolta, la deregulation è il ricatto a cui i popoli sono sottoposti.

 

Georg Simmel e la Filosofia del denaro

Georg Simmel (1858-1918) è un autore oggi quasi sconosciuto, poiché il mercato silenzia chi sa guardare oltre il velo di Maya, che fanno un passo innanzi verso la verità. Ha analizzato i processi di trasformazione messi in atto dal denaro.

La pecunia non è l’elemento neutro che il mercato rappresenta, ma pone in essere processi di trasformazione delle personalità. La filosofia è radicale, quando raggiunge la verità che spiega i processi empirici: essa è dunque meta-fenomenica. Il denaro, la verità del denaro, è lo strutturarsi di personalità affette da patologia indotta. L’uso del denaro, elemento astratto avulso da ogni contesto e limite, favorisce un senso di onnipotenza, e rende stabile solo l’asimmetria dei soggetti in lotta, poiché la ricchezza concreta ha in se stessa il limite, mentre il denaro in quanto astratto può comprare tutto ed usare se stesso per acquisire ricchezze che a loro volta sono un mezzo per altro. Col denaro si può tutto, la finanza converte ogni bene materiale in denaro, non ponendo limite all’accumulo come alla trasgressione di ogni legge. La borghesia del denaro … si diceva … – ma oggi è rimasto solo il denaro – … è rivoluzionaria, perché il denaro consente di trascendere i limiti nell’uso di ogni bene materiale, si converte nella volontà di potenza dell’astratto, cambia, così, la percezione che il soggetto ha di sé. Da essere limitato si auto-percepisce come il signore ed il padrone del creato:

«Al proprietario terriero garantisce che nessuno al di fuori di lui può raccogliere frutti dal suo campo, che egli soltanto può farlo coltivare o tenerlo a maggese, al proprietario di boschi il diritto di tagliare gli alberi e di cacciare la selvaggina. Ma se si tratta di denaro, il proprietario può acquistare grano, legna, selvaggina, ecc. Il denaro permette così il massimo potenziamento del concetto generale di proprietà: un potenziamento tale che già nella costituzione giuridica viene dissolto il carattere specifico di ogni altro possesso materiale e l’individuo che possiede denaro viene posto davanti ad un’infinità di oggetti, il cui godimento gli è parimenti garantito dall’ordine pubblico: il denaro dunque non pone confini alla propria utilizzazione e al proprio sfruttamento, come avviene invece nel caso di oggetti specificamente determinati. Per il possesso di denaro non vale in modo assoluto ciò che è stato detto degli Stati: che essi possono venir mantenuti soltanto con gli stessi mezzi con cui sono stati fondati. Questo vale invece per moltissime altre proprietà, soprattutto per quelle spirituali, ma anche per il possesso di numerose cose diverse ottenuto con il denaro, possesso che può essere mantenuto esclusivamente se rimane vivo il medesimo interesse che ha portato alla loro acquisizione. La completa indipendenza del denaro dalla sua genesi, il suo carattere eminentemente astorico, si rispecchia nell’assoluta indeterminatezza del suo impiego».[1]

 

Denaro e pensiero magico

Il denaro è indipendente da ogni misura, trasforma ogni limite materiale in una possibilità trascesa, si rafforza il senso di onnipotenza dell’io, fino ad indurlo a vivere in uno stato magico, per cui ritiene che ogni desiderio, in presenza del denaro, sia possibile: chi lo utilizza, entra nel regno della superstizione magica. L’illimitatezza è il mito del denaro. La rincorsa verso il mercato, la sudditanza religiosa verso di esso trae la sua ragion d’essere tra le pieghe della razionalità della finanza, tra le piaghe di cui è portatrice vi è il sogno dell’onnipotenza che coincide con il sonno della ragione:

«Nel complesso la volontà si adatta a tal punto alle nostre condizioni di vita da non pretendere dalle cose ciò che non possono dare, per cui la limitazione della nostra libertà dovuta alle leggi proprie del possesso non raggiunge una percezione positiva. Si potrebbe tuttavia costruire una scala di oggetti in base alla misura in cui la volontà può impadronirsi di essi, chiedendoci a partire da quale punto essi le divengono impenetrabili e in quale misura dunque possono veramente essere “posseduti”. Il denaro rappresenterebbe il gradino estremo di tale scala. In esso quel lato inattingibile, che gli oggetti riservano per così dire a se stessi e che non si piega nemmeno al possesso senza limiti, è completamente sparito. Manca completamente al denaro quella struttura propria in base alla quale gli altri oggetti, qualificati in modo determinato, si negano alla nostra volontà anche se li possediamo in senso giuridico. Obbedisce facilmente e indifferentemente a qualsiasi forma e a qualsiasi fine che la volontà voglia imprimergli; solo le cose che gli stanno dietro possono erigere degli ostacoli; in sé stesso il denaro si piega ad ogni direttiva, sempre indifferente a qualunque oggetto, a qualunque misura di distribuzione, a qualsiasi tempo del dare e del conservare. Esso concede così all’Io il modo più deciso e più completo di dispiegarsi in un oggetto, almeno nei limiti fissati dal fatto che è privo di caratteri qualitativi. Si tratta tuttavia di limiti puramente negativi, che non traggono origine, come per tutti gli altri oggetti, dalla sua natura positiva». [2]

 

Denaro e distanza

Simmel elabora «la psicologia del denaro»: il denaro non solo favorisce un astratto ed impossibile delirio di onnipotenza del denaro, ma specialmente diseduca alla vicinanza. L’uomo di borsa, il capitalista come l’aspirante alla scalata finanziaria imparano attraverso il denaro a mettere distanza tra sé ed il mondo, tra sé e gli effetti delle azioni finanziarie. La genealogia dell’indifferenza si fa spazio in modo spontaneo, giorno dopo giorno le relazioni mediate unicamente dal denaro costruiscono barriere emotive e razionali, fanno apparire come normali relazioni finalizzate all’interesse personale. L’essere umano diventa così “il legno storto” della definizione di Kant. La filosofia scongela con la razionalità le ipostasi per consentire altre visuali, introduce i processi genetici dove regnava l’ingenuità dell’astratto:

«Se analizziamo il ruolo del denaro in questo processo di differenziazione, ci colpisce in primo luogo il fatto che quest’ultimo si colleghi alla distanza spaziale tra il soggetto e la sua proprietà. L’azionista, che non ha assolutamente niente a che fare con la direzione degli affari della società, il creditore dello stato che non ha mai messo piede nel paese che è in debito con lui, il grande proprietario terriero che ha dato in affitto le sue terre, cedono la loro proprietà ad un’impresa puramente tecnica, di cui raccolgono i frutti, ma con la quale in sé e per sé non hanno assolutamente niente a che fare. Ciò è possibile esclusivamente mediante il denaro. Solo quando il guadagno dell’impresa assume una forma di assoluta trasferibilità, esso consente ad entrambi, con il distanziarsi della proprietà dal proprietario, quell’alta misura di indipendenza e, per così dire, di movimento proprio. Alla prima fornisce la possibilità di venir amministrata esclusivamente in base ad esigenze interne all’attività stessa, al secondo quella di dirigere la propria vita senza tener conto delle esigenze specifiche della proprietà. L’effetto a distanza del denaro permette alla proprietà e al proprietario di separarsi a un punto tale che ognuno può seguire le proprie leggi in maniera completamente diversa rispetto a quando la proprietà si trovava in rapporto di interazione immediata con la persona, ogni impegno economico era contemporaneamente un impegno personale, ogni mutamento nelle direttive o nella posizione personale significava contemporaneamente un mutamento negli interessi economici».[3]

 

Il grande livellatore

Il denaro è il grande livellatore, come la morte, riduce ogni qualità a quantità secondo le regole del mercato. Il denaro desacralizza, svuota il mondo, la natura, gli esseri umani di ogni fine metafisico. La perversione metafisica del denaro è nel trasformare ogni fine in mezzo, fino ad eguagliare il mezzo ed il fine in nome dell’interesse privato. Secoli di metafisica sono così abbattuti nel segno del denaro omologante. Per poter livellare, il denaro deve sottrarre al mondo ogni limite ed etica. Assiologia e finanza sono evidentemente incompatibili. La misura e la metafisica pongono limiti, il denaro per poter vivere il sogno dell’impossibile delirio di onnipotenza deve rompere ogni limite etico, deve desacralizzare, ridurre la qualità a quantità quando è possibile, oppure mettere in campo la dissacrazione del limite e di ciò che si oppone al dominio della quantità. Libertà è la parola che maggiormente è usata contro gli oppositori del livellamento, il denaro è rappresentato in relazione biunivoca con la libertà: l’una è possibile in presenza dell’altra, per cui più denaro significa più libertà. In questa vi è una sottintesa verità: la libertà di alcuni nel sistema denaro è la morte di altri, ma la verità difficilmente si coniuga con il denaro:

 

«Il livellamento degli oggetti da parte del denaro riduce l’interesse soggettivo per il loro rango particolare e per la loro qualità ed ha l’ulteriore conseguenza di peggiorare anche questa; la produzione di merci di scarto a buon mercato è, per così dire, la vendetta degli oggetti per il fatto di essere stati rimossi dal punto focale dell’interesse per opera di un puro mezzo indifferente. Da tutto questo risulta in modo sufficientemente chiaro quanto sia radicale il contrasto tra l’essenza del denaro, con le sue conseguenze, e i valori della distinzione che ho tratteggiato nelle pagine precedenti. L’essenza del denaro distrugge nel modo più radicale quel fondarsi su sé stessa che caratterizza la personalità distinta e che investe determinati oggetti e la loro valutazione; impone alle cose un’unità di misura esterna ad esse (ed è proprio questo che la distinzione rifiuta); ponendo le cose in una serie in cui valgono soltanto le differenze quantitative, il denaro le deruba sia della differenza e distanza assoluta tra l’una e l’altra, sia del diritto di respingere ogni rapporto, ogni qualificazione comparativa, per quanto offensiva, con le altre. Toglie loro quindi entrambe le determinazioni dalla cui combinazione nasce l’ideale vero e proprio della distinzione. Il potenziamento dei valori personali, che caratterizza questo ideale, viene dunque eliminato persino nella sua proiezione nelle cose nella misura in cui dominano gli effetti del denaro, che rende «comuni» le cose in ogni senso della parola e le pone così, anche in termini di linguaggio, in assoluto contrasto con la distinzione». [4]

 

Simmel muore nel 1918, e la sua analisi del denaro, della società ridotta ad uno sterminato campo d’azione per la circolazione del denaro, del calcolo, del solo mezzo è già profetica degli stermini, i quali rivelano la verità di Simmel. Un mondo senza metafisica, regno del solo mezzo, prepara la fine della libertà che il denaro aveva promesso.

 

Salvatore Bravo

[1] G. Simmel, La filosofia del denaro, Utet, Novara 2013, pag. 435.

[2] Ibidem, pp. 455-456.

[3] Ibidem, pag. 466.

[4] Ibidem, pag. 548.



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