Rudolf Nurejev (1938-1993) – L’essenza della vita è nel suo divenire e non nell’apparire: si ama perché si sente il bisogno di farlo.

Rudolf Nurejev

«[…] dopo aver lavorato nei campi con mio padre perché eravamo dieci fratelli, fare quei due chilometri a piedi per raggiungere la scuola di danza.

Non avrei mai fatto il ballerino, non potevo permettermi questo sogno, ma ero lì, con le mie scarpe consunte ai piedi, con il mio corpo che si apriva alla musica […].
Era il senso che davo al mio essere, era stare lì e rendere i miei muscoli parole e poesia, era il vento tra le mie braccia, erano gli altri ragazzi come me che erano lì e forse non avrebbero fatto i ballerini, ma ci scambiavamo il sudore, i silenzi, la fatica.

Per tredici anni ho studiato e lavorato, niente audizioni, niente, perché servivano le mie braccia per lavorare nei campi.

Ma a me non interessava: io imparavo a danzare e danzavo perché mi era impossibile non farlo, mi era impossibile pensare di essere altrove, di non sentire la terra che si trasformava sotto le mie piante dei piedi, impossibile non perdermi nella musica, impossibile non usare i miei occhi per guardare allo specchio, per provare passi nuovi.

Ogni giorno mi alzavo con il pensiero del momento in cui avrei messo i piedi dentro le scarpette e facevo tutto pregustando quel momento. E quando ero lì, con un’aquila sul tetto del mondo, ero il poeta tra i poeti, ero ovunque ed ero ogni cosa.

Ricordo una ballerina Elèna Vadislowa, famiglia ricca, ben curata, bellissima. Desiderava ballare quanto me, ma più tardi capii che non era così. Lei ballava per tutte le audizioni, per lo spettacolo di fine coso, per gli insegnanti che la guardavano, per rendere omaggio alla sua bellezza. Si preparò due anni per il concorso Djenko. Le aspettative erano tutte su di lei. Due anni in cui sacrificò parte della sua vita. Non vinse il concorso. Smise di ballare, per sempre. Non resse la sconfitta.

Era questa la differenza tra me e lei.
Io danzavo perché era il mio credo, il mio bisogno, le mie parole che non dicevo, la mia fatica, la mia povertà, il mio pianto. Io ballavo perché solo lì il mio essere abbatteva i limiti della mia condizione sociale, della mia timidezza, della mia vergogna.
Io ballavo ed ero con l’universo tra le mani, e mentre ero a scuola, studiavo, aravo i campi alle sei del mattino, la mia mente sopportava perché era ubriaca del mio corpo che catturava l’aria.

Ero povero, e sfilavano davanti a me ragazzi che si esibivano per concorsi, avevano abiti nuovi, facevano viaggi.
Non ne soffrivo, la mia sofferenza sarebbe stata impedirmi di entrare nella sala e sentire il mio sudore uscire dai pori del viso.

La mia sofferenza sarebbe stata non esserci, non essere lì, circondato da quella poesia che solo la sublimazione dell’arte può dare.
Ero pittore, poeta, scultore.

Il primo ballerino dello spettacolo di fine anno si fece male. Ero l’unico a sapere ogni mossa perché succhiavo, in silenzio ogni passo. Mi fecero indossare i suoi vestiti, nuovi, brillanti e mi dettero dopo tredici anni, la responsabilità di dimostrare. Nulla fu diverso in quegli attimi che danzai sul palco, ero come nella sala con i miei vestiti smessi. Ero e mi esibivo, ma era danzare che a me importava. Gli applausi mi raggiunsero lontani. Dietro le quinte, l’unica cosa che volevo era togliermi quella calzamaglia scomodissima, ma mi raggiunsero i complimenti di tutti e dovetti aspettare. Il mio sonno non fu diverso da quello delle altre notti. Avevo danzato e chi mi stava guardando era solo una nube lontana all’orizzonte.
Da quel momento la mia vita cambiò, ma non la mia passione ed il mio bisogno di danzare. Continuavo ad aiutare mio padre nei campi anche se il mio nome era sulla bocca di tutti. Divenni uno degli astri più luminosi della danza.

Ora so che dovrò morire, perché questa malattia non perdona, ed il mio corpo è intrappolato su una carrozzina, il sangue non circola, perdo di peso.
Ma l’unica cosa che mi accompagna è la mia danza, la mia libertà di essere.

Sono qui, ma io danzo con la mente, volo oltre le mie parole ed il mio dolore.

Io danzo il mio essere con la ricchezza che so di avere e che mi seguirà ovunque: quella di aver dato a me stesso la possibilità di esistere al di sopra della fatica e di aver imparato che se si prova stanchezza e fatica ballando, e se ci si siede per lo sforzo, se compatiamo i nostri piedi sanguinanti, se rincorriamo solo la meta e non comprendiamo il pieno ed unico piacere di muoverci, non comprendiamo la profonda essenza della vita, dove il significato è nel suo divenire e non nell’apparire.

Ogni uomo dovrebbe danzare, per tutta la vita. Non essere ballerino, ma danzare.

Chi non conoscerà mai il piacere di entrare in una sala con delle sbarre di legno e degli specchi, chi smette perché non ottiene risultati, chi ha sempre bisogno di stimoli per amare o vivere, non è entrato nella profondità della vita, ed abbandonerà ogni qualvolta la vita non gli regalerà ciò che lui desidera.

È la legge dell’amore: si ama perché si sente il bisogno di farlo, non per ottenere qualcosa od essere ricambiati, altrimenti si è destinati all’infelicità.

Io sto morendo, e ringrazio Dio per avermi dato un corpo per danzare cosicché io non sprecassi neanche un attimo del meraviglioso dono della vita…».

Rudolf Nurejev, Lettera alla danza.

Primo Levi (1919-1987) – Ogni tempo ha il suo fascismo

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«Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine, ed in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti».

Primo Levi, Un passato che credevamo non dovesse tornare più, in: Corriere della sera, 8 maggio 1974.

Claudio Abbado (1933-2014) – Nell’arte e nella letteratura di un paese ho imparato a comprenderne meglio anche la musica

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«Avvicinandomi all’arte e alla letteratura di un paese ho imparato a comprenderne meglio anche la musica. Quando studiavo le opere di Musorgskij come il Boris Godunov o la Khovanscina ritrovavo la disperazione e insieme la fantasia della cultura russa che avevo amato nelle pagine di Puskin, Gogol’, Dostoevskij, Cecov, Tolstoj o Pasternak. […]».

Claudio Abbado, La musica scorre a Berlino. Conversazioni con Lidia Bramani, Bompiani, 2015.

Musica scorre a Berlino

Musica sopra Berlino

Antonio Fiocco – Emanuele Severino considera ineluttabile il trionfo della Tecnica (cioè il capitalismo): il suo ripristino dell’ontologia è apparente e fuorviante, dunque innocuo per il potere

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Oltre l’Occidente: Emanuele Severino

Non si intende entrare nel merito della visione globale della filosofia di Emanuele Severino. In questa sede ci si propone di isolare, per quanto possibile, la porzione del suo pensiero eventualmente utilizzabile come possibilità di liberazione nei confronti di un sistema sociale ritenuto iniquo. Si è peraltro consci che questo filosofo vede nella cultura di sinistra – intesa nella sua accezione storica ormai travolta dall’utilitarismo crematistico – semplicemente una delle varie forme in cui si manifesta l’evoluzione della civiltà occidentale. Di conseguenza è importante dire subito che questa civiltà è da lui criticata globalmente e nei suoi stessi principi fondativi comuni a tutto il pensiero filosofico fin qui apparso e quali si sono perpetuati dai Greci ai nostri giorni. Anche dal marxismo in particolare, dunque, e senza distinzione fra pensiero marxiano e successiva ortodossia marxista, Severino si dissocia radicalmente. D’altra parte una indagine è inevitabile, visto che un testo[1] del pensatore avanza, come dice il breve tratto introduttivo, questa intrigante, problematica, sfida: è possibile, senza essere marxisti, riuscire là dove il marxismo ha fallito?
Severino considera che i Greci, per primi nella storia del pensiero umano, concepiscono l’essere e il nulla in assoluta, reciproca opposizione, divisi da una distanza infinita. In precedenza non era così. Per es.: «Nella civiltà mediterranea pre-greca il mancato ritorno [dalla morte; A.F.] è interpretato come una lunga assenza: nella sua interezza, la vita dell’uomo è un ciclo infinito di morti e di rinascite».[2] Ma con i primi pensatori greci matura la persuasione che ogni cosa esce dal nulla, vive una precaria esistenza e ritorna nel nulla. Qui occorre fare attenzione, giacché «il niente non può produrre alcunché – un principio che, appunto, include la coscienza della assoluta negatività del niente».[3] I mattoni che costituiscono una casa esistevano prima della casa, quando la casa era un non-essere, e le macerie persistono quando la casa è distrutta, cioè è ritornata nel nulla. Analoghe considerazioni si possono fare per qualsiasi altro ente, come, per es., anche un corpo umano. «È impossibile un divenire che non sia il divenire di un sostrato permanente; e tuttavia il divenire è sempre un divenire dal non-essere […] non esiste un ‘puro divenire’ senza sostrato; mentre ciò che non è così salvo è appunto l’insieme delle affezioni di tale sostanza, l’insieme delle cose del mondo, che, in quanto tali, cioè nella loro specifica individualità, escono dal loro essere state niente e tornano a essere niente, mentre, quanto alla loro sostanzialità, preesistono nella sostanza ‘sempre salva’ (Aristotele), da cui si generano e rimangono in tale sostanza, nella quale si corrompono».[4] In questo senso, dunque, i Greci «intendono il divenire come il dibattersi delle cose tra l’essere e il niente»[5] e «solo se si crede che le cose siano flessibili, oscillanti fra l’essere e il niente, ci si può proporre di fletterle e di controllare la loro oscillazione. Se la volontà di potenza è la volontà di dominare il mondo, la forma originaria della volontà di potenza è appunto la fede nell’esistenza del dominabile, cioè la fede nell’esistenza del divenire».[6] Già prima dell’ontologia greca, cioè in un contesto considerato da Severino una sorta di preistoria inconscia dell’Occidente, la coscienza umana ammetteva un certo grado di manipolazione del reale, «ma col pensiero greco incomincia l’epoca della flessione estrema del mondo […] proprio perché la flessione percorre l’infinita distanza tra l’essere e il niente, la volontà di potenza incomincia ad essere infinita […] la sua creatività e distruttività incominciano a essere assolute».[7] Ma in tutto questo, nota il filosofo, è contenuta una insolubile contraddizione, poiché, se è evidente e perfino tautologico dire, con Parmenide, che tutto «ciò che è, è», il divenire non può esistere, «perché, se l’essere diviene (si genera e va distrutto), non è».[8] Donde il nichilismo di tutta la cultura occidentale.
Severino addirittura si spinge, in un affascinante saggio, che si può considerare quasi una risposta al Cratilo platonico,[9] a scorgere ed esaminare , nel lessico delle grandi lingue indoeuropee, la natura della scissione fra l’inflessibile e il dominabile e come questi caratteri abbiano un timbro diverso e riconoscibile.
Secondo Severino, dunque, tutte le forme di pensiero, le civiltà, le religioni, i sistemi filosofici, le forme artistiche, politiche ed economiche dell’Occidente si sono sviluppate all’interno di questo originario stato della coscienza e per soddisfare l’indiscussa persuasione che ne sta al fondo. Tuttavia «la civiltà della tecnica è la forma più rigorosa di questa fede»,[10] perché conferisce un dominio pratico sulla realtà di una efficacia enormemente superiore alle forme precedenti e via via abbandonate dall’uomo perché rivelatesi insufficienti allo scopo, come la stessa ricerca filosofica e il Cristianesimo. Così, per secoli, da Eschilo[11] a Hegel, la fede nel dominio del mondo si è espressa con la tradizione epistemico-metafisica e con l’affermazione di un «Senso unitario, immutabile e divino della realtà», nel cui interno soggiogante risultava però prevedibile, contraddittorio e dunque impossibile il divenire, la cui evidenza rimaneva tuttavia incontestabile.
Affinché il divenire fosse veramente tale, fosse davvero libero e la volontà di potenza potesse estrinsecarsi totalmente, era necessario il tramonto di tutte le strutture immutabili evocate fino a quel momento dall’uomo, come Dio, la natura, l’anima, l’autorità dello Stato, la storia, i valori morali, il diritto, i canoni estetici, ecc. Dopo Hegel la filosofia imbocca coerentemente la strada dello smantellamento di tutte queste false certezze (per fare un solo esempio, pensiamo al ruolo avuto da Nietzsche in tal senso), per consegnare la realtà a uno stato di precarietà completa, di virtuale nullità e dunque totalmente dominabile.[12] Il pensiero marxista, che si propone di modificare la realtà, è considerato come una forma evoluta della volontà di potenza. Tuttavia, in quanto tensione verso una meta precisa e limitante, la società senza classi, ed in quanto erede della concezione universalistica di Hegel, esso è a sua volta e inesorabilmente, secondo Severino, un Immutabile destinato, come testimonierebbe il crollo del “socialismo reale”, al tramonto. La sconfitta di Trotskij e della “rivoluzione permanente” su scala mondiale nei confronti della concezione staliniana del “socialismo in un solo paese”, sarebbe già stata, a suo tempo, un chiaro indice di questo tramonto. Così, comunque, si ignora a priori l’eventualità che possano esistere interpretazioni e sviluppi che rendano la dottrina di Marx (indipendentemente dal crollo del “socialismo reale”) un patrimonio aperto e attuale. Pensiamo certo al “marxismo occidentale”, pur con i suoi limiti, ma soprattutto alla più recente necessità di una riformulazione della filosofia idealistica implicita nel pensiero originale di Marx, secondo il magistero del recentemente scomparso Costanzo Preve.
Oggi, dunque, secondo l’impostazione di Severino, ogni sistema politico e/o economico, ogni ideologia e religione, ormai manifestamente private di verità, si configurano come altrettante fedi o come altrettante volontà in lotta contro altre volontà. La democrazia diretta viene liquidata come ingenuamente utopica, cioè come una specie di “angelo caduto dal cielo”. Di norma, comunque, per democrazia Severino intende , a seconda dei casi, o la democrazia liberale (contrapposta al socialismo, a sua volta sempre inteso come “reale” e dunque fallito inesorabilmente), o la “sovranità della maggioranza” (in una accezione che ne rimarca un aspetto assolutistico). Queste forme di democrazia trarrebbero la loro legittimazione esclusivamente dalla forza di prevalere su altri sistemi di governo più esplicitamente autoritari, come quelli propugnati da coloro che ritengono di avere scoperto la Verità e di doverla imporre a tutti, come, per es., nello stato teocratico. Analogamente, l’antifascismo è legittimo solo finché ha la capacità pratica di prevalere sul fascismo, ma potrebbe essere indifferentemente il contrario. Un pluralismo come quello sancito dalla Costituzione italiana, che prevede una convivenza di culture diverse che non mirino a sopraffarsi vicendevolmente, viene implicitamente considerato un mito.[13] È superfluo aggiungere che la possibilità di un comunismo considerato come l’essenza stessa della democrazia (autogoverno politico e autogestione economica) non viene nemmeno presa in considerazione da Severino.
Una conseguenza non da poco di questa impostazione è che verrebbe a cadere la comunque apparente dicotomia originaria fra “mito” (inteso come interpretazione soggettiva e favolistica della realtà, la cui forma compiuta è la religione) e “logos” (come ricerca di una verità oggettiva), da cui nacque la filosofia. Infatti anche le verità frutto di ricerca razionale appaiono ormai come fedi.[14]
Comunque sia, la forza che prevale sulle altre, attualmente, è il capitalismo, con tutto il suo carico di miserie e di dolore. Ebbene, «l’accusa di immoralità, oggi rivolta al capitalismo […] si fonda sull’etica. Ma l’etica non è più in grado di essere un ‘fondamento’. Essa è una volontà, alla quale si contrappongono altre forme di volontà».[15] Ogni valore, come abbiamo visto, sarebbe ormai evidentemente anacronistico. “Liberté, Egalité, Fraternité”, al di là della funzione distorta o astratta che hanno avuto per le democrazie borghesi, non avrebbero quindi motivo di sussistere nemmeno come concretamente realizzabili dal comunismo. Ora, una definizione di “valore” è: «Carattere delle cose che consiste nel loro essere più o meno degne di stima. – ‘Il vero compito della ragione è di esaminare il giusto valore di tutti i beni la cui acquisizione sembra che in qualche modo dipenda dalla nostra condotta’ (Descartes)».[16] E quale «carattere delle cose» è più «degno di stima» della sopravvivenza della specie umana? Se, come è evidente, lo sfruttamento e l’alienazione portati dal capitalismo hanno condotto il mondo sull’orlo della distruzione, che altro mai potrà salvarlo se non la “nostra condotta” ispirata ai genuini valori comunitari di quella civiltà greca tanto deprecata dal nostro autore? Ma Severino invece afferma che «la distruzione dell’uomo non è la definizione dell’errore» e che «è follia (cioè errore), perché essa è negazione della verità. Ma che ne è oggi della verità».[17] La verità epistemica tradizionale e incontrovertibile oggi non esiste più nella civiltà moderna e dunque questo vuoto lascerebbe spazio alla verità, all’essere, alla «filosofia futura» del Severino stesso, per la quale «se il destino di tutte le cose, dalle più umili alle più grandiose, è di essere non trasformabili, non producibili e non distruggibili, non creature di un dio, non manipolabili, allora esse sono l’inafferrabile, il non dominabile, il necessario, l’eterno. Il destino è l’impossibilità del dominio».[18] Ogni azione umana, anche la più nobile, in quanto conseguente inesorabilmente a una forma variante di volontà di potenza, sarebbe minata dallo stesso male che intendesse curare e dunque destinata al fallimento. «Che cosa dovremo fare, allora, per evitare l’errore e la violenza? Ma è proprio necessario che si debba fare qualcosa? Il ‘fare’ è uno dei tanti nomi della vita; e se la vita è errore, anche la domanda ‘che fare?’ è errore ed è errore rispondervi. (Ma anche l’inerzia e la rinuncia alla vita sono modi di fare, cioè di vivere)».[19]
Ma affermare che la devastazione e la sofferenza sono una illusione e che tutto e tutti sono da sempre e per sempre nella gioia dell’essere, come può dispiacere all’essenza della devastazione e della sofferenza? Se esistesse una «Nous» capitalistica (secondo una espressione di Pasolini in una lontana trasmissione televisiva) sarebbe ben felice di sentirsi così assolta da ogni colpa…
Per Severino, dunque, il costruire (trarre le cose dal nulla) ha la stessa natura del distruggere (spingere le cose nel nulla), poiché entrambi condividono l’illusione della totale dominabilità delle cose stesse. Chi scrive, tuttavia, ritiene che non si possa sfuggire all’agire, secondo il senso ficthiano caro al filosofo Diego Fusaro, e di conseguenza vede nel costruire (per es. rapporti positivi tra gli uomini tramite la politica) il mezzo di una volontà che può essere più decisiva della volontà avversa. Non è credibile che guerre, devastazioni e sfruttamento avvengano necessariamente, all’interno del “divenire greco”, altrimenti anche il contenuto di questa tesi diverrebbe una di quelle verità dogmatiche che non si possono giustificare. Lo stesso Severino, auto-obbiettandosi se non abbia comunque un senso, anche all’interno della cultura occidentale, adoperarsi per evitare la guerra e costruire la pace, concede: «Certamente. E per ottenere questo risultato si danno da fare coloro che hanno a cuore le sorti dell’umanità», ma «lavorano per la pace dei morti [quali saremmo tutti all’interno del senso greco del divenire; A.F.]. E meritano riconoscenza da parte dei morti che sognano di essere vivi per merito loro».[20]
Quindi, ribadendo che all’interno dell’Occidente le devastazioni e le ingiustizie sono sostanzialmente conseguenti, di fatto Severino giudica inemendabili le modalità sociali che le causano. La tesi proposta è che se si viola ciò che si considera inviolabile, come la dignità umana, significa che non è veramente inviolabile e le lamentele in tal senso sarebbero solo il pianto del perdente.[21] Di fronte a questa logica si va al di là di ogni confutazione disapprovazione. Ma per Severino affidarsi all’indignazione non ha significato: «Per migliaia di anni gli uomini sono vissuti senza avvertire questa indignazione. E l’indignazione può tornare nell’oscurità».[22] Dunque il filosofo dichiara un punto di vista non al di sopra, ma al di là di ogni parte in campo sul pianeta. Ma nei suoi giudizi, l’operazione intellettuale che di fatto si realizza è la svalutazione di ogni aspirazione e di ogni tentativo pratico di superare l’orizzonte dell’orribile presente, per fornire una prospettiva talmente irreale da non poter sussistere nemmeno come speranza, cioè un preteso tramonto dell’Occidente (sempre inteso come la dimensione filosofica e pratica scoperta dai Greci), cui comunque assisterebbero in pochi o nessuno, se nel frattempo la distruzione non sarà fermata.

La scienza e la tecnica (ovvero il feticismo tecnologico)

Essenziale, nel pensiero del nostro filosofo, è il rapporto con la scienza e la sua applicazione pratica, la tecnica. Non esiste una reale dicotomia fra la cultura filosofica e la cultura scientifica. È vero che mentre la prima si propone una visione globale del reale, la seconda, invece, isola settori di indagine particolari e sempre più ristretti. Ma questo sezionamento separa le cose tra di loro e dal tutto allo scopo di renderle più facilmente dominabili. Ne risulta una efficacia di intervento sulla realtà nemmeno lontanamente paragonabile alle forme pre-scientifiche. Quindi la tecno-scienza realizza sempre più compiutamente ciò che comunque è sempre stata l’esigenza ultima anche dell’umanesimo che l’ha preceduta e preparata: la volontà di potenza.[23]
D’altra parte, se una qualsiasi forma umanistica di pensiero rappresenta una struttura immutabile e dunque una fede, a sua volta «l’azione tecnologica [che si basa sulla presunta ripetibilità dei fenomeni; A.F.] è possibile solo in quanto si ha fede, ossia non si dubita di ciò che la coscienza scientifica conosce come ipotesi e quindi come dubitabile».[24]
L’insieme di uomini e mezzi che esercitano la potenza nella sua forma moderna viene definito «Apparato tecnico-scientifico». Esso è sorto come uno strumento, in particolare del capitalismo, ma la competitività sfrenata con il socialismo reale e all’interno del capitalismo stesso, nonché la necessità dell’Occidente di mantenere la supremazia nei confronti del resto del mondo, avrebbero generato, secondo Severino, un’inversione da mezzo a scopo. E cita come precedente il suggestivo esempio del denaro, che, sorto inizialmente come strumento per far circolare gli oggetti, poi diviene scopo della produzione degli oggetti stessi, ormai concepiti come merci. Le ideologie e i sistemi economici sarebbero costretti dalla loro stessa logica interna ad aumentare indefinitamente la loro potenza tecnico-scientifica, fino a subordinare a questa e a snaturare progressivamente i loro scopi iniziali. Per es., secondo Severino, il crollo del socialismo sovietico non sarebbe dovuto a motivi economici e/o politici, ma all’esplodere della contraddizione insita nell’esistenza di un sistema con retaggi ideologici tali da costituire un ostacolo all’incremento della Potenza tecnologica. Stadio finale dell’evoluzione dell’Occidente (e, ormai, di tutto il pianeta), l’«Apparato» incarna e riassume l’esigenza di beatitudine del Paradiso cristiano, nonché esprime compiutamente il Superuomo nietzscheano. Esso non è neutrale e non può essere guidato: «Ha un’etica propria e un proprio scopo da realizzare: l’accrescimento indefinito della propria potenza».[25] Per questo inesorabile scopo, alcuna importanza possono avere ingiustizie e miserie, ma nel momento in cui ne fosse raggiunto il culmine, sarebbero possibili perfino l’«autogoverno democratico» dei popoli e il soddisfacimento di tutte le esigenze umane prima ineluttabilmente neglette perché considerate d’ostacolo al Fine ultimo e purché tali, naturalmente, da non pregiudicare la Potenza stessa, che assumerebbe i requisiti del Dio della tradizione.
Questa visione complessiva sembra distante dalla realtà. È vero che i sistemi economici affidano alla scienza e alla tecnica le loro ambizioni di supremazia, ma è anche vero che senza interessi pratici, concreti, e in particolare di una potenza sociale di cui il capitalista è l’agente, secondo la lezione di Karl Marx, questo «Apparato» non solo non sarebbe sorto, ma la sua evoluzione-corsa verso l’onnipotenza non avrebbe motivo di esistere. È vero che l’«Apparato» è prodotto dalla civiltà occidentale, ma sempre, con ogni evidenza, solo come strumento per l’ascesa indefinita di quel sistema di rapporti sociali e materiali che di questa civiltà è l’attuale, ma non necessariamente definitivo, compimento: il modo di produzione capitalistico. Ciò non toglie che in questo contesto l’«Apparato» possa anche assumere una connotazione mistica, un significato astratto, come la “merce” o lo “Stato democratico” di marxiana memoria, ma sempre e comunque in modo funzionale, come negli esempi citati, ai rapporti di forza nella società. In definitiva, se la fuoriuscita dal capitalismo sarebbe la Tecnica, cioè lo stesso principio di dominio espresso in modo asettico, metaforico e dunque innocuo, ci troviamo di fronte a una tesi inutilizzabile ai fini dell’emancipazione dell’uomo.

Il modello giapponese

Un significativo esempio di banalizzazione della realtà si nota nell’analisi, compiuta da Severino, del «modello giapponese». Per un verso essa è condivisibile: i principi socialdemocratici del welfare e della democrazia industriale sono estranei alla cultura giapponese, ma il prevalere pratico del modello di produzione nipponico, afferma Severino, non è un semplice fatto storico riguardante quella particolare civiltà. Tutto, però, si riduce alla riaffermazione del consueto schema generale: «Nel successo del modello giapponese dell’impresa si rende più visibile che altrove l’inevitabilità del processo in cui ogni forza ideologica [il sistema aziendale militarizzato impregnato di spirito nazionalista; A.F.] che tenta di controllare l’Apparato e di servirsene come mezzo per la realizzazione di uno scopo ideologico, è destinata a fallire e a subordinare la realizzazione dei propri scopi alla realizzazione dello scopo che l’Apparato possiede di per sé stesso».[26]
In tal modo, intanto, non si tiene conto che è il capitale ad appropriarsi di tutto ciò che favorisce i suoi scopi (come attesta appunto l’espansione del modello toyotista, e precedentemente fordista, con lo smantellamento e la sussunzione di modi di vivere, culture, nonché istituzioni preesistenti). Ma soprattutto qui non c’è coscienza, invece, del fatto che «la tecnologia viene inclusa come parte integrante della strategia aziendale, nello studio di quelle che complessivamente vengono definite ‘attività’ che creano ‘valore’, non in forma separata, tecnicistica e neutrale, ma a fianco del lavoro vivo rappresentato, quale risorsa fondamentale e centrale, come capitale umano. La razionalità del sistema viene spinta al di là della massimizzazione del profitto, il che non vuol dire che non sia più il profitto stesso il fine della produzione capitalistica, bensì che l’orizzonte decisionale deve progettare la profittabilità d’impresa in un più lungo andare, proprio per garantirne una permanenza certa a fronte del suo movimento in caduta».[27] Dunque l’applicazione della tecnologia in realtà viene sapientemente dosata dal capitale, poiché se diminuisce troppo la quota di lavoro vivo fornita dall’operaio, si verifica la temuta tendenziale caduta del saggio di profitto. Sono fattori di questo tipo, dunque, a risultare sempre preminenti e non, invece, lo sviluppo di questo fantomatico apparato fine a sé stesso. A chi analizza la nuova organizzazione tecnologica del lavoro, anche da un punto di vista cronologico risulta che essa è stata applicata solo come completamento di un precedente programma di ristrutturazione volto ad «aumentare intensità e condensazione del lavoro, e non la produttività»,[28] poiché è principalmente il lavoro vivo, umano, per ammissione degli stessi tecnici aziendalisti, che conferisce valore al prodotto finale, la merce. Certo Severino potrebbe affermare che da una contraddizione di questo tipo si evincerebbe solo un ipotetico singolo conflitto di interessi fra tecnologia e capitale destinato a risolversi, a lungo termine, con il prevalere della prima. Ma, daccapo, da dove trarrebbe , la tecnologia, questa presunta tendenza all’affermazione, essa che è sorta e sussiste totalmente sussunta al capitale, come ormai ogni realtà di questo pianeta?

Storia e ideologia

Funzionale e conseguente alla visione generale di Severino è una parte descrittiva contenuta nei suoi libri, dove più facilmente si può cogliere un determinato grado di distorsione. Citiamo solo qualche esempio: «Le democrazie prevalgono sulle dittature e i totalitarismi, lo stesso capitalismo non concepisce più sé stesso come legge naturale eterna».[29] Tesi opposta a quanto constatiamo giorno per giorno con la globalizzazione e tutta l’ideologia neoliberista che vi è cresciuta sopra, nonché con il tramonto dei principi giuridici fondamentali della civiltà occidentale. Inoltre, il Cristianesimo e la democrazia, anziché essere , caso mai, sostanzialmente funzionali o sovrastrutturali al capitalismo (sebbene la religione abbia ormai perso la funzione di legittimazione del potere e sia considerata solo un intralcio per la liberalizzazione consumistica dei costumi), secondo Severino sarebbero forme ideologiche in concorrenza con esso. Di conseguenza, «non si profila allora una situazione in cui anche il Cristianesimo e la democrazia dovranno o cedere alla strapotenza dell’organizzazione capitalistica della società, oppure resistere e organizzarsi secondo i criteri dell’efficienza scientifico-tecnologica, rinunciando sempre di più a se stessi?».[30]
Sinceramente, è difficile concepire dei “partigiani” del Cristianesimo o della “democrazia” impegnati in una corsa tecnologica per battere il capitalismo.
Ancora: «Il capitalismo dovrà rendersi conto che distruggendo la terra, distrugge sé stesso». Dunque esso sarebbe costretto a limitare la corsa al profitto per salvaguardare la base naturale della produzione economica, cioè, secondo Severino, a rinunciare a sé stesso e volgere al «declino».[31] Non solo sembra troppo debole e artificioso come argomento, ma allora, inoltre, il capitalismo sarebbe già declinato per il semplice fatto di aver consentito, a suo tempo, uno stato sociale.
Inoltre: «Oggi si riconosce che, contrariamente a quanto pensava Marx, la produzione capitalistica fa aumentare il livello di vita delle masse delle società industriali»,[32] affermazione, questa, che lasciamo alla riflessione del lettore sufficientemente informato sullo stato di cose esistente anche nelle “società industriali”, che vede un ineluttabile degrado della qualità di vita di masse sempre più imponenti.
Poi: il capitalismo si sarebbe convinto, a suo tempo, «che il perfezionamento del macchinario, il cui sottoprodotto era il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’elevazione del salario, avrebbe consentito un maggior incremento del profitto».[33] Ebbene, questo «miglioramento» e questa «elevazione» sembrano quanto meno discutibili. Inoltre, «il capitalismo è anche la forza che oggi consente la sopravvivenza dell’uomo sulla Terra»,[34] e di conseguenza, secondo Severino, la sua esistenza sarebbe da considerarsi necessaria. Forse è così per la banale constatazione che si tratta dell’unico modo di produzione ormai rimasto e in ogni caso è il primo che non garantisce la sopravvivenza dei suoi schiavi salariati.
Proseguiamo con gli argomenti storici. La lotta contro il comunismo, nel dopoguerra, «per essere efficace doveva essere segreta», e quindi «inevitabilmente illegale (e chi se ne meraviglia e se ne scandalizza o è ingenuo o mente), giacché in regime di democrazia parlamentare tutto ciò che è legale deve essere pubblico».[35] Per cui, «sembra dunque necessario depenalizzare le forme illegali della lotta anticomunista,[36] tranne che nel caso del terrorismo di Stato, con relative stragi. Ma solo perché – si affretta a specificare il filosofo – ciò sarebbe improponibile davanti all’opinione pubblica… Infine Severino afferma che a suo tempo il Partito Comunista avrebbe rinunciato (sottinteso: a malincuore) alla sua scontata natura antidemocratica per adeguarsi ai canoni della Costituzione. Dunque il PCI avrebbe compiuto solo perché costrettovi dalla situazione internazionale post-bellica il doloroso passo di giungere al rispetto di quell’insieme di super-norme che esso stesso – ignora Severino – come grande componente della società, in sede di Assemblea Costituente, aveva grandemente contribuito a elaborare! E tutto il lungo travaglio degenerativo di questo partito, conseguente alla sua natura storicista e produttivista, dall’iniziale intransigenza bordighiana, alla guerra di posizione gramsciana, alla democrazia progressiva togliattiana, al consociativismo, ecc. fino allo auto-scioglimento finale, è rimosso in maniera stupefacente.
Si nutriva, dunque, la speranza di udire quasi un nuovo verbo o quantomeno di ricevere un conforto, da una sponda autorevole, nel confronto impari con il grigio “pensiero unico” filocapitalista dominante. Purtroppo, invece, nei suoi testi E. Severino elabora poche tesi tagliate con l’accetta, entro le quali costringe quella realtà che si vede andare in ben altre direzioni, compiendo così un’operazione avente lo scopo di comprovare la validità delle sue analisi sulla cultura occidentale e che diventa comunque funzionale all’ideologia dominante qualunque sia la sua intenzione soggettiva. C’è un aspetto sostanzialmente ignorato nella visione “politica” di Severino. Si tratta dell’aspirazione dei popoli al miglioramento delle condizioni di esistenza, che può essere più o meno consapevole o evoluta, ma è una forza sostanzialmente mai completamente riducibile alle costrizioni oggettive, economiche, politiche o “tecnologiche” che la comprimono.
Nelle analisi sull’esistente elaborate da Severino domina un pragmatismo cinico e assoluto. Dunque, per quanto il filosofo miri a porsi al di là di ogni parte ideologica , è difficile non scorgere in questa linea di pensiero delle conseguenze che infine si sposano con le istanze di una cultura di “destra economica”, per usare ancora questa vecchia categoria. Infatti il preconizzato trionfo del pragmatismo tecnologico non costituisce la vittoria di una tendenza neutra, bensì rappresenta l’affermarsi di un totalitarismo inedito, ma pur sempre classista. C’è il sospetto che Severino sia sostanzialmente ben accetto nel mondo della cultura dominante non solo perché considera ineluttabile il trionfo della Tecnica (cioè il capitalismo) come Heidegger e Galimberti, ma anche perché il suo ripristino dell’ontologia è apparente e fuorviante, dunque innocuo per il potere. Il concetto severiniano dell’essere (che lo scrivente ritiene inconcepibile, sul piano strettamente logico, senza il suo contraltare, il nulla) non ha niente a che fare con l’eternità dei significati umani,[37] né con la totalità sociale, e ovviamente, se si accetta la dottrina della deduzione sociale delle categorie , nemmeno con la interpretazione dell’essere parmenideo come metafora di una stabile e buona legislazione come difesa dall’attacco crematistico , interpretazione cara al compianto filosofo Massimo Bontempelli. Infine, l’estensione integralista del principio di non contraddizione alla nientificazione degli enti empirici ricorda – mutatis mutandis – l’arbitrarietà con la quale Engels applicò la dialettica hegeliana al mondo della natura. Tutto questo si può interpretare come l’apoteosi di un “intelletto astratto”.

Antonio Fiocco

Note

[1] E. Severino, Il declino del capitalismo, Rizzoli,1993.

[2] E. Severino, Il giogo, Adelphi,1989, pag. 61.

[3] Ibidem, pag. 85.

[4] Ibidem, pagg. 85-86.

[5] E. Severino, La filosofia futura, Rizzoli, 1989, pag. 10.

[6] Ibidem, pag. 16.

[7] Ibidem, pag. 119.

[8] E. Severino, Il giogo, op. cit., pag. 88.

[9] E. Severino, Destino della necessità, Adelphi,1980. Il saggio in questione è contenuto in questo testo.

[10] E. Severino, La filosofia futura, op. cit., pag. 17.

[11] Eschilo viene considerato da Severino come un grande filosofo che si esprime nella forma della tragedia.

[12] «La grandezza del pensiero greco porta sulla terra il bagliore della follia estrema in cui tutte le cose sono annientate», in: E. Severino, La guerra, Rizzoli, 1992, pag. 96.

[13] «Il dialogo è lo scontro tra due fedi, che ancora non si è tradotto nella bruta violenza fisica […]. Il dialogo è il momento teorico della violenza», in: E. Severino, La guerra, op. cit., pag. 85.

[14] Ma, se è così, non è una “fede” anche quella «filosofia futura» indicata dal Severino quale radicale alternativa al pensiero occidentale?

[15] E. Severino, Il declino del capitalismo, op. cit., pag. 106.

[16] André Lalande, Dizionario critico di filosofia, edizione italiana, Mondadori,1980.

[17] E. Severino, La guerra, op. cit., pagg. 21-22.

[18] Ibidem, pag. 136.

[19] Ibidem, pag. 70.

[20] Ibidem, pag. 96.

 [21] E. Severino, Il declino del capitalismo, op. cit., pag.110: «Ogni decisione è dunque innocente. Innocente anche ogni uccisione».

[22] E. Severino, La guerra, op. cit., pag.134.

[23] «La religione, l’arte, la morale sono azioni tecniche che si trovano in contraddizione con la propria essenza tecnica e quindi sono destinate a risolversi in quella forma tecnica che non è in contrasto con la propria essenza», in: E. Severino, Destino della necessità, op. cit., pag. 250.

[24] Ibidem, pag. 390

[25] E. Severino, La filosofia futura, op. cit., pag. 114.

[26] Ibidem, pag. 81.

[27] Carla Filosa, Gianfranco Pala, La qualità è quantità: totale, in “Marx centouno” n. 15, pag. 61.

[28] Ibidem, pag. 59.

[29] E. Severino, Il declino del capitalismo, op. cit., pag. 18.

[30] Ibidem, pag. 51.

[31] «Il capitalismo è la volontà che il profitto non sia limitato da alcunché. Perseguire il profitto insieme a qualche altro scopo complementare – come la salvaguardia della Terra – significa uscire dal capitalismo», in E. Severino, Il declino del capitalismo, op. cit., pag. 94. Infatti, per inciso, tutto indica comunque che il capitalismo non intenda salvaguardare la Terra.

[32] Ibidem, pag. 74.

[33] Ibidem, pag. 77.

[34] Ibidem, pag. 101.

[35] Ibidem, pag. 176.

[36] Ibidem, pag. 188.

[37] Per questo si rimanda al grande saggio di Massimo Bontempelli, Filosofia e Realtà, C.R.T.- Petite Plaisance.

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