Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.

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Dai muri della città dove abito, i manifesti pubblicitari di una delle maggiori catene della grande distribuzione (che si richiama, peraltro, a valori solidaristici) ammoniscono i passanti che «Siamo quello che scegliamo». A chiarimento della scelta in questione, campeggiano i primi piani di persone di diversa età che covano con sguardo fra l’affettuoso e l’orgoglioso chi un vasetto di marmellata (naturalmente biologica), chi uno spazzolino da denti, chi una confezione di caffé macinato. Così, la straordinaria stratificazione architettonica, paesaggistica, storica e culturale di questa piccola e bellissima città si appiattisce improvvisamente nel piano liscio dove a scorrere sono solo le merci, prodigiosamente inesauribili, tutte diverse nella loro sollecitazione alla scelta, tutte interscambiabili nell’indistinto della bulimia dei consumi. Questo piano liscio nutre una nuova antropologia, in cui l’uomo è dato dalla sua relazione con le merci e la libertà – quella libertà senza la quale l’esistenza perde senso e valore – diventa libertà di scegliere il prodotto più confacente alle proprie esigenze.

Salvatore A. Bravo

L’albero filosofico del Ténéré.

Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve

Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt)
al fondamento veritativo in Costanzo Preve

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L’uomo – questo essere su cui la natura e la storia hanno inciso segni tanto profondi quanto quelli che da lui hanno ricevuto – si risolve in un consumatore, responsabile e soddisfatto della nuova leggerezza acquisita: il necessario fardello del suo rapporto con se stesso e con il mondo ha ridotto le sue dimensioni a quelle di un carrello del supermercato.

La centralità della merce è religione che non ammette devoti tiepidi: avendo da tempo travalicato gli argini della sfera economica, ha finito per modellare comportamenti sociali e condotte individuali, per riorientare la percezione che si ha di sè e del mondo, per plasmare menti e corpi, pensieri e sentimenti.

La campagna pubblicitaria sopracitata è un caso da manuale di quelle «identità costruite dal e per il marketing», destinate a naufragare «nei desideri del mercato», che si aggirano nel deserto su cui si appunta lo sguardo lucido di Salvatore A. Bravo nel suo ultimo libro, pubblicato da Petite Plaisance, L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (in Nietzche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve. La traversata del deserto è impresa ambiziosa, urgente e rischiosa e richiede il coraggio intellettuale di un riorientamento radicale, capace di guardare negli occhi il nichilismo penetrato nella profondità del corpo sociale e di tagliare il nodo gordiano di appartenenze ideologiche che, incapaci di prendere atto delle nuove realtà storiche e di mettere in discussione schemi interpretativi e filosofici accettati fideisticamente, finiscono per legittimare e rafforzare il nichilismo dominante, con il quale condividono l’economicismo di fondo.

Per potere tentare la traversata, occorre innanzitutto sapere riconoscere l’aridità e la piattezza del deserto sotto le linee frastagliate e seducenti del paesaggio nel quale siamo immersi, occorre lacerare il velo delle illusioni – la promessa della felicità nella soddisfazione illimitata dei desideri e nella disponibilità di beni sempre nuovi – che coprono le sabbie mobili del ciclo produzione-consumo, assurto ad orizzonte esclusivo dell’esistenza. Occorre strappare l’esistenza dal hic et nunc di un presente senza storia, da cui l’universo delle merci trae motivo di legittimità, proclamando la propria naturalità e la propria intrascendibilità. Si disegna, così, una situazione paradossale che vede da un lato l’individuo sollecitato dall’ampio ventaglio della scelta e dall’altro, ridotto ad uno stato di impotenza sociale e di asservimento non dichiarato, in quanto la cornice entro la quale si muove vanta la pretesa totalizzante di essere la sola possibile.

Onnipotenza astratta e concreta impotenza, secondo la felice espressione di Lukàcs, sono le pareti della gabbia d’acciaio che delimita il perimetro entro il quale il soggetto può muoversi. Ecco allora imporsi la legge del nulla, all’insegna di una omologazione dove la speranza – tensione verso il possibile – piange disfatta e l’angoscia regna, come nel celebre sonetto di Baudelaire.[1] Il processo di naturalizzazione è andato così avanti, che è presumibile che la speranza non riconosca nemmeno la propria sconfitta, in quanto è scomparsa dall’orizzonte e, nel migliore dei casi, ride sguaiatamente, compiacendosi con spavalderia fintamente trasgressiva nel e del nulla.

L’immagine del deserto come metafora del nichilismo è stata coltivata da filosofi di grande notorietà – e con seguito accademico – come Nietzche e la Arendt che hanno lucidamente individuato una serie di dispositivi – termine che rinvia ad una presunta neutralità della tecnica – che hanno schiavizzato gli uomini, annullato l’individuo come lusso inutile, a vantaggio della massificazione burocratica ed economica, finendo per aprire la strada ad una nuova umanità privata della corrente calda della vita. Essi hanno denunciato efficacemente la desertificazione del pensiero, minacciato da macchinismo e totalitarismo e invocato la necessità dell’oasi. La Arendt la cerca in quegli ambiti della vita che esistono, in parte o in tutto, indipendentemente dalle condizioni politiche: l’isolamento dell’artista, la solitudine del filosofo, le relazioni affettive. La loro analisi, pur capace di cogliere aspetti importanti dell’alienazione che minaccia la condizione umana, resta interna al nichilismo, perché – osserva Salvatore Bravo – rinuncia al «fondamento veritativo della Filosofia».[2]

Né è superfluo ricordare, a tal proposito, che Nietzche teorizza l’esperienza elitaria del nichilismo attivo. L’oasi della Arendt assume nel testo di Salvatore A. Bravo la forma dell’Albero del Ténéré, un’acacia che, unica pianta per centinaia di chilometri tutt’intorno, in questa regione desertica del Sahara, a nordovest del Niger, costituiva per le carovane di cammelli il punto di riferimento obbligato. Guida per orientarsi e simbolo di vita – quasi miracolosa nella sua unicità – nella gran distesa uniforme di sabbia, l’Albero del Ténéré consentiva quella pausa necessaria per riprendere respiro e raccogliersi prima di continuare il cammino. Il sollievo momentaneo dell’oasi, infatti, non basta a Salvatore Bravo: è alla traversata, all’esodo dal deserto che egli ci invita. Impresa pericolosa, si diceva, tale da richiedere bussola e sguardo lungo e consapevolezza della fatica che attende il viaggiatore.

La bussola è offerta dal discorso filosofico di Costanzo Preve, uno dei pochi filosofi contemporanei che abbia avuto il coraggio di rilegittimare il valore veritativo della Filosofia e di rifiutarne la riduzione a semplice dossografia, elenco di opinioni e dottrine. Ha pagato questa scelta controcorrente con l’esclusione dai salotti buoni della filosofia, per i quali la ricerca del fondamento veritativo o è eluso, o si ritrova addirittura ad essere derubricato alla voce “totalitarismo”. E invece, l’approccio filosofico di Preve risponde proprio alla necessità di indagare la natura dei totalitarismi che l’opera di Arendt e Nietzche occultano più che rendere palese, afferrandone le manifestazioni epidermiche più che l’intima natura. La rimozione degli aspetti totalitari presenti massicciamente nel modo di produzione capitalistico rende innocua la loro critica che, non poggiando su un rigoroso fondamento, non può nemmeno offrire gli strumenti per osare la traversata.
Costanzo Preve – e Salvatore Bravo che, con la sua riflessione filosofica, intende continuare il percorso da lui aperto – fa dell’intrinseco rapporto fra capitalismo e nichilismo la chiave di lettura del fenomeno. La quantificazione della vita, la quale ha subíto una decisa accelerazione nella globalizzazione liberista che ha sancito l’affermarsi del capitalismo assoluto – sciolto da qualsiasi limite –, ha ridotto i vissuti a cose e spezzato i vincoli comunitari, fino a fare di ogni individuo un atomo Robinson ritirato dal mondo e ripiegato su se stesso e dell’alienazione la normalità. Se il deserto è rinuncia al pensiero, riduzione dell’umanità al dato biologico e alla corsa verso l’accumulazione di beni, spetta alla Filosofia il compito di restituire il soggetto alla storia e alla propria umanità. Un compito arduo che la Filosofia può assolvere, solamente ponendosi come «scienza del fondamento, portatrice di verità condivise attraverso il dialogo».[3]

Solo il fondamento può ricondurre il molteplice all’unità, superare le scissioni per ritrovare la totalità, ristabilire gerarchie di valore e suscitare un giudizio responsabile: si crea così il presupposto per potere comprendere il nostro presente. Nel disordine e nell’omologazione si installano nichilismo e relativismo, il deserto si estende, le piste che conducono verso l’uscita vengono cancellate dai mulinelli di sabbia e le carovane sono sviate da rutilanti miraggi che mostrano un’oasi dove c’è solo un’altra duna, uguale alle precedenti. I punti di riferimento da rielaborare per definire tale fondamento, ovvero la verità oggettiva dell’essere umano mediata dall’esperienza storica, sono rappresentati per Preve dal mondo greco, da Marx, Hegel e Sorel. Nel dialogo creativo con questi autori, prende forma la connotazione della natura umana come razionale-comunitaria e generica. È razionale e valutativa, perché capace di determinare le giuste proporzioni per salvaguardare se stessa e la comunità; è generica, perché aperta sulla possibilità di determinare storicamente la propria natura. Può, dunque, perdersi nell’alienazione, qualora non riesca ad opporsi alle pressioni ed ai condizionamenti del potere, così come può affermare le proprie potenzialità. Perché ciò avvenga, è necessario un intreccio con la comunità, con la parola comunitaria. In questa individuazione della natura umana intervengono tre concetti fondamentali, strettamente legati: logos, limite, misura.
Costanzo Preve recupera il significato originario della parola logos come calcolo del limite, di ciò che è necessario, contro la dispersione e l’estraniazione causate dall’eccesso, dalla crematistica (dal greco chrèmata, ricchezze) che indeboliscono il soggetto. La coscienza deve, con il logos, calcolare il limite, calcolo reso necessario dalla natura limitata dell’essere umano, destinato a morire e bisognoso di una comunità per sopravvivere.
La parola métron (misura) non ha in Preve la connotazione datale poi dalla rivoluzione scientifica, ma, piuttosto, una declinazione sociale, è equilibrio dell’assetto sociale , calcolato dal logos. Non sfugga la portata di un approccio teoretico impostato sulla centralità della natura umana per la costruzione di una fondata e coerente prassi anticapitalistica. I nuovi riduzionismi, che nelle neuroscienze trovano un modello trionfante, apportatore di utili suggerimenti utilizzabili anche dal marketing, rappresentano l’uomo come un essere plasticamente determinabile, riconducibile ad un meccanismo stimolo-risposta, alimentando l’idea che la natura umana sia infinitamente manipolabile.


La possibilità, categoria di primaria importanza nella caratterizzazione data da Preve, si trova ad essere esclusa e, con essa, qualsiasi alterità rispetto al sistema dei rapporti sociali dominanti. Né è da trascurare, a giudizio dello scrivente, l’impatto devastante che prossimamente potrebbe avere un’ideologia come il transumanesimo che fa del superamento degli stessi limiti biologici dell’essere umano, “potenziato” dalle macchine con cui entra in simbiosi fisica, la propria cifra, ultimo approdo di una hybris i cui tratti distintivi di negazione del limite e di infinita flesibilità e adattabilità dell’essere umano, nell’ottica dell’efficienza e della performatività, rispondono appieno al cattivo infinito sotteso alla logica del capitale, per il quale l’uomo deve essere tabula rasa su cui scrivere in assoluta libertà, realtà sensoriale da soddisfare, innanzitutto attraverso il baratto. Il capitalismo ha vinto – per ora – la partita, puntando tutto sulla quantità infinitamente in espansione, sull’illimitato di desideri potenzialmente inesauribili da soddisfare, ma ha eluso e mortificato la domanda di senso che è costitutiva dell’uomo.
La ricerca di Costanzo Preve ha avuto il grande merito di porre al centro della riflessione filosofica questa domanda e di fornire gli strumenti teoretici per risposte non semplici e non subordinate al paradigma dominante, all’altezza della sfida posta dalla condizione umana nell’epoca del capitalismo assoluto. L’esodo dal deserto ha bisogno di durevole passione filosofica, di caparbia intelligenza critica, capaci di squarciare il velo delle illusioni e di pensare un «cambio di prospettiva». Un cambio di prospettiva che si intreccia strettamente con il concetto di “comunità”, articolazione fondamentale nel pensiero di Preve e al quale l’autore del saggio dedica pagine illuminanti. Da Aristotele, come già si è detto, Preve mutua il concetto di “essere umano” come “zoon logon echon”, animale razionale. Il logos (di cui logon è l’accusativo) è nodo di straordinaria densità concettuale: rinvia sia al «linguaggio come strumento di convincimento razionale comunitario», sia alla «ragione universalmente diffusa in tutti gli uomini», sia «al calcolo geometrico applicato alla giusta distribuzione del potere e delle ricchezze»,[4] unico argine al dilagare della prepotenza del singolo e del caos. La democrazia comunitaria, in cui il dialogo (dia-logos) garantisce la comunicazione e vigila sul mantenimento del limite, consente agli esseri umani di ritrovare la loro natura e di porla a sostanza della comunità stessa.[5]

È a partire da questo ideale regolativo che Preve ripensa il comunismo: la comunità vive nel trascendimento delle divisioni sociali, ma anche per evitare il tragico fallimento del comunismo novecentesco realizzato (cui il filosofo riconosce, comunque, numerosi meriti nella lotta all’imperialismo e nell’impulso dato ai diritti sociali) deve mantenere la tensione tra individuo e comunità, e sottrarsi alla tentazione della fusione i cui esiti non possono che essere distopici. Salvatore Bravo sottolinea come il comunitarismo previano recuperi la radicalità della libertà nel pensiero di Marx, in cui la Storia diventa l’incontro tra le scelte degli uomini e le circostanze storiche. Lo sguardo lucido e privo di compiacimento che Preve getta sulle esperienze rivoluzionarie del Novecento, viziate dall’economicismo e sfociate in dominio burocratico che ha costretto gli uomini nella stessa passività e solitudine del capitalismo,[6] non inficia la grandezza e la necessità – oggi più che mai – di una lotta per una comunità senza oppressione, condizione sine qua non perché fioriscano le potenzialità di ciascuno. Dunque, il pensiero di Preve orienta verso l’esodo dal deserto, rimettendo in azione il motore della storia di cui molti avevano decretato il funerale, a tutto vantaggio di un intrascendibile presente, e lo fa radicandosi in una lunga tradizione filosofica che egli rilegge liberamente, all’insegna della pratica comunitaria della filosofia inaugurata da Socrate.
La Filosofia è, infatti, dialogo, è logos che diventa comunitario. Il saggio di Salvatore Bravo evidenzia come l’esperienza culturale, nonché la vita di Preve, siano la dimostrazione che l’incontro tra l’io e il noi costituisce la condizione imprescindibile per l’esistenza stessa della Filosofia, e di una filosofia che, attraverso la catena dei perché, divenga atto emancipativo dalla falsa coscienza, dall’ideologia che piega le coscienze all’ obbedienza e all’adattamento. Essa fonda l’universalismo umanistico, dimostrando il fondamento ontologico comune dell’umanità e, a partire da esso, fonda la resistenza ai processi di alienazione e la possibilità di una prassi coerente con il contesto storico. Il testo di Bravo è una sorta di commento “esemplare” – costruito con passione dialogante e rigore argomentativo – della concezione dello studioso di filosofia antica Pierre Hadot, secondo la quale si tratta di dimostrare «che il discorso filosofico fa parte del modo di vivere» e «che la scelta di vita del filosofo ne determina il discorso».[7]

È, questo, un libro non per “esperti” della disciplina filosofica, (che, comunque, vi troverebbero non pochi fondamentali elementi di riflessione e confronto) ma, innanzitutto, per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo, laddove tutte le posizioni sembrano occupate dai poteri forti dell’economia e dalle costellazioni ideologiche che intorno ad essi ruotano.

Fernanda Mazzoli

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Note

[1] Charles Baudelaire, Les fleurs du mal, Spleen.

«Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle
Sur l'esprit gémissant en proie aux longs ennuis,
Et que de l'horizon embrassant tout le cercle
Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits;
Quand la terre est changée en un cachot humide,
Où l'Espérance, comme une chauve-souris,
S'en va battant les murs de son aile timide
Et se cognant la tête à des plafonds pourris;
Quand la pluie étalant ses immenses traînées
D'une vaste prison imite les barreaux,
Et qu'un peuple muet d'infâmes araignées
Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,
Des cloches tout à coup sautent avec furie
Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,
Ainsi que des esprits errants et sans patrie
Qui se mettent à geindre opiniâtrément.

- Et de longs corbillards, sans tambours ni musique,
Défilent lentement dans mon âme; l'Espoir,
Vaincu, pleure, et l'Angoisse atroce, despotique,
Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir».




«Quando, come un coperchio, il cielo basso e greve
schiaccia l'anima che geme nel suo tedio infinito,
e in un unico cerchio stringendo l'orizzonte
fa del giorno una tristezza più nera della notte;

quando la terra si muta in umida cella segreta
dove, timido pipistrello, la Speranza
sbatte le ali contro i muri e batte con la testa
nel soffitto marcito;

quando le strisce immense della pioggia
sembrano le inferriate d'una vasta prigione
e muto, ripugnante un popolo di ragni
dentro i nostri cervelli dispone le sue reti,

furiose a un tratto esplodono campane
e un urlo tremendo lanciano verso il cielo,
così simile al gemere ostinato
di anime senza pace, né dimora.


- Senza tamburi, senza musica, sfilano funerali
a lungo, lentamente, nel mio cuore: la Speranza,
Vinta, piange, e l'Angoscia atroce, dispotica,
pianta, nel mio cranio riverso, il suo vessillo nero».

[2] S. Bravo, op. cit., p. 14.

[3] Ivi, p. 123.

[4] Ivi, pp. 114-115.

[5] Si pone in antitesi, pertanto, alla democrazia formale, le cui procedure sono finalizzate alla riproduzione del potere. Il rito di una democrazia non autentica si consuma stancamente, si rivela essere un’ «atomistica delle solitudini», espressione, fra le altre, di disgregazione nichilistica.

[6] Preve rifiuta categoricamente la lettura liberale del comunismo novecentesco come semplice totalitarismo.

[7] Per la citazione completa di P. Hadot, cfr. Ivi, p. 106.

 


Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.

Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli

Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.

Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.

Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.

Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.

Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».

Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.

Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.

Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.



Italo Calvino (1923-1985) – Questo è il significato vero della lotta: Una spinta di riscatto umano da tutte le nostre umiliazioni. Questo il nostro lavoro politico: utilizzare anche la nostra miseria umana per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.

Italo Calvino_Nidi di ragno

«C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra.
Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo … tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi.
L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio […].
Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali.
Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione.
Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo».


Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 1964 [la prima edizione è del 1947].


Italo Calvino (1923-1985) – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme.
Italo Calvino (1923-1985) – La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso.
Italo Calvino (1923-1985) – Cavalcanti si libera d’un salto “sì come colui che leggerissimo era”. L’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostra che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi appartiene al regno della morte.
Italo Calvino (1923-1985) – Leggere significa affrontare qualcosa che sta proprio cominciando a esistere.
Italo Calvino (1923-1985) – … il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento …


Max Picard (1888-1965) – Il silenzio emerge dal frastuono del mondo attuale perché sta al di fuori della dimensione dell’utile. La parola non avrebbe profondità, se le mancasse lo sfondo del silenzio. La parola sorge dal silenzio.

Max Picard 01

Max Picard, nato in Germania da genitori ebrei svizzeri, studiò medicina. Vicino al cristianesimo anche se rimase fedele all’origine ebraica. Abbandonò ben presto la pratica medica per dedicarsi interamente al pensiero filosofico. Tra i suoi libri più importanti, e tradotti in tutte le lingue europee e anche in giapponese, coreano e cinese, L’ultimo uomo (1921), La fuga davanti a Dio (1934), Hitler in noi stessi (1946), Il mondo del silenzio (1948), L’ultimo volto. Maschere mortuarie da Shakespeare a Nietzsche (1959).

Giorgio Kienerk, Il silenzio,1900.

Le grandi parole giungono nel delicato frullio quasi impercettibile di un’ala di colomba aveva già affermato Nietzsche. Max Picard (Schopfheim, 5 giugno 1888 – Sorengo, 3 ottobre 1965) è uno degli eroi gentili della filosofia, dimenticato da molti. Ma le sue parole, la sua vita attraversano lo spazio ed il tempo della tecnocrazia per parlarci ancora, se si intenziona l’udito per accogliere parole metafisiche, parole per la trascendenza. Il capitalismo assoluto impone capillarmente parole finalizzate esclusivamente al bisogno ed all’utile, ma le parole possono essere l’immagine profonda dell’essere umano, se muovono al desiderio della totalità, se mostrano che il bisogno ha legittimità ad esserci solo in tensione con la parola metafisica. Max Picard ha vissuto l’esperienza del silenzio profondo, della creazione metafisica con coerenza. La filosofia è prassi, comportamento consapevole e teleologico, altrimenti si è solo facitori di parole. Max Picard, laureato in medicina e medico di valore, dinanzi al cartesianesimo della medicina, al rifiuto di ogni approccio sistemico, ha rinunciato alla professione medica per vivere nel Ticino. Cercava luoghi dove il silenzio fosse ancora possibile per vivere la sua umanità. Il silenzio non divide, ma unisce alla comunità, alla natura, a Dio.

Lo scandalo del silenzio

Il silenzio è scandalo per il capitalismo assoluto, perché dove il silenzio prende dimora, appare l’essere umano. Nel silenzio della parola tacciono le parole dell’utile, della televendita perenne, dell’onnipresenza dell’immagine allo scopo di muovere i bisogni per necrotizzare il desiderio metafisico dell’altro e di sé.

Il silenzio è scandalo, perché non si può vendere. Il silenzio favorisce l’unità, palesa la menzogna quotidiana del frastuono delle merci che tutto silenziano con la violenza dell’astratto che annichilisce la vita:

«Il silenzio è oggi l’unico fenomeno “senza utile”. Esso non conviene al mondo di oggi che è mondo dell’utile, non ha nulla di comune con questo mondo, sembra privo di qualsiasi scopo, non si presta allo sfruttamento. Il mondo dell’utile si è annessi tutti gli altri grandi fenomeni. Persino lo spazio fra cielo e terra è ridotto oggi a un pozzo luminoso che serve solo a far volare gli aeroplani. L’acqua e il fuoco, gli elementi, sono assorbiti dal mondo dell’utile e considerati solo in quanto prendono parte alla vita di questo mondo, perduta ormai ogni esistenza indipendente da esso. Invece il silenzio sta al di fuori del mondo dell’utile, non è possibile “farsene” nulla, dal silenzio non si ricava nulla nel vero senso della parola; il silenzio è improduttivo e quindi privo di qualsiasi valore».[1]

Frastuono e parola

Il silenzio è proprio dell’umano. La parola necessita del silenzio perché crei ed autocrei se stessa. Malgrado la pervasività del chiasso, il silenzio resta sul fondo della natura umana come la sua possibilità più propria. Il furore del mondo, con i suoi ritmi poietici, non può azzerare la forza della parola parola, che indica la non verità del rumore dell’utile, le sue dissonanze, la sua aggressività ideologica. Il bisogno necessita del gesto, del meccanicismo, il cui fine è assicurare la sopravvivenza. In tal senso l’essere umano è simile agli altri animali non umani. Ma la parola non ha la sua genealogia nel gesto, nella biologia, perché è creatività, impalpabile presenza tesa verso la totalità:

«Il silenzio emerge dal frastuono del mondo attuale come alcunché di remoto. Non però come una cosa morta, bensì come un giacente ma vivo animale preistorico. Si scorge tuttora il dorso possente del silenzio, ma l’intero corpo affonda sempre più in mezzo alla sterpaglia degli odierni clamori e come se quell’animale di altri tempi affondasse lentamente nel limo del proprio silenzio. Eppure tutto il frastuono di oggi sembra solo un mormorio di insetti ronzanti intorno all’immane dorso di quell’animale preistorico, il silenzio».[2]

Gesto e parola

La parola non è mera attività fonetica, la sua genesi non è meccanicamente legata agli apparati fonatori. La parola ha come radice il silenzio. L’essere umano è un albero le cui radici sono nel metafisico: l’immagine metafora di Platone nel Timeo rende la verità della parola. Essa si genera in modo libero per entrare nella contingenza della storia. L’utile teme la parola. La riduzione della libera parola in spazi sempre più ristretti rivela la verità del capitalismo assoluto: la libertà, la parola che genera mondi in una ascesi erotica verso un universale irraggiungibile svela la verità dell’essere umano. L’umanità non è semplicemente un legno storto, secondo la definizione di Kant, o un lupo, secondo la metafora di Hobbes. L’essere umano è sempre oltre i semplicismi ideologici che imprigionano la parola in angusti recinti interiori, mentre lo lasciano “libero” di perdersi negli spazi della globalizzazione:

«Il silenzio può stare senza la parola, ma la parola non può stare senza il silenzio. La parola non avrebbe profondità, se le mancasse lo sfondo del silenzio. Tuttavia il silenzio non è superiore alla parola, ma anzi il silenzio in sé e per sé, il mondo del silenzio senza la parola, è solo qualche cosa di precedente alla creazione, è creazione non ancora compiuta, creazione imminente. Proprio perché la parola sorge dal silenzio, il silenzio passa dallo stato di pre-creazione a quello di creazione, dal non storico allo storico umano, e in prossimità della parola diventa parte dell’uomo e parte integrante e indispensabile della parola. Ma la parola è superiore al silenzio anzitutto perché solo in essa la verità si fa immagine. L’uomo diventa tale per mezzo della parola».[3]

La catabasi del silenzio

Villa Litta, Allegoria del silenzio.

Il frastuono divide. La parola, nella forma della riduzione dell’altro a strumento per i propri bisogni, non è parola, ma estroflessione dei bisogni. Di conseguenza non può esserci, in questa circostanza/contingenza, che l’atomismo sociale: solitudini speculari che raccontano la stessa storia. La parola, il logos, che si prepara nel silenzio, in una dimensione distante dal fenomeno, è già comunità, perché nel silenzio-parola gli esseri umani ritrovano il volto dell’altro ed il proprio.

L’alienazione è il rumore che distrae da sé e dagli altri per vivere mille vite al giorno nell’ottica dell’utile senza toccare, mai, neanche per un attimo se stessi e gli altri. Nel silenzio il soggetto umano si scopre parte di una totalità storica, contingente eppure metafisica. La catabasi (κατάβασις “discesa”, da κατα- “giù” e βαίνω “andare”), la responsabilità politica, non può che iniziare con l’anabasi (ἀνάβασις, der. di ἀναβαίνω «salire») del silenzio:

«Dove arriva il silenzio, l’individuo non avverte nessuna opposizione fra sé e la comunità, poiché individuo e comunità non sono reciprocamente opposti, ma entrambi opposti al silenzio, e quindi la differenza fra individuo e comunità vien meno di fronte al potere del silenzio. Oggi di fronte al silenzio non sta più l’individuo, né la comunità ma un frastuono generale, e individuo è solo colui che non ha più il frastuono, il frastuono comune, ma non ha nemmeno il silenzio. È isolato dal rumore e isolato dal silenzio, è un derelitto».[4]

Affinché ci sia rivoluzione necessitiamo di riascoltare il silenzio, per discernere il bene dal male, il senso dal non senso. Il silenzio rivela che l’essere umano è abitato dalla trascendenza nella sua pluralità di forme.

Salvatore A. Bravo



[1] Max PIcard, Il mondo del silenzio, Edizioni Comunità, 1951, p. 10.

,[2] Ibidem, p. 16.

[3] Ibidem, p. 23.

[4] Ibidem, pp. 73-74.

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Roberto Fineschi – Rileggere Marx con le lenti della filologia.

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Rileggere Marx con le lenti della filologia

di Roberto Fineschi

È uscita la nuova edizione italiana del I libro del Capitale per le Opere Complete di Marx ed Engels. Il curatore, Roberto Fineschi, ci spiega perché era necessario mettere mano a questa opera di rinnovamento editoriale (sinistrainrete, 24-3-2013)

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1. La nuova edizione del I libro del Capitale da me curata per le Opere Complete di Marx ed Engels (vol. XXXI, Napoli, La città del sole, 1600 pagine) è il tentativo di presentare al lettore italiano lo stato dell’arte dopo le significative novità emerse nel corso della pubblicazione della nuova edizione storico-critica, la seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA2), monumentale progetto in 114 volumi in corso di realizzazione da quasi quarant’anni e lungi dal completamento[1].
La circolazione delle opere di Marx è stata scarsa negli ultimi decenni; recentemente si è assistito alla ripresa di alcune pubblicazioni, fatto da salutare positivamente. Tuttavia, nella quasi totalità dei casi si sono semplicemente riproposti i vecchi testi, oppure li si è ripresentati sulla base delle edizioni tradizionali. La grande novità della MEGA consiste invece, sostanzialmente, nell’aver mostrato come molte delle opere più significative di Marx fossero in realtà una cosa diversa rispetto a quelle storicamente lette. A cambiare sono quindi non tanto, o non solo, le interpretazioni di Marx o Engels, ma la stessa base testuale su cui tali interpretazioni si sono sviluppate o possono svilupparsi. La nuova edizione del primo libro del Capitale muove, prima nel mondo occidentale, da questa premessa.
È noto che Marx non ha pubblicato personalmente il secondo ed il terzo volume; fu Engels a farlo dopo la sua morte, rispettivamente nel 1885 e nel 1894. Per il secondo, egli disponeva di 8 manoscritti redatti dal 1864 alla fine degli anni 70, a livelli assai diversi di compiutezza, nessuno comunque pronto per la stampa[2]; per il terzo aveva sostanzialmente un grande manoscritto del 1864/5 e poche rielaborazioni successive di scarsa ampiezza[3].
Il terzo libro, seppur uscito per ultimo, è dunque, in verità, poco più che allo stato di abbozzo; meglio vanno le cose per il secondo, benché, pure in questo caso, non esista in alcun modo una versione definitiva. Il primo libro è apparentemente quello più compiuto, in quanto Marx stesso ne dette alla stampe due edizioni tedesche – 1867 e 1872/3 – ed una francese – 1872-5 –, tutte con moltissime varianti. Anche del primo, tuttavia, non disponiamo di un’edizione definitiva in quanto l’ultima uscita nel tempo, la francese, è considerata da Marx migliore per il contenuto, ma decisamente insufficiente a livello linguistico[4]. Nel 1883, anno della morte di Marx, Engels diede alle stampe la terza edizione tedesca, alla quale Marx non partecipò in prima persona; aveva lasciato degli indici e delle annotazioni a margine nelle edizioni precedenti, ma sarà Engels a seguire e a non seguire le sue indicazioni[5]. Da ciò sono risultate situazioni paradossali, per es. relativamente alla divisione in capitoli e sezioni, per cui chi segue l’edizione francese ed inglese ha una divisione, chi segue la tedesca e le traduzione da essa derivate, ne ha un’altra. L’unico testo pubblicato da Marx è paradossalmente quello su cui ci si intende meno. Insomma: per comprendere Marx non si può prescindere dalla complessa stratificazione del testo, che, nel caso della teoria del capitale, consiste di ben 15 volumi in 24 tomi, vale a dire tutta le seconda sezione della MEGA.


2.
Questa edizione intende presentare al lettore italiano tutti i testi a noi pervenuti che Marx scrisse con l’intenzione esplicita di realizzare il I libro del Capitale. Nel far questo si è cercato di tener conto di un certo numero di traduzioni esistenti – italiane e non –, sia da un punto di vista linguistico che editoriale in senso più generale. Nessuna di esse – ad eccezione, in parte, dell’edizione in castigliano a cura di P. Scaron – è all’altezza della problematica odierna. Il fatto fondamentale è infatti che oggi, dopo la MEGA, non si sa esattamente cosa pubblicare quando si intende dare alle stampe il I libro del Capitale. Qual è l’edizione di riferimento se non ne esiste una di ultima mano di Marx? Si è visto che non è possibile utilizzare la francese per vari motivi. Le scelte sono allora due: o la II ed. tedesca, o la IV (in cui Engels continua ad inserire (pochi) passaggi dalla francese, ma che per il resto è quasi uguale alla III). Nel 1975, in chiave antiengelsiana e con l’idea di pubblicare un “autentico” testo marxiano, nella sua edizione in castigliano Scaron decise di usare la II, mettendo come varianti le versioni successive. Se questa scelta è per certi aspetti legittima, si presta tuttavia a critiche a mio parere sostanziali; la principale è la seguente: troviamo in nota, e non nel testo principale, parti non solo considerate da Marx superiori, ma effettivamente da lui pubblicate nell’ed. francese; i materiali “vecchi” si trovano invece nel testo principale. Usando al contrario la IV (sostanzialmente uguale alla III), si ha almeno la maggior parte di quel contenuto nel corpo del testo. Si noti comunque, per es., come nessuna delle due scelte (II o IV ed. tedesca) presenti il testo principale secondo la suddivisione “finale” dell’ed. francese. In realtà, unica soluzione sarebbe pubblicare tutte le edizioni integrali, operazione editorialmente proibitiva. “Creare” un’opera, ricostruendo il testo sulla base dei manoscritti marxiani per il I volume sarebbe operazione redazionale, di cui sarebbe difficile valutare la “marxianità”. In questa edizione è parso dunque ragionevole adottare come base testuale la IV ed. tedesca del 1890 a cura di Engels; rispetto ad essa si sono date le principali varianti di tutte le altre (I, II, III ed. tedesca, ed. francese). I testi di riferimento sono quelli apparsi nella MEGA, II sezione, voll. 5-10.
Non si fornisce tuttavia solo il tradizionale testo del Capitale con le sue varianti; oltre ad esse (centinaia di pagine) si ha la prima traduzione del Manoscritto 1871-1872, presentato secondo la ricostruzione critica data nel vol. 6 della II sezione della MEGA; si tratta di un testo molto interessante, in quanto è il cantiere di lavoro per la totale riscrittura del primo capitolo sulla Merce del 1867 e della relativa appendice per i “non-dialettici” in preparazione della II ed. tedesca e dell’ed. francese. Esso dà delle indicazioni fondamentali su come leggere il testo a stampa. Si ha infine una nuova traduzione del cosiddetto VI capitolo inedito tratto dal manoscritto 1863/4 secondo quanto pubblicato nella MEGA, II sezione, vol. 4.1.
Vediamo infine, brevemente, come sono strutturati i due tomi. Nel primo il lettore trova il testo della IV ed. tedesca. Nel secondo tomo si hanno le varianti dalla I, II e III edizione tedesca e dalla francese, i due manoscritti indicati (I parte del Manoscritto 1863-65 – il cosiddetto “VI capitolo inedito” – ed il Manoscritto 1871/2) e tutti gli strumenti critici: glossario, note esplicative e indici (pesi e misure, letteratura citata, nomi, argomenti). Si tratta, complessivamente, di circa 1600 pagine.


3.
Per quanto riguarda la traduzione, è noto il detto “traduttore-traditore”; valido in genere, esso assume un particolare significato nel caso del Capitale, un mix di linguaggio hegeliano, sarcasmo pubblicistico, verve umoristica, e via dicendo. Difficile rendere tutto ciò. Si è cercato di fare il possibile per la vivacità dello stile, ma, in relazione alle problematiche più strettamente scientifiche, è parso necessario dedicare alcune pagine alla spiegazione della traduzione di alcuni termini chiave. Le scelte fatte in questa nuova edizione si legano, infatti, ai problemi emersi dal confronto fra le traduzioni esistenti e le problematiche metodologiche sviluppatesi parallelamente alla pubblicazione della nuova edizione storico-critica.
Si era inizialmente pensato di utilizzare la traduzione Cantimori e di dare semplicemente le varianti. Pur restando essa un valido strumento anche a distanza di tempo, ci si è resi conto, tuttavia, di come, similmente a quanto accaduto nella maggior parte delle traduzioni occidentali esistenti, non si fosse riusciti in quella sede a risolvere vari e significativi problemi legati alla complessità categoriale del testo, soprattutto nei primi capitoli. Tale insufficienza ha reso impossibile a chi non potesse accedere al testo tedesco una più profonda comprensione delle problematiche metodologiche e dell’effettivo sviluppo categoriale.
Per quanto riguarda la quarta edizione tedesca, si sono allora ritradotti ex-novo i primi sette capitoli e si è significativamente rivista la parte restante (le traduzione delle varianti e degli altri manoscritti sono tutte nuove). Come accennato, per un principio di trasparenza e chiarezza, si è deciso di rendere conto delle scelte di traduzione in un ampio glossario. Tradurre un certo termine in un certo modo significa, infatti, fare delle scelte interpretative. Se ciò è inevitabile, pare corretto palesarlo. Ecco qui una lista di alcune delle categorie interessate di ciascuna delle quali si rende: Veräußerung/Entäußerung, Ding/Sache, wirklich/reell, darstellen/vorstellen/repräsentieren, Erscheinung/Schein e varie altre.
Per questa via, il lettore ha accesso al testo tedesco e, se pur dissentisse con la scelte adottate, avrebbe la possibilità di risalire al termine/categoria in questione.


4.
Non in questa sede vorrei parlare delle possibili nuove interpretazioni del testo, per non sovrapporle al carattere critico dell’edizione. In maniera più generale mi pare si possa tuttavia affermare che diverse delle interpretazioni tradizionali, anche relativamente a punti fondamentali diventati senso comune perché trasformati in assiomi da manuale, paiono, direi, “imprecise” ad una lettura filologica e disinteressata del testo. Con ciò intendo dire che anche sviluppi sofisticati della teoria di Marx, risultato di dibattiti complessi e di grande valore conoscitivo, non di rado hanno preso le mosse da una non precisa formulazione dei presupposti. Credo che il grande contributo della filologia, in un momento di crisi e ristagno generale nel panorama teorico in qualche modo connesso a Marx, stia non tanto nel far rivivere dibattiti secolari ormai sostanzialmente chiusi da decenni, o nell’andar oltre quel Marx mal letto, quanto nel ripensare la correttezza delle premesse di quelle interpretazioni, il loro fondamento filologico. A me sembra che, pur nell’ampio spettro delle letture possibili, la filologia aiuti ad escluderne alcune sicuramente infondate, o a dare maggiore o minore supporto ad altre plausibili. A mio parere è questa la scelta più proficua e scientificamente feconda da fare e mi auguro che questa nuova edizione possa contribuire in tal senso.

Roberto Fineschi

[1] Per maggiori informazioni sulla MEGA rimando al mio Un nuovo Marx, Roma, Carocci, 2008 ed al volumetto in corso di pubblicazione MEGA2, Marx ritrovato, a cura del compianto A. Mazzone, Roma, Mediaprint.

[2] Sui manoscritti per il II libro rimando al mio Il secondo libro del Capitale dopo la MEGA2 in “Marxismo oggi”, 2010/3, pp. 32 ss., ripreso nella nuova introduzione al menzionato libro curato da A. Mazzone. pp. 25 ss.

[3] Sui principali problemi legati al manoscritto per il terzo libro del 1864/5 in rapporto al libro a stampa, rimando al mio Ripartire da Marx, Napoli, La città del sole, 2001, pp. 370 ss.

[4] Il fatto che Marx stesso abbia detto che questa edizione era da preferire ha spinto molti a ritenerla migliore “in generale”. In realtà, la ricostruzione filologica permette di mostrare con estrema precisione quali siano le migliorie e quali i difetti. Senza entrare nel merito di questo dibattito, per il quale rimando alla mia Introduzione al Capitale, si può affermare che le migliorie sono da trovarsi nella settima sezione sull’accumulazione, mentre i difetti sono….la traduzione stessa, che per circa un terzo del testo si discosta significativamente dall’originale, al punto che non vi si trova addirittura il concetto di “valorizzazione”!

[5] Cfr. K. Marx, Verzeichnis der Veränderungen für den ersten Band des “Kapitals“ in K. Marx, F. Engels, Gesamtausgabe, sez. II, vol. 8, Berlin, Dietz, 1989.

Roberto Fineschi ha studiato filosofia ed economia a Siena, Berlino e Palermo. Fra le sue pubblicazioni ricordiamo Ripartire da Marx (Napoli 2001), Marx e Hegel (Roma 2006) e Un nuovo Marx (Roma 2008). Vincitore del premio Rjazanov, è membro dell’International Symposium on Marxian Theory, con il quale ha pubblicato vari saggi e libri, fra cui Re-reading Marx. New perspective after the critical edition, Palgrave 2009.


Dove, in «sinistrainrete»,
si parla di e con Roberto Fineschi

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32. Marco Gatto: Il ritorno della dialettica
... rato da Marx, vedi invece la prospettiva disegnata da Massimo Mugnai in Il mondo rovesciato. Contraddizione e «valore» in Marx, Bologna, il Mulino, 1984, in part. pp. 125-139. [21] Cfr. Roberto Fi ...Created on 06 December 2013
33. Tommaso Redolfi Riva: Teoria critica della società?
... . [28] Ibid. [29] T. W. Adorno, Einleitung in die Soziologie, cit., p. 58. [30] K. Marx, Il Capitale, MEOC, XXXI, a cura di Roberto Fineschi, Napoli, Città del Sole, p. 85.  ...Created on 27 November 2013
34. Giovanni Sgro’: Sul cosiddetto «Capitolo sesto inedito» di Marx
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35. Riccardo Bellofiore: Il Capitale come Feticcio Automatico e come Soggetto, e la sua costituzione
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36. Oscar Oddi: La crisi secondo Riccardo Bellofiore
... Bellofiore e Roberto Fineschi “Marx in questione. Il dibattito “aperto” dell’International Symposium on Marxian Theory”, La Città del Sole, 2009, pp.352, € 25,00, per un quadro, parziale ma esaustivo, ... Created on 07 July 2012
37. Alfonso Gianni: Karl Marx, le revenant
  ... giovane da quello maturo; se addirittura si ritiene il primo in aperta contraddizione nei confronti del secondo, come un ostacolo alla sua comprensione; se si dipinge , come in parte fa Roberto Finelli, ...Created on 04 June 2012
38. O.Calcagno e G.Ragona: Il ritorno di Marx in Italia
... ma che comunque si presenta caratterizzato da spiccati elementi d’innovazione,9 a partire dalla scelta del curatore Roberto Fineschi di presentare il testo del 1867 in una traduzione profondamente rivista, ...Created on 18 May 2012
39. Oscar Oddi: Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia
... rivendica l’attualità della dialettica di Hegel, del socialismo scientifico di Marx, della critica del colonialismo di Lenin e del comunismo critico di Gramsci, e infine le riflessioni di Roberto Finelli, ...Created on 18 October 2011
40. M.Badiale e M.Bontempelli: Una risposta dovuta
... xista, sui cui studi evidentemente Moro non è aggiornato (sarebbero da vedere soprattutto quelli di altissimo livello di Roberto Fineschi), c’è un unico punto nel quale egli fa una obiezione che ha qualc ...Created on 17 May 2011
41. Tommaso Redolfi Riva: Recensione a “Marx e Hegel”
Recensione a Marx e Hegel di R. Fineschi* di Tommaso Redolfi Riva Con questo studio Roberto Fineschi continua il proprio percorso di ricerca iniziato con la pubblicazione di un’importante rilettura ...Created on 16 January 2011
42. Riccardo Bellofiore: Marx e la fondazione macro-monetaria della microeconomia
... rxiana relativa alla «legge del prezzo» in quel volume: una assunzione necessaria all'analisi della «formazione del capitale» nella sua purezza. Questo processo essenziale, in quanto nucleo della valor ...Created on 11 January 2011
43. Riccardo Bellofiore: Risposta a Basso su “Marx in questione”
... 8 gennaio Luca Basso ha recensito il volume Marx in questione (Città del Sole, 2009) che ho curato con Roberto Fineschi, e che raccoglie alcuni degli scritti degli autori dell'International Symposium in Marx ...Created on 23 November 2010
44. Enzo Modugno: Alla scoperta del moro
...  (Marx in questione, a cura di Riccardo Bellofiore e Roberto Fineschi). Sono molti gli aspetti del capitalismo che l'opera di Marx, un secolo e mezzo dopo, riesce ad interpretare con insuperato rigore: perfi ...Created on 15 July 2010
45. Michele Nobile: Il marxismo italiano, senza Capitale
... prospettive, Mimesis, Milano 2005, a cura di Roberto Fineschi 4 Cristina Corradi, «Storia dei marxismi in Italia: un tentativo di sintesi», in Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento, ...Created on 13 April 2008

Alcuni libri di

Roberto Fineschi

 

Karl Marx. Rivisitazioni e prospettive, Mimesis, 2005

Karl Marx. Rivisitazioni e prospettive, Mimesis, 2005

Marx ed il marxismo non sono la stessa cosa. Il marxismo è stato un movimento storico-politico caratterizzato da luci e ombre (e ovviamente non solo da ombre) che a Marx si è ispirato. Ma credere che a questa esperienza storica si possa ridurre il lascito e la portata teorica di un autore così importante non è solo sbagliato, è una sciocchezza. Questo libro si ripropone di contribuire alla sua riscoperta attraverso approcci diversi, interdisciplinari, tutti volti a mettere in luce il senso di esperienze passate nella prospettiva di un possibile utilizzo attuale e futuro. Perché la fine della moda non significa la fine del pensiero.

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Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Caroci, 2006

Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Carocci, 2006

Il libro affronta il rapporto Marx-Hegel alla luce di un’analisi filologica dei testi e di larga parte del dibattito italiano e internazionale svoltosi intorno alla questione. Cerca di ricostruire lo sviluppo della comprensione marxiana di Hegel, per definire rigorosamente che cosa egli intenda quando dice “Hegel” e “dialettica”, che mette poi a confronto con gli scritti di Hegel. In tale confronto individua da una parte limiti significativi e dall’altra mostra che l’origine di essi deriva dalla ricezione del maestro nella sinistra hegeliana. Attraverso la distinzione fra la comprensione marxiana e gli scritti di Hegel, l’autore dimostra la coerenza interna di tutte le affermazioni marxiane su Hegel, quindi in che senso la sua sia una teoria dialettica.

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Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del Capitale, La Città del Sole, 2006

Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del Capitale, La Città del Sole, 2006

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Un nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA), Carocci, 2008

Un nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA), Carocci, 2008

Marx è un autore per molti aspetti nuovo. Questo libro è uno dei primi studi italiani che, alla luce degli inediti, si cimenta con la ricostruzione del pensiero dell’autore tedesco. Quattro i suoi nuclei tematici: la presentazione dell’edizione critica e del dibattito che l’ha accompagnata; il I libro del Capitale, che possiamo leggere oggi nella sua stratificazione redazionale; un’analisi critica delle potenzialità di questo testo per lo sviluppo di una teoria dei soggetti storici; alcuni aspetti del marxismo italiano.

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Marx-Engels, Opere complete, vol. 31, La Città del Sole, 2011 a cura di R. Fineschi

Marx-Engels, Opere complete, vol. 31, La Città del Sole, 2011 a cura di R. Fineschi

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Roberto Fineschi – Tommaso Redolfi Riva – Giovanni Sgro’ (a cura di), Karl Marx 2013, «Il ponte», LXIX (2013), nn. 5-6 (maggio-giugno 2013).

Roberto Fineschi – Tommaso Redolfi Riva – Giovanni Sgro’ (a cura di), Karl Marx 2013, «Il ponte», LXIX (2013), nn. 5-6 (maggio-giugno 2013).




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Costanzo Preve (1943-2013) – Telling the truth about capitalism and about communism. The dialectic of limitlessness and the dialectic of corruption. Dire la verità sul capitalismo e sul comunismo. Dialettica dell’ illimitatezza, dialettica della corruzione.

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Costanzo Preve

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Dire la nuda verità

Gustav Klimt, Nuda Veritas,1899

Zenone di Elea indica le porte della verità e della falsità- affrescp all'Escorial di Madrid

Zenone di Elea indica le porte della verità e della falsità, affresco all’Escorial di Madrid.


Telling the truth about capitalism and about communism.

The dialectic of limitlessness and the dialectic of corruption

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Dire la verità sul capitalismo e sul comunismo.

Dialettica dell’illimitatezza, dialettica della corruzione

 


Traduzione in inglese di Dimitri Papandreu


Costanzo Preve,
Telling the truth about capitalism and about communism
– Dire la verità sul capitalismo e sul comunismo

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This is a philosophical text, it is not recommended for people who lack patience and who do not read things many times over until they have understood them. In truth, this text originates from a reflection on a recent event in contemporary politics: the fact that in this November of 2011 the ex-communists of the transformist-metamorphosizing serpent PCI-PDS-DS-PD have become the main supporters of the externally imposed, ultra-capitalist economic commissar of Italy, Mario Monti, a Goldman Sachs man. But since I pulled the plug long ago on the manipulated and drugged conflict between Right and Left (and between the Party of the Bs and the Party of the anti-Bs), I will not waste time here addressing such nonsense as can be read about everyday in the circus of the media and seen every hour in the circus of the television.

Questo è un testo filosofico, sconsigliato a chi non ha pazienza e non legge le cose molte volte fino a che non le ha capite. In realtà parte da un recente accadimento dell’attualità politica, il fatto che gli ex-comunisti del serpentone metamorfico-trasformista PCI-PDS-DS-PD siano in questo novembre 2011 i principali sostenitori del commissariamento economico ultra-capitalistico dell’Italia da parte di Monti, uomo della Goldman Sachs. Dal momento però che ho staccato da tempo la spina nel conflitto drogato e manipolato Destra/Sinistra e del Partito dei B/Partito degli anti-B, non intendo perdere tempo con sciocchezze leggibili ogni giorno nel circo mediatico e visibili ogni ora in quello televisivo.

I will address instead a long-standing question, called dialectic. The dialectic is at the heart of a philosophical understanding of historical processes. I have written two words here: philosophy and history, or more precisely: philosophical understanding of historical events. We live in an age wherein it is taken for granted that economics can, by itself, sufficiently explain what really goes on in society; to economics can be added a touch of literature to shed light on individuals’ psychological conflicts. It would seem as though there were no place left for philosophy anymore.

Mi occuperò di un problema di lungo periodo, chiamato dialettica. La dialettica è al cuore della comprensione filosofica dei processi storici. Ho così scritto due termini: filosofia e storia, o più esattamente comprensione filosofica dei fatti storici. Viviamo in un tempo in cui si dà per scontato che per capire il lato sociale dell’attualità basti ed avanzi l’economia, integrata dalla letteratura per quanto riguarda i conflitti psicologici degli individui. Sembra che la filosofia non abbia nessuno spazio.

 

 

This writer thinks differently. Philosophy, if used well, can illuminate the historical present even better than can literature (which is still marvelous) and certainly better than can economics (which instead is miserable). But if used badly, philosophy is a waste of time. It would be better to contemplate enigmas, read detective novels, or go fishing.

Chi scrive la pensa diversamente: la filosofia, se bene usata (se male usata è una pura perdita di tempo, meglio l’enigmistica, i romanzi polizieschi e la pesca con la lenza) illumina il presente storico ancora meglio della letteratura (che pure è meravigliosa) e certamente meglio dell’economia (che invece è miserabile).

This philosophical text is divided into four parts; they are, respectively:
1. Introduction to the Dialectic
2. Capitalism: the Dialectic of Limitlessness
3. Communism: the Dialectic of Corruption
4. Open and Provisional Conclusions

Questo testo filosofico è diviso in quattro parti, rispettivamente:
1. Introduzione alla dialettica
2. Il capitalismo, la dialettica dell’illimitatezza
3. Il comunismo, la dialettica della corruzione
4. Conclusioni aperte e provvisorie

 

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1. Introduction to the Dialectic
Philosophy, even when it seems most complicated, is always and exclusively concerned with questions of everyday life. Do not trust the people who tell you that philosophy is about things that are inaccessible to everyday good sense and to the common intellect. They are the philosophical equivalents of con artists and frauds. Philosophy, it is true, makes recourse to a specialized language in order to elaborate and systematize some of its questions (and in this it is like physics). But philosophy’s questions should nevertheless always remain accessible to the common intellect. Of the common intellect it is required only that it remain psychologically open to the possibility of understanding something new, and that it not close itself up like a clam.

1. Introduzione alla dialettica
La filosofia, anche quella apparentemente più complicata, parte sempre e soltanto dalla vita quotidiana. Diffidate da coloro che dicono che essa si occupa di cose inaccessibili al buon senso e all’intelletto comune. Costoro sono l’equivalente filosofico dei piazzisti e degli imbonitori. La filosofia però elabora e sistematizza in linguaggio necessariamente specialistico (simile in questo alla fisica) questioni accessibili anche e soprattutto all’intelletto comune. È sufficiente però che l’intelletto comune non si “chiuda a riccio”, ma accetti psicologicamente il terreno della possibile comprensione.

The dialectic is about how things change and do not stand still or remain the same over time (here I will spare the reader the history of the dialectic itself, although I have written a book on the subject). By “things” I do not mean shoes, stones or fish, but processes – the developmental processes of natural and social phenomena. In regards to natural phenomena, the main application of the dialectic is the theory of evolution, as is evident in the life sciences and also in geology and astrophysics. In regards to social phenomena, the dialectic must take into account a particular element that is nonexistent in natural phenomena, and that is the human will, which acts upon and changes the “given” world it finds before itself. In philosophy, this phenomenon is called “praxis” and it certainly wasn’t invented by Marx and the Marxists (come on!), the term was already being used by the ancient Greeks (particularly by Aristotle) and by the great German idealists of the early eighteen hundreds (particularly by Fichte).

La dialettica (risparmio qui al lettore la sua storia, cui io però ho dedicato un libro apposito [Storia della dialettica]) parla di come le cose cambiano e non restano ferme e sempre uguali nel tempo. Per “cose” si intendono non le scarpe, i sassi, i pesci, ma i processi, e cioè i processi di sviluppo dei fenomeni naturali e sociali. Per quanto riguarda i fenomeni naturali l’applicazione principale della dialettica è la teoria dell’evoluzione, non solo per quanto riguarda le scienze della vita, ma anche la geologia e l’astrofisica. Per quanto riguarda i fenomeni sociali, la dialettica deve tenere conto di un elemento inesistente nei fenomeni naturali, e cioè la volontà umana, che progetta e modifica il mondo che si trova davanti “dato”. In filosofia, questo fenomeno si chiama “prassi”, e non se lo sono certamente inventati Marx e i marxisti (ma andiamo!), ma il termine c’era già presso gli antichi greci (particolarmente in Aristotele) e presso i grandi idealisti tedeschi di inizio ottocento (particolarmente in Fichte).

So, the dialectic is about change and mutation. But there are two different types of change. The first type of change is that which derives from the external action of a subject onto a passive object (for example, a sculptor chiseling a stone). The second type of change is that which derives from a change internal to the thing itself (for example, the process of aging, which occurs against our will).

Quindi, la dialettica parla del cambiamento e del mutamento. Ma ci sono due tipi diversi di cambiamento. Un primo tipo di cambiamento è quello che deriva da un’azione esterna di un soggetto su di un oggetto rimasto passivo (per esempio, il modellare una pietra con uno scalpello). Il secondo tipo di cambiamento è quello che deriva da un cambiamento interno alla cosa stessa (per esempio, l’invecchiamento, che avviene contro la nostra volontà).

The dialectic is the understanding of a process’s internal changes – and this understanding can be applied to processes that are historical and political. Politics, generally speaking, is only the superficial layer of history. If you try to understand history by beginning with politics, you will never understand it. If instead you try to understand politics by beginning with history, it is not certain that you will understand it but at least it’s worth a try.

La dialettica è la comprensione dei cambiamenti interni di un processo, comprensione applicata ai processi storici e politici. La politica, in prima approssimazione, è soltanto lo strato superficiale della storia. Se si parte dalla politica per capire la storia, non la si capirà mai. Se invece si parte dalla storia per capire la politica, non è detto che la si capisca sicuramente, ma almeno ci si può provare.

Because the dialectic is threatening to historically dominant groups it has been particularly maligned in university philosophy departments, which are generally nothing more than costly ideological apparatuses of these same dominant classes who want to make simple things appear complicated so that the general intellect cannot understand them (as do, by the way, university economics departments).

La dialettica, appunto perché pericolosa per i gruppi storicamente dominanti, è diffamata in particolare nelle facoltà universitarie di filosofia, che sono in generale costosi apparati ideologici delle stesse classi dominanti, e devono far diventare complicate le cose semplici, in modo che l’intelletto comune non le capisca (come fa, del resto, la facoltà universitaria di economia).

There is not the space here, nor the need, to enumerate in detail all of the many variants of defamation the dialectic has endured. I will summarily review only the three main variants (although there are many others):

Non vi è qui lo spazio, e neppure la necessità, per enumerare in dettaglio tutte le numerosissime varianti della diffamazione della dialettica. Ricordo qui solo sommariamente le tre principali (ma ce ne sono molte altre):

(1) The dialectic is an instrument of philosophers, but philosophy itself is not a trustworthy form of knowledge of the real. Only science is trustworthy, and science does not utilize the dialectic but only common logic, which it applies to mathematics and to controlled experiments. In three thousand years philosophers have never been able to agree on anything, lost as they are in their endless chatter about things they cannot prove. Science, on the other hand, has succeeded in establishing precise protocols for determining truth and for rejecting false hypotheses.
In response to this objection the following can be said: Even if it is granted that science does not use the dialectical method (which in fact it does according to eminent scientists) this is only because the specific character of its object does not require it. The object of the natural sciences (astronomy, physics, chemistry, biology, genetics, geology, etcetera) is different from the object of the human social sciences wherein the subjective agencies of individuals and groups intervene and exert a fallback, dialectical effect on the subjective agencies of others with whom they may be in opposition and/or in agreement.

(1) La dialettica è uno strumento dei filosofi, ma la filosofia non è una conoscenza affidabile del reale. Soltanto la scienza lo è, e la scienza non utilizza la dialettica, ma soltanto la logica comune, applicata alla matematica e all’esperimento controllato. In tremila anni i filosofi non sono mai riusciti a mettersi d’accordo con le loro chiacchiere interminabili ed indimostrabili, mentre la scienza invece ha precisi protocolli di verificazione e di falsificabilità delle ipotesi eventualmente errate.
A questa obiezione si può rispondere che, anche ammesso che la scienza non utilizzi mai il metodo dialettico (ma insigni scienziati sostengono che invece lo usa), questo riguarda solo l’oggetto delle scienze della natura (astronomia, fisica, chimica, biologia, genetica, geologia, eccetera), mentre nella storia sociale umana interviene la soggettività progettuali individuale e collettiva, che retroagisce dialetticamente con altri progetti opposti e/o convergenti.

(2) The dialectic is an instrument of sophistry used to justify and explain everything and anything that happens, including acts of human evil and viciousness ranging from Auschwitz to Hiroshima, and from Hitler to Stalin. If history is indeed endowed with an inexorable necessity, it then becomes possible to justify everything as being a product of an almost “natural” historical necessity.
In response to this objection the following can be said: This would be true if history were a branch of the natural sciences characterized by modal categories of necessity (as though it were physics, with its equations for a falling body), but it is not. The dialectic is simply there to assist in the understanding of why a certain process, begun with certain intentions, reaches an end that turns out to be the exact opposite of what was expected. The great Italian philosopher Vico spoke of the “heterogony of ends” in regards to this occurrence, but even if you are not familiar with the history of philosophy you can still intuit this by reflecting on the experiences of everyday life, wherein we often find ourselves pursuing certain projects or goals that end up becoming the exact opposite of what we had imagined or wanted.

(2) La dialettica è uno strumento sofistico per giustificare tutto ciò che avviene, ed in questo modo si può sempre giustificare e spiegare tutto, compreso il male e la malvagità umana, da Auschwitz a Hiroshima, da Stalin a Hitler. Se infatti alla storia viene attribuita una inesorabile necessità storica, allora diventa possibile giustificare tutto come prodotto di una necessità storica quasi “naturale”.
A questa obiezione si può rispondere che questo sarebbe vero se la storia fosse una branca delle scienze naturali caratterizzate dalla categoria modale delle necessità (tipo caduta dei gravi in fisica) ma questo non è. La dialettica non intende affatto giustificare tutto, al contrario. La dialettica aiuta semplicemente a capire il perché un certo processo, partito con certe intenzioni, si è rovesciato alla fine nel suo esatto contrario. Il grande filosofo italiano Vico ha parlato in proposito di “eterogenesi dei fini”, ma anche chi non conosce la storia della filosofia ha sperimentato il fatto quotidiano che spesso ci si ripropone una cosa o un progetto, e si ottiene l’esatto contrario, che non avremmo mai voluto.

(3) The dialectic is a form of religion for intellectuals who imagine the world as being “alienated” or upside down, consequently they think the world needs to be turned right side up. In reality the world is not at all upside down and therefore it has no need of being turned right side up. Intellectuals such as these should instead try their best to accept the world for how it actually is. The Marxist dialectic in particular, which conceives of capitalism as an alienated world standing on its head, tends to imagine that once upon a time at the beginning of history there existed a normal world standing properly on its feet – and now, at the end of history, that lost world stands to be restored. This is nothing other than the transcription into a sophisticated philosophical language of the monotheistic religious concept of an original Terrestrial Paradise that was lost due to God’s punishment of Original Sin.
In response to this objection the following can be said: The dialectic is not at all concerned with the imaginary restoration of a lost Origin that will be accomplished through the work of a demiurgical Subject who is actually the social-historical manifestation of the Body of Christ (this imaginary restoration would occur at the preordained Final End of History, and would correspond to communism – but this would be a communism for fools). Instead, the dialectic is concerned with analyzing historical processes from a point of view that is internal to the processes themselves, and not external to them.

(3) La dialettica è una forma di religione per intellettuali, che si inventano un mondo “alienato” a testa in giù da raddrizzare, laddove il mondo reale non è affatto a testa in giù, e quindi non deve essere affatto raddrizzata, ma va preso così com’è nel migliore modo possibile. In particolare la dialettica marxista, presupponendo che il capitalismo è un mondo alienato da raddrizzare, immagina che ci sia stato un tempo, all’origine della storia, un mondo diritto, normale, che si tratta di restaurare. Si tratta della trascrizione in linguaggio filosofico sofisticato nella concezione religiosa monoteistica per cui c’è stato all’origine un Paradiso Terrestre, perduto a causa di un Peccato Originale punito da Dio.
A questa obiezione si può rispondere che la dialettica non si occupa di una pretesa ed inesistente restaurazione di una Origine nel frattempo perduta ad opera di un Soggetto demiurgico, che non sarebbe altro che la manifestazione storico-sociale del Corpo di Cristo, in vista di un Fine Ultimo della Storia già prefissato (il comunismo, appunto, ma sarebbe un comunismo per imbecilli), ma di un’analisi degli sviluppi storici da un punto di vista interno al processo stesso, e non invece esterno.

Our discourse has just gotten started, but for now I will bring it to an end. In the next parts of the text I will “apply” the discourse to two phenomena that are dialectically interconnected, but which I will address separately: the dialectic of capitalism characterized by limitlessness, and the dialectic of communism characterized by corruption. I am referring obviously to real existing capitalism and not to its utopian representation wherein the harmony of the market is majestically arranged by the market’s own “invisible hand,” and I am referring to real existing communism and not to its idealized representation issued forth from the hand of Marx.
It is impossible to write the things I have in mind without irritating someone. But if a philosopher is frightened by the possibility of causing irritation and the defamatory gossip that might ensue, then he would be better off to stop philosophizing altogether and open a popcorn stand.

Il discorso sarebbe appena cominciato, ma possiamo per ora terminarlo qui, in quanto verrà “applicato” a due fenomeni, trattati separatamente, ma in realtà dialetticamente interconnessi, la dialettica del capitalismo, caratterizzata dalla illimitatezza, e la dialettica del comunismo, caratterizzata dalla corruzione. Parlo ovviamente del capitalismo realmente esistente, e non di quella rappresentazione utopica di esso caratterizzata dalle presunte armonie del mercato e dalla “mano invisibile” del mercato stesso, e del comunismo realmente esistito, e non di quella rappresentazione idealizzata presa da Marx.
Impossibile scrivere queste cose senza irritare qualcuno. Ma se il filosofo si spaventasse per l’eventualità dell’irritazione e del gossip diffamatorio, tanto varrebbe smettere di filosofare ed aprire una baracchetta di pop-corn.

 

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2. Capitalism: the Dialectic of Limitlessness
Before being a society bound by the reproduction of strict economic laws, capitalism is a social-historical process characterized by a specific dialectic. That is the dialectic of limitlessness, which is characterized by the impossibility of respecting any limit set by the bounds of religion, philosophy or politics. Here I assume that the reader is already familiar with the history of the first era of capitalist globalization from the fifteenth to the seventeenth centuries (studied by Wallerstein), with the economic periodization of capitalism (studied by Giovanni Arrighi), with the second era of imperialist globalization of the late nineteenth century, and with the third, current era of capitalist globalization (studied in particular by David Harvey). I will limit myself, deliberately, to only the philosophical-dialectical side of the problem.

2. Il capitalismo: la dialettica dell’illimitatezza
Prima di essere una società dominata dalla riproduzione di vincoli economici ben precisi, il capitalismo è un processo storico sociale caratterizzato da una specifica dialettica. Si tratta della dialettica della illimitatezza, caratterizzata dalla impossibilità di rispettare un limite definito in via religiosa, filosofica e politica. Qui diamo per scontata nel lettore la conoscenza storica della prima globalizzazione capitalistica mondiale (studiata da Wallerstein) fra il Quattrocento ed il Seicento, della periodizzazione economica del capitalismo (studiata da Giovanni Arrighi), della seconda globalizzazione imperialista di fine Ottocento, e dell’attuale terza globalizzazione capitalista (studiata in particolare da David Harvey). Mi limiterò invece volutamente al solo aspetto filosofico-dialettico del problema.

The dialectic of limitlessness was already studied most admirably by the ancient Greeks, and their study of it is in fact philosophically complete. But the ancient Greeks could obviously not apply it to a capitalism that did not yet exist. Instead, they applied it to the limitless accumulation of monetary wealth and tyrannical, despotic political power that threatened the communitarian reproduction of the polis. The reader should not bother looking for these things in the usual history of philosophy textbooks, which are written for the sole purpose of de-historicizing and de-socializing their subject matter. Textbooks make it seem as though somewhere in the distant past the ancestors of our science departments got together and began debating whether the world was born from water or from air, whether voids actually exist or do not exist, whether the world was created by chance (Odifreddi’s true ancestors!) or by a superior mind (Ratzinger’s true ancestors!), etcetera, in an orgy of stupidity.

La dialettica della illimitatezza fu già studiata in modo mirabile (e di fatto filosoficamente completo) dagli antichi greci, che ovviamente non potevano applicarla ad uno ancora inesistente capitalismo, ma la applicavano all’accumulazione illimitata di ricchezze monetarie e di potere politico tirannico e dispotico che minacciava la riproduzione comunitaria della polis. Il lettore non cerchi di capirci qualcosa con i consueti manuali di storia della filosofia, costruiti sulla base della destoricizzazione e della desocializzazione. Sembra che ad un certo punto alcuni precursori delle facoltà scientifiche abbiano cominciato a dire che il mondo nasce dall’acqua o dell’aria, che c’è il vuoto oppure non c’è, che il mondo è stato fatto a caso (dei veri precursori di Odifreddi!), oppure che è stato fatto da una mente superiore (dei veri precursori di Ratzinger!). Eccetera, in un’orgia di stupidità.

What nonsense. The first philosophers were first of all communitarian legislators who, in order to gain credibility and influence among their fellow citizens, had to appear as learned experts of nature (physis) given that for the Greeks there existed no pact with God and therefore no prophets or Messiahs, whether bearded or clean-shaven, or human or divine. They proposed communitarian laws (nomoi) based on a social calculation of what constituted the right distribution of goods (logos); their laws met the standard of justice (dike) because they applied the principle of the just measure (metron).

Sciocchezze. I primi filosofi erano prima di tutto legislatori comunitari, che per rendersi autorevoli e credibili presso i loro concittadini in termini di proposte legislative comunitarie (nomoi), rette da un calcolo sociale della buona distribuzione dei beni (logos), che per andare incontro alla giustizia (dike) dovevano prima di tutto applicare la giusta misura (metron), dovevano apparire come conoscitori della natura (physis), visto che per i greci non esisteva nessun patto con Dio, e quindi non ci potevano essere profeti e Messia, non importa se barbuti o rasati, umani o divini.

Starting from nature, it seemed clear that the limit was a principle of order (taxis) whereas the limitless (apeiron) was a principle of uncontrollable destructiveness. If this were true in nature then it must also be true in society, particularly in regards to the limitless power of wealth. Don’t imagine that you can find any of this in philosophy textbooks. I have assigned them to students myself for 35 years, which is like Galileo being forced to assign geocentric textbooks, or Darwin being forced to assign creationist ones. Oh the things we won’t do to make it to retirement!

Partendo dalla natura, appariva chiaro che mentre il limite è un principio di ordine (taxis), l’illimitato (apeiron) è invece un principio distruttore ed incontrollabile, e così come lo è in natura, così lo è anche nella società (e cioè il potere illimitato delle ricchezze). Non crediate di poter trovare queste cose nei manuali di filosofia. Li ho adoperati io stesso per 35 anni, ed è come se Galileo fosse stato costretto a servirsi di un manuale geocentrico e Darwin di un manuale fissista. Ma cosa non si fa per la pensione!

Pythagoras was the first to numerically systematize the principle by which the limit is better than the limitless. Plato was simply one of Pythagoras’ Athenian pupils well-versed in Socratic dialogue. Parmenides was the first to use the (apparently abstract, but in reality quite concrete) term Being to denote the metaphorically permanent, eternal observance of the good Pythagorean political laws that were capable of impeding the destructive irruption of wealth, which he metaphorically denoted with the term Nothingness (and which high school and university textbooks mistake for a pneumatic void). And I could go on. But what matters here is to have understood the essential: when the great philosophers of Greek antiquity were confronted with processes of corruption and social unraveling caused by monetary wealth and debt slavery (just as we today are confronted with new forms of capitalist debt slavery) they had already dialectically understood that without a limit imposed by the human will and inspired by the principle of the just measure, there would be no way to stop and oppose (katechon) the destructive power unleashed by the limitless.

Pitagora fu il primo a sistematizzare numericamente il principio per cui il limite è migliore dell’illimitato. Platone non ne fu che un allievo ateniese passato per il dialogo socratico. Parmenide fu il primo che con il termine (solo apparentemente astratto, ed è in realtà concreto) di Essere intese indicare la metafora del mantenimento permanente “eterno” di una buona legislazione politica pitagorica capace di impedire l’irruzione distruttiva della ricchezza (metaforizzata correttamente con il termine di Nulla, che i manuali liceali ed universitari scambiano per il vuoto pneumatico). E potremo continuare. Ma ciò che conta è capire che il grande pensiero filosofico greco, di fronte ai processi di corruzione e di dissolvimento portati dalla ricchezza monetaria e dalla schiavitù per debiti (esattamente lo stesso problema cui siamo oggi di fronte, una nuova versione capitalistica della schiavitù per debiti), aveva già dialetticamente capito che senza un limite, posto dalla volontà umana ispirata dalla misura, non c’era modo di fermare e di opporsi (katechon) allo scatenamento delle potenze distruttive dell’illimitato.

We can be brief in surveying the historical period extending from 300 before Christ to 1700 after Christ. But since Christianity lies at the core of this period, and Christianity is a historical phenomenon as big as the Himalayas, we cannot exactly “leap” over its philosophical import. For Christians, only God is limitless and infinite, whereas humans are by nature “finite.” But the symbolic governance of human finiteness is delegated to a particular power: the Christian churches. The churches (regardless of their bloody divisions) make human finiteness commensurable with political class relations that defend first ancient slavery, then feudalism, then seigneurialism, then absolutism, and finally capitalism. Although God is supposed to be “neutral” regarding the economy, he just so happens to be almost always on the side of the ruling classes. Yet symbolically, God also acts as a limit to the limitless arrogance of these very same ruling classes, who have by their sides not economists but priests to whom they must confess. We are not dealing with pure hypocrisy here, even though the hypocritical aspect is provocatively dominant and has always nurtured successive waves of simple-minded, “secular” anticlericalism. But the fact still remains that the belief in God was in itself a limit, albeit often a fragile one, to the tendencies to limitlessness of money and power.

Facciamola corta sulla storia dal Trecento avanti Cristo al Mille e Settecento dopo Cristo. Dal momento però che in mezzo c’è il cristianesimo, che è un fenomeno storico grande come l’Himalaya, non posso “saltare” del tutto il suo “risvolto” filosofico. Per i cristiani l’unico illimitato ed infinito è Dio, mentre gli uomini per loro stessa natura sono “finiti”. Ma la gestione simbolica di questa finitezza è delegata ad un potere particolare, le chiese cristiane (prescindo qui dalle loro divisioni sanguinose), che commisura questa finitezza ai rapporti politici di classe che di volta in volta difende, prima schiavistici, poi feudali, poi signorili, poi assolutisti ed infine capitalistici. Dio è presupposto “neutrale” rispetto all’economia, ma guarda caso è quasi sempre a fianco dei dominanti. Dio però è simbolicamente anche un limite all’illimitata prepotenza dei dominanti stessi, che infatti a fianco non hanno economisti, ma confessori. Non si tratta di pura ipocrisia, anche se l’aspetto ipocrita è provocatoriamente dominante, ed ha sempre nutrito tutti i facili anticlericalismi “laici” successivi. Il fatto però di credere in Dio era di per sé un limite, sia pure spesso fragile, alle tendenze alla illimitatezza del denaro e del potere.

Capitalism cannot be born on the basis of an external limitation acting on the economy – it especially cannot be born philosophically in this manner. Therefore as a matter of principle, capitalism is born as philosophically limitless. The accumulation of capital must conceive of itself as being theoretically limitless, even while it contemplates the ecological limits of nature and the limits imposed by human morality. Bearing this in mind, we may now examine the philosophical birth of capitalism’s new, more restricting way of conceiving of limits.

Il capitalismo non può nascere, soprattutto filosoficamente, sulla base di una limitazione esterna all’economia stessa. Esso nasce quindi come filosoficamente illimitato in via di principio. L’accumulazione del capitale deve pensarsi come teoricamente illimitata, sia pure in presenza dei limiti ecologici della natura e dei limiti dovuti alla moralità umana. Bisogna quindi prestare attenzione alla nascita filosofica del nuovo tipo di limitatezza del capitalismo.

For the sake of saving time I will skip over the interesting covenant between capitalism and Calvinism, which in my opinion is greatly overestimated. I will turn the reader’s attention instead to the seventeen hundreds. At around this time there existed three theoretical “limits” to what would otherwise be the unrestrained dominance of the economy. They were, in order of importance: a religious limit (God), a philosophical limit (natural law, or jusnaturalism), and a political limit (the social contract, or contractualism). Yet once the nascent discipline of political economy sought to establish itself as a completely self-contained and self-referential entity, independent of any external foundation that might limit it in any way, it became necessary to dispose of God, of natural law, and of the social contract. This remarkable enterprise was undertaken by a pair of Scotsmen, David Hume and Adam Smith. Rather than go into details here, let me make sure the reader has understood the heart of the matter.

Intorno al Settecento circa (risparmio qui le pur interessanti promesse del rapporto fra capitalismo e calvinismo, a mio avviso largamente sopravvalutate) i tre “limiti” teorici al dominio incontrollato dell’economia erano nell’ordine un limite religioso (Dio), un limite filosofico (il diritto naturale, o giusnaturalismo) ed un limite politico (il contratto sociale, o contrattualismo). Perché l’economia politica potesse autofondarsi su se stessi integralmente, senza alcun bisogno di fondazione esterna che la limitasse, bisognava disfarsi dell’ordine di Dio, del diritto naturale e del contratto sociale. Chi compì questa notevole impresa fu una coppia di scozzesi, David Hume ed Adam Smith. In questa sede, non posso scendere nei particolari, e devo accontentarmi del cuore del problema.

I repeat: the heart of the matter is political economy’s act of self-foundation, its declaration of independence from any “limits” imposed by factors external to the economy itself, such as God (religion), natural law (philosophy), or the social contract (politics). Without being subject to any “external” limitations, and appearing to be completely self-sufficient, self-perpetuating and sovereign, the economy assumes the symbolic status of an absolute power. We are dealing here with a conceptual totalitarianism that not even religions have dared to attempt (God is in fact always a “limit” to human behavior). Leaving aside for now the names and dates, I will get right to the core of political economy’s reasoning.

Ripeto: il cuore del problema è l’autofondazione dell’economia politica su se stessa, senza dipendenze (e cioè senza “limiti”) da parte di fattori esterni all’economia stessa, come Dio (religione), diritto naturale (filosofia) o contratto sociale (politica). Perché l’economia possa avere un potere simbolico assoluto, non deve essere limitata da niente di “esterno”, ed apparire come completamente autosufficiente e sovrana su se stessa. Si tratta di un totalitarismo concettuale che persino le religioni non hanno mai osato sostenere in questa forma (Dio è infatti sempre un “limite” per i comportamenti umani). Qui lascio perdere i nomi, e giungo al nocciolo del ragionamento.

The economy is sovereign because it is based on human nature, which is seen to exhibit a spontaneous propensity and an innate inclination for the exchange of goods and services between buyers and sellers. This spontaneous behavior has no need of any external foundation, be it God, or natural law, or the social contract. Let’s follow the reasoning further: political economy is skeptical regarding God, and not atheist or materialist. It has no need to assert that God does not exist, or that priests are shamans and sorcerers who take advantage of ignorant people’s superstitions. This the economists can leave to the fanatical secularists, and to their tattered, latter-day, plebeian followers: the atheist communists, who in the place of God proclaim another God that is even more non-existent than the first one, namely History intended as the irreversible march of progress. It suffices the economists that God does not interfere with the harmonious workings of the economy, and that he contents himself with only the domain of individual morality, particularly as it regards sex. It is really the height of idolatry to think that God, with all of the many things he presumably has to do, should be primarily and exclusively concerned with extramarital sex (though I do not dream to suggest that its ethical significance is purely and exclusively “private”). Anyhow, what matters is that God does not stick his otherworldly nose into the workings of the economy.

L’economia è sovrana, perché si basa sulla natura umana, che viene vista come portatrice di una tendenza spontanea e di un’abitudine innata allo scambio fra le attese del venditore e quelle del compratore. Questo meccanismo spontaneo non ha bisogno di nessuna fondazione esterna, che sia Dio, il diritto naturale o il contratto sociale. Seguiamo il ragionamento. Per quanto riguarda Dio, l’economia politica è scettica, e non atea o materialistica. Non c’è nessun bisogno di affermare che Dio non esiste, e che i preti sono sciamani e stregoni che approfittano delle superstizioni degli ignoranti. Questo gli economisti lo lasciano ai laicisti fanatici, ed alla loro versione plebea e stracciona posteriore, i comunisti atei che al posto di Dio mettono un altro Dio ancora più inesistente, la Storia intesa come fatalità irreversibile del progresso. Basta dire che Dio non può interferire nelle armonie economiche, e deve accontentarsi al massimo del regno della morale individuale, particolarmente sessuale. E’ veramente il massimo dell’idolatria pensare che Dio, con tutte le cose che presumibilmente ha da fare, debba occuparsi prioritariamente ed esclusivamente di scopate extra-matrimoniali (il cui aspetto etico di rilevanza non puramente e esclusivamente “privata” non mi sogno comunque di negare). In ogni caso, ciò che conta è che Dio non ficchi il suo naso ultraterreno nei meccanismi economici.

As for philosophy, it is known for not being able to empirically prove any of the things that it asserts. This was the case with the doctrine of natural law, and it continues to be the case with the German idealist system, with Marx’s theory of alienation, with Nietzsche’s Superman-inspired delirium, with Heidegger’s pessimism, and with Adorno’s, Lyotard’s and Sloterdijk’s pessimistic disenchantment, etcetera. Therefore, it would be better if philosophy did not bother people about things that actually matter, like the economy. Hume even recommends burning all philosophy books that claim to speak of “truth,” and indeed, if the only real truth is the GDP and the markets’ judgment then what is the use of talking about Being when it is completely indemonstrable? As for the social contract, Hume considers the generally held belief that it is “caused” by natural law and that it in turn “causes” human society. This belief was supported by an interpretation from the “Right” by Hobbes, from the “Center” by Locke, and from the “Left” by Rousseau. But in truth of fact, the social contract’s chain of causality cannot be proven either. Therefore it is unfeasible to establish a society’s economy on the basis of a philosophical premise that is indemonstrable and nonexistent (Philosophy? Ha-ha-ha!) And as if that were not enough, it is also unfeasible to postulate a stable preliminary definition of subjectivity, since that which is called the “subject” is really nothing but a fickle flux of sensations and impressions. (On this same basis, a century later, Nietzsche maintained that the subject was merely an energy flow of the will to power, and yet only a hallucinatory, mustachioed person could think that by holding this definition of the subject he was being anti-bourgeois!).

Per quanto riguarda la filosofia (a quei tempi il diritto naturale, e poi successivamente il sistema idealistico tedesco, la teoria dell’alienazione di Marx, il delirio superomistico di Nietzsche, il pessimismo di Heidegger, fino al disincanto pessimistico di Adorno, Lyotard, Sloterdijk, eccetera), è noto che essa non può dimostrare empiricamente niente di quanto afferma, e quindi è meglio che non rompa le scatole su cose serie come l’economia. Hume consiglia addirittura di bruciare tutti i libri di filosofia che pretendano di parlare della “verità”, ed in effetti se la sola verità è il PIL ed il giudizio dei mercati, a che serve parlare dell’Essere, che è del tutto indimostrabile? In quanto al contratto sociale, Hume ritiene che molti credono che esso sia “causato” dal diritto naturale, “causi” la società umana e ne sia una interpretazione (di “destra”, Hobbes, di “centro”, Locke, o di “sinistra”, Rousseau), ma la causalità non esiste neppure, ed in ogni caso non si può fondare la società economica sulla base di una premessa indimostrabile ed inesistente, come la filosofia (la filosofia? Ha-ah-ah!). Come se questo non bastasse, non si può neppure postulare una soggettività stabile preliminare, in quanto ciò che viene chiamato “soggetto” non è che un flusso mutevole di sensazioni e di impressioni (Nietzsche, su questa base, sostenne un secolo dopo che il soggetto non era che un flusso energetico di volontà di potenza, e solo un baffuto allucinato poteva pensare di essere così anche anti-borghese!).

May the reader take a deep breath. In the manner just described, capitalism established for itself an absolutely limitless potential that was unbound by any of the external “limits” of religion, philosophy and politics. The fatal “market judgment” of today, to which various “communists” have submitted (except for small marginalized groups of fundamentalist true believers), is nothing other than the dialectical development of capitalism’s self-founding premise.

Il lettore respiri profondamente. In questo modo, il capitalismo è fondato su di una illimitatezza potenziale assoluta, perché non esistono “limiti” esterni, come la religione, la filosofia e la politica. L’attuale e fatale “giudizio dei mercati”, cui si sono sottomessi i vari “comunisti” (ad eccezione di piccoli gruppi marginali di credenti fondamentalisti), non è che uno sviluppo dialettico di questa premessa autofondata.

Capitalism is therefore not at all “conservative” as it was believed to be for a century by the stupidest intellectual emulsion in the solar system: the culture of the Left. Quite to the contrary, it is a revolutionary force, but one that I would define as being fundamentally nihilistic. Capitalism’s being simultaneously revolutionary and nihilistic holds a connotation that is important to grasp, because it conceptually determines the theoretical framework through which capitalism is understood. Capitalism is revolutionary, as Marx had already noted, because it revolutionizes and destroys all preceding ideological, economic, political and social systems with a formidable single-mindedness. Its one and only goal is to promote the “infinite” and unfettered (apeiron) expansion of the commodity form over every minute aspect of individual and community life. Nothing can get in the way of this goal, neither the remnants of feudalism nor the remnants of the proletariat or the bourgeoisie (the most foolish error of the Leftist tradition has been to always identify the bourgeoisie directly with capitalism, which means to identify a collective historical subjectivity with an anonymous and impersonal process of reproduction). But at the same time capitalism is nihilistic, because its unlimited expansion of the commodity form is exactly that which was referred to in Greek philosophy, ever since Parmenides, as Nothingness. In point of fact, today’s capitalists are not even “bourgeois” anymore, although once upon a time they were. Today they are only “character masks” (to use Marx’s term). They are only the roles performed by actors in a social script; they are only the strategic agents of an anonymous and impersonal mechanism of capitalist reproduction to which contemporary philosophy has already given many names (Weber’s iron cage, Heidegger’s technical dispositif, etcetera). The Italian scholar who has best understood this is Gianfranco La Grassa (and for this very reason he has been silenced by the politically correct “Left”). La Grassa is worth your while to read, if you can get over his disgusting expectorations against philosophy and humanism, which are caused by residual deposits of ideological extremism from the 1970s.

Il capitalismo non è quindi per nulla “conservatore”, come lo ha creduto per un secolo l’emulsione intellettuale più stupida del sistema solare, e cioè la cultura di sinistra. Al contrario, esso è una forza rivoluzionaria, che definirò però un rivoluzionarismo nichilista. È bene comprendere questa connotazione, perché essa delimita concettualmente i confini teorici della sua comprensione. Esso è rivoluzionario, come aveva già capito Marx, perché è rivoluzione e distrugge tutti i sistemi ideologici, economici, politici e sociali precedenti, in quanto non si ferma davanti a niente, non importa se sia un residuo feudale, proletario o borghese (l’errore più stupido della tradizione di sinistra è sempre stato quello di identificare la borghesia con il capitalismo, e cioè una soggettività storica collettiva con un processo anonimo riproduttivo impersonale), in quanto la sua sola finalità è l’allargamento “infinito” ed indeterminato (apeiron) della forma di merce a tutti gli ambiti possibili di vita individuale o associata e comunitaria. Esso è nichilista, perché il semplice allargamento illimitato della forma di merce è esattamente ciò che nella filosofia greca, a partire da Parmenide, era connotato come il Nulla. I capitalisti, infatti, oggi non sono più neppure “borghesi”, anche se un tempo lo erano. Oggi sono solo delle “maschere di carattere” (Marx), dei ruoli sociali, degli agenti strategici della riproduzione capitalistica, meccanismo anonimo ed impersonale che nella filosofia contemporanea ha già avuto molti nomi (gabbia d’acciaio in Weber, dispositivo tecnico in Heidegger, eccetera). Lo studioso italiano che lo ha capito meglio (e per questo è stato silenziato dalla “sinistra” politicamente corretta) è stato Gianfranco La Grassa, e conviene leggerlo, se si riesce a superare il senso di ripu-gnanza delle sue espettorazioni contro la filosofia e l’umanesimo, residuo di depositi ideologici estremistici degli anni Sessanta del Novecento.

The dynamic of limitlessness holds us thoroughly in its grasp today. The various Lagardes, Montis, etcetera, who we see are only puppets, character masks. The dialectic allows this process to be understood very clearly. We obviously need a “limit,” yet we suffer from the lack of one. The grotesque, impotent and philosophically illiterate movements that serve only a testimonial function (pacifism, alter-globalization, Indignados, etcetera) cannot convince me that they in fact are “limits.” These people couldn’t even put a limit on boiling water inside a coffeemaker. The same applies to the labor unions, whose impotency is plastically manifested in the drums and whistles that accompany their deambulatory rituals. The movement of twentieth-century historical communism (1917 – 1991), now defunct for at least twenty years as a world-historical factor, was instead a real limit (katechon), although a very weak one. I am referring obviously not to the charlatan snobs of Leftist salons, but specifically to the Communist States with planned economies and extensive geopolitical power.

Attualmente siamo in preda alla dinamica dell’illimitatezza. I vari Lagarde, Monti, eccetera, non sono che fantocci, maschere di carattere. La dialettica permette di capire bene questo processo. Ci vuole, ovviamente, un “limite”, ma soffriamo di questa mancanza. Non mi raccontino che sono “limiti” i grotteschi movimenti impotenti, testimoniali e filosoficamente analfabeti (pacifismo, altermondialismo, indignati, eccetera). Costoro non potrebbero limitare neppure il bollire dell’acqua per il caffè. Lo stesso si può dire dei movimenti sindacali, la cui impotenza si manifesta plasticamente nei tamburi e nei fischietti dei loro riti deambulatori. Il movimento del comunismo storico novecentesco (1917-1991), oggi defunto da almeno un ventennio come fattore storico mondiale, è invece stato un limite vero (katechon), sia pure debolissimo. Non parlo ovviamente dei ciarlatani snob dei salotti di sinistra, ma proprio degli Stati comunisti ad economia pianificata ed a estensione geopolitica.

But they exist no more. Was their end caused by a betrayal? Don’t be silly! Their end came as the result of an internal dialectic, which I will now try to summarily describe.

Ma questi sono finiti. Per tradimento? Ma non diciamo sciocchezze! Sono finiti per una dialettica interna, che cercherò sommariamente di descrivere adesso.

 

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3. Communism: the Dialectic of Corruption
There is a usual way of exorcizing the problem of communism’s internal dialectical corruption, and that is by making a distinction between the “real communists,” which means those who have subjectively remained so, (amongst whom, if we wish to use this troglodytic term, I include myself) and the “fake communists,” or ex-communists (like Gorbachev, Yeltsin, D’Alema, Veltroni, Napolitano, etcetera). In this way, the problem of communism’s irreversible corruption as a historical phenomenon is continually deferred so as not to upset the last of the gullible believers who need to be constantly reassured by the theory of the traitor’s subjective betrayal (the atheist equivalent of the theory of sin and the weakness of the flesh for religious believers). But I will choose another way of addressing the problem. From a strictly philosophical point of view I am still a “communist,” and I am much more so now that I was in my youth, because now my communism has been “purified” and is no longer mixed with the “Leftist” stupidities I fostered for decades. But here I intend to proceed on a strictly dialectical level, regarding only the procedural dynamic of “concrete” historical communism, and leaving aside for now its philosophical idealism of which I am a great admirer (allow me to note that in my interpretation of Marx, he is a humanist and an idealist).

3. Il comunismo: la dialettica della corruzione
Esiste un modo consueto per esorcizzare il problema della corruzione interna dialettica del comunismo, e cioè la distinzione tra “veri comunisti”, quelli soggettivamente rimasti tali, (fra i quali, se vogliamo usare questo termine trogloditico, ci sono anch’io) e “falsi comunisti”, o ex-comunisti (tipo Gorbaciov, Eltsin, D’Alema, Veltroni, Napolitano, eccetera). In questo modo, il problema della corruzione irreversibile del comunismo come fenomeno storico viene continuamente rinviato, per non scandalizzare gli ultimi babbioni credenti, che devono essere continuamente rassicurati con la teoria del tradimento soggettivo dei traditori (equivalente ateo della teoria del peccato e della debolezza della carne per i credenti). Io invece sceglierò un’altra strada. Da un punto di vista strettamente filosofico, io sono sempre “comunista”, e lo sono anzi molto più che in gioventù, perché ora il mio comunismo è “purificato”, e non è mescolato con le stupidaggini di “sinistra” con cui l’avevo nutrito per decenni. Ma qui intendo muovermi su di un piano strettamente dialettico, che riguarda soltanto la dinamica processuale del comunismo “concreto”, quello storico, lasciando perdere per ora le grandi idealità filosofiche, di cui sono soggettivamente un cultore (ricordo che la mia interpretazione di Marx ne fa un umanista ed un idealista).

The modern communism that we know, particularly in its variant espoused by Marx and the Marxists, does absolutely not originate from a spontaneous movement of the popular classes. Those who are searching for this spontaneous movement can find it rather in English trade unionism and French syndicalism (Proudhon, Sorel, etcetera). Modern communism however, has two genetic matrices (not counting Marx’s transformation of Smith’s labor theory of value) that are both one hundred percent, one thousand percent, bourgeois: the unhappy consciousness of the bourgeoisie elaborated by Hegelian theory, and the bourgeois myth of progress. I will examine them separately, but let it be clear that this is only a scholastic procedure, for in reality the two are united.

Il comunismo moderno che conosciamo, in particolare nella variante di Marx e del marxismo, non trova assolutamente la sua origine in un movimento spontaneo delle classi popolari. Chi cerca questo movimento spontaneo può trovarlo piuttosto nel sindacalismo inglese e nel federalismo francese (Proudhon, Sorel, eccetera). Il comunismo moderno (prescindo qui dalla trasformazione della teoria del valore-lavoro di Smith fatta da Marx) ha invece avuto due matrici genetiche, entrambe borghesi al cento per cento ed al mille per mille: l’elaborazione della teoria hegeliana della coscienza infelice della borghesia ed il mito borghese del progresso. Le esamino separatamente, ma sia ben chiaro che si tratta di un’operazione scolastica, perché sono in realtà unite.

The bourgeoisie, understood as a general class and not merely as the anonymous and impersonal agent of capitalist relations of production, distribution and consumption, is a contradictory class, and therefore dialectical. On the one hand, it thinks of itself ideologically as being a universal class that is the standard-bearer of wellbeing, wealth and progress for all; but on the other hand, it is aware of itself as being an exploitive class that extracts surplus labor from others, regardless of how it justifies this to itself and to those whom it exploits. This contradictory dialectical space I call the “unhappy consciousness” of the bourgeoisie, permitting myself to make use of the great souls of Hegel and Marx without their consent. The communism of Marx in particular has no relation whatsoever to the spontaneous worldviews of the popular classes of his time, instead it derives linearly from a brilliant dialectical coupling of the Smithian and then Ricardian theory of value with the Hegelian theory of alienation. All of the arguments made for the popular and proletarian origins of Marxism, including the original one made by Marx himself, are merely posterior ideological adjustments and justificatory, legitimizing mythologies.

La borghesia, intesa come classe generale, e non solo come portatrice anonima ed impersonale dei rapporti capitalistici di produzione, distribuzione e consumo, è una classe contraddittoria, e quindi dialettica. Da un lato, pensa se stessa ideologicamente come classe universale, portatrice di benessere, ricchezza e progresso per tutti, e dall’altro è consapevole di essere una classe sfruttatrice, che estorce un pluslavoro da altri, e questo indipendentemente dal modo in cui lo giustifica a se stessa ed ai suoi dominati. Questo spazio dialettico contraddittorio lo chiamo “coscienza infelice” della borghesia, e mi permetto di utilizzare senza il loro consenso le grandi anime di Hegel e di Marx. In particolare il comunismo di Marx non ha assolutamente nessun rapporto con le visioni spontanee del mondo delle classi popolari del tempo, ma deriva linearmente da una geniale coniugazione dialettica della teoria smithiana e poi ricardiana del valore e della teoria hegeliana dell’alienazione. Tutti i discorsi sull’origine popolare e proletaria del marxismo, ivi compreso quello originario di Marx, sono aggiustamenti ideologici posteriori e mitologie di giustificazione e di legittimazione.

This is particularly clear if you consider Marxism’s bovine and animal-like adherence to the bourgeois ideology of progress, which was totally nonexistent among the ancient Greeks, who were yet perfectly able to conceive of justice, equality, democracy and solidarity without this grotesque and mythological surrogate. Although the unfounded belief in progress was repudiated by a handful of “Marxists” (I site here only the Frenchman Georges Sorel and the German Walter Benjamin), their arguments never perturbed the historic site of Marxism’s age-old cultivation, which is that corpulent body of the Left that always persisted in defining itself as “progressive,” in antinomy and opposition to capitalism which it quite naturally characterized as “conservative and reactionary.” Here the world is upside-down indeed. The truth is that this so-called “progress,” which was also called “modernization,” was never anything but a sociological and ideological accentuation of the commodity form’s “liberalized” extension (beginning with the so-called “liberalization of customs” of extreme individualism). Yet in the decades following the mythical, mephitic and maniacal time of 1968, the culture of the Left became the loudest proponent of this capitalist modernization that was essentially post-bourgeois, and certainly not only post-proletarian.

Questo è particolarmente chiaro se si riflette sulla bovina ed animalesca adesione del marxismo alla ideologia borghese del progresso, assolutamente inesistente presso gli antichi greci, che erano riusciti a pensare la giustizia, l’eguaglianza, la democrazia e la solidarietà senza bisogno di questo grottesco e mitologico succedaneo. È vero che anche alcuni “marxisti” (faccio qui solo i nomi del francese Georges Sorel e del tedesco Walter Benjamin) stroncarono queste infondata credenza, ma il grande corpaccione della sinistra, luogo storico di coltivazione secolare del marxismo, si definì sempre come “progressista”, in antinomia ed opposizione con il capitalismo, tendenzialmente connotato come “conservatore e reazionario”. Il mondo alla rovescia. In realtà il cosiddetto “progresso”, chiamato anche “modernizzazione”, era sempre e soltanto l’approfondimento sociologico ed ideologico dell’estensione della forma di merce “liberalizzata” (a partire dal cosiddetto “costume liberalizzato” dell’individualismo estremo), per cui la cultura di sinistra negli ultimi decenni, almeno dopo il mitico, mefitico e demenziale Sessantotto, fu sempre l’ala marciante della modernizzazione capitalistica, essenzialmente post-borghese, e non certo soltanto post-proletaria.

The ideology of progress is based on an essentially linear concept of history, which is conceived as a symbolic space wherein you are headed Forward, and cannot go Backward. Real history, of course, does not correspond at all to this imagery for kindergarteners. An automobile on the highway can go forward or backward, but historical time is neither cyclical nor linear, it does not move in a circle according to an “eternal return,” but neither does it go forward. This stupid religion of history is falser and more absurd than the Jehovah’s Witnesses’ heaven, where tigers and lions play with children in the gardens of strictly monoracial American families (indeed, Jehovah practices Apartheid, whereas the Catholic and Orthodox God has accepted, albeit only recently and reluctantly, even mixed marriages – but not gay marriages, or at least not yet, even though political correctness is pressuring him hysterically to do so). But if you were to accept this stupid religion of history, then history would become merely a theater of winners in which the losers (in this case the communists) would immediately have to replace their defeated gods with the victorious ones. In this case it would mean replacing the Dictatorship of the Proletariat with the International Monetary Fund, replacing Eurocommunism with the European Central Bank, replacing Gramsci with Draghi and Monti, etcetera.

L’ideologia del progresso si basava su di una concezione sostanzialmente lineare della storia, vista come uno spazio simbolico in cui si è Avanti, e non si può andare Indietro. Naturalmente la storia reale non ha nulla a che fare con quest’immagine da asilo infantile. Un’automobile sull’autostrada può andare avanti o indietro, ma il tempo storico non è né ciclico né lineare, non gira in circolo con un “eterno ritorno”, ma neppure va avanti. Se invece si adotta questa stupida religione della storia, più falsa ed assurda del paradiso dei testimoni di Geova, in cui tigri e leoni giocano con i bambini nel giardino di famiglie americane rigorosamente monorazziali (Geova infatti pratica l’apartheid, mentre il Dio cattolico ed ortodosso ha accettato, sebbene da poco ed a malincuore, persino i matrimoni misti-quelli gay invece no, o almeno non ancora, anche se il politicamente corretto preme istericamente), la storia diventa il teatro dei vincitori, per cui i perdenti (in questo caso i comunisti) devono immediatamente sostituire le loro divinità perdenti con altre vincenti, e cioè nella fattispecie la Dittatura del Proletariato con il Fondo Monetario Internazionale, l’Eurocomunismo con la Banca centrale europea, Gramsci con Draghi e Monti, eccetera.

I would like to reiterate here that we are not dealing with betrayal, or at least we are not dealing only with betrayal. We are dealing with dialectics, with the severe and relentless dialectic of a theory based in Nothingness (the theory of progress). We should bear in mind that this nothingness is distinct from (but also convergent with) the Nothingness of Commodities, because the only progress that truly exists is the Progress of Commodities. This dialectic, rather than the simple formula of betrayal, can explain quite a lot about communists’ adaptation to capitalist progress.

Vorrei insistere che qui non abbiamo a che fare con il tradimento, o almeno non solo con il tradimento. Si tratta di dialettica, della severa ed implacabile dialettica di una teoria che ha come fondamento il Nulla, anche se è un nulla diverso (ma convergente) con il Nulla della Merce. Il solo progresso che esiste, infatti, è il Progresso della Merce. Questo spiega molto dell’adattamento dei comunisti a questo processo capitalistico.

Of course, we are also dealing with the proverbial “temptations” indicated by classical moralism (pleasure, wealth, power and pride). I do not deny this at all. But the explanation cannot be so banal. Yes, the majority of communists who I have personally known in half a century’s time (besides for a statistically small minority of “revolutionary ascetics”) were presumptuous, cynical and godless opportunists who were able to lead their gullible and utterly acritical followers easily by the nose (like the three-nostrilled comrades of Giovannino Guareschi, may God rest his soul). But I do not want to get lost in recounting these grotesque details of practices that were all too common. Better to get back to the severe process of the corrupting dialectic.

Naturalmente, abbiamo anche a che fare con le vecchie “tentazioni” del moralismo classico (piacere, ricchezza, potere, onori). Non intendo affatto negarlo. Ma la spiegazione non può essere così banale. Al di là di alcuni “asceti della rivoluzione”, statisticamente minoritari, la maggioranza dei “comunisti” da me conosciuti in mezzo secolo è composta di presuntuosi e cinici opportunisti senza Dio, che regnavano su babbioni del tutto privi di spirito critico (i trinariciuti di Giovannino Guareschi, buonanima). Ma non voglio perdermi in particolari grotteschi di costume. Meglio tornare al severo processo della dialettica corruttiva.

I have indicated how God’s deposition and substitution by the union of Science and History leads to an outcome that is completely nihilistic. In regards to Science, it is most certainly an ideation of enormous cognitive and practical value, it is the motor of a technological “progress” that would be foolish to deny and underestimate (and I, personally speaking, do absolutely not deny and underestimate it). Yet the value of Science pertains only to the knowledge of nature and to applications in the fields of technology and medicine, which taken by themselves are already quite significant. But no “scientific mindset” will ever be able to distinguish Good from Evil (the two words are capitalized here, of course). In regards to History, its divinization results in the utter loss of all of the ethical achievements attained by the older religion. Although the older religion postulated an anthropomorphized, transcendent deity that is nonexistent, it still contained gigantic treasures of expressiveness that can be evidenced not only in art, but also in history, in morals, and in politics.

Ho fatto notare come l’abbattimento di Dio, sostituito da un connubio di Scienza e di Storia, dà luogo ad un esito nichilistico integrale. Per quanto concerne la Scienza, essa è effettivamente un’ideazione conoscitiva e pratica di enorme valore, motore di un “progresso” tecnologico che sarebbe sciocco negare e sottovalutare (e che personalmente non nego e non sottovaluto assolutamente), ma questo vale soltanto, ed è già molto, per la conoscenza della natura e per le applicazioni tecniche e mediche, ma nessuna “mentalità scientifica” arriverà mai a distinguere il Bene dal Male (scritti maiuscolo, ovviamente). In quanto alla storia, la sua divinizzazione finisce con il perdere tutte le conquiste etiche della vecchia religione, che magari postulava una divinità trascendente antropomorfizzata non esistente, ma conteneva giganteschi tesori espressivi non solo artistici, ma anche storici, morali e politici.

Yet despite all of this, Marx still thought of himself as a forecasting social scientist rather than a philosopher (he erroneously thought to have abandoned the terrain of philosophy in 1845, at the age of twenty-seven!) Not surprisingly, the two foundational theses on which he conceived his idea of communism were both mistaken. But that’s ok, since science proceeds by trial and error, and nobody is perfect. Yet Marx’s two hypotheses were both not only slightly wrong, but both very wrong indeed. In the first place there is his mistaken conviction that the capitalistic bourgeoisie was incapable of developing the forces of production, and in the second place there is his mistaken conviction that the proletarian, wage-earning working class was capable of being a revolutionary power. We will address these two mistaken convictions separately.

E tuttavia, Marx pensava a se stesso non come un filosofo (erroneamente, pensava di aver abbandonato il terreno della filosofia fino dal 1845, all’età di ventesette anni!), ma come uno scienziato sociale previsionale. Le due tesi fondamentali su cui aveva costruito la sua idea di comunismo erano entrambe errate. Niente di grave, la scienza procede per prove ed errori, e nessuno è perfetto. Ma le due ipotesi di Marx erano entrambe non solo un po’ sbagliate, ma molto sbagliate. Si trattava dell’errata convinzione della presunta incapacità della borghesia capitalistica di sviluppare le forze produttive, in primo luogo, e dell’errato convincimento sulla capacità rivoluzionaria della classe operaia, salariata e proletaria, in secondo luogo. E trattiamole separatamente.

How did Marx ever get the idea that the bourgeois-capitalistic class (whose two elements he does not discern) would become incapable, after a certain point, of continuing to develop the forces of production? I don’t know how, but I can hypothesize that it was due to an erroneous historical analogy. Historical analogies are more misleading than mirages in the desert. Having considered how the classes of ancient slave-owners, feudal lords and Asiatic despots had all become incapable, at a certain point in their economic development, of further developing the forces of production, Marx inferred (in a typical case of induction) that the same would hold true for the capitalistic bourgeoisie. This forecast was mistaken. The capitalistic bourgeoisie is in fact a class unlike any other that came before it; it is an anonymous historical agent of production for the sole sake of production itself, which means for the sake of a production that is limitless. And to think that Marx actually did begin to notice this anomalous fact in other parts of his writings! He noticed it, but he did not draw from it the logical consequences.

Come è venuto in mente a Marx che da un certo punto in poi la classe borghese-capitalistica (da Marx non distinta nei suoi due elementi) si sarebbe rivelata incapace di continuare a sviluppare le forze produttive? Non lo so, ma posso ipotizzare che si sia trattato di un’errata analogia storica. Le analogie storiche sono ancora più ingannatrici dei miraggi del deserto. Dal momento che le classe dei padroni schiavistici, dei signori feudali e dei dominanti asiatici si erano effettivamente mostrate ad un certo punto dello sviluppo economico incapaci di sviluppare le forze produttive, Marx ne inferì (tipico caso di induzione) che lo stesso sarebbe successo anche per la borghesia capitalistica. Previsione errata. La borghesia capitalistica non è una classe come le precedenti, ma un agente storico anonimo della produzione per la produzione, e cioè per la produzione illimitata. E pensare che in altre parti della sua opera Marx sembra accorgersene. Se ne accorge, ma poi non ne tira le conseguenze.

As for the proletarian, wage-earning working class’s capacity for being an inter-mortal revolutionary power, it should be noted that Marx never actually spoke of this. Instead, he spoke of the formation of an associated, cooperative and collective worker that included everyone from the manager down to the last unskilled laborer. Yet this Marxian thesis (hidden in the unpublished Chapter VI of Capital, and this is not by chance) was completely ignored by the entirety of real existing “Marxism,” which always identified as its revolutionary subject the class of wage-earning factory workers. Now, if you know factory workers at all (and living as I have in Turin, you couldn’t help but know them!) then you know that without the mediation of political parties, labor unions and bureaucratic experts they wouldn’t be able to organize even a bowling club or a fishing trip, and this is not by chance. Whereas artisans and peasants possess mastery of their professions’ autonomous production techniques, workers are inserted into a production process that is completely extraneous to them and to which they do not possess the “keys” to autonomously self-manage (except in a few irrelevant cases).

In quanto alla capacità rivoluzionaria inter-modale della classe operaia, salariata e proletaria, va detto che in realtà Marx non ha mai parlato di essa, ma della formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore all’ultimo manovale. Ma all’atto pratico l’intero “marxismo” veramente esistito di fatto ha ignorato questa tesi marxiana (nascosta nel Capitolo VI del Capitale, e non a caso “inedito”), e per soggetto rivoluzionario ha sempre inteso la classe degli operai salariati di fabbrica. Ora, chi li ha conosciuti (ed abitando a Torino non si poteva non conoscerli!) sa che la classe operaia senza mediazione dei partiti, sindacati ed apparati tecnici non potrebbe gestire neppure una bocciofila o una società di pesca con la lenza, e questo non a caso. Mentre infatti gli artigiani ed i contadini sono padroni delle tecniche produttive autonome della loro professione, gli operai lavorano sulla base di un processo produttivo a loro completamente estraneo e di cui non posseggano le “chiavi” per la autogestione autonoma (salvo irrilevanti eccezioni).

Now, it is a terrible thing indeed to base your cause on three presuppositions that each turn out to be nonexistent: (1) the myth of progress, which does not exist; (2) the incapacity of the capitalistic bourgeoisie to develop the forces of production, which does not exist; (3) the capacity of the proletarian, wage-earning working class to be a revolutionary power, which does not exist.

Ora, è terribile fondare la propria causa sulla base di tre presupposti tutti e tre inesistenti: (1) il mito del progresso, che non esiste; (2) l’incapacità della borghesia capitalistica di sviluppare le forze produttive, che non esiste; (3) la capacità rivoluzionarie della classe operaia, salariata e proletaria, che non esiste.

The reasons for communism’s corrupting dialectic are to be found in these three nonexistent presuppositions, and definitely not in Gorbachev’s ambition to advertise Louis Vuitton bags and Pizza Hut, or in D’Alema’s desire to strut about on his sailboat like every good capitalist or any hospital Chief of Staff. That is just colorful folklore for fools. Yet the depths of “corruption” have to be probed still further in order to attain a genuinely dialectical understanding of it. By probing these depths we can move well beyond the moralistic illusion of corruption entertained by the irrecoverably subaltern junior staff.

Le ragioni della dialettica corruttiva del comunismo sono queste, e non certo Gorbaciov che ambisce a pubblicizzare le borse Vuitton e la pizza Hunt o D’Alema che vuole pavoneggiarsi su di una barca a vela, come ogni buon capitalista o primario d’ospedale qualsiasi. Questo è solo folklore per straccioni. Ma il tema deve ancora essere approfondito, per poter avere della “corruzione” una comprensione dialettica, e non solo l’illusione moralistica per subalterni irrecuperabili.

I repeat, once again, that I am using the term “corruption” here in the dialectical sense to signify an internal process in communism’s historical dynamic (but I should not tire of repeating myself, since I am going against the current of common sense in order to effect a radical, qualitative “conversion” of the current mindset, which anthropomorphizes and is itself anthropomorphized). In saying that communism was corrupted from within my intention is simply to indicate a historical process, and not by any means to defame the Marxian idea of communism (I, at the age of sixty-eight, declare myself to be a “communist,” and it is unlikely that I will change my allegiance in the time I still have left to live). This dialectic of corruption became historically enmeshed with the dialectic of limitlessness of capitalist expansion. Thus the intimate and profound philosophical meaning of the last thirty years of humanity’s history can be put into words: for the time being, limitlessness has won over corruption.

Ricordo ancora una volta (ma non devo stancarmi, perché vado controcorrente contro il senso comune, e pretendo una “conversione” radicale qualitativa della mentalità corrente, che è antropomorfica ed antropomorfizzata) che uso il termine “corruzione” nel senso dialettico di un processo interno a una dinamica storica. Dicendo che il comunismo si è corrotto dall’interno intendo connotare un processo storico, non certo diffamare l’idea marxiana di comunismo (io stesso, a sessantotto anni di età, mi dichiaro “comunista”, ed è improbabile che cambi connotazione nel tempo che ancora mi resta da vivere). Questa dialettica di corruzione si è storicamente intrecciata con la dialettica di illimitatezza del processo di allargamento del capitalismo. Possiamo così definire il senso filosofico intimo e profondo dell’ultimo trentennio di storia dell’umanità: per ora l’illimitatezza è uscita vincitrice della corruzione.

 

So now what?

 

E adesso?

 

***

4. Open and Provisional Conclusions: from the World of Illusions to the World of Understanding
Illusions have been socially necessary in history, from the illusion of the promised coming of the kingdom of God (Paul of Tarsus) to the illusion of socialism’s sure victory over capitalism (Lenin). This fact needs to be understood, regardless of the little smiles it may bring to disenchanted faces. But the time for cultivating illusions is now over, and it seems to me that it will not return. From now on the dialectic of illusions needs to be replaced by the dialectic of understanding.

4. Conclusioni aperte e provvisorie: dal mondo delle illusioni al mondo della comprensione
Le illusioni sono state socialmente necessarie nella storia, dall’illusione dell’avvento prossimo del regno di Dio (Paolo di Tarso) all’illusione della vittoria sicura del socialismo sul capitalismo (Lenin). Occorre capirlo, e non solo fare sorrisini di disincanto. Ma il tempo della coltivazione delle illusioni mi sembra ormai passato irreversi-bilmente. D’ora in avanti bisogna sostituire alla dialettica delle illusioni la dialettica della comprensione.

Taken as a whole, the inheritance left to us today by a century and a half of Marxism is obsolete, with the exception of a few, rare high points. You cannot pass from idealism to positivism without paying a price – not even if you are passing from Marx’s radically modified idealism to Engels’ positivism. As cases in point, there are those who believe that the current trend towards globalized capitalism, rather than being a moment in capitalism’s limitless development, is merely a “response” to the cycle of struggles waged by the Fordist working class for wealth redistribution in the 1960s. There are also those who continue to think that the crises of capitalism are only due to the tendency of the rate of profit to fall, or to imbalances between overproduction and underconsumption. These features are certainly present in, and relevant to current capitalism, but they are superficial features. The “profundity” of the matter does not reside in them, but in the tendency to limitlessness of the expansion of the commodity form.

Presa nel suo insieme, al di là di alcuni rari punti alti, l’eredità che ci lascia un secolo e mezzo di marxismo è ormai obsoleta. Non si passa dall’idealismo, sia pure radicalmente modificato da Marx, al positivismo di Engels senza doverne pagare il prezzo. C’è chi crede che l’attuale tendenza al capitalismo globalizzato, anziché essere un momento del suo sviluppo illimitato, sia stata soltanto una “risposta” al ciclo delle lotte rivendicative per la distribuzione della classe operaia fordista negli anni Sessanta del Novecento. C’è chi continua a pensare che le crisi capitalistiche siano soltanto dovute alla caduta tendenziale del saggio di profitto, oppure a squilibri fra sovrapproduzione e sottoconsumo. Questi aspetti sono certamente presenti e rilevanti, ma sono aspetti di superficie, perché la “profondità” non è questa, ma è la tendenza alla illimitatezza dell’estensione della forma di merce.

The understanding that replaces illusions must be based on the two previously discussed dialectical dynamics being fully conceptually assimilated to each other, whereby the limitlessness of capital and the corruption of communism are seen as parts of a single process. By “communism” here I obviously do not mean the communist idea, with which I fully identify, but real existing twentieth-century communism. Once these two dialectical dynamics have been assimilated, nothing is yet resolved, but at least the road is cleared of debris and a vehicle may proceed without getting hindered or stuck.

La comprensione parte a mio avviso dai due punti discussi in precedenza, la piena assimilazione concettuale delle due dinamiche dialettiche della illimitatezza del capitale e della corruzione del comunismo (inteso ovviamente non come idea comunista, nella quale mi riconosco pienamente, ma come comunismo storico novecentesco realmente esistito). Una volta assimilati questi due punti, non si è ancora risolto assolutamente nulla, ma almeno la strada è sgomberata dai detriti, ed un veicolo può passarci senza restare incagliato o impantanato.

The dialectical understanding of the object and of objectivity is called “the scientific object” (or simply das Objekt in German). The dialectical understanding of capitalism’s tendency to limitlessness is our Objekt. But in order to transform our Objekt of thought into something that is transformable in reality through a commensurate historical praxis, we must radically change the way we conceive of subjectivity, of potentially revolutionary subjects, and above all of what “a culture critical of capitalism” really consists of today. Let me add that “something that is transformable in reality through a commensurate historical praxis” is called der Gegenstand in German; it is a term used notably by the young Marx in distinction from das Objekt. Yet just as fortune-tellers will never be able to understand metaphysics, the proponents of an exclusively “scientific” Marxism will never be able to understand the concept of Gegenstand.

La comprensione dialettica dell’oggetto e dell’oggettività (in questo caso la dialettica capitalistica dell’illimitatezza), è ciò che si chiama l’oggetto scientifico (in tedesco Objekt). Ma per trasformare questo “oggetto” in materiale di trasformazione attraverso una prassi storica adeguata (in tedesco Gegenstand, termine usato anche dal giovane Marx, il concetto che i sostenitori del carattere unicamente “scientifico” del marxismo non capiranno mai, non più di quanto le cartomanti possano capire la metafisica) ci vuole un modo radicalmente diverso di concepire la soggettività, il soggetto ed i soggetti potenzialmente rivoluzionari, e soprattutto che cosa significa oggi “cultura critica al capitalismo”.

The present situation is ruinous. For historical reasons that I have already had ample occasion to analyze, today it is generally believed that the culture of anti-capitalism is synonymous with “the culture of the Left” which has ingrained itself into Western countries over the past 50 years. But “the culture of the Left” (minus a few exceptions, that confirm the rule) is essentially just a culture of modernizing individualization, which is itself the dialectical result of modern, post-bourgeois capitalism’s tendency to limitlessness. Hence, for the time being, the situation is even worse than it may appear to the most ardently pessimistic of observers. For until we can finally rid ourselves socially and collectively of “the culture of the Left,” or at least rid ourselves of its dominant features, we cannot even begin to pose the central problem of our times in the correct way.

La situazione attuale è rovinosa. Per motivi storici che ho già ampiamente avuto modo di analizzare, oggi si crede che la cultura anticapitalistica sia in definitiva la “cultura di sinistra” sedimentatasi nell’ultimo cinquantennio nei paesi occidentali, laddove questa cultura (tolte alcune eccezioni, che confermano la regola) è proprio il risultato dialettico della individualizzazione modernizzatrice della tendenza illimitata del moderno capitalismo post-borghese. La situazione, quindi, è per ora ancora peggiore di quanto possano sospettare le correnti più pessimistiche, perché senza potersi socialmente e collettivamente sbarazzarci di questa cultura, o almeno dei suoi aspetti dominanti, non si può neppure cominciare a porre il problema.

Humanity always outlives the idiots who want to monopolize interpretation. It’s too bad, though, that I won’t be around when this happens.

Costanzo Preve
Turin, November 2011

Ma questo non comporta in me un pessimismo radicale. L’umanità sopravvive sempre agli idioti che ne vogliono monopolizzare l’interpretazione. Peccato, però, non esserci più quando questo avverrà.

Costanzo Preve
Torino, novembre 2011

 

Translated by
Dimitri Papandreu
California, March 2019

Saggio già pubblicato in italiano su
“Comunismo e Comunità. Laboratorio per una nuova teoria anticapitalistica”,
12 dicembre 2011


Alcuni libri di  COSTANZO PREVE
editi da Petite Plaisance

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196 ISBNUna nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia (Cat. 196)

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185 ISBN

Lettera sull’Umanesimo
(Cat. 185)

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Cop. 081

Marx e gli antichi Greci
(
Cat. 81)

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9788875880835

Storia della dialettica
(Cat. 97)

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9788875880118

Storia dell’etica
(Cat. 102)

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9788875880156

 

Storia del materialismo
(Cat. 107)

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9788875880248

Il marxismo e la tradizione culturale europea
(
Cat.n. ebp 141)

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300 ISBN

L’alba del Sessantotto. Una interpretazione filosofica
(
Cat. 300)

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120 ISBN

Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi
(
Cat. 120)

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9788875880194

L’estetica di Lukács fra arte e vita. Considerazioni storiche, politiche e filosofiche, in:  Filosofia ed estetica  (Cat. 134)

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Marx lettore di Hegel

Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx.
Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica
(Ebook 1036)

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Marx e Nietzsche

Marx e Nietzsche
(Ebook 1034)

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Preve Kant

A duecento anni dalla morte di Immanuel Kant (1804-2004). Considerazioni attuali sul rapporto fra la filosofia classica tedesca ed il marxismo  (Ebook 1035)

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054

054

Nichilismo Verità Storia. Un manifesto filosofico della fine del XX secolo
(
Cat. 54)

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9788875880897

Elogio della filosofia. Fondamento, verità e sistema nella conoscenza enella pratica filosofica dai Greci alla situazione contemporanea, in: Dialettica oggi. “Koiné”. Anno XII – NN° 3-4 / Settembre – Dicembre 2005  (Cat. 79)

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063G

Il bombardamento etico.
Saggio sull’Interventismo Umanitario,
sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente
  (Cat. 63)

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055G

I secoli difficili. Introduzione al pensiero filosofico dell’Ottocento e del Novecento  (Cat. 55)

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9788875880910

Marx e Heidegger. Pervasività della tecnica e critica culturale al capitalismo nei due classici ed in alcuni loro interpreti contemporanei, in: Sumbállein. Riflessioni sugli scritti di Umberto Galimberti. [Koiné. Anno XII – NN° 1-2 /Gennaio-Giugno 2005]  (Cat. 68)

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Coperta 150

La saggezza dei Greci. Una proposta interpretativa radicale per sostenere l’attualità dei Greci oggi, in Filosofia e politica: che fare? (Cat. 150

Il saggio di Luca Grecchi Occidente: radici, essenza, futuro. Un convincente esercizio di filosofia della storia, in Filosofia e politica: che fare? (Cat. 150)

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106 Coperta

Postfazione a: Luca Grecchi, Il presente della filosofia italiana. Un confronto con alcuni filosofi contemporanei  (Cat. 106)

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R UMAX Vista-S6E

Individui liberati, comunità solidali.
Sulla questione della società degli individui
  (Cat. 46)

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056G

L’educazione filosofica.
Memoria del passato – Compito del presente – Sfida del futuro
  (Cat. 56)

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117G

Le stagioni del nichilismo.
Un’analisi filosofica ed una prognosi storica  (Cat. 117)

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Il crepuscolo della profezia comunista. Il futuro oltre la scienza e l’utopia (Cat. 114)

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Contro il capitalismo, oltre il comunismo.
Riflessioni su una eredità storica e su un futuro possibile
  (Cat. 118)

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Destra e Sinistra. La natura inservibile di due categorie tradizionali  (Cat. 65)

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La fine dell’URSS. Dalla transizione mancata alla dissoluzione reale  (Cat. 119)

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La questione nazionale alle soglie del XXI secolo.
Note introduttive ad un problema delicato e pieno di pregiudizi
  (Cat. 116)

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Le avventure dell’ateismo. Religione e materialismo oggi  (Cat. 60)

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Le contraddizioni di Norberto Bobbio.
Per una critica del bobbianesimo cerimoniale
(Cat. 007)

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Logica della storia e comunismo novecentesco. L’effetto di sdoppiamento  (Cat. 158)

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Marxismo, Filosofia, Verità  (Cat. 50)

***

Scienza, Politica, Filosofia. Un’interpretazione filosofica del Novecento  (Cat. 121)

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Un secolo di marxismo. Idee e ideologie  (Cat. 59)

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Verità filosofica e critica sociale. Religione, filosofia, marxismo  (Cat. 76)

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Elogio della filosofia. Fondamento, verità e sistema nella conoscenza e nella pratica filosofica dai greci alla situazione contemporanea (Ebook 1008)

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Marxismo e Filosofia. Note, riflessioni e alcune novità (Cat.n. ebp 069)

***

Hegel Marx Heidegger. Un percorso nella filosofia contemporanea  (Cat. 48)

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Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013

Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.

Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.

Costanzo Preve – Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi.

Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez

Costanzo Preve – Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx.

Costanzo Preve – Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante

Costanzo Preve – Religione Politica Dualista Destra/Sinistra. Considerazioni preliminari sulla genesi storica passata, sulla funzionalità sistemica presente e sulle prospettive future di questa moderna Religione

Costanzo Preve – Invito allo Straniamento 2° • Costanzo Preve marxiano ci invita ad un riorientamento, ad uno “scuotimento” associato a un mutamento radicale di prospettiva, alla trasformazione dello sguardo con cui ci si accosta al mondo.

Costanzo Preve (1943-2013) – Prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca (luglio 2012) de “Il Bombardamento Etico”. Un libro che è ancora più attuale di quando fu scritto, sedici anni or sono.

Costanzo Preve – Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica

Costanzo Preve (1943 – 2013) – «Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi». La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.

Costanzo Preve (1943-2013) – Il Sessantotto è una costellazione di eventi eterogenei impropriamente unificati. Il mettere in comune questi eventi eterogenei è un falso storiografico.

Costanzo Preve (1943-2013) – «Il convitato di pietra». Il nichilismo è una pratica, è la condizione del quotidiano senza la mediazione della coscienza, senza la fatica del concettualizzare

Costanzo Preve (1943-2013) – Teniamo la barra del timone diritta in una prospettiva di lunga durata. La “passione durevole” per il comunismo coincide certo con il percorso della nostra vita concreta fatalmente breve, ma essa è anche ideale, nel senso che va al di là della nostra stessa vita.



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Stefano Santasilia – «Introduzione alla filosofia latinoamericana». Espressione di un’alterità sempre in atto, essa si presenta come un ineludibile momento critico del pensiero occidentale.

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INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA LATINOAMERICANA

Stefano Santasilia

Introduzione alla filosofia latinoamericana

Mimesis, 2017

 

La riflessione sulla filosofia latinoamericana non può che iniziare dalla questione inerente alla sua legittimazione. Questa introduzione, che riguarda lo sviluppo del pensiero filosofico in una area geografica tanto vasta quanto variamente articolata in differenti espressioni nazionali, assume tale compito individuando in alcune categorie chiave – come quella del meticciato, intesa come categoria antropologico-filosofica fondamentale –, i caratteri peculiari che consentono di interpretare, in maniera originale, lo sviluppo storico della stessa filosofia latinoamericana. Espressione di un’alterità sempre in atto, essa si presenta, in tal modo, come un ineludibile momento critico del pensiero occidentale.


Sommario

Ringraziamenti

Introduzione

Pensare l’America Latina. Il meticciato come categoria antropologica

Il pensiero precolombiano: una questione controversa

Il pensiero nel periodo della colonia

L’epoca dell’emancipazione. Illuminismo e romanticismo

L’epoca dell’emancipazione. Krausismo e positivismo

Il pensiero del secolo XX. La reazione al positivismo

Il pensiero del secolo XX. La rinnovata ricerca dell’identità latinoamericana

Il pensiero del secolo XX. Il pensiero dei “forjadores” e degli “exillados”

Il pensiero del secolo XX. La generazione del 1950-1960

Il pensiero dei secoli XX-XXI. Liberazione e interculturalità

Bibliografia


 

Stefano Santasilia, dottore di ricerca e assegnista presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria. È segretario della rivista “Bollettino Filosofico” e redattore di altre riviste di carattere filosofico. È stato Visiting Professor presso la Universidad Nacional Autónoma Metropolitana di Città del Messico. Le sue aree di interesse sono l’antropologia filosofica dal punto di vista fenomenologico, la filosofia della religione e il pensiero ispanico. Autore di numerosi articoli e saggi, ha pubblicato due monografie relative al pensiero di Eduardo Nicol: Tra Metafisica e Storia. L’idea dell’uomo in Eduardo Nicol (2010) e Simbolo e corpo. Una prospettiva a partire da Eduardo Nicol (2013).  Collabora con la Cattedra di Filosofia Teoretica e di Ermeneutica Filosofica.

Curriculum e pubblicazioni

Dalla Introduzione

La filosofia latinoamericana è, probabilmente, uno degli ambiti di ricerca che meno ha sofferto gli effetti del tempo. Al contrario, continua a suscitare un vivo interesse a causa dei suoi temi, interrogativi e problemi.

Infatti, le riflessioni trasversali relative alla filosofia della storia e le sue dimensioni narrative, alla filosofia della liberazione, alla filosofia interculturale o alla stessa “filosofia della filosofia”, non hanno smesso di rinnovarsi e svilupparsi. La storia delle idee ha dovuto più volte rivedere la propria interpretazione riguardo a queste ricerche, le quali hanno ampliato il proprio orizzonte accogliendo anche la prospettiva postcoloniale, mediante una sensibilità di carattere interdisciplinare che, rendendo la sola prospettiva filosofica insufficiente, impone l’attenzione verso i contributi offerti dalla critica letteraria, dalla storia, dall’antropologia, dalle scienze sociali e dagli studi culturali. C’è, infatti, un carattere della filosofia latinoamericana che le dona una particolare coesione interna: mi riferisco al dibattito permanente riguardo la sua stessa possibilità e conformazione, sulla sua legittimità come autonomo oggetto di indagine – libero dai canoni accademici tradizionali condizionati dall’eurocentrismo dominante –, sulle sue origini e i suoi obiettivi. Si tratta, insomma, di un insieme di questioni tanto aperte quanto interessanti: bisogna, infatti, riconoscere che sulla sua permanente attualità non ha smesso di influire il carattere dei suoi temi così come la difficoltà di collocarla nella storia della filosofia in generale. Cosa essa sia e cosa la distingua dalle altre forme del filosofare è un problema che, come mostra accuratamente Stefano Santasilia, affonda le radici nella storia di ciò che la cultura europea battezzò col nome di “Nuovo Mondo”, e nelle nuove risposte da esso generate riguardo alle fondamentali domande della tradizione filosofica, ovvero nel suo caratterizzarsi come altra voce della Modernità.

[…] Non v’è storia della filosofia latinoamericana, breve o estesa, che non necessiti un’assunzione previa, una presa di posizione, un chiarimento della propria impostazione metodologica. Di ciò vi sono numerosi esempi; tra essi emblematica è l’opera di Horacio Cerutti Guldberg, nella quale è possibile rintracciare la più coerente trattazione di tale tema.

[…] Il libro permette al lettore di acquisire familiarità con gli snodi fondamentali, i protagonisti più rappresentativi e i riferimenti principali, offrendo, allo stesso tempo, una prospettiva e una concezione personale; un modo di esporre le questioni principali secondo uno stile che lo allontana definitivamente dai pregiudizi intellettuali di carattere eurocentrico. […].

 

Antolín Sánchez Cuervo

 

 


Altri libri di

Stefano Santasilia

 

Ermeneutica tra Europa e America Latina, Armando, 2008

Ermeneutica tra Europa e America Latina, Armando, 2008

Giuseppe Cacciatore, Pio Colonnello, Stefano Santasilia

Un volume che intende rappresentare un ulteriore passo in avanti nell’ambito della filosofia dell’interpretazione e del dialogo tra pensiero europeo e pensiero ispanoamericano. Lo scopo è quello di offrire al lettore una panoramica sul variegato arcipelago della riflessione ermeneutica tra Europa e America Latina. Gli Autori, studiosi di diversa nazionalità e di diversa formazione filosofica, dialogano da anni per individuare significative e inedite linee di indagine.

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Tra metafisica e storia, Le Cariti ed., 2010

Tra metafisica e storia. L’idea dell’uomo in Eduardo Nicol

Le Cariti, 2010

 

L’idea dell’uomo è l’idea che accompagna tutta la storia umana. Essa si mostra come possibilità di conoscersi, di comprendersi, di realizzare degnamente il progetto dell’esistenza. Resta da vedere se nel corso della storia tale idea sia stata individuata e realizzata in maniera compiuta, per quanto siano stati effettuati innumerevoli sforzi e ripetuti tentativi. Forse, la condizione umana si manifesta e si realizza proprio nella costante tensione verso una meta ultima, peraltro mai raggiunta. È possibile, dunque, pervenire a un’idea dell’uomo in sé compiuta e definitiva? A tale ricerca è volta l’indagine di Eduardo Nicol, che parte dall’analisi dell’esistenza dell’uomo attraverso lo statuto della sua vita interiore, per considerare infine, metafisicamente, la questione medesima dell’essere dell’uomo. Il presente volume ripercorre la strada segnata dal solco di tale riflessione, focalizzandosi sulla questione della storicità e della costituzione ontologica dell’uomo, con lo scopo di mostrare come, secondo Nicol, ogni riflessione teorico-antropologica debba obbligatoriamente condurre a porsi la domanda circa l’essere stesso dell’esistente uomo.

 

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Simbolo e corpo, Guida, 2013

Simbolo e corpo, Guida, 2013

Simbolo e corpo. A partire da Eduardo Nicol

Sulla scorta della definizione cassireriana di animal symbolicum, Eduardo Nicol riflette sul corpo come possibilità stessa dell’espressione, distinguendolo, in quanto “corpo umano”, dal mero trans-soggettivo, dal puro oggetto. Il corpo assume così il ruolo di produttore del simbolo a partire dalla sua stessa costituzione antropologica e ontologica. In uguale maniera, la dimensione simbolica, che è il “luogo” della coscienza, o dello spirito, condizione di ogni possibile conoscenza – che è sempre dialogica e per questo simbolica – in ogni sua manifestazione esprime prontamente il corpo come condizione della sua stessa attività.


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Jean Baudrillard (1929-2007) – L’uomo non smette di espellere quello che egli è, quello che prova, quello che significa ai propri occhi con tutti gli artefatti tecnici che egli ha inventato, e all’orizzonte dei quali sta scomparendo.

Jean Baudrillard 03

Il delitto perfetto

Il delitto perfetto

 

«Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi […] come i soggetti della storia;
ci siamo detronizzati e al nostro posto abbiamo collocato altri soggetti della storia,
anzi un solo soggetto: la tecnica».

G. Anders, L’uomo è antiquato, volume II, Bollati Boringhieri, Milano, p. 258.

 

 

«L’uomo non smette di espellere quello che egli è, quello che prova, quello che significa ai propri occhi: sia che questo accada con il linguaggio, il quale ha una funzione di esorcismo; sia che ciò capiti con tutti gli artefatti tecnici che egli ha inventato, e all’orizzonte dei quali sta scomparendo, in un processo irreversibile di transfert e di sostituzione. McLuhan considerava le tecnologie moderne delle ‘‘estensioni dell’uomo’’; bisognerebbe piuttosto considerarle delle “espulsioni dell’uomo”».

 

Jean Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 41.

 


Jean Baudrillard (1929-2007) – La morte è immanente all’economia politica. È per questo che essa si vuole immortale.
Salvatore Antonio Bravo – Le miserie della società dell’abbondanza. La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione.

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Ivan Illich (1926-2002) – Lessico unidirezionale: «inclusione» contro «emancipazione». Un tempo il crescere non era un processo economico. Oggi gli stessi genitori sono diventati insegnanti ausiliari responsabili degli input di capitale umano, per usare il gergo degli economisti, grazie ai quali i loro rampolli otterranno la qualifica di “homo oeconomicus”.

Genere. Per una critica storica dell'uguaglianza

Genere. Per una critica storica dell’uguaglianza

Salvatore A. Bravo

Lessico unidirezionale

I sistemi di potere proliferano, divengono capillari, strutturano i pensieri diffondendo parole, escludendone altre: censura linguistica-lessicale. La contrapposizione, il polemos (Πόλεμος) linguistico, è la condizione della democrazia, della comunità viva che veicola con le parole il confronto concettuale. In assenza di polemos linguistico non vi è che lo scorrere delle parole lungo un asse unidirezionale. Le parole sono apprese, ripetute, formulano rappresentazioni finalizzate a puntellare la caverna dei nostri mondi. Il sole che illumina fuori della caverna, il bene, è la libertà di parlare – con cognizione di sé – dei modi di produzioni, la parresia (παρρησία, ciò che viene detto). Non vi è comunità se non con la parola plurale, dialettica, nella quale (e con la quale) ci si confronta per capire, nella quale (e con la quale) si studia la storia per evidenziare in modo contrastivo le differenze. Un mondo senza parole dialettiche è unidirezionale, convoglia verso uno spazio ed un tempo eguale per tutti. La forza del sistema è nel ridurre le differenze a simulacro. Il simulacro è l’immagine allo specchio svuotata di ogni suo contenuto formale, di ogni passaggio dalla potenza all’atto. È possibile per tutti dichiarare la propria differenza, ostentarla fino al ridicolo, purché non intacchi la struttura dell’economia. Le differenze-simulacro, ombre della forma, una volta devitalizzate della loro carica trasgressiva pensante, sono interne al sistema. Possono scorrere all’interno dell’invisibile recinto, la loro differenza è semplice apparenza: l’involucro, il simulacro non cela la verità, è diventato la sostanza seriale del capitale. È il regno del dicitur, della chiacchiera (Gerede) senza alcun fondamento (Grund). Le differenze in tal modo non impensieriscono, non ricevono l’ostilità di alcuno, anzi sono trofei ideologici che rafforzano il sistema, il quale si presenta come democratico, mostra a caratteri cubitali “la libertà seriale”, di cui non si deve avere paura.

La sussunzione linguistica
La sussunzione, la sottomissione linguistica, non è riconosciuta: opera attraverso un invisibile guinzaglio lessicale. L’ostilità verso la cultura classica, verso la filosofia teoretica, non riposa soltanto nella presunta sua inutilità al lavoro, ma essa ha un’eccedenza di ragioni non esplicite: le parole teoretiche, i grandi quesiti della cultura classica e filosofica, disorientano, lasciano intravedere la verità del pensiero unico, il fondamento nichilistico, l’integralismo della caverna. Sono eliminati dal curriculum scolastico, ridotte a discipline secondarie, su di esse scorre un giudizio economico: non producono a sufficienza, per cui si invita la popolazione scolastica e non a viverle che come esperienza breve e fugace dell’adolescenza, una breve malattia da cui si guarisce.

L’inclusione
Il disprezzo si struttura nella logica dell’inclusione, del “mettere dentro”, del recintare liberamente le vite di tutti. In ogni documento scolastico, in ogni trasmissione televisiva la parola che fortemente è ripetuta è “competizione”. Il trattato di Lisbona del 2007 è esplicito all’articolo 86: l’Europa dev’essere altamente competitiva. La competizione dev’essere inclusiva, la grande novità dell’Europa post 1989 è l’inclusione, l’eguaglianza dei soggetti in funzione del mercato: nessuno dev’essere lasciato fuori del mercato. Tutti – nelle loro differenze – devono essere accolti nel mercato, ed inclusi: lo scandalo è restarne fuori, per cui ogni resistenza all’inclusione è persino medicalizzata. Un esercito di psicologi e medici scrutano il disagio dei resistenti per normalizzarlo, per deprivarlo della capacità creativa-oppositiva e renderlo normale e felice, come gli altri, pronto ad entrare nel recinto dell’inclusione.

La formazione come esperienza economica
La formazione dev’essere oggi per il capitalismo mondializzato un’esperienza economica. Non si forma il cittadino, la persona, ma l’homo oeconomicus. Tutti devono essere inclusi nel processo di governo delle esistenze funzionali all’economia, sin dall’età più tenera. Ogni sistema totalitario è attento alla formazione dei più piccoli:

«Un buon esempio è l’istruzione. Un tempo il crescere non era un processo economico: ciò che un ragazzo o una ragazza imparavano a casa propria non era scarso. Ognuno apprendeva a parlare la sua lingua vernacolare nonché le conoscenze indispensabili per una vita vernacolare. Sarebbe stato impossibile, salvo rare eccezioni, definire la crescita un processo di capitalizzazione della popolazione attiva. Oggi tutto questo è cambiato. I genitori sono diventati insegnanti ausiliari all’interno del sistema didattico. Sono responsabili di quegli input fondamentali di capitale umano, per usare il gergo degli economisti, grazie ai quali i loro rampolli otterranno la qualifica di “homo oeconomicus”. È quindi del tutto ragionevole che l’economista attivo nel settore didattico si preoccupi di come convincere la madre a iniettare la maggior quantità possibile di input di capitale non rimunerato nel proprio bambino. […] Quando i bambini entrano in prima elementare, esistono già tra loro differenze rilevanti nelle capacità verbali e matematiche. Tali differenze rispecchiano anzitutto variazioni in termini di doti naturali e in secondo luogo la quantità di capitale umano che il bambino acquisisce prima dei sei anni. Lo stock di capitale umano acquisito rispecchia, a sua volta, differenti input di tempo e di altre risorse da parte di genitori, insegnanti, fratelli e del bambino stesso. Il processo d’acquisizione prescolare di capitale umano è analogo alla successiva acquisizione di capitale umano attraverso la scolarizzazione e la formazione sul luogo di lavoro. Gli input non rimunerati di tempo e di fatica investiti dalla madre nella capitalizzazione del figlio sono qui correttamente presentati come la prima fonte di formazione del capitale umano. E anche chi consideri ridicole queste espressioni, deve necessariamente ammettere la realtà dei loro contenuti in una società in cui le capacità sono ritenute scarse e devono essere prodotte economicamente».[1]

L’inclusione è nel segno della riduzione della persona e delle differenze ad inclusione per la competizione. Tutti devono essere messi al nastro di partenza pronti ad una lotta darwiniana. La sofferenza, il disagio dei resistenti, gli alunni che devono forzare la loro natura per riorientarla secondo i dettami dell’economia, è un problema mai affrontato. Nelle scuole si spendono risorse contro il bullismo, per proiettare la violenza su pochi adolescenti disagiati e non svelare che l’inclusione è l’istituzionalizzazione del bullismo. L’orientamento scolastico è fortemente indirizzato verso alcune facoltà, mentre l’orientamento verso le facoltà umanistiche è ridotto a presenza burocratica veloce.
L’inclusione deve formare all’economia, il neoliberismo esige e caldeggia le libertà delle merci, ma non delle persone che le devono servire: tutti servi, tutti uguali.

L’emancipazione
L’emancipazione è parola scomparsa. Essa è, invece, costitutiva della nostra costituzione rispettosa della volontà di ciascuno, è la libertà dai condizionamenti, dai recinti sociali e cognitivi in cui le persone sono costrette. In particolare gli articoli 46 e 47 della Costituzione, per emancipare il soggetto dall’economia, dal suo determinismo, prevedono la partecipazione alla gestione dell’azienda, in modo che vi sia democrazia integrale:

«Art. 46.
Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».
«Art. 47.
La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese».

L’emancipazione è libertà implicante coscienza sociale collettiva, nella quale si concretizza la libertà. L’esperienza della libertà è attività, partecipazione, mentre l’inclusione è passività: il soggetto non discute il sistema, è immesso al suo interno senza la possibilità di scegliere. La terribilità della condizione attuale è che, malgrado le violenze delle controriforme, i lavoratori, le classi medie, non concepiscono minimamente la possibilità di discutere il sistema che li aliena, anzi talvolta sono il veicolo più immediato che puntella il sistema. Naturalmente una delle cause è l’istruzione per come oggi viene intesa e praticata: essa deve formare l’imprenditore, per cui quest’ultimo è giudicato intoccabile, figura semimetafisica ed astratta. L’istruzione, invece, nel dettato costituzionale, è libera dai condizionamenti del mercato, perché deve formare la persona: essa ha il compito di liberare dai condizionamenti. Il dettato costituzionale è nell’ottica dell’emancipazione e non dell’inclusione. Così recita l’articolo 3:

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Gioverebbe dunque ripartire dalla lettera e dallo spirito antieconomicistico e umanistico del dettato costituzionale in merito, e dal concetto di emancipazione che sostanzia i suoi articoli, mentre i manutengoli del capitalismo mondializzato nel nostro Paese si fondano sul regime dell’inclusione che rendono le persone strumenti passivi di forze economiche ipostatizzate.

Salvatore A. Bravo

[1] Ivan Illich, Genere. Per una critica storica dell’uguaglianza, Gender, 1982, pp. 32-33; Neri Pozza, Vicenza 2013.


Ivan Illich (1926-2002) – Lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza.

Ivan Illich (1926-2002) – Eutrapelìa. Due sono le chiavi di questa virtù: il sorriso e la misura. L’austerità non significa isolamento o chiusura in se stessi. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelìa, l’amicizia.


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N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


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Domenico Losurdo (1941-2018) – Le civiltà storiche si staccano dalle loro radici e precipitano nel mondo tecnico ed economico e in vuota intellettualità. Una lettura di «La comunità, la morte, l’Occidente, Heidegger e l’ideologia della guerra». Integralismo economico e culto dell’astratto.

Domenico Losurdo 003

La comunità, la morte, l'Occidente

La comunità, la morte, l’Occidente

Salvatore A. Bravo

Integralismo economico e culto dell’astratto

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Domenico Losurdo nel 1991 pubblica il testo La comunità, la morte, l’Occidente, Heidegger e l’ideologia della guerra. È l’anno della fine dell’Unione sovietica, è il trionfo del liberismo. La storia – da quel momento – cambia ad Oriente e ad Occidente: si accelerano i processi di economicizzazione delle comunità. L’Unione sovietica, con la sua presenza, era apparsa un mondo di valori altri rispetto all’americanismo mercatile e – specialmente nell’Occidente – sembrava limitare l’esiziale avanzata del liberismo. Il testo del 1991 è profetico nelle sue intenzioni: con la fine dell’Unione sovietica ogni ideale internazionale – politico ed antropologico – scompare dall’orizzonte culturale. L’economicizzazione livellatrice avanza, i trattati europei si avvicendano, si viaggia in direzione euro, tutto avviene per opera di plutocrati, mentre i popoli – senza punti di riferimento partitici ed ideologici – assistono alle (e soprattutto subiscono le) trasformazioni, spesso senza consapevolezza. L’integralismo economico è vincente, la globalizzazione inaugura un nuovo tipo di umanità dedita al valore di scambio a livello planetario, umanità astratta in quanto sradicata da ogni tradizione, da ogni storia, un essere umano senza volto con l’unico intento prometeico di dominare sui mercati. L’onnipotenza mercantile – trascorso l’ottundimento iniziale dei primi anni – comincia a mostrare le proprie contraddizioni. La solitudine dell’uomo globale, lo sradicamento dovuto al livellamento in nome del mercato, espone gli esseri umani ad uno stato di continua precarietà ed angoscia. Il livellamento coatto non riesce a dare un senso alle esistenze, ed aggrava le sperequazioni materiali. Il mercato promette false utopie pronte a rovesciarsi in distopie. Mercato ed economia, liberi dai residui vincoli della politica, applicano il darwinismo a livello globale: l’essere umano è solo un accidente, un dettaglio nei giochi dell’economia.

La scissione economia-politica
Domenico Losurdo ci invita a riflettere sui pericoli attuali, analizzando la condizione europea tra le due guerre, nel regno degli anni ruggenti dove alla crematistica succede la crisi del 1929, con i suoi effetti. Ci sono modelli che nella storia si ripetono in modo simile, mai in modo eguale. L’economia, nei decenni successivi alla dissoluzione dell’Unione sovietica, scissa dalla politica, innescando processi di omologazione, crea un essere umano astratto, globale, che nei decenni della crisi diviene il nemico da abbattere in nome di una riconquistata identità non mediata da nessun valore universale. L’universalismo è invece associato al liberismo più aggressivo, come nei decenni tra le due guerre:

«D’altro canto, la denuncia del mondo contemporaneo, devastato da “un processo di livellamento che ispira orrore” e “caratterizzato dalla superficialità, dalla nullità, e indifferenza” e soprattutto dal fatto che le civiltà storiche si staccano dalle loro radici e precipitano nel mondo tecnico ed economico e in vuota intellettualità, questa denuncia chiama esplicitamente in causa l’influenza rovinosa del “positivismo anglosassone”». [1]

La decadenza degli intellettuali
Gli intellettuali restano inascoltati in quanto rappresentanti dell’universalismo astratto, dell’economia che ha causato l’iperinflazione trasformando i popoli in moltitudini di sradicati, di alienati dalla propria storia. In assenza di valori universali, ci si rifugia nei particolarismi nazionali, nella storicità dei popoli devitalizzata dall’economia. I singoli che vivono uno stato di nullità dinanzi all’economia che tutto decide senza nessuno ascoltare, trovano sollievo all’angoscia che li attraversa fondendosi nella propria comunità di destino, radicandosi in comunità chiuse e rifiutando ogni mediazione razionale intellettuale che cerchi, nella contingenza della storia, l’universale. Il destino è la propria comunità:

«Sì, il destino rinvia in qualche modo all’essenza o essenzialità, ma “è solo un pregiudizio dell’intelletto e della sola logica ritenere che l’essenza debba sempre essere universale e generica (gattungsmäßig)”. Il destino è l’essenza, in quanto rappresenta l’elemento stabile nelle alterne vicende di una comunità storica, cioè ma determinata, ma, proprio per questo, esso è sinonimo non di universalità ma di irriducibile peculiarità. La “vera comunità popolare” chiarisce in testo più immediatamente politico si tiene a debita distanza da una “inconsistente e disimpegnato affratellamento universale”». [2]

 

La comunità come salvezza dall’angoscia
L’economia/crematistica minaccia l’esistenza, espone l’essere umano ad un senso di nullità, solo il particolarismo e la fusione senza mediazione può risolvere la solitudine del soggetto gettato tra le fauci dell’economia. Non ci si salva da soli dalle forze violente che sbriciolano e disperdono comunità millenarie, la morte biologica e specialmente morale trova nella fusione con la comunità, nel sacrificarsi per la comunità, la sua soluzione esistenziale:

«Il saper affrontare la morte in tanto può produrre l’autentica comunità in quanto è elemento costitutivo dell’autentica individualità. Ma questo è un tema largamente presente in Essere e tempo che insiste sul fato che l’angoscia singolarizzata, lungi dal ridursi a presenza isolata (isoliert), è essa solo capace di realizzarsi come autentico “essere nel mondo” e quindi in una storicità e comunità determinata». [3]

L’essere umano è un animale simbolico e relazionale. Necessita di definirsi nella storia e nella relazione con gli altri. Ogni definizione universale destoricizzata è foriera di ansie, è negatrice di un bisogno autentico negato: l’identità. Tra le due guerre, nella vecchia Europa aggredita dai fascismi quali sintomi di un male profondo che nessuno vuol guardare e capire, come nei nostri tempi, ogni universalismo è rifiutato in quanto flatus vocis, poiché l’essere umano comunitario per natura reagisce all’anonimato dell’economia con il radicamento nella propria storia:

«E come Spengler dichiara che parlare di genere in riferimento all’uomo significa far un uso in realtà di un “concetto zoologico”, così Heidegger afferma che ciò comporterebbe la riduzione dell’uomo a semplice ente intramondano, a cosa». [4]

Storicità e destino
Ogni ideale internazionale è tacciato di essere distruttore delle comunità. Il nazifascismo è stato il sintomo della malattia: l’integralismo economico. Il nazifascismo è parso un’ancora di salvezza, il ristabilimento dell’equilibrio nazionale mediante l’economia posta sotto il controllo della politica:

«Potremmo dire, facendo ricorso caro soprattutto ad altri autori minori di questo periodo, che all’ebreo manca il senso della “storicità” e di “destino” alla stessa stregua dei nemici della Germania. Si potrebbe dire che è il tipico rappresentante della Zivilisation. Non a caso si entusiasma per la parola “internazionale”: è per questo che finisce con agire oggettivamente in senso “distruttore” sulla cultura del paese in cui vive, allo stesso modo in cui “distruttrice” si presenta la “cultura occidentale nei suoi territori coloniali”».[5]

L’universalismo è la forma deteologizzata dell’universalismo cristiano, dietro il paravento dell’universalismo i popoli colgono un ordito ben preciso, l’intervento di potenze straniere per dominare popoli, per renderli sudditi privandoli della loro storia, della loro lingua, del suolo e del sangue:

«Anche per un altro ideologo del regime, Heyse, universalismo, che affonda le sue radici sempre nella tarda antichità e nel cristianesimo, cancella progressivamente “le differenze individuali degli uomini e dei popoli”. Il tema è poi onnipresente, e con una dimensione nettamente politica, Schmitt. Universalismo è qui sinonimo puro e semplice d’intervenzionismo e di <<pretesa d’ingerenza mondiale”». [6]

 

Contro la metafisica nichilistica: storia dei popoli ed universalismo
L’universale è così sostituito dal nichilismo metafisico, ovvero il fondamento di un essere umano è il destino del suo popolo, per il quale deve lottare fino alla morte, la lotta è la difesa del proprio popolo, della propria comunità dalle forze economiche internazionali che in nome di valori astratti entrano nel suolo-comunità dei popoli per infeudarli. L’Europa ed il mondo attuale vivono un clima simile a quello descritto da Losurdo tra le due guerre. La storia è sempre maestra di vita, anche se come affermava Gramsci pochi l’ascoltano. Dinanzi all’avanzare dei particolarismi senza fondamento universale, ci è di ausilio la tradizione filosofica. Herder ci ricorda che tutti gli esseri umani condividono la stessa umanità, le stesse potenzialità, ma nella storia il potenziale simbolico si storicizza nei singoli popoli che non perdono l’unità della loro comune umanità pur nella differente espressione:

«Tutti quanti siamo uomini, e come tali rechiamo in noi il genere umano, ovvero al genere umano noi apparteniamo. […] Umanità è il carattere della nostra specie; ma esso ci é innato solamente come predisposizione, e propriamente richiede di venir educato. Eppure è necessario ch’esso sia, nel mondo, la meta delle nostre aspirazioni, la somma delle nostre azioni, il nostro valore: non conosciamo infatti nessuna angelicità insita nell’uomo, e se il demone che ci governa non è un demone umano, allora noi diventiamo tormentatori degli uomini. L’elemento divino che c’è nel nostro genere è dunque l’educazione all’umanità. […] Umanità è il patrimonio e il risultato di tutti gli sforzi umani, è per così dire l’arte della nostra specie. L’educazione all’umanità è un’opera che deve essere continuata incessantemente; altrimenti tutti noi, che si appartenga ai ceti superiori o a quelli inferiori, ripiombiamo nella rozza animalità, nella brutalità». [7]

 Il nichilismo metafisico, il particolarismo senza fondamento universale è uno spettro che si aggira per l’Europa ed è il veicolo concreto dell’integralismo economico e dello Stato ad esso asservito che lascia i singoli al loro destino di solitudine, mentre sovvenziona il mondo imprenditoriale. A tale urgenza la filosofia deve rispondere senza compromessi. Senza risposte libere dal conformismo non può che scomparire nell’astratto mondo del totalitarismo economicistico e con essa scompare anche la speranza della prassi. Senza risposte mediate dalla razionalità filosofica la politica non saprà fronteggiare in modo adeguato le spinte reazionarie che si stanno delineando in Europa. Solo il ristabilirsi di un nuovo umanesimo in cui gli esseri umani sono riconosciti nella loro concretezza e nel contempo nella loro universalità può limitare l’avanzata dell’inverno dello spirito.

Salvatore A. Bravo

[1] Domenico Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente, Heidegger e l’ideologia della guerra, Bollati Boringhieri, 1991, pag. 28.

[2] Ibidem, pag. 37.

[3] Ibidem, pag. 48.

[4] Ibidem, pag. 57.

[5] Ibidem, pag. 99.

[6] Ibidem, pag. 83.

[7] Herder www.filosofico.net


Stefano G. Azzarà – Domenico Losurdo (1941-2018), in memoriam.


Losurdo nell'aprile 2011

Domenico Losurdo nell’aprile 2011

Domenico Losurdo

(1941-2018), in memoriam

di Stefano G. Azzarà

Università di Urbino

 

Sinistrainrete

 

A chi, per lusingarlo o con sincera ammirazione, gli faceva notare quanto originale e personale fosse il suo modo di pensare, Hegel rispondeva che se mai fosse stato presente qualcosa di esclusivamente personale nel suo sistema, questa cosa sarebbe stata senz’altro sbagliata. È un episodio che Domenico Losurdo era solito raccontare spesso ai propri allievi, per spiegare quale fosse il giusto atteggiamento conoscitivo degli studiosi e in particolare degli storici della filosofia. Ma è anche una citazione che sintetizza in maniera assai efficace il modo di praticare il lavoro filosofico al quale Losurdo stesso ha sempre cercato di attenersi. A differenza di molti altri intellettuali, i quali anche quando parlano del mondo finiscono in realtà per parlare in primo luogo di se stessi e della propria distinzione nei suoi confronti, in Losurdo era infatti assolutamente preminente il rigore dell’oggettività. La volontà pervicace, cioè – radicata in una scelta argomentata sul piano teoretico in favore della “via hegeliana” rispetto alla “via fichtiana” – di concepire tale lavoro come uno sviluppo il più possibile coerente delle determinazioni inscritte nell’oggetto, ovvero nella cosa stessa. L’idea che il movimento storico, la cui comprensione era ciò che gli stava più a cuore, scaturisse non dall’attività produttiva della coscienza che incontra il reale e se ne appropria o lo risolve in se stessa, oppure se ne tiene a distanza e lo deplora per specchiarsi nella propria superiore immacolatezza, ma da una contraddizione che è inscritta già nell’oggettività. In un tessuto ontologico, cioè, che è intrinsecamente lacerato, scisso. Agitato da una conflittualità immanente che con la sua trama tragica costituisce il presupposto del dolore del negativo e che, trasmettendosi semmai al soggetto che se ne fa carico nella relazione, chiama sempre di nuovo all’appello la fatica del concetto.

Sebbene lui stesso si sarebbe con ogni probabilità sottratto a questo genere di considerazioni, c’è però, a guardar bene, qualcosa di decisamente personale che possiamo comunque richiamare, a proposito di questo lavoro di ricerca giunto all’improvviso a conclusione dopo cinquantun anni (al 1967 risalgono la sue prime pubblicazioni); qualcosa cioè che può assumere un valore generale che vada al di là dell’esperienza soggettiva di un singolo. Losurdo, infatti, ha dovuto faticare e lottare con enorme determinazione per il riconoscimento delle proprie posizioni, sia in ambito accademico che in altri contesti. Ma questo sforzo necessario non è stato il marchio del suo percorso individuale, bensì la presa di coscienza del fardello che era ricaduto su un’intera generazione di intellettuali costretti dalla storia a fare i conti con il tramonto di un’epoca e di un intero mondo etico. E destinati ad affrontare questa crisi in maniere profondamente diverse e ad uscirne lungo percorsi che alla fine si riveleranno divergenti.

Da hegeliano e da marxista, Losurdo era assolutamente convinto della politicità intrinseca della filosofia: la filosofia è in primo luogo il nostro tempo appreso nel concetto e proprio per questo motivo la politica ne costituisce il primo e più importante banco di prova. Non certamente nel senso che questa disciplina debba limitarsi a una mera descrizione del mondo, o addirittura a una sua giustificazione, come sempre gli rimproveravano gli interpreti malevoli del motto di Hegel su reale e razionale: anche volendo, questo non sarebbe possibile perché la filosofia, quando è realmente tale, conserva sempre una missione di trascendenza che è la conseguenza inevitabile della sua potenza discorsiva universalistica. Lo è, piuttosto, nel senso che il giudizio politico è il vero experimentum crucis della ragione. E la capacità di esercitarlo in maniera corretta può al limite falsificare intere filosofie, fino a dimostrare, spesso, la meschinità delle costruzioni teoriche anche più grandiose.

Enorme è stata ad esempio la profondità filosofica di Nietzsche nel confrontarsi con i conflitti della propria epoca e nel rivelare l’ipocrisia dei sentimenti morali e dello spirito del progresso, dietro i quali si cela spesso nient’altro che una diversa forma di volontà di potenza, per quanto priva del coraggio e della buona coscienza di chi sa riconoscere la necessità della forza e persino della schiavitù. Oppure quella di Heidegger nel denunciare nel cuore della metafisica soggettocentrica della modernità e nello sviluppo della tecnica e delle forze produttive capitalistiche un progetto che ha i caratteri del dominio. Oppure ancora la lucidità di Schmitt nel mettere a nudo le aporie di quel pacifismo idealistico wilsoniano e liberale dietro il quale, ancora ai nostri giorni, si muove l’idea di un nuovo ordine mondiale tipicamente imperiale; un ordine che supera in una direzione globale ogni localizzazione e ha già posto fine all’ordinamento eurocentrico della terra per sostituirlo con un ordinamento diverso ma non meno aggressivo. Tuttavia, nel momento in cui questi intellettuali dalla statura gigantesca sono stati posti dagli eventi davanti alla necessità del giudizio politico, alla scelta di fronte al corso del mondo, ecco che proprio la loro pretesa di trascendenza filosofica è venuta immediatamente meno. E alle molteplici contraddizioni dell’universalismo, nella cui esplosione si annunciava già all’epoca la crisi della modernità, non sono riusciti a contrapporre nient’altro che una miserevole apologia del particolarismo. Ragion per cui, concludeva Losurdo, «nonostante la sua radicalità e gli straordinari risultati conoscitivi che permette di conseguire», la loro dirompenza decostruttiva, e cioè «la distruzione dei fiori immaginari» esercitata da quelle celebrate filosofie, finiva in realtà «col rinsaldare le catene della schiavitù salariata e della schiavitù vera».[1] Così che quei potenti dispositivi si rivelavano essere una critica dell’ideologia raffinatissima ma di natura tutta reazionaria.

La politica come “dissacrazione” del discorso filosofico e riconduzione alla sua sostanza, dunque. O forse meglio: come quella sua mondanizzazione che, facendola scendere dal cielo delle idee alla terra del conflitto secolare, esalta semmai, anche richiamandola al suo compito, le potenzialità umanistiche di questa forma di sapere, la sua natura progettuale. «Se Hegel ha insegnato l’ineludibilità della situazione storica», insomma, «Marx insegna l’ineludibilità in essa dei conflitti politico-sociali» e in questo modo definisce da quel momento «la qualità nuova del discorso filosofico»;[2] il quale adesso, di fronte a tali conflitti, è obbligato in quanto tale – e non in virtù delle sue eventuali ricadute morali – a prendere posizione. Ebbene, poiché ha praticato in prima persona questo «engagement oggettivo» in tempi che per la politica erano divenuti assai difficili – in tempi di riflusso nei quali ogni possibilità di trasformazione del mondo era stata negata e il lavoro intellettuale veniva sempre più ad essere concepito come apologia, edificazione, consolazione e supplemento d’anima rispetto alla mera amministrazione di ciò che è esistente –, a Domenico Losurdo come ad altri intellettuali della sua generazione questo prendere posizione è spesso valso le diffidenze e i sospetti di chi, dietro ogni ragionamento che non occulti la propria politicità militante, avverte subito il sentore della propaganda. Di una propaganda fuori luogo e fuori tempo massimo, oltretutto, visto che alle sue spalle – e cioè in quel campo filosofico-politico che a lungo si era richiamato all’emancipazione del genere umano – si poteva riconoscere non il fragore di un’avanzata trionfale ma il tono sordo di un esercito in rotta che nella sua fuga dal marxismo (ma anche dalla storia stessa) si andava disperdendo in mille direzioni.

Proprio per questo allora, proprio perché teneva sempre unite filosofia e politica in un’epoca che aveva voltato le spalle alla rivoluzione, proprio perché, dato lo spirito dei tempi, l’accusa di parzialità o partigianeria sarebbe stata sempre dietro l’angolo non meno di quella di giustificazionismo, Losurdo sapeva che per farsi riconoscere sul terreno accademico avrebbe dovuto essere assolutamente impeccabile proprio su quel presunto piano filosofico “puro”, e in apparenza asettico rispetto ad ogni conflitto, del quale i suoi critici interlocutori culturali – sempre pronti a denunciare l’ideologia ovunque tranne che presso se stessi – si ergevano a custodi. Solo in questo modo, solo anticipando ogni obiezione e scavando minuziosamente tra le fonti, solo padroneggiando a menadito gli autori di cui si occupava – e senza sottrarsi alle questioni teoretiche più sottili – poteva permettersi di portare la filosofia sul terreno di una politica intesa come la trasposizione sul terreno culturale della contesa tra emancipazione e de-emancipazione. Anche grazie a una cultura sterminata, va aggiunto, che gli consentiva di spaziare lungo due millenni e più di una storia universale che al suo sguardo abbracciava anche quel mondo negletto e misconosciuto che sta al di là dei confini dell’Occidente. Ecco, allora, che coloro che prima ancora che le posizioni particolari ne mettevano in discussione il metodo raramente hanno avuto il coraggio di sfidarlo in pubblico, ben sapendo che chi lo aveva fatto ne era uscito per lo più con le ossa rotte. Ecco, ad esempio, che anche i più rinomati specialisti di Hegel, e soprattutto quelli più risoluti nel rinchiudere il discorso del filosofo tedesco in una dimensione conservatrice e prevalentemente coscienzialista, ne rispettavano il giudizio e si dimostravano improvvisamente concilianti quando gli capitava di confrontarsi con lui.

Torniamo sul terreno dell’oggettività, allora, dal quale abbiamo preso le mosse. Losurdo è stato uno degli studiosi italiani più noti e tradotti al mondo. Si è confrontato anzitutto con la filosofia classica tedesca sulla scorta dell’eredità di Arturo Massolo e Pasquale Salvucci e del loro impianto hegelo-marxiano e di quel periodo storico e filosofico ha cambiato per sempre la nostra conoscenza.

Con Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant ha sottratto il filosofo tedesco alla «rispettabilità borghese e filistea»[3] consacrata dalla storiografia filosofica e cioè all’ambito del conservatorismo o del moderatismo politico nel quale era stato inscritto dalla tradizione degli studiosi liberali ma anche, nonostante Engels, da quella degli studiosi marxisti: in realtà, la «negazione del diritto di resistenza» in Kant rispondeva certamente all’opportunità di «rassicura[re] le corti tedesche» ma era soprattutto una mossa che «permetteva di affermare l’irreversibilità della Rivoluzione francese e quindi di condannare i tentativi di restaurazione».[4] Contro le insorgenze reazionarie come la Vandea e contro ogni tentativo di riscossa feudale, perciò, il filosofo tedesco continuerà ad essere “giacobino” perché continuerà ad aspettarsi, persino con troppa ingenuità, che «in seguito alla trasformazione prodotta da alcune rivoluzioni [nach manchen Revolutionen der Umbildung] sorga finalmente quello che è il fine supremo della natura, cioè un generale ordinamento cosmopolitico, che sia la matrice, nella quale vengano a svilupparsi tutte le originarie disposizioni della specie umana».[5]

Con saggi come Fichte, la rivoluzione francese e l’ideale della pace perpetua,[6] oppure Fichte, la resistenza antinapoleonica e la filosofia classica tedesca[7] o ancora Fichte e la questione nazionale tedesca,[8] Losurdo ha scandagliato poi la dialettica che ha animato la parabola filosofico-politica di una figura chiave della storia culturale e politica tedesca ma, più in generale, dell’ideologia europea: se in un primo momento «alla Francia rivoluzionaria, Fichte guarda […] come al paese che non solo avrebbe potuto o dovuto aiutare la Germania a scuotere il giogo del feudalesimo e dell’assolutismo monarchico, ma che avrebbe anche contribuito in modo decisivo alla realizzazione di una pace duratura o perpetua in Europa e nel mondo», ecco che con l’invasione napoleonica e i Befreiungskriege, al modificarsi della situazione concreta, si produce un mutamento netto. Un mutamento all’insegna della gallofobia e della teutomania, però; un mutamento che lo porterà lontano da ogni equilibrio critico e a respingere in toto, assieme all’inviso napoleonismo, anche lo spirito del 1789 in un primo momento esaltato. E a contestare dunque la rivoluzione politica ma soprattutto quell’universalismo filosofico che ne era alla base, e che dagli esiti della rivoluzione era stato tradito, dando vita in tal modo alla lunga stagione del particolarismo culturale tedesco, con le sue drammatiche ripercussioni tra le due guerre mondiali.

Ed eccoci a Hegel, infine, studiato in testi come Hegel, questione nazionale, Restaurazione,[9] Tra Hegel e Bismarck,[10] La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel,[11] Hegel e la libertà dei moderni[12] e infine Hegel e la Germania:[13] non solo per questo grande filosofo «La libertà della persona è un diritto inalienabile e imprescrittibile e non c’è positivo ordinamento giuridico che possa annullarlo»,[14] farà notare Losurdo, ma questa posizione andrà anche molto al di là del contrattualismo dell’epoca. Già nelle lezioni sulla Filosofia del diritto, per Hegel «Il Notrecht [era] diventato il diritto del bisogno estremo, dell’affamato che rischia ti morire d’inedia e che pertanto non solo ha il diritto, ma “il diritto assoluto”» di rubare il pezzettino di pane capace di assicurargli la sopravvivenza, “il diritto assoluto” di violare il diritto di proprietà, la norma giuridica che condanna comunque il furto».[15] Lungi dall’essere il difensore filosofico della Restaurazione e l’ispiratore del militarismo prussiano, dobbiamo riconoscere in lui, in questa prospettiva, lo scopritore di un continente filosofico e politico interamente nuovo, un continente che va molto al di là del liberalismo e che toccherà poi a Marx, non per caso, esplorare a fondo.

Ma proprio con il liberalismo, ossia con le posizioni culturali che sono risultate vincitrici alla fine di quella ulteriore guerra mondiale che è seguita alla Seconda guerra dei Trent’anni, Losurdo andava affrontando nel frattempo un corpo a corpo che si sarebbe rivelato ultracedennale. A metà degli anni Novanta ne Il revisionismo storico sottolineava l’emergere di una «gigantesca rilettura del mondo contemporaneo» il cui obiettivo era in realtà «la liquidazione della tradizione rivoluzionaria dal 1789 ai giorni nostri» e che rappresentava dunque una «svolta storiografica e culturale epocale»[16] che era al contempo anche una svolta interna al liberalismo stesso. Il quale, assorbito «il radicale mutare dello spirito del tempo nel passaggio dalla grande coalizione antifascista alla Guerra fredda» e maturata «la conseguente elaborazione di un’ideologia “occidentale”»,[17] si liberava adesso delle componenti democratizzanti acquisite nel corso del suo confronto storico con il movimento radicale e con quello socialista per tornare al proprio passato e riorientarsi in chiave nettamente conservatrice. Quando dieci anni più tardi questo percorso sarà compiuto, e cioè quando l’affermazione del neoliberalismo si sarà consolidata, ecco allora la Controstoria del liberalismo, un testo con il quale viene definitivamente confutata la classica definizione del liberalismo come teoria della libertà e dei diritti individuali: il liberalismo rappresenta semmai sul piano culturale «un’auto- designazione orgogliosa, che ha al tempo stesso una connotazione politica, sociale e persino etnica».[18] Con esso, cioè, «Siamo in presenza di un movimento e di un partito che intende chiamare a raccolta le persone fornite di un’”educazione liberale” e autenticamente libere, ovvero il popolo che ha il privilegio di essere libero, la “razza eletta”[…] la “nazione nelle cui vene circola il sangue della libertà”». La teoria liberale è dunque in primo luogo l’autocoscienza della comunità dei liberi, dei «ben nati»,[19] la quale crea uno spazio sacro che distingue uomini e sottouomini a partire da precise clausole d’esclusione fondate sul censo, sull’etnia, sul genere.

Ecco allora che proprio la tanto celebrata «limitazione del potere» consente alla società civile di sfuggire alla mediazione dello Stato o di neutralizzare quella sua universalità formale che, per quanto spesso posta a copertura di un blocco di interessi di classe, è comunque diversa dal mero nulla. E si configura perciò come la mossa politica che sollecita nel sistema dei bisogni l’«emergere di un potere assoluto senza precedenti», invitando a una delimitazione della comunità dei liberi che si contrappone a quella dei servi non solo sul piano filosofico ma anche sul piano concretamente materiale e geografico. E fungendo infine da legittimazione di una conquista coloniale che attraversa tutta l’età moderna e che con le sue pratiche di sterminio liquida ogni pretesa liberale di “individualismo”.

Proprio la volontà pervicace di limitare la dignità umana al solo Occidente e l’incapacità di pensare il concetto universale di uomo, tra l’altro, è il terreno filosofico che Losurdo mostrerà accomunare il liberalismo e il pensiero reazionario, del quale si è occupato una prima volta con La comunità, la morte e l’Occidente e una seconda con il suo monumentale Nietzsche, il ribelle aristocratico. Con la sua «polemica contro la modernità e il presente»,[20] il filosofo considerato a lungo “inattuale” si collocava in realtà inizialmente in tutto e per tutto sul terreno del liberalismo europeo e della sua denuncia, oggi ignorata o rimossa, dell’avanzata massificante dei movimenti socialisti e democratici, e si identificava con la concomitante esaltazione liberale del primato dei popoli europei sui sottouomini delle colonie, destinati ad essere sottomessi e a erogare lavoro servile. E saranno semmai la pavidità e la debolezza del liberalismo stesso, ormai in difficoltà e disposto al compromesso di fronte alla rivolta dei barbari proletari e alle loro grida rivoluzionarie, a spingerlo, sul finire della sua vita cosciente, al «radicalismo aristocratico» e all’ideazione di quel «partito della vita» che, per la salvezza della civiltà occidentale, arriverà ad auspicare l’«annientamento di milioni di malriusciti»[21] e delle «razze decadenti». Ma anche il pensiero di Heidegger, del resto, non può minimamente essere compreso senza far riferimento a quel «pathos dell’Occidente»[22] che all’epoca della Prima guerra mondiale si accompagnava all’esaltazione della Gemeinschaft, della Entscheidung e della morte e che era condiviso da entrambe le «ideologie della guerra» in campo. Né la sua duratura adesione al nazismo può essere spiegata senza tener conto di come quel movimento fosse anzitutto la prosecuzione, radicalizzata e proiettata sul continente europeo, della lunga avventura coloniale dell’Europa stessa, con le sue pratiche di de-umanizzazione e di sterminio fondate sulla riduzione del genere umano a una mera specie zoologica già su un piano che pretendeva di essere filosofico.

Non possiamo che ricostruire per sommi capi qui una produzione intellettuale gigantesca, che ha scandagliato i più diversi aspetti della tradizione filosofico-politica europea (31 sono le monografie pubblicate, altrettanti i volumi da Losurdo curati, 200 i saggi usciti su rivista, come attesta la bibliografia che egli stesso aveva approvato e che riportiamo in appendice a questo testo). Rimane però fermo – e ci sarà modo in futuro di precisarlo meglio – che in tutto questo lavoro l’impegno principale della sua esperienza intellettuale è stato dedicato a quel momento di questa tradizione che certamente più gli stava a cuore e cioè all’auto-critica e alla ricostruzione del materialismo storico. Se la storia del marxismo è la storia di un’ininterrotta catena di “crisi” che inizia già con Marx e che più volte si sono manifestate nel corso del Novecento, muovendo da posizioni e con intenzioni ed esiti diversi Losurdo e la sua generazione si sono scontrati infatti con la più importante di queste crisi, con la crisi ultima e forse definitiva. Perché la loro riflessione sulla tradizione storica e culturale del movimento operaio è avvenuta quando questo movimento e i suoi apparati intellettuali erano ormai a pezzi e non sembrava sensato né produttivo avventurarsi per quella via: dopo cioè la sconfitta di sistema intervenuta dalla fine degli anni Ottanta del Novecento.

Losurdo lo ha fatto in numerosi libri: Marx e il bilancio storico del Novecento,[23] Utopia e stato d’eccezione,[24] Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico,[25] Fuga dalla storia?,[26] La lotta di classe[27] e infine Il marxismo occidentale,[28] oltre che in ancor più numerosi saggi. E lo ha fatto, soprattutto, evitando la strada consolatoria e auto-assolutoria di chi, la maggioranza, spiegava le ragioni di un fallimento scaricando le colpe su un unico individuo (Stalin. Storia e critica di una leggenda nera)[29] e scegliendo semmai – scandalosamente – di andare al cuore del problema, dissodando in maniera impietosa i limiti interni al marxismo stesso, senza risparmiarne i fondatori.

Losurdo ricorderà più volte, di fronte al nichilismo e alla autofobia che dilagavano a sinistra dopo la fine dell’Unione Sovietica – e che rendevano anche questo campo non meno ostile alle sue tesi di quanto non fosse il campo liberale –, quanto l’esperienza del marxismo e del comunismo storico avessero cambiato in profondità le sorti del mondo e dello stesso Occidente capitalistico, costringendo quest’ultimo a un percorso di democratizzazione che aveva in parte dovuto accogliere persino il programma del Manifesto comunista.[30] Tuttavia, non esitava a riflettere sulle ragioni di una sconfitta inequivocabile, le cui radici andavano individuate nell’incapacità del marxismo di farsi istituzione e di dar vita, nel consenso più ampio possibile, a quella stabilizzazione che sarebbe stata indispensabile per una normalità socialista e per un suo funzionamento rispettoso degli stessi diritti individuali. Animato da un insormontabile afflato messianico, desideroso di una palingenesi totale del mondo, il marxismo novecentesco non aveva in realtà tagliato i ponti sino in fondo con l’anarchismo. E, nel suo sogno di una società completamente “altra” rispetto a quella esistente, aveva immaginato la fine delle nazioni, del mercato, del denaro, del potere, lo svanire del conflitto stesso, rivelandosi – ogni volta che l’utopia sognata si scontrava infine con le durezze della storia e del conflitto – incapace di fuoriuscire da un perpetuo stato d’eccezione e di farsi Stato all’insegna del governo della legge, conciliando comunità e individuo. Non sarà sufficiente, in questo senso, la rivoluzione filosofica e politica operata da Lenin, il quale porterà per la prima volta il marxismo fuori dai propri limiti eurocentrici coniugando la lotta di classe del proletariato europeo con le lotte di emancipazione nazionale dei paesi colonizzati dall’Occidente e comprendendo al tempo stesso la complessità di un processo rivoluzionario che, in un mondo tanto ostile, continuava in forme nuove anche dopo la conquista del potere.

Da qui la scelta di Losurdo di andare controcorrente anche rispetto ai propri compagni, sfidando con caparbietà il rischio dell’isolamento fino, alla lunga, a sconfiggerlo. La scelta di criticare a fondo il marxismo occidentale, a partire da quella insuperata subalternità nei confronti del liberalismo che si esprimeva in maniera macroscopica nella sua crescente indifferenza verso la questione coloniale e che aveva costretto l’intera sinistra a rendersi ad un certo punto «assente». Da qui soprattutto, anche alla luce del diverso esito dell’esperienza del socialismo cinese (da lui sempre rispettato e osservato con attenzione simpatetica) rispetto a quello russo e occidentale, la necessità di ripensare integralmente i fondamenti del marxismo. A partire da una rilettura della lotta di classe che fosse capace di oltrepassare lo schematismo binario e economicistico di chi, ad ogni livello, vede un’unica e sola contraddizione, quella di un proletariato mai ben definito contro una borghesia non meno malintesa, per riproporla invece come una teoria generale del conflitto che presiede ad ogni processo di emancipazione (e che ha a che fare in primo luogo con la lotta per il riconoscimento della propria dignità umana da parte dei gruppi esclusi e discriminati). Una teoria in grado di illuminare le grandi crisi storiche, inoltre, quelle accelerazioni nelle quali non c’è mai un’unica dimensione ma sempre la compresenza di una pluralità di contraddizioni oggettive. E in grado di comprendere, da questa prospettiva, l’intreccio indissolubile tra questione sociale e questione nazionale, o questione di genere, come quello tra universale e particolare, alla ricerca di un universalismo concreto che consenta di pensare la comune umanità fuori da ogni astrattezza irenistica.

La durezza del conflitto di classe, ma anche quella della guerra civile europea o internazionale e dello stato di guerra mondiale permanente che aveva accompagnato il processo di decolonizzazione, avevano inevitabilmente esaltato e cristallizzato la dimensione religiosa e messianica del marxismo, quella componente che pure si era rivelata indispensabile nei processi di mobilitazione delle masse necessari in quella lunghissima fase. A lungo persuasi dell’imminenza di una rottura rivoluzionaria che sarebbe presto dilagata in tutto il pianeta a partire dai punti alti dello sviluppo industriale, e ancora più a lungo accerchiati sul piano geopolitico ma anche su quello culturale e psicologico dalla potenza egemonica del mondo capitalistico, i marxisti avevano perduto il senso della storia e disimparato la dimensione dei tempi lunghi che sono propri dei movimenti reali. Il fatto cioè che la trasformazione non ha la struttura temporale dell’attimo e non conduce a un’immediata coincidenza tra il corso degli eventi e il loro significato, a una totale riappropriazione, trasparenza e pienezza di senso, ma è essa stessa il percorso di una faticosa catena di contraddizioni, fatta di conquiste e retrocessioni legate ai rapporti di forza e in cui ogni tappa non è mai assicurata una volta per tutte. Negli auspici di Losurdo, alla luce del bilancio storico del XX secolo e delle sue tragedie, il marxismo doveva affrontare perciò un processo di secolarizzazione complicato e non indolore, per proseguire quel passaggio dall’utopia alla scienza (intesa come la Wissenschaft hegeliana) che era stato indicato da Engels ma si era interrotto per via delle urgenze del conflitto permanente dell’età contemporanea. Per riscoprire, cioè, quella forma di coscienza che al suo sorgere ne aveva rappresentato la radicale novità: quel peculiare e quasi miracoloso equilibrio tra critica e legittimazione del moderno che nessun’altra tendenza filosofico-politica è mai riuscita sinora ad elaborare.

Pensiero dialettico significa comprensione della processualità della storia e della conoscenza umana. Ma è anche comprensione della loro natura strutturalmente conflittuale e perciò è anche consapevolezza della totalità sempre lacerata alla quale il conflitto allude. È per questo che l’Aufhebung toglie e conserva a un tempo, integrando ad un nuovo livello e in una nuova posizione anche quella parte di verità che è sempre presente persino presso il nemico assoluto. Marxismo, alla luce di questa considerazione e cioè come materialismo storico, non significa rifiuto indeterminato della realtà ma, a partire dalla comprensione della dimensione strategica e razionale della sua struttura più profonda, è negazione sempre determinata. Enormi e a volte indicibili sono le contraddizioni della modernità e del progresso, a partire dal dominio totale espresso già nell’accumulazione originaria, passata per la brutale de-umanizzazione di intere classi sociali e di interi popoli e sfociata non di rado nello sterminio, e inaccettabile è ancora oggi l’ingiustizia dell’ordine borghese all’interno e al di fuori della metropoli. Tuttavia, questa stessa modernità è l’epoca che ha scoperto il concetto universale di uomo e che persino nel dolore del diventare-astratto di ogni rapporto sociale o persino semplicemente umano, ha saputo distillare quel progresso che consiste nel superamento dei vincoli di dipendenza personale e diretta dell’uomo sull’uomo, lasciandosi alle spalle il feudalesimo e mettendo in discussione la schiavitù. Quell’epoca che ha sviluppato le forze produttive materiali integrali del genere umano, spezzando la ristrettezza dei bisogni ma anche delle soggettività e dando vita a un’ininterrotta circolazione delle idee.

Non si torna indietro rispetto ad essa. La critica della modernità, come comprensione delle sue condizioni di possibilità e dei suoi limiti, è dunque possibile solo a partire dal riconoscimento delle sue conquiste. Dall’eredità, cioè, dei punti alti di una tradizione che ha certamente a che fare con l’orrore ma che è anche quella civiltà che, attraverso i suoi esponenti più lungimiranti, ha saputo vedere il proprio orrore e denunciarlo. Muovendo dalla conoscenza di queste contraddizioni, ma anche di quelle che accompagnano la storia del marxismo e del comunismo storico, bisogna perciò intraprendere un percorso di apprendimento che tagli definitivamente i ponti con il dogmatismo degli assoluti senza al contempo cadere nel relativismo del postmoderno e della sua impotente negazione ermeneutica di ogni oggettività e cioè della politica e della trasformazione del mondo.

Domenico Losurdo – al quale dobbiamo tra l’altro l’ispirazione iniziale che ha dato vita a questa rivista e che di “Materialismo Storico” presiedeva il Comitato scientifico – ci ha lasciati nel momento più difficile. Nel momento cioè in cui la crisi della democrazia moderna in Occidente e nel resto del mondo sembra piegare in direzione di una inquietante ridefinizione delle forme politiche che promuove nuove modalità di esclusione e discriminazione, all’interno di ciascun paese come su scala internazionale. In un’epoca nella quale la ricolonizzazione del pianeta, che parla nei termini di quel Linguaggio dell’impero[31] da lui così accuratamente decostruito e che ha fatto seguito alla delegittimazione della rivoluzione anticoloniale, fa svanire sempre più in lontananza le speranze di un’epoca di pace espresse in un libro come Un mondo senza guerre.[32] Ci ha lasciati però con gli strumenti migliori e più affilati per fronteggiare questo mondo a partire dai suoi conflitti cruciali e per criticarlo, ovvero per comprenderne le ragioni, le condizioni di possibilità. E per contrapporgli infine uno scenario diverso, per quanto sempre fondato nell’oggettività di ciò che è reale e e razionale non nei sogni e nei desideri di chi pensa di potersi permettere di ignorare la durezza del mondo: come scriveva Marx a Ruge – un’altra citazione molto amata da Losurdo –, «Noi non anticipiamo il mondo ma dalla critica del mondo vecchio vogliamo trovare quello nuovo».

C’era un’ultima cosa che Losurdo ripeteva spesso ai suoi allievi, citandola criticamente come esempio negativo di intimismo, di soggettivismo narcisistico e «ipocondria dell’impolitico».[33] È una celebre poesia scritta da Ungaretti nel 1916, in piena guerra mondiale, dal titolo San Martino sul Carso:

Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanto
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca.
È il mio cuore
Il paese più straziato.[34]

Ebbene, il nostro cuore oggi è straziato ma, come già ai tempi del poeta, assai più gravi di quelli della nostra coscienza sono gli strazi che abbiamo attorno a noi: le guerre che continuano a dilaniare il pianeta, la sopraffazione imperialistica che non cessa, l’odio razziale che monta, il rischio di una crisi radicale di civiltà e del riemergere di pulsioni che ci eravamo illusi fossero state superate per sempre. Di fronte a questi pericoli non possiamo certo far rivivere Domenico Losurdo. Ma anche grazie a questa piccola rivista, alla quale tanto teneva, possiamo far durare ancora – e a lungo – il suo pensiero, cercando di esserne all’altezza.

Stefano Azzarà, Università di Urbino

[1] Domenico Losurdo, Le catene e i fiori. La critica dell’ideologia tra Marx e Nietzsche, «Hermeneutica» 6, 1987, p. 108.

[2] Domenico Losurdo, L’engagement e i suoi problemi, in G. M. Cazzaniga, D. Losurdo, L. Sichirollo, Prassi. Come orientarsi nel mondo, Urbino, QuattroVenti (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), 1991, p. 128.

[3]Domenico Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici/Bibliopolis, Napoli 1983, p. 14.

[4] Ivi, p. 31.

[5] Immanuel Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht [1784], tr. it.: Idea per una storia universale in prospettiva cosmopolitica. Testo tedesco a fronte, Mimesis, Milano 2015, citato in Domenico Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, op. cit., p. 27

[6] Domenico Losurdo, Fichte, la rivoluzione francese e l’ideale della pace perpetua, «Il Pensiero», pp. 131-78.

[7] Domenico Losurdo, Fichte, la resistenza antinapoleonica e la filosofia classica tedesca, «Studi storici» 1/2, pp. 189-216.

[8] Domenico Losurdo, Fichte e la questione nazionale tedesca, «Il cannocchiale. Rivista di studi filosofici» 1-2, pp. 53-79.

[9] Domenico Losurdo, Hegel, questione nazionale, Restaurazione. Presupposti e sviluppi di una battaglia politica, Pubblicazioni dell’Università, Urbino 1983.

[10] Domenico Losurdo, Tra Hegel e Bismarck. La rivoluzione del 1848 e la crisi della cultura tedesca, Editori Riuniti, Roma 1983.

[11] Domenico Losurdo, La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel, Guerini, Milano 1987.

[12] Domenico Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, Editori Riuniti, Roma 1992.

[13] Domenico Losurdo, Hegel e la Germania. Filosofia e questione nazionale tra rivoluzione e reazione, Guerini – Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Milano 1997.

[14] Domenico Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, op. cit., p. 74.

[15] Ivi, p. 115. Cfr. Domenico Losurdo, cura e trad. di G. W. F. Hegel, Le filosofie del diritto. Diritto, proprietà, questione sociale, Leonardo/Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Milano 1989.

[16] Domenico Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 7.

[17] Ivi, p. 18.

[18] Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 242.

[19] Ivi, p. 238.

[20] Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 326.

[21] Friedrich Nietzsche, citato in Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, op. cit., p. 644.

[22] Domenico Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’«ideologia della guerra», Torino, Bollati Boringhieri 1991, p. 89.

[23] Domenico Losurdo, Marx e il bilancio storico del Novecento, Bibliotheca, Roma 1993.

[24] Domenico Losurdo, Utopia e stato d’eccezione. Sull’esperienza storica del «socialismo reale», Laboratorio politico, Napoli 1996.

[25] Domenico Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico, Gamberetti, Roma 1997.

[26] Domenico Losurdo, Fuga dalla storia? Il movimento comunista tra autocritica e autofobia, La Città del Sole, Napoli 1999.

[27] Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013.

[28] Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma- Bari 2017.

[29] Domenico Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008.

[30] Cfr. Domenico Losurdo, Introduzione e traduzione (in collaborazione con Erdmute Brielmayer) di K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari 1999.

[31] Domenico Losurdo, Il linguaggio dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana, Laterza, Roma-Bari 2007.

[32] Domenico Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, Roma 2016.

[33] Domenico Losurdo, Ipocondria dell’impolitico. La critica di Hegel ieri e oggi, Milella, Lecce 2001.

[34] Giuseppe Ungaretti, San Martino sul Carso, in Id., Vita d’un uomo. 106 poesie 1914-1960, Mondadori, Milano 1992, p. 36; ed. orig. In II Porto Sepolto, Stabilimento tipografico friulano, Udine, dicembre 1916.



Alcuni libri
di Domenico Losurdo

 

La catastrofe della Germania e l'immagine di Hegel

La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel

Editore: Guerini e Associati, 1988

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La comunità, la morte, l'Occidente

La comunità, la morte, l’Occidente

Editore: Bollati Boringhieri , 1991

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Democrazia o bonapartismo

Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale

Editore: Bollati Boringhieri, 1993

Descrizione

Tormentata è la storia del suffragio universale, ostacolato, ancora in pieno Novecento, dalla discriminazione di censo, di razza, di sesso, che si è rivelata particolarmente tenace proprio nei paesi di più consolidata tradizione liberale. Un nuovo modello di democrazia sembra voler divenire il regime politico del nostro tempo. Gli Stati Uniti costituiscono il privilegiato paese-laboratorio del “bonapartismo-soft” che ora si affaccia anche in Italia e di cui ci parla Losurdo.

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La seconda Repubblica

La seconda Repubblica. Liberismo, federalismo, postfascismo

Editore: Bollati Boringhieri, 1994

Descrizione

Nonostante i toni spesso trionfalistici, la Seconda Repubblica è l’espressione di una crisi profonda: se revisionismo storico e postfascismo cancellano l’identità nazionale del nostro paese, le riforme elettorali e istituzionali in atto, sancendo il peso immediatamente politico della grande ricchezza e del potere multimediale, bandiscono ogni idea di democrazia intesa come partecipazione di massa. L’odierna crociata neoliberista mira a liquidare i “diritti economici e sociali”, promuovendo in pratica una sorta di redistribuzione del reddito a favore dei ceti più ricchi. Nei paesi a forti squilibri regionali tale redistribuzione passa attraverso l’autonomia “federale”. Liberismo, federalismo e postfascismo si mescolano così in una miscela esplosiva.

 

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Antonio Gramsci, dal liberalismo al ...

Antonio Gramsci, dal liberalismo al «Comunismo critico»

Editore: Gamberetti , 1997

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Dai Ffatelli Spaventa a Gramsci

Dai fratelli Spaventa a Gramsci.
Per una storia politico-sociale della fortuna di Hegel in Italia

Editore: La Città del Sole, 1997

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1997 - Nietsche e la critica della modernità

Nietzsche e la critica della modernità. Per una biografia politica

Editore: Manifestolibri, 1997

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2006 - Controstoria derl liberalismo

Controstoria del liberalismo

Editore: Laterza, 2006

 

Descrizione

Il liberalismo sottolinea il valore positivo della libertà individuale, l’autonomia del singolo, l’opposizione al conservatorismo sociale. Sorto come una giustificazione teorica della necessità della limitazione del potere statale, il liberalismo non è però riuscito a declinare in termini universalistici il suo discorso ideologico. Come per ogni movimento storico, si tratta di indagare sì i concetti ma anche in primo luogo i rapporti politici e sociali in cui esso si è espresso. E la storia dei paesi in cui il liberalismo ha gettato radici più profonde risulta inestricabilmente intrecciata con la storia della schiavitù e dello sfruttamento.

 

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2007 - Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant

Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant

Editore: Bibliopolis, 2007

Descrizione

Considerato da non pochi dei suoi contemporanei come un “democratico radicale “, Kant è stato in seguito stilizzato da una radicata e composita tradizione interpretativa a teorico dell’obbedienza all’autorità costituita, e questo a causa della sua negazione del diritto di resistenza. Punto di partenza della presente ricerca è proprio tale negazione: essa, mentre rassicurava le corti tedesche, al tempo stesso permetteva di affermare l’irreversibilità della Rivoluzione francese. Emerge qui con chiarezza la ricercata “ambiguità “, la ” doppiezza” di Kant, costretto ad un logorante esercizio di autocensura, ad una continua dissimulazione, tormentosa anche sul piano morale, per sfuggire al controllo delle autorità di censura e del potere politico. In questo quadro si procede ad una rilettura del pensiero politico di Kant; che, se è sufficientemente noto il difficile rapporto del filosofo con la censura, non sembra sia stata finora indagata la connessione tra “persecuzione e arte dello scrivere”; ma forse è solo questa indagine che può permetterci di sbarazzarci dell’oleografia tradizionale, per collocare Kant in una luce nuova, più umanamente drammatica e inquietante.

 

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2007 - Il peccato orginakle del Novecento

Il peccato originale del Novecento

Editore: Laterza, 2007

 

 

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2010 La non-violenza

La non-violenza. Una storia fuori dal mito

Editore: Laterza, 2010

 

Descrizione

Dopo un secolo tragicamente carico di violenza e di terrore, l’ideale della non-violenza esercita un fascino crescente sulle coscienze di donne e uomini. Ma quali sono stati i primi movimenti ad agitare questo ideale e quali difficoltà essi hanno dovuto affrontare in un periodo storico particolarmente ricco di guerre e rivoluzioni? Dalle organizzazioni cristiane che nei primi decenni dell’Ottocento si propongono negli Usa di combattere congiuntamente e in modo pacifico i flagelli della schiavitù e della guerra, fino ai protagonisti della non-violenza: Thoreau, Tolstoj, Gandhi, Capitini, Dolci, M.L. King, il Dalai Lama o i più recenti ispiratori delle ‘rivoluzioni colorate’. Costante è il confronto tra il movimento non-violento e il movimento anticolonialista e antimilitarista di ispirazione socialista e sono prese in considerazione anche le posizioni di illustri teologi cristiani (R. Niebuhr e D. Bonhoeffer) e filosofe di diverso orientamento ma entrambe autrici di importanti contributi sul problema della violenza, come Simone Weil e Hannah Arendt.

 

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2011 - Hgel e la libertà dei moderni

Hegel e la libertà dei moderni

Editore: La Scuola di Pitagora, 2011

 

Descrizione

Hegel legittima le rivoluzioni che hanno segnato la nascita del mondo moderno e rende omaggio alla rivoluzione francese quale “splendida aurora”; nel momento in cui la schiavitù fiorisce negli Usa e nelle colonie, egli condanna tale istituto come il “delitto assoluto”. Da un lato il filosofo sottolinea la centralità della libertà individuale, dall’altro teorizza i “diritti materiali” e il “diritto alla vita”, paragona ad uno schiavo l’uomo che rischia la morte per inedia ed esige l’intervento dello Stato nell’economia, in modo da porre fine a questa nuova configurazione del “delitto assoluto”. Alla luce di tutto ciò come appare ridicola la lettura di Hegel quale teorico della Restaurazione. Tradotto in più lingue e apparso anche negli Usa e in Cina, il libro di Losurdo analizza il contributo decisivo che il grande filosofo tedesco fornisce alla comprensione della libertà dei moderni e, misurandosi con le interpretazioni di Bobbio, Popper, Hayek, mette in evidenza i limiti di fondo del liberalismo vecchio e nuovo.

 

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2012 -Fuga dalla storia?

Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi

Editore: La Scuola di Pitagora, 2012

 

Descrizione

Nel 1818, in piena Restaurazione e in un momento in cui il fallimento della rivoluzione francese appariva evidente, anche coloro che inizialmente l’avevano salutata con favore prendevano le distanze dalla vicenda storica iniziata nel 1789: era stata un vergognoso tradimento di nobili ideali. In questo senso Byron cantava: “Ma la Francia si inebriò di sangue per vomitare delitti/ Ed i suoi Saturnali sono stati fatali/ alla causa della Libertà, in ogni epoca e per ogni Terra”. Dobbiamo oggi far nostra questa disperazione, limitandoci solo a sostituire la data del 1917 a quella del 1789 e la causa del socialismo alla “causa della libertà”? Confutando i luoghi comuni dell’ideologia dominante, Losurdo analizza e documenta l’enorme potenziale di emancipazione scaturito dalla rivoluzione russa e dalla rivoluzione cinese. Quest’ultima, dopo aver liberato prima dal dominio coloniale e poi dalla fame un quinto dell’umanità, mette oggi in discussione al tempo stesso l'”epoca colombiana” e il modo tradizionale di intendere la lezione di Marx.

 

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2014 - La sinistra assente

La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra

Editore: Carocci , 2014

Descrizione

Le promesse del 1989 di un mondo all’insegna del benessere e della pace non si sono realizzate. La crisi economica sancisce il ritorno della miseria di massa anche nei paesi più sviluppati e inasprisce la sperequazione sociale sino al punto di consentire alla grande ricchezza di monopolizzare le istituzioni politiche. Sul piano internazionale, a una “piccola guerra” (che però comporta decine di migliaia di morti per il paese di volta involta investito) ne segue un’altra. Per di più, all’orizzonte si profila il pericolo di conflitti su larga scala, che potrebbero persino varcare la soglia del nucleare. Più che mai si avverte l’esigenza di una forza di opposizione: disgraziatamente in Occidente la sinistra è assente. Come spiegarlo? Come leggere il mondo che si è venuto delineando dopo il 1989? Attraverso quali meccanismi la “società dello spettacolo” riesce a legittimare guerra e politica di guerra? Come costruire l’alternativa? A queste domande l’autore risponde con un’analisi originale, spregiudicata e destinata a suscitare polemiche.

 

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2015 - Il revisionismo storico

Il revisionismo storico. Problemi e miti

Editore: Laterza , 2015

 

Descrizione

Più volte ristampata e tradotta in un numero crescente di paesi, quest’opera è una rilettura originale della storia contemporanea, dove l’analisi critica del revisionismo storico – a cominciare dalle tesi di Nolte sull’Olocausto e di Furet sulla rivoluzione francese – si intreccia con quella di una serie di fondamentali categorie filosofiche e politiche come guerra civile internazionale, rivoluzione, totalitarismo, genocidio, filosofia della storia. Questa edizione ampliata analizza le prospettive del nuovo secolo. Da un lato il revisionismo storico continua a riabilitare la tradizione coloniale, com’è confermato dall’omaggio che uno storico di successo (Niall Ferguson) rende al tramontato Impero britannico e al suo erede americano, dall’altro vede il ritorno sulla scena internazionale di un paese (la Cina) che si lascia alle spalle il “secolo delle umiliazioni”. Sarà in grado l’Occidente di tracciare un bilancio autocritico o la sua pretesa di essere l’incarnazione di valori universali è da interpretare come una nuova ideologia della guerra?

 

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2015 - La lotta di classe

La lotta di classe. Una storia politica e filosofica

Editore: Laterza, 2015

Descrizione

La crisi economica infuria e si discute sempre più del ritorno della lotta di classe. Ma siamo davvero sicuri che fosse scomparsa? La lotta di classe non è soltanto il conflitto tra classi proprietarie e lavoro dipendente. È anche “sfruttamento di una nazione da parte di un’altra”, come denunciava Marx, e l’oppressione “del sesso femminile da parte di quello maschile”, come scriveva Engels. Siamo dunque in presenza di tre diverse forme di lotta di classe, chiamate a modificare radicalmente la divisione del lavoro e i rapporti di sfruttamento e di oppressione che sussistono a livello internazionale, in un singolo paese e nell’ambito della famiglia. A fronte dei colossali sconvolgimenti che hanno contrassegnato il passaggio dal XX al XXI secolo, la teoria della lotta di classe si rivela oggi più vitale che mai a condizione che non diventi facile populismo che tutto riduce allo scontro tra umili e potenti, ignorando proprio la molteplicità delle forme del conflitto sociale. Domenico Losurdo procede a una originale rilettura della teoria di Marx ed Engels e della storia mondiale che prende le mosse dal Manifesto del partito comunista.

 

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2015 - Rivoluzione d'Ottobre e democrazia nel mondo

Rivoluzione d’ottobre e democrazia nel mondo

Editore: La Scuola di Pitagora, 2015

Descrizione

“Se per ‘democrazia’ intendiamo quantomeno l’esercizio del suffragio universale e il superamento delle tre grandi discriminazioni (di genere, censitaria e razziale), è chiaro che essa non può essere considerata anteriore alla rivoluzione d’ottobre e non può essere pensata senza l’influenza che quest’ultima ha esercitato a livello mondiale”.

 

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2015 - Stalin

Stalin. Storia e critica di una leggenda nera

Editore: Carocci , 2015

Descrizione

C’è stato un tempo in cui statisti illustri – quali Churchill e De Gasperi – e intellettuali di primissimo piano – quali Croce, Arendt, Bobbio, Thomas Mann, Kojève, Laski – hanno guardato con rispetto, simpatia e persino con ammirazione a Stalin e al paese da lui guidato. Con lo scoppio della Guerra fredda prima e soprattutto col Rapporto Chruscev poi, Stalin diviene invece un “mostro”, paragonabile forse solo a Hitler. Darebbe prova di sprovvedutezza chi volesse individuare in questa svolta il momento della rivelazione definitiva e ultima dell’identità del leader sovietico, sorvolando disinvoltamente sui conflitti e gli interessi alle origini della svolta. Il contrasto radicale tra le diverse immagini di Stalin dovrebbe spingere lo storico non già ad assolutizzarne una, bensì a problematizzarle tutte. Ed è quanto fa Losurdo in questo volume, analizzando le tragedie del Novecento con una comparatistica a tutto campo e decostruendo e contestualizzando molte delle accuse mosse a Stalin. Con un saggio di Luciano Canfora.

 

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2016 - Un mondo senza guerre

Un mondo senza guerre.
L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente

Editore: Carocci , 2016

Descrizione

Nel 1989, la realizzazione di un mondo senza guerre sembrava a portata di mano; oggi, oltre al terrorismo e ai conflitti locali, torna a incombere il pericolo di una terza guerra mondiale. Come spiegare tale parabola? Losurdo traccia una storia inedita e coinvolgente dell’idea di pace dalla rivoluzione francese ai giorni nostri. Da questo racconto, di cui sono protagonisti i grandi intellettuali (Kant, Fichte, Hegel, Constant, Comte, Spencer, Marx, Popper ecc.) e importanti uomini di Stato (Washington, Robespierre, Napoleone, Wilson, Lenin, Bush Sr. ecc.), emergono i problemi drammatici del nostro tempo: è possibile edificare un mondo senza guerre? Occorre affidarsi alla non violenza? Qual è il ruolo delle donne? La democrazia è una reale garanzia di pace o può essa stessa trasformarsi in ideologia della guerra? Riflettere sulle promesse, le delusioni, i colpi di scena della storia dell’idea di pace perpetua è essenziale non solo per comprendere il passato ma anche per ridare slancio alla lotta contro i crescenti pericoli di guerra.

 

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2017 - Il marxismo occidentale

Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere

Editore: Laterza, 2017

 

Descrizione

Nato nel cuore dell’Occidente, con la Rivoluzione d’Ottobre il marxismo si è diffuso in ogni angolo del mondo, sviluppandosi in modi diversi e contrastanti. Contrariamente a quello orientale, il marxismo occidentale ha mancato l’incontro con la rivoluzione anticolonialista mondiale – la svolta decisiva del Novecento e ha finito col subire un tracollo. Ci sono oggi le condizioni per una rinascita del marxismo in Occidente?

 

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2018 - Marxismo e comunismo

Marxismo e comunismo

Editore: Affinità Elettive Edizioni, 2018

Descrizione

“La storia del movimento comunista è stata un grande capitolo di storia per abolire la schiavitù coloniale e per l’affermazione di un’autentica morale capace di rispettare ogni uomo”.



Alcuni libri
di
Stefano G. Azzarà

 

2006- Pensare la rivoluzione conservatrice

Pensare la rivoluzione conservatrice.
Critica della democrazia e «Grande politica» nella Repubblica di Weimar

Editore: La Città del Sole, 2006

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2011 - L'imperialismo dei diritti universali

L’ imperialismo dei diritti universali.
Arthur Moeller van den Bruck, la rivoluzione conservatrice e il destino dell’Europa

Editore: La Città del Sole, 2011

 

La fine della Prima guerra mondiale si accompagna alla perdita del potere per l’establishment liberalconservatore in Germania, nonostante il fallimento in extremis della rivoluzione comunista. In condizioni politiche ed economiche molto difficili, segnate dal forte condizionamento del Paese da parte delle potenze vincitrici, si tratta adesso di fronteggiare l’affermazione definitiva della società di massa e l’avvento del metodo democratico nella sfera pubblica. Comincia una riflessione tormentata, che costringerà le classi dirigenti e intellettuali tradizionali ad una rottura “rivoluzionaria” con il proprio passato e con ogni nostalgia verso la monarchia e la società agraria. Poco noto in Italia, Arthur Moeller van den Bruck è stato tra i principali ispiratori di un rinnovamento di categorie e forme politiche che porterà la destra tedesca – ma anche quella europea – a contendere alle sinistre rivoluzionarie come a quelle riformiste il terreno della politica di massa.

 

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2011 - Un Nietzsche italiano

 

Un Nietzsche italiano.
Gianni Vattimo e le avventure dell’oltreuomo rivoluzionario

Editore: Manifestolibri, 2011

 

Se il primo incontro di Gianni Vattimo con Nietzsche intendeva soprattutto denazificare il filosofo tedesco e recuperarlo in chiave esistenzialistica, ben più originale è la lettura degli anni Settanta, quando il padre dello Zarathustra assume le vesti tutte politiche di un autore libertario e “rivoluzionario”, diventando punto di riferimento per la sinistra. Il volume ripercorre criticamente la storia dell'”oltreuomo” dionisiaco, mettendola in relazione con l’uso pubblico che di Nietzsche è stato fatto nel periodo della contestazione sessantottina, dell’Autonomia e infine del terrorismo e del riflusso. Emerge in controluce la storia di una parte dell’intellighenzia critica italiana, alla ricerca di una via d’uscita “individualistica” dalla dialettica e dalla crisi del marxismo anche attraverso autori che, pur collocati a destra, mettevano in evidenza i limiti della società borghese e del pensiero universalistico. Con il rischio, però, di favorire quella mentalità neoliberale che costituisce oggi il più grave rischio per la democrazia moderna. Con un’intervista a Vattimo su “Nietzsche, la rivoluzione, il riflusso”.

 

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2014 - Friedrik Nietzsche

Friedrich Nietzsche.
Dal radicalismo aristocratico alla rivoluzione conservatrice.
Quattro saggi di Arthur Moeller van den Bruck

Editore: Castelvecchi, 2014

 

È la stessa cosa leggere Nietzsche quando è ancora vivo il ricordo della Comune di Parigi e leggerlo quando la lotta di classe cede il passo al conflitto tra la Germania e le altre potenze europee? Ed è la stessa cosa leggerlo dopo la guerra, quando una sconfitta disastrosa ha mostrato la fragilità del Reich? Questo libro ricostruisce le interpretazioni nietzscheane di Arthur Moeller van den Bruck, padre della Rivoluzione conservatrice e precursore di Spengler, Heidegger e Junger. Moeller ridefinisce la filosofia di Nietzsche adattandola ai salti della storia europea tra gli ultimi decenni del XIX secolo e la fine della Prima guerra mondiale. Il Nietzsche artista e profeta che tramonta assieme all’Ottocento rinasce così nel passaggio di secolo come il filosofo-guerriero di una nuova Germania darwinista; per poi diventare, nella Repubblica di Weimar, l’improbabile teorico di un socialismo mistico e spirituale. Tre diverse letture emergono perciò da tre diversi momenti della storia europea e stimolano il passaggio dal pensiero liberalconservatore alla Rivoluzione conservatrice. In appendice, la prima traduzione italiana dei quattro saggi di van den Bruck su Nietzsche.

 

 

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2014- Democrazia cercasi

i

Democrazia cercasi.
Dalla caduta del muro a Renzi:
sconfitta e mutazione della sinistra,
bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia

Editore: Imprimatur, 2014

Possiamo ancora parlare di democrazia in Italia? Mutamenti imponenti hanno favorito una forma neobonapartistica e ipermediatica di potere carismatico e hanno relegato molti cittadini nell’astensionismo o nella protesta rabbiosa. In nome dell’emergenza economica permanente e della governabilità, gli spazi di riflessione pubblica sono stati sacrificati al primato di un decisionismo improvvisato.

 

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2017- Nonostante Laclau

Nonostante Laclau.
Populismo ed egemonia nella crisi della democrazia moderna

Editore: Mimesis, 2017

È il populismo di sinistra la risposta giusta alla crisi della democrazia? La decostruzione postmoderna delle identità storiche apre una nuova stagione di libertà e pluralismo oppure finisce per accettare un terreno di gioco regressivo, nel quale viene già precostituita l'”egemonia” delle tendenze più particolaristiche e la produzione di appartenenze naturalistiche? Stefano G. Azzarà si interroga sui conflitti del nostro tempo, tra neoliberalismo e ricerca di un nuovo orizzonte di progettualità politica.

 

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2018- Comunisti, fascisti e questione nazionale

Comunisti, fascisti e questione nazionale.
Fronte rossobruno o guerra d’egemonia?

Editore: Mimesis, 2018

Dopo decenni di entusiasmo per la globalizzazione e l’unificazione europea, l’emergere dei movimenti sovranisti e populisti in un’epoca di crisi organica sembra rendere di nuovo attuale la questione nazionale ed evoca la suggestione di un blocco trasversale di contestazione del capitalismo neoliberale e apolide che unisca tutti i “ribelli” della società borghese, lasciandosi alle spalle l’alternativa tra destra e sinistra. Anche nella Germania degli anni Venti, ai tempi delle riparazioni di guerra e dell’occupazione della Ruhr, questi temi erano all’ordine del giorno. L’appello di Karl Radek per un fronte unito dei lavoratori, aperto ai ceti medi e alla piccola borghesia patriottica e capace di difendere l’indipendenza del Paese dall’imperialismo straniero, non era però la proposta di un’alleanza totalitaria degli opposti radicalismi estremistici ma la dichiarazione di una furibonda guerra d’egemonia. Uno scontro ideologico che puntava semmai a bruciare il terreno sotto i piedi al fascismo nascente e a candidare la classe operaia tedesca, sulla scorta dell’esperienza bolscevica e del dibattito aperto nel Komintern da Lenin, alla guida della nazione e della sua rinascita. La disputa dei comunisti con Arthur Moeller van den Bruck e la Rivoluzione conservatrice tedesca sfata il mito dell’estraneità del materialismo storico agli interessi nazionali. Tuttavia, al contrario degli odierni equivoci eurasiatisti e socialsciovinisti, attesta l’insuperabile incompatibilità filosofica – prima ancora che politica e morale – tra il particolarismo naturalistico delle destre, con le loro persistenti pulsioni discriminatorie di stampo coloniale, e l’universalismo concreto del marxismo e del suo sogno di un mondo senza guerre.

 

 

 


logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 05-02-2019)


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Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.

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RIPENSARE LA SCUOLA

di Fernanda Mazzoli

 

Oggi, la questione prioritaria da affrontare, se ci si vuole efficacemente opporre alla deriva economicistica e mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.

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Da anni l’istruzione è al centro di un’ambiziosa campagna ideologica di segno neoliberista che ha investito significativamente organizzazione, contenuti disciplinari, modalità didattiche e finalità educative del sistema scolastico, fino alla messa in discussione dell’idea stessa di scuola, come è venuta storicamente configurandosi. L’opinione comune secondo la quale la scuola, nel nostro Paese, sarebbe la Cenerentola dell’agenda politica e delle priorità sociali è infondata: perlomeno da un ventennio essa è oggetto di pesanti attenzioni da parte dei diversi governi succedutisi, dei burocrati del MIUR, degli specialisti in Scienze dell’educazione dei Dipartimenti accademici, dei centri studi di fondazioni imprenditoriali e bancarie, delle Commissioni per la cultura europee. Tutti questi attori – politici, economici, culturali – hanno ben chiaro il carattere strategico dell’istituzione e hanno agito di conseguenza, secondo una linea di sostanziale continuità e complementarità. Azienda tra le aziende del territorio nella società di mercato, specializzata nell’erogazione di un bene formativo, alla scuola spetterebbe ormai il compito di promuovere, sin dal primo ciclo, l’educazione all’auto-imprenditorialità di uno studente dotato di quei requisiti di adattabilità, flessibilità, competitività ed efficienza operativa richiesti dalle imprese e di quelle competenze tecnologiche indispensabili alla riproduzione del sistema. La scuola è chiamata a divenire laboratorio pedagogico di un modello distopico di società ruotante intorno alla “cultura d’impresa”, fondata sul primato dell’economia e sulla sua pretesa di colonizzare ogni ambito della vita, rimodellando le condotte individuali e le politiche sociali secondo i principi dell’interesse individuale e della competizione.

Ripensare la forma scuola

Ripensare la forma scuola

Ben venga, dunque, una ricerca come quella promossa dall’IRRE Lombardia (Istituto Regionale di Ricerca Educativa) che ha visto un gruppo di docenti universitari e della Secondaria interrogarsi sui fondamenti teorici e i fini sociali di una cultura autenticamente riformatrice nella scuola, nella comune convinzione che scuola ed educazione, invece di assecondare l’attuale stato delle cose, abbiano un carattere fortemente utopico. Il testo che è nato da questo lavoro a più mani, coordinato da Eros Barone, Ripensare la forma-scuola. Analisi e proposte,[1] a più di dieci anni dalla pubblicazione ha il duplice merito di offrire un’analisi pertinente – e dall’interno – di una serie di processi che hanno trovato, poi, piena legittimazione istituzionale nella buona scuola e nella legge 107 e di proporre una nutrita e rigorosa riflessione teoretica, mai disgiunta dall’attenzione puntuale per i percorsi didattici, sui fondamenti del pensare e fare scuola. I nodi – teorici ed etici – affrontati sono ad oggi irrisolti, quando non ignorati o sottoposti a quella torsione biecamente economicistica che sta riplasmando il sistema scolastico.

I diversi saggi che compongono il libro, pur nella diversità degli approcci e dei temi, condividono lo stesso angolo visuale e lo stesso assunto di fondo che l’imperversare degli specialismi da un lato e l’appiattimento su un sapere mercificato, pronto all’uso dall’altro tendono pericolosamente a rimuovere: una più vasta prospettiva culturale e storica, la sola in grado di favorire l’insorgere di quella ragione critica che la scuola dovrebbe coltivare nello studente, a fondamento della sua crescita di uomo e di cittadino, dimensioni, peraltro, strettamente connesse, anzi necessarie l’una all’altra per la compiuta realizzazione di entrambe. Questa prospettiva non può che richiamare la specificità del ruolo dell’insegnante che si fonda sul sapere disciplinare e sulla sua capacità di inscrivere questo in una totalità, intesa come “concreto orizzonte storico”, all’interno della quale stabilire relazioni con il complesso dei saperi di un’epoca, per costruire una visione organica in cui il singolo punto di vista disciplinare si rapporti all’insieme delle discipline proposte dal curricolo, in modo da conferire a quest’ultimo un carattere autenticamente unitario.[2] L’esperienza degli ultimi anni è costretta a registare come, spesso, l’invocata interdisciplinarità sia il nome nobile dietro cui si nascondono chiacchiere vacue o, nella migliore delle ipotesi, una giustapposizione di argomenti presi in prestito da diverse materie, al di fuori di un percorso coerente, organico e fondato su rigorosi presupposti concettuali. Solo se rapportato al concetto di “totalità”, un approccio interdisciplinare può costituire un valido antidoto a quella frammentazione del sapere che è una delle più significative cifre culturali della nostra epoca. Tutto il volume è percorso da un’appassionata rivendicazione della centralità della ricerca intellettuale, a partire da una sistematica riflessione sui presupposti teorici della propria disciplina, da parte del docente e dal rifiuto della banalizzazione dell’insegnamento a semplice trasmissione di saperi o del suo svilimento in una dimensione burocratica e /o di intrattenimento (spesso le due si rivelano complementari, per quanto apparentemente contraddittorie).

Premesso che la situazione creatasi negli ultimi anni – grazie da un lato agli interventi ministeriali in favore di «una scuola leggera» e dall’altro al proliferare nei singoli Istituti di ogni genere di progetti che tendono a trasformare le scuole in «supermercati formativi» – è tale da invitare a non trascurare nemmeno la questione della salvaguardia della stessa trasmissione dei contenuti, resta che la connotazione del lavoro docente incardinata sulla ricerca intellettuale e l’approfondimento culturale definisce, oggi, la questione prioritaria da affrontare, se ci si vuole efficacemente opporre alla deriva economicistica e mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.

Docente-ricercatore, dunque, impegnato in un duplice movimento: indagare i fondamenti epistemologici e la costruzione storica della propria disciplina posta in relazione con la totalità del sapere e riflettere sulle proprie pratiche «con quadri concettuali che innescano un movimento abduttivo continuo di teorizzazione».[3]Gli insegnanti sono, infatti, ricercatori di tipo particolare che, se vogliono davvero insegnare, – vale a dire imprimere un segno – devono trovare forme, strumenti e vie per farsi «mediatori critici di cultura verso le nuove generazioni»[4] e lavorare intorno a quella «costruzione attiva di significati» che rende possibile il passaggio dal consumo di conoscenze alla loro produzione.[5] Chi scrive preferisce fare riferimento ad un’incessante rielaborazione delle conoscenze, piuttosto che alla loro produzione, ma condivide con gli autori del volume l’attenzione – che deve nutrirsi di riflessione teorica e di responsabilità pedagogica – verso il momento del passaggio e della mediazione, in quanto nesso cruciale e peculiare di quel travagliato – perché non lineare – rapporto tra materia, insegnante e studente. Non solo: di mediazione c’è particolare necessità in questi nostri tempi, se non si vogliono consegnare i giovani al moderno Minotauro, tanto insaziabile quanto accattivante, della società dei consumi e dello spettacolo. In questa lotta, sicuramente impari, ma il cui esito non possiamo dare per scontato, gli insegnanti hanno la possibilità di giocare un ruolo autonomo e non subordinato, a condizione di mantenersi fedeli all’elemento su cui si fonda la loro identità professionale: la competenza disciplinare.

Contro una visione pericolosamente distorta, ma sempre più diffusa – a livello di senso comune, ma corroborata anche da interventi legislativi e spesso condivisa dagli stessi interessati – che vede nei docenti delle figure multifunzionali pronte a ricoprire i ruoli più disparati per ovviare alle vistose falle educative aperte dalla disgregazione del tessuto sociale e familiare, Piero Romei individua con geometrica precisione tutta la portata del problema. Se rinunciano a fondare la propria «identità professionale ed istituzionale» sulle discipline di studio, i docenti si condannano all’irrilevanza: «su tutto il resto gli insegnanti della scuola entrano in competizione con chiunque, ed è una competizione spesso perdente, perché su tutto il resto non è affatto raro trovare altri che sono più bravi degli insegnanti». Un’ identità che non appoggia una volta per tutte «sulla banalità della ripetizione di una materia ossificata»,[6] ma chiede di essere alimentata da una costante investigazione intellettuale, resa indispensabile dall’attuale «condizione generalizzata di complessità degli oggetti di studio dei saperi stessi»,[7] la quale sollecita la cooperazione e il coordinamento di molti punti di vista in origine eterogenei. La medesima attenzione verso «la necessaria complementarità e l’integrazione tra una pluralità di discipline», capaci di incrociare anche «i possibili campi di esperienza», secondo una logica di «valorizzazione dei mondi vitali quotidiani» anima l’intervento di Francesco Villa.[8] Per individuare i bisogni educativi delle nuove generazioni, Mauro Ceruti opera una ricognizione dei processi che hanno investito negli ultimi decenni l’umanità : l’accelerazione, la globalizzazione e la non linearità. Uno scenario in cui si stempera la rigidità dei confini disciplinari e che impone all’individuo «mappe cognitive ampie e flessibili». La scuola rischia, invece, di «produrre idee e mappe di saperi essenzialmente statiche» che potrebbero essere smentite da successive esperienze formative, al punto da determinare, sul piano conoscitivo, una frattura tra esperienze professionali specialistiche di tipo avanzato e mappe globali fornite dalla scuola. Dunque, essa deve impegnarsi a «delineare processi educativi capaci di produrre mappe cognitive di tipo evolutivo, che incarnino un’idea di sapere aperta alla discontinuità, alla sorpresa, all’incertezza, alle sfide della scoperta e dell’innovazione».[9] La questione è delle più delicate: è proprio a partire da un rilievo di questo tipo, privo tuttavia di strumenti concettuali anche lontanamente comparabili a quelli che hanno ispirato il lavoro di Ceruti, che la buona scuola ha proclamato l’inadeguatezza del sistema scolastico italiano e ha proceduto all’attacco frontale a contenuti e programmi, soprattutto se dotati di spessore culturale e teorico, in nome di una rivisitazione ancora più radicale della Scuola delle tre I (Inglese – non quello dei grandi autori, naturalmente; Informatica – fino alla teorizzazione del pensiero computazionale come metadisciplina; Impresa – nume tutelare supremo di ogni percorso formativo). La proposta di Ceruti va in altra direzione ed poggia su altre premesse che individuano nella progettazione dei percorsi scolastici una serie di «coppie concettuali» realizzate sinora in «forma dicotomica ed esclusiva». La scommessa diventa, allora, quella di una loro «riformulazione in termini complementari» che consenta di «generare mappe in grado di produrre significati globali con il procedere delle esperienze individuali». Particolarmente interessante, per il suo carattere di principio ordinativo generale, la prima dicotomia/complementarità individuata, quella tra storia e scienza, non certo creata dalla scuola, ma che la scuola ha assunto da una più generale impostazione culturale occidentale.[10] Tuttavia, oggi si impone fortemente l’esigenza di approfondire radici storiche e condizioni culturali delle diverse teorie scientifiche e degli stessi oggetti indagati dalla scienza. Questo «circolo di fondo» tra storia e scienze fornisce alla scuola «un potente linguaggio integratore per i suoi saperi», divisi sia dalla grande dicotomia in questione, sia dalla progressiva parcellizzazione all’interno stesso dei due ambiti. Si tratta, come è evidente, di un’operazione di più vasto respiro culturale che, nella sua declinazione didattica, si prefigge di «immettere i percorsi in un quadro integrato, di fornire agli studenti la comprensione di come questi percorsi sono venuti in essere e a loro volta si trasformano e interagiscono con altri percorsi» la cui autonomia va comunque salvaguardata.[11] Ipotesi ricca di implicazioni epistemiche e di proficue possibilità di ristrutturazione dei curricoli che si incontra con l’invito formulato da Lucio Russo nel suo recente Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista a superare l’attuale «collezione di saperi disgiunti» in vista di una nuova sintesi culturale, la quale passa anche attraverso il doveroso superamento di un’artificiosa separazione tra ambito umanistico ed ambito scientifico che penalizza entrambi e favorisce l’insorgere di una preoccupante deriva irrazionalistica.[12]

La contestualizzazione storica delle scienze e della tecnologia e la collocazione dei risultati che esse hanno prodotto in un ambito concettuale più vasto che ne mostri la stretta relazione sia con gli altri saperi, sia con le dinamiche storiche, sociali ed economiche di un’epoca, oltre a qualificare un percorso di notevole spessore intellettuale e culturale, risponderebbe ad un’urgenza educativa, cui la scuola non dovrebbe sottrarsi. Potrebbe, infatti, fornire il quadro concettuale entro il quale coltivare nei giovani un approccio razionale e critico al digitale che sta colonizzando ogni sfera dell’esistenza, già a partire dai primissimi anni di vita, tanto che il pedagogista Alain Goussot non ha esitato a parlare di «massacro degli innocenti» a proposito dell’impatto sui giovani del «digitale selvaggio».[13] Come osserva pertinentemente Piero Romei, se Internet (e l’inglese) «non poggiano su tutta una piattaforma di saperi che li nobilitano, altro che istruzione, la scuola diventa uno strumento di addestramento, di preparazione di persone che escono fuori capaci di diventare immediatamente dei «buoni produttori».[14] Produttori «buoni» per assicurare, ai diversi livelli, la riproduzione dell’attuale sistema socio-economico capitalistico, non mi sembra superfluo aggiungere.

L’individuazione della dimensione storica come snodo fondamentale (e fondante sul piano di una possibile ridefinizione del curricolo) percorre anche il saggio di Giuseppe Molinari che richiama la nozione di «era del vuoto» proposta dal sociologo Gilles Lipotevsky per definire un’epoca – la nostra – che coniuga individualismo e massificazione e nella quale è andata maturando «la presentificazione dei tempi storici». «L’agire strategico-strumentale» si è impadronito «del mondo vitale», aprendo la via ad una serie di «patologie del sociale»: perdita di senso, anomia, insicurezza collettiva ed individuale. L’odierna «democrazia di mercato» è popolata da «uomini vuoti», dimidiati in una dimensione privata e narcisistica che conosce soltanto «un’etica debole e minimale» all’insegna dell’appagamento edonistico. Uno scenario preoccupante, aperto a qualsiasi deriva, che Husserl, citato da Molinari, definiva come una stanchezza propria delle epoche di crisi, nelle quali si consuma la rinuncia «a comprendere le strutture di senso immanenti negli accadimenti temporali». Una condizione che pone con urgenza il problema dell’educazione alla cittadinanza, definita dall’autore del saggio come formazione di «un cittadino responsabile titolare di diritti e di doveri, capace di pensare e di agire, di rappresentazione critica ed intervento progettuale, capace, quindi, di agire politicamente in costante comunicazione dialogica, intersoggettiva ed istituzionale».[15] Nel solco di quell’esigenza di un percorso formativo unitario che ispira tutto il volume, Molinari riprende una riflessione dello storico Giuseppe Ricuperati, auspicante la trasformazione dell’educazione civica in un’educazione civile che deve coinvolgere tutte le discipline e non solo, come da tradizione, diritto e storia. Un auspicio la cui mancata realizzazione è inversamente proporzionale al proliferare nelle scuole di ogni ordine e grado di «progetti» di educazione alla cittadinanza a cura di esperti a vario titolo che si sovrappongono artificiosamente alle lezioni e che sembrano, anzi, sancire la separazione tra formazione disciplinare ed educazione civica, con conseguente scarso impatto educativo. L’educazione civile, per non essere flatus vocis, non può che maturare sul terreno stesso dei contenuti disciplinari e della loro dimensione valoriale. Non solo: va sottolineato che, oggi, «l’educazione alla cittadinanza» proposta nelle scuole attraverso una mole crescente di progetti si risolve, nella gran parte dei casi, in «educazione all’adattamento» ai modelli sociali e culturali dominanti. Non a caso, Molinari fa riferimento alla vasta letteratura che, recentemente, ha cercato di problematizzare il tema della cittadinanza democratica. Coglie appieno la complessità della questione Francesco Germinario nel suo bel saggio sulla falsa utopia della fine della storia quando osserva che, venuto a meno l’impegno politico che aveva caratterizzato la stagione dei movimenti, contribuendo alla formazione di una coscienza civile, la scuola si è trovata investita di una funzione di supplenza per la quale non era preparata.[16]

È, questo, un esempio particolarmente significativo di quella sfida che la contemporaneità pone alla scuola e all’educazione e che rende necessario – come osserva Eros Barone nelle pagine introduttive – «per un verso, fare i conti con il carattere epocale della forma-scuola e, per un altro verso, impegnarsi nel ricercare, nel formulare e nel proporre ai giovani progetti e percorsi che siano dotati di senso e di valore, che non siano poveri e minimalistici ma densi e ricchi di spessore culturale e, perciò, atti a promuovere la loro formazione personale».[17]

Passione intellettuale e responsabilità etica come presupposti irrinunciabili della professione dell’insegnante e condizioni per elaborare quell’orizzonte unitario di valori cognitivi, in assenza del quale non si ha che trasmissione di saperi irrelati, incapace di svolgere un’autentica funzione educativa, resa tanto più necessaria ed urgente dall’imporsi di modelli culturali ed esistenziali che fanno della leggerezza, della frammentarietà , della «presentificazione» la loro cifra: questo è il quadro generale entro il quale si muove, con profondità di analisi, rigore argomentativo e ricchezza documentaria, la ricerca dell’IRRE Lombardia, uscita tredici anni fa. Nel frattempo, la scuola è andata in direzione opposta e questo è un motivo in più per riprendere, sviluppare, ma anche discutere elaborazioni teoriche e indicazioni didattiche proposte, per ripensare la forma-scuola come spazio di rottura rispetto alla società di mercato. In questa prospettiva, alcuni interventi mantengono una certa ambiguità, sospesi fra la consapevolezza che la scuola non può semplicemente rincorrere un mondo in rapida evoluzione ed una sostanziale accettazione delle sue tendenze di fondo, ciò che rischia di avvalorare, sul piano educativo, il profilo di «un cittadino che sa muoversi nel mondo, magari essendo lui una forza trainante e non soltanto un oggetto trainato».[18]A giudizio di chi scrive, l’educazione al pensiero critico dovrebbe, invece, fornire agli studenti strumenti culturali e sensibilità etica per mettere in discussione i fini sociali generali e non solo una “cassetta per gli attrezzi” utile per garantire una riuscita individuale. Anche la diffidenza per la lezione frontale[19] mi sembra ingenerosa: essa, da un lato è educazione all’ascolto e alla concentrazione in controtendenza rispetto alla dispersione e fluidità della rete e, dall’altro, contiene in sé, più di ogni altro approccio, la potenzialità di trasformarsi in autentico dialogo.

Le perplessità maggiori riguardano, tuttavia, il giudizio sostanzialmente positivo, malgrado qualche rilievo critico, attribuito alla riforma dell’autonomia scolastica varata da Berlinguer. Non è questa la sede per una sua accurata disamina, ma non è superfluo ricordare che essa suscitò, sin dal suo apparire, un vivace dibattito – culturale e politico – che vide molti docenti, dalla primaria all’Università, sindacalisti ed intellettuali impegnati a denunciare l’accelerazione dei processi di aziendalizzazione e mercificazione dell’istruzione avviata dalla riforma Berlinguer[20] e culminata nella buona scuola. Non convince nemmeno il richiamo alle politiche scolastiche europee da parte di alcuni fra gli autori di Ripensare la scuola. Certamente, i libri bianchi della Commissione europea degli anni Novanta davano voce alla legittima preoccupazione che i sistemi scolastici non potessero reggere alla sfida degli incalzanti mutamenti sociali, economici, tecnologici e che la «società della conoscenza» finisse per escludere chi non avesse un adeguato bagaglio di conoscenze. La risposta data (a partire dalla messa in discussione del titolo di studio a favore di «una tessera personale delle competenze», fino alla conclamata «riabilitazione» dell’impresa come luogo formativo e alla necessità di ridefinirne i legami con il mondo della scuola) sembra orientare l’istruzione verso un ossequente rapporto con il mercato, piuttosto che nella direzione di uno sviluppo pieno ed armonioso della personalità umana. Né c’è da stupirsene, considerati i principi costitutivi e le politiche sociali ed economiche dell’U.E., di chiara matrice neo-liberista. Bene fa Eros Barone, nell’introduzione, ad aggiustare il tiro, ricordando che la riforma della scuola intesa come riordino dei cicli e degli ordinamenti punta ad omogeneizzare la scuola italiana con quella europea, in un tentativo di razionalizzazione che prescinde sia dalle specifiche storie dei sistemi scolastici nazionali, sia dalla peculiarità dei modelli culturali: un’operazione caratterizzata da un evidente limite di economicismo, nonché di sudditanza ad una visione tecnocratica, sostanzialmente estranea ai valori cognitivi ed etici dell’attività formativa che ha come teatro la scuola.[21] Oggi, nella scuola-azienda, appellarsi a questi valori, ridefinirli in rapporto ai bisogni educativi e cercare di renderli vivi ed operanti nel quotidiano agire didattico è condizione primaria, sia per resistere al disegno di chi vuole trasformare l’educazione in addestramento, sia per continuare a coltivare la necessaria utopia di una società non asservita al mercato.

Fernanda Mazzoli

 

Note

[1] Aa.Vv., Ripensare la forma scuola. Analisi e proposte, a cura di E. Barone, Franco Angeli, Milano 2006.

[2] G. Gavianu, La lettura del Novecento: un asse culturale qualificante per i nuovi curricoli, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., pp. 221-225.

[3] P. Zanelli, Professionalità docente, riflessività sociale e formatività, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., p. 150.

[4] G. Gavianu, La lettura del Novecento, op. cit., p. 162.

[5] P. Zanelli, Professionalità docente, op. cit., pp. 145-146.

[6] P. Romei, Organizzazione scolastica e professionalità docente, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., p. 58.

[7] M. Ceruti, Educare nel tempo della complessità, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., p. 33.

[8] F. Villa, Come organizzare la ricerca e la formazione, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., pp. 81-82.

[9] M. Ceruti, Educare nel tempo della complessità, op. cit., p. 34.

[10] Le altre sono locale e globale, cittadino e professionista, esperienza e teoria, specialista e generalista.

[11] Ivi, pp. 36-39.

[12] L. Russo (in Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori, Milano 2018) si interroga sul principio unificante intorno al quale elaborare, oggi, una cultura generale di qualità e lo individua in una rivisitazione della cultura classica. Non ci sembra questa la scelta di Cerruti, il quale è, piuttosto, interessato a decostruire quelle coppie concettuali che danno forma alla progettazione dei percorsi scolastici. Importa sottolineare, al di là delle differenze, la comune tensione verso il superamento della parcellizzazione attuale del sapere che accomuna studiosi diversi per formazione, approcci teoretici e sensibilità culturale. Per il superamento della tradizionale antinomia tra discipline umanistiche/ scientifiche, rinvio, tra gli altri, al matematico Giorgio Israel, Meccanicismo. Trionfi e miserie della visione meccanica del mondo, Zanichelli, Bologna, 2015 e, dello stesso, http://gisrael.blogspot.com/, al neurobiologo Lamberto Maffei e al suo Elogio della lentezza, Il Mulino, Bologna 2014, e al filosofo Massimo Bontempelli che indica gli studi storici come asse culturale di una scuola rinnovata in Un nuovo asse culturale per la scuola italiana, Editrice C.R.T.- Petite Plaisance, Pistoia 2001.

[13] https://comune-info.net/2016/02/la-scuola-nuova-fabbrica-di-servitu/

[14] P. Romei, Organizzazione, op. cit., p. 59.

[15] G. Molinari, Formazione alla cittadinanza democratica:aspetti teorici e modelli normativi, in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., pp. 235-279.

[16] F. Germinario, Un mondo senza storia? La falsa utopia della società della poststoria, Asterios, Trieste 2017, p. 40.

[17] E. Barone, Introduzione in Aa.Vv., Ripensare la forma-scuola, op. cit., p.13.

[18] P. Romei, Organizzazione scolastica e professionalità docente, op. cit., p. 59.

[19] P. Zanelli, Professionalità docente, op. cit., p. 134.

[20] Fra i tanti contributi, mi sembra di particolare interesse, per esaustività e spessore intellettuale, il volume collettaneo Metamorfosi della scuola, Koiné 1-2, Pistoia 2000.

[21] E. Barone, Introduzione a Ripensare la forma scuola. Analisi e proposte, op. cit., pp. 20-21.


Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.

Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli

Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.

Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.

Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.

Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.

Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».

Fernanda Mazzoli – Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.

Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.


Vero è ciò che è conforme al fondamento.
Bene è tutto ciò che del fondamento,
ossia dell’uomo,
si prende cura.

 

 

Per una scuola vera e buona

Per una scuola vera e buona

ISBN 978-88-7588-248-8, 2018, pp. 272,  Euro 25

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Locandina Koinè, Per una scuola vera e buona

Locandina Per una scuola vera e buona

Logo-Adobe-Acrobat-300x293   Locandina Koinè, Per una scuola vera e buona   Logo-Adobe-Acrobat-300x293

 

Testata KoinèLogo-Adobe-Acrobat-300x293  L’unione di conoscenza e virtù costituisce la struttura portante di ogni serio modello educativo, rivolto ad una concreta ricerca della verità  Logo-Adobe-Acrobat-300x293

Testata Koinè

La scuola per essere buona deve essere prima di tutto vera.

Il libro affronta la questione della scuola pietrificata di oggi che disconosce una questione di fondo: vero è ciò che è conforme al fondamento, bene è tutto ciò che del fondamento, cioè dell’uomo, si prende cura. Qualsiasi approccio a questo tema in chiave riduttivamente economicistica o aziendalistica non consente infatti minimamente di coglierne lo spessore reale.
Né è possibile, sulla base di una concezione dell’umanità dell’uomo come semplice prassi empirica e funzionalismo sociale, capire realmente cosa è in giuoco nella scuola. Il tema della scuola rimanda infatti al significato dell’educazione umana, del rapporto tra le generazioni, della temporalità, della cultura. L’unione di conoscenza e virtù costituisce la struttura portante di ogni serio modello educativo, rivolto ad una concreta ricerca della verità.

Contributi di:

Eros Barone, Alberto G. Biuso, Salvatore A. Bravo, Giovanni Carosotti, Lucrezia Fava, Arianna Fermani, Carmine Fiorillo, Luca Grecchi, Silvia Gullino, Rossella Latempa, Claudio Lucchini, Romano Luperini, Fernanda Mazzoli, Alessandro Pallassini, Lucio Russo, Franco Toscani, Lorenzo Varaldo.

In copertina:
Marc Chagall, L’Acrobata (The Acrobat), 1914.
Per Marc Chagal l’acrobata è utopia che cerca – da una prospettiva inusuale –
un nuovo equilibrio, su un filo teso sull’orlo di un mondo alla rovescia.


 

Carmine Fiorillo – Luca Grecchi

Dalla Nota introduttiva

Luca GrecchiRingraziamo tutti gli studiosi
che a questo numero hanno partecipato,
apportando il proprio prezioso contributo di riflessione su un tema,
quello educativo,
sempre centrale e che,
anche quando non esplicitamente affrontato,Carmine Fiorillo
rimane sempre l‘implicito riferimento
di tutte le pubblicazioni
di Petite Plaisance.

 


Fernanda Mazzoli

La centralità delle conoscenze:
una bussola per uscire dalle secche dell’aziendalismo

Fernanda Mazzoli
L’educazione ai tempi del liberismo
La deconcettualizzazione dell’insegnamento
La storia negata
Il maestro negato
Una scuola forte è possibile?
Indicazioni bibliografiche sul tema


Franco Toscani

Sul senso e sul declino della nostra scuola

Scuola e panaziendalismo
L’alienazione scolasticaFranco Toscani
Don Lorenzo Milani
e l’esperienza della “scuola di Barbiana”:
una lotta per la cultura e il linguaggio,
per l’eguaglianza e la dignità delle persone
La testimonianza della ‘Scuola di Barbiana’ e la sua eredità odierna
La scuola e la “mutazione antropologica”
Maestri e allievi. Per una etica della responsabilità
Friedrich Nietzsche e gli interrogativi sull’avvenire delle nostre scuole
La Bildung e il destino della civiltà planetaria

 

 


Lucio Russo

Per una scuola in grado di trasmettere cultura

Per una scuola
in grado di trasmettere cultura,Lucio Russo
è essenziale interrogarsi
su quale cultura
si voglia trasmettere e perché


Claudio Lucchini

La merce a scuola ovvero la scuola della merce

La merce a scuolaClaudio Lucchini
ovvero la scuola della merce:
riflessioni

sulle tendenze
antropologico-sociali
sottese alla pratica scolastica attuale


Alberto Giovanni Biuso

Per la παιδεία

Scuola e politicaAlberto Biuso
Conoscenze e competenze
Socratismo e comportamentismo
Marketing e analfabetismo
Europa e παιδεία


Salvatore A. Bravo

Il freddo, implacabile strangolamento della παιδεία

L’ecolalia pedagogica
Pedagogia senza fondamento
La didattica breve e il neolinguaggio pedagogicoSalvatore Bravo
L’homo oeconomicus
La scuola azienda
Trascendere le classi per strutturare lo sradicamento
Conclusioni


Arianna Fermani

L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano
Riflessioni sulla παιδεία in Aristotele

I. Osservazioni preliminari
Originalità e attualità della riflessione aristotelica sull’educazione
II. Primo scenario educativo: l’educazione precede l’etica
II.a L’insegnabilità della virtù: limiti e caratteristiche
II.b L’emotional training e l’educazione “delle” passioniArianna Fermani
II.c Ulteriori articolazioni del modello educativo
III. Secondo scenario educativo: l’educazione è l’etica
III.a Educazione e metodo della ricerca
IV. Riflessioni conclusive


Romano Luperini

Insegnare la letteratura oggi

Ogni educazioneRomano Luperini
presuppone

una utopia,
la esige
***
Appendice


Alessandro Pallassini

Note sugli apparati riproduttivi societari, guardando alla scuola

I. Introduzione
II. Produzione e riproduzione societaria.Alessandro Pallassini
Brevi cenni
III. Mutamenti del sistema societario
e mutamenti nell’educazione latamente intesa
IV. Scuola-lavoro: possibili omologie
V. Conclusioni (molto provvisorie)
VI. Bibliografia utilizzata


Eros Barone

La crisi dei saperi socratici: una sfida per l’‘humanitas’

I. Società di mercato e saperi socratici
III. Quale rapporto tra il vero e l’utile nel sapereEros Barone
e nella formazione?
III. I “saperi che servono” fra nichilismo antisocratico
e ideologia del ‘politicamente corretto’
IV. Il riscatto dei saperi socratici: utilità, eredità, identità
IV. Futuro dell’‘humanitas’ e ‘humanitas’ del futuro


Giovanni Carosotti

L’«ideologia» della Buona Scuola

Una didattica autoproclamatasi “innovativa”
Un apparato ideologico per formare nuovi soggetti
Una dimostrazione di dissenso:
dall’Appello per la Scuola pubblica alla sua contestazione
Una critica delle ideologie rivolta al concetto di «competenza»
La scelta impositivaGiovanni Carosotti
Una salutare critica delle ideologie
La pseudo scienza delle competenze
L’azzeramento
della pluralità storiografica ed ermeneutica delle discipline
Una scuola di sorveglianti e sovergliati, misurati e misuratori
Breve riflessione sul quantitativo


Rossella Latempa

L’ossessione valutativa

Il mito dell’oggettivitàRossella Latempa
L’imbracatura ortopedica
della valutazione scolastica
Matematizzazione dell’essere umano


Lorenzo Varaldo

La posta in gioco

 

È in gioco il sapere dell’umanitàLorenzo Varaldo
La nostra Dichiarazione di oggi
***
Dichiarazione finale della Conferenza Nazionale
del 19 maggio 2018 per l’abrogazione della legge 107


Fernanda Mazzoli

Per una seria cultura generale comune

Una proposta di Lucio RussoFernanda Mazzoli
Recensione al libro
Lucio Russo,
Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista


Lucrezia Fava

Λόγος, linguaggio, tempo

Dai seminari heideggerianiLucrezia Fava
di Le Thor
Recensione
al libro
Martin Heidegger, Seminari


Silvia Gullino

Una appassionata ricostruzione della filosofia aristotelica

Alla ricerca del luogoSilvia Gullino
in cui la sapienza teoretica si radica nell’umano
Recensione al libro
Claudia Baracchi, L’architettura dell’umano.
Aristotele e l’etica come filosofia prima



Per far memoria

del nostro impegno sul tema della scuola

Metamorfosi della scuola

Metamorfosi della scuola italiana

Anno 2000, pp. 304, Euro 20

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Testata Koinè

Contributi di:

Fabio Acerbi – Marino Badiale – Giuseppe Bailone – Fabio Bentivoglio – Piero Bernocchi – Lucio Bontempelli – Massimo Bontempelli – Paolo De Martis – Adolfo Scotto Di Luzio – Federico Dinucci – Giampiero Giampieri – Giulio Ferroni – Emanuele Narducci – Fabrizio Polacco – Costanzo Preve – Lucio Russo – Livio Sichirollo – Roberto Signorini – Lorenzo Varaldo

Sommario

Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?, di Massimo Bontempelli
La scuola sospesa, di Giulio Ferroni
Alcune osservazioni sui contenuti dell’insegnamento, di Lucio Russo
Orwell 2000, di Fabrizio Polacco
Sulle sorti della matematica e della fisica nella scuola superiore, di Fabio Acerbi
L’insegnamento delle discipline scientifiche e la storia della scienza, di Lucio Bontempelli
30 tesi contro la Scuola-Azienda e l’Istruzione-Merce, di Piero Bernocchi
La catena dei perché. Riflessioni sulle radici del “Concorso Berlinguer”, di Costanzo Preve
Autonomia didattica e libertà di insegnamento, di Federico Dinucci
Chi non sa nulla, insegna ad insegnare, di Paolo De Martis
Che buon pro facesse (e faccia) il “Verbo”, di Giampiero Giampieri
“L’agonia della scuola italiana”: un libro controcorrente, di Fabio Bentivoglio
Una lettura critica del libro “L’agonia della scuola italiana”, di Roberto Signorini
Il libro di Antonio La Penna “Sulla scuola”, di Emanuele Narducci
L’insegnante trova le sue parole. Perché un “no” ai salari di merito, di Lorenzo Varaldo
Il libro verde della Pubblica istruzione, di Giuseppe Bailone
Il Liceo classico, di Adolfo Scotto di Luzio
Il resistibile declino dell’università. Ragioni per un titolo, di Livio Sichirollo
Il nome delle libellule. Breve riflessione sulle culture popolari, di Marino Badiale


L'agonia della scuola italiana

Massimo Bontempelli

L’agonia della scuola italiana

Anno 2000, pp. 144, € 10,00

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La scuola italiana nel suo insieme è oggetto, per la prima volta dopo tre quarti di secolo, di una riforma complessiva ed incisiva. Le innovazioni che vi sono introdotte, però, esaminate attentamente nei loro effetti concreti, risultano tutte profondamente negative, sia sul piano della formazione educativa dei giovani, che su quello della professionalità degli insegnanti e della trasmissione di un sapere degno di questo nome. Il carattere pubblico e nazionale del sistema dell’istruzione, e la sua capacità di promuovere lo spirito critico e l’autonomia di giudizio dei giovani, ne risultano gravemente compromessi.
Questo disastro è il prodotto di una cultura dogmatica e ideologizzata dei promotori della riforma, che li rende incapaci di pensare su un piano conoscitivamente alto, ed eticamente valido, il nesso tra scuola e società. Tale cultura è peraltro funzionale alle inconfessate esigenze totalitarie di un determinato sistema di potere.
La scuola italiana, a questo punto, potrà essere salvata soltanto dalla resistenza consapevole degli insegnanti che vogliono continuare ad essere educatori.

Il libro si articola in sette capitoli:
L’innovazione distruttiva
Il didatticismo di regime
L’autonomia aziendalistica
L’educazione negata
La stupidità rivelata
La scuola del totalitarismo neoliberista
Il destino della scuola


Buoni e cattivi maestri

Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri

Anno 2003, pp. 160, Euro 15

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Testata KoinèLogo-Adobe-Acrobat-300x293  L’unione di conoscenza e virtù costituisce la struttura portante di ogni serio modello educativo, rivolto ad una concreta ricerca della verità  Logo-Adobe-Acrobat-300x293

Testata Koinè

Contributi di:

Guido Armellini – Andrea Bagni – Antonia Baraldi Sani – Fabio Bentivoglio – Carlo Bolelli – Massimo Bontempelli – Francesco Borciani – Marcello Cini – Vittorio Cogliati Dezza – Luca Grecchi – Corrado Maceri – Fabiano Minni – Bruno Moretto – Cesare Pianciola – Gianna Tirandola – Marcello Vigli

La scuola e il fondamento, di Luca Grecchi
Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri, di Francesco Borciani
Sapere di polis, di Andrea Bagni
Il quinto postulato, di Fabio Bentivoglio
Quale scuola per quale Stato?, di Marcello Vigli
L’intelligenza del tranviere, di Guido Armellini
Partiamo dalle nuove sfide, di Vittorio Cogliati Dezza
Il cappotto del professore, di Antonia Baraldi Sani
La scuola della Repubblica tra Stato, Regioni e sussidiarietà, di Corrado Mauceri
Evoluzionismo: un ponte tra due culture, di Marcello Cini
Sul sapere critico, di Carlo Bolelli
La convergenza del centrosinistra e del centrodestra
nella distruzione della scuola italiana, di Massimo Bontempelli
Il tutto e le parti, di Guido Armellini
L’esperienza del referendum in Emilia Romagna, di Bruno Moretto
Intervista immaginaria di Ignazio Olloy al Professor E. De Candi, di Fabiano Minni
L’esperienza del referendum in Veneto, di Gianna Tirondola
Lettera aperta ai partiti della sinistra sulla scuola
Venti anni di attività, di Cesare Pianciola


Il sogno di una scuola

Maria Luisa Tornesello

Il sogno di una scuola

Lotte ed esperienze didattiche negli anni Settanta: controscuola, tempo pieno, 150 ore.

Allegato il CD-ROM per Windows con l’audiovisivo Oltre il libro di testo: parole ed esperienze di opposizione nella scuola dell’obbligo degli anni Settanta,
di Maria Luisa Tornesello e Roberto Signorini.

ISBN 978-88-7588-006-4, 2006, pp. 416, Euro 27

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Si manifesta ormai da più parti l’esigenza di considerare con metodo scientifico la storia degli anni Settanta, superando sia l’urgenza della testimonianza personale che la rimozione di un materiale impegnativo e «scomodo». Questo discorso vale in modo particolare per la scuola, in quegli anni al centro dell’attenzione con analisi, pratiche, lotte, che presto e abbastanza superficialmente sono state liquidate o «demonizzate».
In realtà la scuola, e in particolare la scuola dell’obbligo, è il punto d’incontro dei problemi che in quel momento agitano la società italiana. È un vero e proprio laboratorio di idee e progetti vissuti come rivoluzionari: partecipazione democratica, non delega, autonomia e potere dal basso.
Questo libro è una prima ricostruzione di quei fermenti, caotici ma aperti e vitali. Esso si basa su una documentazione inconsueta (prese di posizione politiche e sindacali dei «nuovi insegnanti», lavori degli studenti, materiale didattico delle scuole sperimentali e dei corsi 150 ore, documenti di programmazione didattica, produzione dell’editoria didattica alternativa), in cui è possibile cogliere il profondo cambiamento rispetto al passato, la ricchezza del dibattito e delle proposte didattiche, l’impegno civile.

 

 

 


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