Cernicchiaro Alessio – Günther Anders. La Cassandra della filosofia. Dall’uomo senza mondo al mondo senza uomo. Prefazione di Giacomo Pezzano

Coperta G. Anders

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Alessio Cernicchiaro,
Günther Anders. La Cassandra della filosofia. Dall’uomo senza mondo al mondo senza uomo.
Prefazione di Giacomo Pezzano: Anders e noi.
ISBN 978-88-7588-132-0, 2014, pp. 400, formato 140×210 mm., Euro 25
Collana “Il giogo” [59]. In copertina: Günther Anders ottantenne, 1982.

Günther Anders (Breslavia, 1902 – Vienna, 1992) ha studiato con E. Husserl e successivamente con M. Heidegger, alle cui lezioni ha incontrato la sua prima moglie Hannah Arendt. Di origine ebraica è costretto, con l’avvento del nazismo, ad un lungo esilio che lo porta dapprima a Parigi e poi negli USA, dove sopravvive facendo diversi lavori occasionali. Pensatore eretico e radicale, avulso dal mondo accademico, dopo la fine della guerra è stato tra i fondatori del movimento antinucleare internazionale e membro del Tribunale Russell durante la guerra del Vietnam.
Profeta di sventura dell’età atomica e della nostra era dominata dalla tecnica moderna, Anders ha strenuamente messo in guardia i suoi contemporanei dalle catastrofi che da lì a poco sarebbero puntualmente accadute: l’avvento al potere di Hitler, la seconda guerra mondiale, Auschwitz, Hiroshima, Chernobyl. Ogni volta la sua voce è rimasta inascoltata, come quella di una novella Cassandra, perché i suoi moniti sono stati ritenuti inverosimili se non addirittura paranoici. Anders sostiene che ormai, di fronte alla tecnica ed al nostro mondo da essa dominato, noi uomini tutti siamo antiquati, perché antiquate sono le nostre dotazioni psichiche e le nostre categorie filosofiche ed etiche non più al passo coi tempi e totalmente inadatte a comprendere, immaginare ed assumersi la responsabilità di fronte agli effetti smisurati che le nostre azioni, individuali e collettive, oggi hanno grazie ai nostri prodotti ed alle nostre macchine. Come ha scritto giustamente Costanzo Preve: «Ci sono i filosofi tranquillizzanti e i filosofi inquietanti. Solo i filosofi inquietanti servono a qualcosa, e Anders è appunto uno di loro».
Affinché allora non si avveri mai anche la sua più terribile profezia, ossia l’estinzione della vita sulla terra e la fine dei tempi, sarebbe bene almeno questa volta prestare ascolto alle sue parole.

Alessio Cernicchiaro (Como, 1980), i cui interessi vertono sulla critica filosofica alla tecnica, ai mass-media ed al capitalismo, studia da diversi anni il pensiero di Günther Anders. Si è laureato con lode nel 2013 in Scienze filosofiche all’Università Statale di Milano (laurea magistrale) dopo aver conseguito la laurea triennale in filosofia teoretica presso il medesimo ateneo. Precedentemente aveva conseguito la laurea in Economia e legislazione per l’impresa presso l’Università L. Bocconi di Milano. Risiede e lavora in provincia di Como. Ha pubblicato nel 2009 un saggio economico-filosofico di critica alla globalizzazione intitolato La bugia globale (Giraldi editore).

Presentazione
di
Giacomo Pezzano:

«Anders e noi»

Profeti di avventura, profeti di sventura
Siamo in presenza di un testo importante per almeno due motivi. Innanzitutto perché colma un vuoto nel panorama culturale ed editoriale italiano, poi perché lo fa in modo insieme chiaro e originale.
Infatti, in primo luogo a oggi esiste soltanto un unico libro monografico in lingua italiana dedicato all’opera di Anders, il quale – pur molto accurato e penetrante – adotta un taglio più tematico-concettuale che biografico-evolutivo: ciò – trattandosi di un pensatore così profondamente impegnato, immerso nelle vicende del proprio tempo e la cui vita si allaccia indissolubilmente alla storia che ha attraversato – lascia appunto aperto uno spazio, che da tempo attendeva di essere colmato. In secondo luogo, questo corposo testo non si limita semplicemente a “occupare” tale spazio, ma lo fa con chiarezza e precisione espositiva, con taglio e impostazione originali, con stile asciutto e diretto. Soprattutto, riesce a illustrare bene in che senso la biografia e il pensiero andersiano siano strettamente connessi, secondo uno sviluppo che è al contempo percorso da un costante filo rosso e attraversato da faglie di discontinuità anche vigorose. Se il primo è rappresentato da quello scarto legato alla contingenza che costitutivamente separa l’uomo dal mondo e da una certa insofferenza per la filosofia teoretico-sistematica in senso universalizzante e auto-referenziale, le seconde si condensano soprattutto nelle vicende delle due guerre mondiali e nella nuova era inaugurata da Hiroshima e Nagasaki prima e dalla corsa atomica poi.
Cernicchiaro ci offre così un ritratto fedele della Cassandra-Anders come profeta non dell’avventura di un mondo nuovo ma di sventura: il primo infatti è animato da uno zelo religioso che conduce all’ideale di riprogrammazione dell’umanità, in ossequio al principio per cui si vuole talmente bene all’uomo da conoscerne e volerne realizzare il Bene; il secondo invece è tormentato da un fervore umanistico che conduce al desiderio di risvegliare le coscienze ormai intorpidite, in ossequio al principio per cui si vuole talmente bene all’uomo da fare di tutto affinché si scuota e liberi da sé prima che sia troppo tardi.
Per arrivare a produrre questo ritratto, viene opportunamente chiamata in causa l’intera produzione andersiana e non esclusivamente il pur centrale L’uomo è antiquato, presentando una scansione in due fasi, insieme biografiche e filosofiche: uomo senza mondo (1902-05/08/1945) e mondo senza uomo (06/08/1945-1992). Il trait d’union tra queste due fasi si può forse concentrare nell’episodio infantile, narrato dallo stesso protagonista, in cui Anders scopre di aver avuto – come tutti gli umani – una nascita, di essere «venuto al mondo», ossia scopre la precedenza del mondo rispetto alla propria esistenza. Questo vero e proprio choc spiega non solo il senso in cui per Anders l’uomo è tale perché privo di un mondo già dato e perciò chiamato a costruire liberamente il mondo in cui vivere, ma anche il fatto che se il mondo è già esistito prima dell’uomo, non si vede perché esso non possa esistere anche dopo l’uomo. Come dire che l’uomo è senza mondo perché è innanzitutto il mondo a poter essere anche senza l’uomo: questo è per Anders il senso più profondo di una contingenza che è “naturale” prima che “umana”, che riguarda cioè la realtà stessa delle cose, il procedere della natura stessa.

Sfiducia metafisica e disperazione morale
Tutto ciò rende comprensibile innanzitutto la costante insofferenza andersiana per una filosofia – a partire da quella heideggeriana – che, dimentica di tale antecedenza della realtà, si chiude in un linguaggio esoterico-gergale e fa del proprio terreno privilegiato l’analisi di categorie della coscienza, che siano a priori, ontologiche o esistenziali. Poi, permette di chiarire perché la frattura tra il “primo” e “secondo” Anders non si gioca esclusivamente sul piano storico-esistenziale di quella che egli stesso definì come Apocalisse, in quanto lo stacco non solo è stato per così dire preparato dagli eventi bellici precedenti, ma soprattutto è maturato anche dal punto di vista delle più profonde convinzioni etico-filosofiche.
In altri termini, è questo forse l’aspetto più rilevante che la ricostruzione di Cernicchiaro lascia come sedimento, bisogna ridefinire i contorni dell’idea per cui Anders avrebbe abbandonato all’improvviso la filosofia esclusivamente perché sconvolto dagli eventi conclusivi del secondo conflitto mondiale e da ciò che gli succedette subito dopo, secondo la nota affermazione per cui quando il mondo rischia di scomparire non si può perdere tempo a interpretare e spiegare l’Etica nicomachea. Ciò però – si presti attenzione – non soltanto nel senso che Anders di fatto non ha mai abbandonato la filosofia, avendone anzi rinnovato scopi e linguaggi; più profondamente, si tratta in aggiunta di riconoscere che la “svolta” si radica nella piena maturazione della consapevolezza che la filosofia è costitutivamente insufficiente se gioca le proprie carte sul piano sistematico-speculativo dell’onnicomprensione della realtà.
Detto diversamente, come sintetizza mirabilmente l’acceso scambio coniugale tra Arendt e Anders a più riprese richiamato da Cernicchiaro, quando la filosofia pretende di costruire un sistema, sta presupponendo che esista qualcosa come “il mondo” e conseguentemente qualcosa come un sistema complessivo in grado di comprenderlo nella sua totalità non-contraddittoria. Poiché però qualcosa come “il mondo” non esiste, la filosofia finisce per tenere fuori da sé la realtà, naturale e cosmica prima ancora che sociale e politica. Per evitare tale deriva, serve una sorta di «sguardo dalla torre»: non quello della torre d’avorio accademica, bensì quello in grado di testimoniare la radicale contingenza dell’umanità, non soltanto rispetto al passato ma soprattutto – come Anders teme e non cessa di denunciare – in merito al futuro. Lungi dal poter custodire e celebrare il non-ancora, la filosofia deve ricordare e testimoniare il non-più.
Insomma, c’è in Anders una profonda sfiducia metafisica che agisce prima, o perlomeno a fianco, della disperazione morale; anzi, potremmo dire che come la prima prepara e rende possibile la seconda, così questa invera e rinforza quella. Senza però mai dimenticare – pena l’incomprensione dell’unicità della figura di Anders nel panorama del Novecento – che è proprio perché l’uomo è drammaticamente contingente che diventa fondamentale che si concentri in prima persona sul proprio mondo, che è proprio perché la situazione è disperata che diventa fondamentale affrontarla senza facili illusioni consolatorie. Qui ancora una volta riflessione più strettamente teoretica e sforzi pratici si saldano e alimentano a vicenda: la centralità dell’avere sull’essere che anima le prime ricerche andersiane fa tutt’uno con la convinzione che la libertà non è qualcosa che si è ma qualcosa che si ha se la si fa, che dunque a essere inutile non è la morale ma qualsiasi discorso sulla morale che si riduce a elaborazione teorica disimpegnata – quando non persino disimpegnante.
La disperazione come molla
Ma questa reciproca alimentazione non si esaurisce qui. Difatti, l’attenzione alla categoria di situazione e alla dimensione della temporalità trova un primo punto fermo a livello antropologico-filosofico nella convinzione che la contingenza si impone in maniera scioccante e straniante, costringendo a reagire con dei tentativi di identificazione che però sono destinati allo scacco, a non poter cioè mai riuscire a escludere del tutto la contingenza. Ciò nulla toglie però al fatto che anche dal punto di vista antropologico-filosofico l’infondatezza e l’impossibilità di fondare l’esistenza una volta per tutte in maniera stabile rappresentano non la fine ma l’inizio degli sforzi: come la non-identificazione rappresenta il presupposto e non l’inibitore della liberazione, così la disperazione diverrà il motore e non il freno dell’azione e reazione, come d’altronde l’intera esistenza concreta di Anders testimonia.
Inoltre, quando rintraccerà nel terrorismo morbido e nel mondo della tecnica il più tremendo pericolo, Anders non farà altro che ragionare e sentire coerentemente con quanto già colto dal versante antropologico-filosofico: infatti, un simile mondo pretende di produrre una compiuta identificazione, di saturare ogni spazio-tempo, di cancellare del tutto la contingenza, di esonerare qualsiasi individuo dallo sforzo di riflessione, emozione, identificazione. Insomma, non tanto prosciuga la speranza quanto piuttosto disinnesca la molla della disperazione. Ecco allora che gli sforzi di Anders sono tutti indirizzati alla rimessa in moto di tale molla, coerentemente con la convinzione già presente negli scritti giovanili per cui le emozioni giocano un ruolo decisivo nella spinta all’azione o nella possibilità di decifrare un mondo altrimenti indecifrabile.
Cernicchiaro non nasconde l’apparente frizione tra la convinzione del “primo” Anders secondo cui l’artificialità è la natura umana, il mondo umano, e quella del “secondo” Anders per cui la stessa artificialità rappresenta la fine del mondo umano e persino del globo terrestre. Frizione appunto apparente, perché se per Anders è vero che c’è uno iato tra uomo e mondo, innanzitutto questo è colmato non solo dalla tecnica, ma anche e soprattutto dalle emozioni; inoltre, il problema è che la tecnica avrebbe prodotto un’accelerazione tale da arrivare come detto a controllare del tutto la vita umana, a riempire tutto il vuoto e a esaurire in sé l’identificazione. La cancellazione della contingenza produce in ultima istanza quella della possibilità: scompare lo spazio per articolare una vera alternativa, soprattutto perché viene inaridito il sentire, modalità primaria di decifrazione del mondo e di relazione con il mondo. La tecnica dunque paradossalmente finisce per impedire all’uomo di restare senza mondo, facendo invece sì che possa esserci un mondo senza uomo: il dislivello naturale con il mondo viene soppiantato dalla discrepanza artificiosa rispetto a quanto ormai costituisce e sostituisce il mondo, la tecnica appunto.
Eppure, proprio la disperazione che si accompagna a questa diagnosi consente anche di rendersi conto che l’unica possibile reazione non può che passare per il tentativo di recuperare questo ritardo dal punto di vista prima di tutto delle emozioni. La fantasia diventa la lente di ingrandimento necessaria per arrivare a percepire quanto è ormai oltre alla soglia di percezione, il sovraliminale rispetto a un sentire ormai assuefatto all’ordinarietà dell’orrore e all’indifferenza di fronte allo scandalo. La narrazione diventa il tramite per risvegliare emotivamente una razionalità ormai sopita nel «sonno dogmatico», nonché lo strumento disperato per intervenire sulla formazione di chi – come i più giovani – ancora non è immerso senza via di scampo nell’acquario sociale, di chi ancora non nuota nel mare di illibertà senza poter percepire di esservi dentro fino al collo.

Deformazione e realtà: la parola filosofica
Come il lettore avrà modo di riscontrare, Cernicchiaro evidenzia che questa costante attenzione a ciò che non occupa esclusivamente lo spazio delle ragioni, come le emozioni, la sensibilità, la fantasia e l’immaginazione, non solo sfocerà appunto nella pars construens di un’etica del superamento del dislivello attraverso l’estensione di fantasia e sensibilità, ma ancora una volta aveva trovato già prima espressione nell’utilizzo della dimensione estetica (dalla letteratura alla musica) come terreno privilegiato di confronto e codifica rispetto agli strumenti stilistici adatti a dare forma compiuta all’intento pedagogico-critico che Anders pone a principio del lavoro intellettuale, filosofico e non.
La «filosofia occasionale» diventa così lo strumento più adeguato per mettere in pratica il compito di straniare rispetto alla percezione comune del mondo, di deformare, esagerare ed estremizzare non per andare oltre alla realtà ma per cercare di starle dietro, per tratteggiare qualcosa di sur-reale non nel senso che supera la realtà ma nel senso che è tanto scandalosamente reale da finire per passare inosservato. “Spararla grossa” diventa lo strumento migliore per constatare; se questo appare paradossale è soltanto perché è la stessa realtà a essere ormai paradossale: presenta come normale qualcosa di assurdo, come naturale e spontaneo una situazione storico-sociale capace di sconvolgere l’equilibrio persino biologico dei rapporti tra le facoltà umane.
Per Anders non si tratta di una divulgazione o di uno svilimento del ruolo del filosofo, ma anzi del pieno riconoscimento della sua posizione all’interno di una società, ossia della piena consapevolezza del fatto che la filosofia è un ambito specifico della società proprio mentre tale specificità la rende per certi versi speciale. Non è però in gioco la rivendicazione di una sorta di missione morale, perlomeno non in prima battuta, perché è dapprincipio in questione la natura stessa della “regione” in cui si muove la filosofia e del suo comportamento in tale spazio.
Infatti, da un lato – con immagini davvero felici – Anders ci fa riflettere sul fatto che per qualche strano motivo consideriamo naturale che un filosofo possa offrire i propri prodotti soltanto al pubblico ristretto dei filosofi, mentre non guarderemmo altrettanto di buon occhio un panettiere che facesse del pane solo per gli altri fornai; così come siamo disposti ad accettare di buon grado che un astronomo si occupi delle stelle più che delle teorie altrui sulle stelle, o che si occupi di queste in funzione di quelle, ma facciamo più fatica a considerare che un filosofo non ha per oggetto esclusivamente le teorie altrui sulla filosofia ma anche se non soprattutto la filosofia stessa, o – meglio ancora – le «cose stesse» indagate tramite la filosofia, a cominciare dalle “cose sociali”.
Dall’altro lato però, appare evidente che per la filosofia è ancora più pressante riconoscere che oltre a parlare di qualcosa si parla sempre a qualcuno e che conseguentemente è necessario porsi il problema della traducibilità a priori del proprio linguaggio. Per esempio – insiste sempre Anders – gli scienziati possono apparentemente permettersi di utilizzare un linguaggio specialistico-convenzionale in quanto questo rappresenta uno strumento di ricerca destinato alla cerchia degli stessi scienziati, a differenza dei risultati e prodotti ultimi delle ricerche, destinati a una platea più ampia e almeno potenzialmente universale; invece, il prodotto per eccellenza dei filosofi è il loro stesso mezzo espressivo-comunicativo, ossia il linguaggio, così che se esso viene già preliminarmente reso inaccessibile ai non-filosofi, la filosofia non potrà che rivelarsi terribilmente sterile e inefficace.
Non può allora sorprendere che Anders si interessi ben poco all’ortodossia dell’appartenenza a qualche scuola o gruppo filosofici, o al nome da dare alle proprie posizioni per “inscatolarle” e renderle comodamente riconoscibili. Così come non sorprende che egli conseguentemente giunge a sviluppare una straordinaria capacità di fare uso di strumenti filosofici di prim’ordine per leggere la realtà, vale a dire che riesce davvero – Cernicchiaro non manca di ricordarlo – a fare filosofia attraverso la realtà e a chiarire la realtà attraverso la filosofia, senza scivolare né nella divulgazione superficiale né nell’opinione personale ammantata di presunta filosoficità, declinazioni che non a caso possono facilmente trovare spazio nella sfera infomediatica, a differenza delle analisi andersiane, genuinamente radicali e impietose proprio perché profondamente filosofiche.
Certo, si può ritenere che questa capacità debba essere vista soltanto o soprattutto come abilità nel far fruttare una formazione e un’esperienza di vita che hanno visto Anders a contatto con figure di enorme statura o prestigio intellettuale, piuttosto che come attitudine alla vera e propria ricerca e creazione concettuale. Questo potrebbe anche essere in parte vero, soprattutto pensando a quanto nella formazione andersiana abbiano inciso gli incontri e gli scambi personali con tali personaggi, ancor più della lettura “scientifica” delle loro opere e del confronto accademico con loro. Ciononostante, in prima istanza tale posizione non tiene sufficientemente conto del fatto che molte delle intuizioni e formulazioni andersiane sono poi state – come Cernicchiaro di volta in volta evidenzia puntualmente – riprese e portate all’attenzione del dibattito da altri pensatori, fino a comporre parte del lessico filosofico della contemporaneità; in seconda istanza, chi si ostinasse a ritenere ciò, continuerebbe a giudicare l’opera andersiana a partire dalla convinzione che la filosofia di “serie A” sia quella che si limita a dedicarsi alla pulizia concettuale e al rigore della forma logico-argomentativa senza immischiarsi con quanto resta al di fuori di tale perimetro, come invece farebbe una filosofia al più di “serie B”.

Solo la nostra disperazione può salvarci
Detto ciò, non si tratta però nemmeno di domandarsi se e come Anders avesse ragione, vale a dire che non si tratta di fare – operazione per esempio condotta con un altro “tecnoclasta” come Ellul, spesso proprio per questo accostato ad Anders – il bilancio delle profezie avveratesi o di quelle (non ancora?) rivelatesi vere – fortunatamente, verrebbe da dire. Questo non perché si faticherebbe a individuare i motivi per cui la Cassandra-Anders aveva vaticinato correttamente, dall’idea per cui anche il proletariato è antiquato (come testimonia l’homo precarius, imbarazzante esempio di uomo senza mondo) all’affaire Eatherly, attraverso cui Anders aveva tra le tante cose colto quella che sarebbe diventata a partire da lì in poi una costante delle società contemporanee: la necessità di rendere patologiche le reazioni al sistema, di considerare pazzo chi si rende conto di cosa sta davvero accadendo, di etichettare come “fuori di testa” qualunque Cassandra “fuori sistema”. Simili esempi potrebbero essere moltiplicati, così come si potrebbe certamente controbattere – è stato fatto, peraltro non cogliendo così sino in fondo la portata delle istanze poste da Anders – che è l’opera andersiana a essere antiquata, in quanto il mondo non è finito, l’Apocalisse non è avvenuta e in fondo ci possono persino essere buone speranze per le generazioni future.
Ma, appunto, non è questo a essere in gioco, in un senso o in un altro: infatti, si tratta piuttosto di sforzarsi di comprendere la specificità della posizione di Anders. Diversi autori hanno saputo cogliere e denunciare l’impreparazione dell’uomo di fronte ai mutamenti produttivi, scientifici, sociali, dunque anche metafisici, unitamente al bisogno di recuperare il gap venutosi a creare: la liberazione dall’alienazione di Marx, il bisogno di un supplemento d’anima di Bergson, la necessità di un pensiero rammemorante di Heidegger, ma persino prima ancora il superamento dell’insufficienza morale rispetto alla tecnica di Plinio il Vecchio nella Storia naturale. Eppure, proprio questi illustri precedenti consentono di individuare appieno la portata di analisi, diagnosi e prognosi andersiane: il problema non è semplicemente né appropriarsi o riappropriarsi del possesso dei mezzi di produzione, né sviluppare una rinnovata spiritualità umanistica o religiosa, né maturare un pensiero alternativo alla razionalità tecnico-strumentale o economico-calcolante, né ancora individuare i fini più giusti per indirizzare i mezzi tecnici.
Il punto pertanto è che non si può più sperare, a livello teoretico come morale, di riuscire a ri-comprendere in un sistema coerente e riappacificante la realtà. Anzi, questo come già ricordato non è mai stato possibile. Proprio questa impossibilità diventa però ora pienamente riconoscibile e assumibile, di modo che il problema si fa al contempo più profondo e più terreno, perché coinvolge dapprincipio – nuovamente – il modo in cui si sente il mondo e ci si sente al mondo: come rendere più elastica la sensibilità per percepire il tremendo senza esserne sovrastati ma anzi trovando la molla per reagire e soprattutto farlo collettivamente?
Insomma, se con Heidegger si potrebbe individuare nel Gestell la cifra della contemporaneità, contro Heidegger non ci si può né appellare a un Dio né limitarsi a seguire il dettato della Gelassenheit ed esercitarsi in un sapiente uso individuale degli strumenti tecnologici, secondo l’esito più coerente di un’«ontologia da calzolaio»; se con i francofortesi si potrebbe sostenere il bisogno di una più incisiva e diffusa reazione collettiva in grado di incidere nei meccanismi della riproduzione sociale, contro i francofortesi non ci si può né appellare a un uso liberatorio della tecnica né sperare che tutto si risolva sostituendo i dominati ai dominanti. Si potrebbe in fondo dire: solo una lucida e vigorosa disperazione può salvare la società.

Conservazione ontologica
Il lettore potrebbe trovarsi in alcuni frangenti a pensare che Cernicchiaro indugi in maniera eccessiva su quanto siano ampi i meriti e l’originalità di Anders e su quanto sia irragionevole il non adeguato riconoscimento del suo apporto al dibattito filosofico contemporaneo; eppure, tale impressione non terrebbe conto del fatto che tale “silenziamento” è un dato di fatto e che è ora di cominciare a restituire ad Anders qualcosa di quanto – in Italia ma non solo – gli è stato non dato, prima ancora di potergli essere tolto. Proprio per questo, c’era bisogno di un’opera come la presente e c’è bisogno di riflessioni che sappiano farsi carico fino in fondo di quanto Anders ha consegnato alla nostra sensibilità prima che alla nostra razionalità.
C’era e c’è dunque bisogno di ricordare la preziosità del pensiero di Anders. C’è bisogno di cominciare sul serio a «comprendere a morte» una vita e un’opera che hanno indicato nel gesto più rivoluzionario possibile a livello sociale, politico, economico e culturale la conservazione ontologica: l’ultima provocazione di Anders, quella forse più difficile da digerire, ma proprio perciò quella più rilevante da accogliere e affrontare. A tale scopo, il lavoro che leggerete comincia a contribuire in maniera seria e profonda.

INDICE

Presentazione
Anders e noi
di Giacomo Pezzano
Profeti di avventura, profeti di sventura
Sfiducia metafisica e disperazione morale
La disperazione come molla
Deformazione e realtà: la parola filosofica
Solo la nostra disperazione può salvarci
Conservazione ontologica

Prologo

Introduzione

UOMO SENZA MONDO
BIOGRAFIA: 1902-1945
Infanzia
Il rapporto coi genitori
Gli anni della prima guerra mondiale
La formazione universitaria
La fuga in Francia e l’inizio dell’esilio
La storia d’amore con Hannah Arendt e le battaglie delle ciliegie
Il lungo esilio negli Stati Uniti d’America

I PRIMI SCRITTI FENOMENOLOGICI

FILOSOFIA DELLA MUSICA

UOMO SENZA MONDO
L’ANTROPOLOGIA NEGATIVA

I SAGGI DI ESTETICA
Rilke
Döblin
Brecht
Beckett
Heartfield
Rodin
Grosz
Broch
Kafka

ANDERS SCRITTORE: LE POESIE, I ROMANZI, LE FAVOLE

ANDERS CONTRO HEIDEGGER
Iconografia

MONDO SENZA UOMO

LA SVOLTA

BIOGRAFIA: 1945-1992
La fine dell’esilio ed il ritorno in Europa
Anders militante:
l’impegno politico contro il nucleare e la guerra del Vietnam
Gli ultimi anni e la polemica contro il pacifismo
Anders e l’ebraismo

L’UOMO È ANTIQUATO
Questioni metodologiche:
rifiuto del sistema, filosofia d’occasione, deformare per constatare
Prima, seconda e terza rivoluzione industriale
Filosofia della tecnica
Il dibattito sulla tecnica nella filosofia del Novecento:
Heidegger e la Scuola di Francoforte
La «vergogna prometeica» (Die Prometheische Scham)
La critica ai mass-media:
«Il mondo come fantasma e come matrice»
(Die Welt als Phantom und Matrize)
La critica al capitalismo
Differenze e analogie con la Scuola di Francoforte
nella critica ai mass-media ed al capitalismo
Filosofia della Bomba: pensare l’inimmaginabile
Alle radici della nostra cecità all’apocalisse:
il «dislivello prometeico» (Das prometheische Gefälle)
ed il «sovraliminale»
Radici storiche della nostra cecità all’apocalisse:
la fede nel progresso, la mancanza del superlativo,
la «medialità», la «schizotopia»

I DIARI FILOSOFICI NEI LUOGHI DELL’ORRORE
Hiroshima e Nagasaki
Auschwitz

LETTERE APERTE AGLI UOMINI-SIMBOLO DELLA NOSTRA ERA
Eatherly
Eichmann

LA CRITICA AL PACIFISMO

UN’ETICA PER L’ERA ATOMICA
Una morale senza fondamento
Vincere il «dislivello prometeico»: la fantasia organo della conoscenza
Ampliamento spazio-temporale della nostra responsabilità
Il coraggio di avere paura
I comandamenti dell’era atomica
La filosofia come comprensione prognostica:
torturare le cose fino a che non confessino
La speranza è antiquata: il «principio disperazione»
Tra il «principio speranza» ed il «principio disperazione»:
Hans Jonas e il «principio responsabilità»
CONCLUSIONE: DIVENTARE CONSERVATORI ONTOLOGICI

Epilogo

Bibliografia

Indice dei nomi

Carmine Fiorillo – Il carro armato di Benigni e i bambini di Terezín. Considerazioni inattuali a margine del film «La vita è bella»

Bencar

mostra_terenzin

VILLACHIARA –  I DISEGNI DI TEREZIN
Mostra tenutasi dal 27 gennaio al 1 febbraio 2009

Fotogramma tratto da "La vita è bella": Giosuè sul Carro armato USAFotogramma tratto da “La vita è bella”: Giosuè sul Carro armato USA

«Affetto e rispetto per un amico di Roberto Benigni, l’italiano più amato negli Stati Uniti» (La Repubblica, 27/4/99). Con queste parole Bill Clinton accoglieva Massimo D’Alema al Summit della NATO, rievocando lo show del comico alla cerimonia di conferimento dei tre Oscar a La vita è bella (e, guarda caso, nessuno a The Truman show): i mass-media americani e i servizi di intelligence USA coglievano nel film una straordinaria occasione per rendere funzionali agli interessi imperiali i messaggi subliminali incuneati nella tessitura narrativa del soggetto firmato da Cerami e Benigni. Si ricordi la chiusa del film: il giovane soldato americano apre la torretta del carro armato americano e saluta Giosuè – nel silenzio del campo di sterminio deserto – con un «Hi Boy! … vieni ti diamo un passaggio». E Giosuè alla madre ritrovata grazie alla posizione “alta” sulla torretta: «Mamma, si torna a casa col carro armato [americano] … abbiamo vinto!».

Sembra proprio che Benigni abbia vinto i tre Oscar piroettando su quello stesso carro armato che nel suo film è equivoco emblema e improbabile – certamente oggi – metafora della “liberazione” e della “vita”. L’italiano «più amato negli Stati Uniti» (ma si sa che Clinton non eccelle in sincerità), ha piegato – forse non cogliendone le implicazioni – alla scena finale del carro armato americano liberatore molte scene del film, a partire dalla scena 38 del Soggetto, che introduce per la prima volta il carro armato come immagine subliminale: un primo stimolo forse troppo debole per essere percepito e immediatamente riconosciuto nel suo tragico significato, ma non tanto debole da non riuscire ad esercitare una qualche influenza sui processi psichici del recettore-spettatore.

Alla scena 38 siamo già in piena guerra, e non è indifferente che un genitore regali al figlioletto «un piccolo carro armato di latta». Per chi scrive La vita è bella è davvero stridente non aver scelto un altro gioco per Giosuè: poteva essere un “piccolo camion”, un “piccolo trattore”, una “macchinina”, ecc. Ma è evidente che il «piccolo carro armato di latta» della scena 38, che ancora nella scena 41 Guido indica al figlioletto come «finto», deve diventare nella scena 53 il «primo premio», un «carro armato vero, nuovo nuovo», e nella scena 82 il «carro armato verde, con la stella bianca degli americani», il carro armato americano con cui «si torna a casa» (scena 83). L’immagine insistita del carro armato è del tutto strumentale ai fini della chiusa, ed è questa la sottile violenza fatta dagli autori al bambino, perché il gioco costruito dal padre Guido-Benigni sull’immagine del carro armato non è il vero gioco di Giosuè (il suo gioco di bambino); e dunque spesso non è contento del “gioco” paterno e chiede, invece del «primo premio», di «andare dalla mamma» accontentandosi della «merenda» al posto del carro armato (scena 53). Il “gioco” paterno è per lui a volte insopportabile e violento: «E poi sono cattivi cattivi, urlano» (scena 53). Ma Guido deve legittimare la durezza e la severità: «Per forza, il premio è grosso, devono essere severi, duri… Il carro armato vero fa gola a tutti».

Sull’analisi psicologica della funzione del gioco nell’infanzia Cerami avrebbe potuto studiarsi almeno i testi di Bruno Bettellheim, uno psicanalista ebreo viennese che fu rinchiuso per un anno nei campi di concentramento di Dachau e di Buchenwald e che poi si dedicò completamente alla psicoterapia dei bambini (cfr. Il prezzo della vita. La psicoanalisi e i campi di concentramento nazisti, Bompiani 1976; Il mondo incantato, Feltrinelli, 1978; ecc.).

A coloro che hanno visto La vita è bella e che vogliano davvero riflettere consigliamo l’attenta lettura del Soggetto edito da Einaudi. Potranno cogliervi, specie nella seconda parte, oltre ad un’equivoca operazione culturale, anche sciatteria di linguaggio e miseria espressiva (si pensi alle ultime battute messe in bocca a Giosuè) appena mascherate dall’indubbia capacità istrionesca del Benigni non a caso dichiarato amico del D’Alema interventista e osannato dallo spergiuro Clinton come «l’italiano più amato negli Stati Uniti», con il suo «carro armato americano»,vessillifero della «guerra umanitaria»: si premi dunque Benigni e La vita è bella, a febbraio. Ad aprile dello stesso anno le bombe “intelligenti” con la stella bianca americana giungono sul territorio della Federazione Jugoslava. A Benigni, considerata la sua enfasi sul «carro armato americano», consigliamo di leggere il romanzo Amatissima, della scrittrice nera americana Toni Morrison (Premio Nobel 1993): sulla prima pagina del volume campeggia la seguente dedica: «Agli oltre sessanta milioni» (il riferimento è alle vittime della schiavitù in America).

Per quanto ci riguarda preferiamo far volare la Colomba della Libertà di Picasso per ricordare altri bambini vittime dell’olocausto: i bambini di Terezín. Terezín: una città fortezza e di frontiera costruita nel 1780 dall’imperatore Giuseppe II e dedicata alla madre Maria Teresa, da cui appunto il nome. Diventò tra il 1942-1944 il «ghetto dell’infanzia». Vi furono rinchiusi circa 15.000 bambini, tra i 7 e i 13 anni. A gruppi furono trasportati ad Auschwitz e qui avvelenati o bruciati nei forni crematori, le loro ceneri disperse. Dei quindicimila ragazzi soltanto un centinaio erano ancora vivi al momento della liberazione da parte delle truppe sovietiche.

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Uomini e donne di straordinaria sensibilità, anch’essi deportati, destinati alla sorveglianza dei ragazzi, in quella allucinante situazione riuscirono a mantenere vivo in essi il senso della vita e della speranza facendoli lavorare e studiare, distribuendo a tutti quel calore umano e affettivo tanto necessari nell’età infantile. È merito loro se oggi possiamo porre alla riflessione di tutti noi le testimonianze di questa incredibile vicenda della storia moderna. 4.000 disegni e 66 poesie ci sono così pervenute, e sono oggi custodite nel Museo Ebraico di Praga. Renzo Vespignani, il grande artista italiano, nel donare un suo dipinto dedicato ai bambini di Terezín, scriveva nel 1982: «Che io dovessi aggiungere qualcosa alla visione di questi martiri-bambini mi sembrò impossibile. Del resto come rinunciare all’onore di legare il mio nome ai loro nomi dimenticati? Ho cercato di ingombrare il foglio il meno possibile; il resto dello spazio l’ho lasciato ai loro dolcissimi, strazianti addii».

La lezione dei bambini, 1942.

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Leggiamo insieme quanto scrivono Cerami-Benigni nel Soggetto.

Scena 38. Giosuè «si tira dietro, con lo spago, un piccolo carro armato di latta» (Benigni-Cerami, La vita è bella, Einaudi, 1998, p. 100). Il suo gioco è interrotto dal richiamo della madre («Lascia il carro armato!», ibidem) che lo aiuta a sedersi sul manubrio della bicicletta. Il bambino dice al padre: «Vai forte, babbo!» e, così dicendo, «lascia cadere il carroarmato» (ibidem).

Scena 41. Guido, davanti alla pasticceria Ghezzi, dice a Giosuè: «Lascia fare … quella torta è finta, è come il tuo carro armato!» (ibidem, p. 103).

Scena 53. Nel Lager Guido cerca di spiegare a Giosuè i termini del gioco che si è inventato per lui: «E chi vince prende il primo premio». «Che si vince babbo?». «… Un carro armato!». «Ce l’ho già il carro armato!», dice Giosuè. E Guido: «Un carro armato vero, nuovo nuovo!». Giosuè si ferma con la bocca aperta: «Vero? … E come si fa ad arrivare primi?» (ibidem, pp. 126-127). Ma Giosuè non è contento di questo gioco e invoca: «Voglio andare dalla mamma! […] E poi sono cattivi cattivi, urlano». E Guido: «Per forza, il premio è grosso, devono essere severi, duri … Il carro armato vero fa gola a tutti». Giosuè: «Non ci credo che si vince un carro armato vero!». Guido: «Ti dico di sì!». Giosuè: «E che bisogna fare? La posso vedere la mamma?». Guido: «Quando finisce il gioco». Giosuè: «E quando finisce?». Guido: «Bisogna arrivare a … mille punti. Chi ci arriva vince il carro armato». Giosuè: «Il carro armato? Non ci credo. (piagnucola) Ce la danno la merenda?» (ibidem, pp. 128-129).

Scena 56. Giosuè è ancora perplesso. Guido: «Che c’è Giosuè, hai giocato con i bambini oggi?». Giosuè: «Sì, ma i bambini non sanno proprio le regole. Hanno detto che non è vero che si vince il carro armato». Guido: «Lo sanno lo sanno. Sono furbi come volpi, non ci cascare. Il carro armato

fa gola a tutti. Non c’è il carro armato, ma scherzi?» (ibidem, p. 141).

Scena 82. «Non c’è più nessuno. […] improvvisamente qualcosa rompe il silenzio. È il rumore sordo di un motore […]: da una strada tra due costruzioni sbuca imponente un enorme carro armato verde, con la stella bianca degli americani. […] I cingoli si bloccano a pochi passi dal bambino […]. La torretta del carro armato si apre e compare un giovane soldato americano, che vede il bambino e sorride. […] Giosuè fissa l’enorme carro armato, che è in moto. Fa un passo avanti: “È vero!”. È pazzo di felicità. […] Carrista: “Sei solo bambino? […] Ti diamo un passaggio …vieni … sali …» (ibidem, pp. 187-188).

Scena 83. «I sopravvissuti del campo stanno camminando verso la strada […] Tra loro si fanno largo i mezzi motorizzati dell’armata americana. Il panorama è visto da sopra il carro armato, che scende giù lentamente… Sul carro, accanto alla torretta, attaccato al carrista americano, c’è Giosuè, eccitato, incantato, che mette in bocca l’ultimo pezzetto di cioccolata. Il carro sorpassa i poveretti […]. D’improvviso il bambino si volta: il carro armato è passato vicino a qualcuno che lui conosce: “Mamma!” […] “Abbiamo vinto! Mille punti! Da schiantare da ridere. Primi! Si torna a casa col carro armato … abbiamo vinto» (ibidem, pp. 188-189).

Tanto per ricordare:

70 anni fa furono i soldati dell’Armata Rossa ad entrare nel campo nazista di Auschwitz e non i carri armati americani.

Alessandro Monchietto: Intervista a Costanzo Preve (Estate 2010, «Socialismo XXI»)

Spirito del capitalismo

In questo numero, ampio spazio è stato dedicato all’analisi di due contributi – il tuo libro scritto con Orso ed il volume di Boltanski e Chiapello – entrambi accomunati dall’intento di rivitalizzare una disciplina che (in tempi di postmodernismo e disincantamento del mondo) appariva totalmente demodé: la diagnosi (socio-filosofica) del capitalismo reale. Nel tentativo di mettere a fuoco motivi e argomenti che possono forse permettere al lettore di arricchire la propria prospettiva su tali questioni, prenderei le mosse da questi due rilevanti studi per iniziare la nostra breve discussione. Boltanski concludeva il proprio discorso con un’affermazione molto importante: nel capitalismo “la natura della risposta in termini di giustizia dipende in gran parte dalla critica.Se gli sfruttati, gli infelici, coloro che non riescono restano silenziosi ed esclusi, allora non c’è necessità per il capitalismo di rispondere in termini di giustizia”. Il fatto nuovo per il pensatore francese è che – nella terza età del capitalismo – il mondo del lavoro ha rinunciato a rovesciare il capitalismo, limitandosi ad aggiustarlo o riformarlo.

In una recensione dedicata a Le nouvel esprit du capitalisme, de Benoist evidenziava magistralmente come ci si continui a scontrare sulla ripartizione del plusvalore, ma non si discuta più sulla maniera migliore per accumularlo:

È quella che Jacques Julliard ha definito ‘l’interiorizzazione da parte dei lavoratori della logica capitalistica’. Ciò che sembra in tal modo scomparire è un orizzonte di senso che giustifichi ilprogetto di cambiare in profondità l’attuale situazione. Di fatto, tutti quanti si piegano perché nessuno crede più alla possibilità di un’alternativa. Il capitalismo viene vissuto come un sistemaimperfetto ma che, in ultima analisi, rimane l’unico possibile. La sensazione si diffonde a tal punto che non è più possibile sottrarsene. La vita sociale ormai viene vissuta esclusivamente nella prospettiva della fatalità. Il trionfo del capitalismo risiede innanzitutto in questo fatto, di apparire come qualcosa di fatale”.

Assistiamo oggi a una degenerazione del principio di realtà, un’assenza completa di illusioni e un’attrazione irresistibile della “forza delle cose”; “Adeguati!” è il comandamento psicologico-politico del momento: per sopravvivere bisogna andare “a scuola di realtà”.

Un’intera epoca – pervasa dalla certezza che la storia avesse un senso, in cui si era convinti che il passaggio dalla preistoria alla storia fosse una questione di anni o al massimo decenni – si è rovesciata dialetticamente nella sicurezza (tale da diventare quasi un pilastro del senso comune) che il mondo che ci troviamo davanti è qualcosa di immodificabile e intrascendibile.

Il sistema è un grande Moloch invincibile, contro cui è inutile battersi e a cui al massimo si può strappare qualche concessione. Viviamo in una sorta di “positivismo tragico” – come lo definisce Sloterdijk – “il quale, ben prima d’ogni filosofia, sa già che il mondo non va né interpretato né cambiato: esso va sopportato”.

Ci si adatta all’ingiustizia. Si perde l’abitudine ad indignarsi. E ci si autoinibisce a priori la possibilità di cambiare lo stato di cose presente. La disoccupazione, la mortalità infantile, la povertà sono oggi trattate come il risultato di forze impersonali che agiscono ad un livello globale, contro cui non si può fare nulla.

Qual è la tua posizione a proposito? C’è una possibile via d’uscita, o bisogna “rassegnarsi” come suggeriva Umberto Galimberti in una recente intervista?

 

Quando ero giovane, avevo un programma massimo, che era quello di cambiare il mondo. Diventato vecchio, ho ormai un programma minimo, quello di impedire al mondo di cambiarmi. Anche io, come Sloterdijk, sopporto il mondo. Ma, a differenza di lui e dei suoi innumerevoli cloni meno dotati, rifiuto di trasformare la sopportazione in esito terminale della filosofia della storia, e questo in base al principio elementare del pudore.

Civettando con il linguaggio di Hegel, la nostra è un’epoca di gestazione e di trapasso verso un’impotenza sociale collettiva senza precedenti storici. In mancanza di precedenti storici che ci permettano di fare analogie, non esistono filosofie del passato (neppure quelle ellenistiche dell’interiorità all’ombra del potere e del rifugio in una comunità protetta di amici) che possano veramente aiutarci a pensare la sconvolgente novità epocale del nostro tempo. Superate le precedenti fasi astratta e dialettica e giunto alla fase speculativa, il capitalismo sembra essersi rinchiuso da solo in una gabbia d’acciaio (Max Weber) ed in un dispositivo tecnico imperforabile (Martin Heidegger). Le facoltà di filosofia sono ormai in occidente o palestre per carrieristi disincantati, o cliniche antidepressive per gente con velleità culturali.

Gli oppressi restano silenziosi perché (esattamente come Sloterdijk, ma a differenza di lui senza sapere chi erano Kant o Hegel) ritengono che non ci sia niente da fare. Questo è ad un tempo elementare ed enigmatico. Fichte avrebbe definito la precarietà in termini di Non – Io, ma egli viveva in un tempo in cui l’Io era ancora concepito come l’intera umanità pensata come in grado di fare il proprio destino. In appena due secoli la situazione è rovesciata. Oggi il concetto filosofico novecentesco che sembra connotare meglio l’attuale situazione è quello heideggeriano di Dispositivo (Gestell), e questo non a caso. Naturalmente non sono in grado di dare indicazioni per il superamento dell’attuale situazione. La filosofia, come la nottola di Minerva, si alza al crepuscolo. So però che di fronte alla globalizzazione finanziaria non bisogna perseguire l’inclusione, ma l’auto – esclusione. Il rovesciamento magico della globalizzazione in comunismo postmoderno, e cioè la teoria di Negri, è una vera e propria vergogna. Come sempre è avvenuto nella storia, la Resistenza verrà in un tempo ed in uno spazio determinato, non in un mappamondo finanziario.

Non so però né dove, né come, né quando.

 

 

A tuo parere – come si può rinvenire in molti saggi da te pubblicati – il pensiero marxiano è inficiato da due “errori di previsione”, che falsano le analisi di Marx e da cui è necessario separarsi per non incappare nuovamente in un’inevitabile sterilità teorica e politica:

 

1) il proletariato non è affatto una classe rivoluzionaria in grado di attuare la transizione decisiva dal modo di produzione capitalistico alla società senza classi. Le classi subalterne non sono state in grado di resistere alla radicalizzazione della sottomissione del lavoro al capitale, che al contrario le ha integrate nei gruppi sociali di produzione capitalistica “smentendo empiricamente” l’attribuzione metafisica che aveva fatto di queste classi un soggetto intermodale.

2) il capitalismo (a differenza di quanto Marx credeva) si è mostrato capacissimo di sviluppare le forze produttive, ed a svilupparle anzi ad un ritmo prodigioso, nonostante i danni enormi che ha inflitto sia all’uomo che alla natura.

 

Nel momento in cui si decide di accettare tali critiche, la scientificità di ciò che un tempo si chiamava “materialismo storico” non rischia di entrare drammaticamente in crisi?

Cerco di spiegarmi meglio. Come sappiamo per Marx “una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza”; il Nuovo diverrà necessario esclusivamente allorquando il Vecchio si sarà tramutato in “vincolo e pastoia“.

Giungerà il momento in cui, compiutamente sviluppato, il capitalismo diverrà un limite alla produttività umana che fino ad allora aveva promossa, e sarà allora che il proletariato si ergerà come classe emancipatrice dell’intera umanità, chiudendo il ciclo storico delle società divise in classi e aprendo le porte alla futura società comunista.

Ma se – preso atto degli errori che inficiano l’analisi marxiana – è impossibile delineare il momento in cui il vecchio diviene “vincolo e pastoia”; e se inoltre il proletariato si rivela affetto da una “pittoresca ed incurabile subalternità”, la scientificità della concezione materialistica della storia non va completamente all’aria?

Il problema non è marginale. La forza e la fortuna avuta da Marx e dal marxismo nel novecento derivava infatti proprio dalla certezza che il materialismo storico avesse un carattere scientifico, previsionale. Quando Marx contrappone il suo socialismo, in quanto scientifico, al socialismo utopistico di Owen, di Saint-Simon e di Fourier, intende sostenere che il suo socialismo – a differenza dell’altro – è in grado non solo di dire come stanno le cose, ma anche di indicare che necessariamente dovranno andare in un determinato modo.

Bisogna trarre la conclusione che il famoso passaggio “dall’utopia alla scienza” è stato in fin dei conti illusorio, ed il comunismo non è affatto il movimento reale che abolisce lo stato presente di cose (né l’orizzonte verso cui conduce il meccanismo del modo di produzione capitalistico indagato scientificamente) ma un’utopia che viene spacciata come scienza? Ed in un quadro come questo, non è forse secondario continuare a discutere sullo statuto filosofico di Marx (idealista o materialista) mentre sarebbe necessario proporre una via d’uscita dall’empasse in cui la critica marxiana è finita?

 

Fino ad alcuni anni fa avevo l’abitudine di autocertificarmi e di autodefinirmi “filosofo marxista”, ma si trattava spesso di una pura intenzionalità ideologico – politica, di una testarda fedeltà alla mia giovinezza e ad amici defunti (Labica, eccetera), di un rifiuto dell’approdo liberaldemocratico o postmoderno, eccetera. Oggi capisco che si trattava di un inutile equivoco, ed ho rotto con questa autocertificazione.

In Marx esiste una specifica schizofrenia, che si tratta di individuare con precisione. Da un lato una filosofia della storia di origine idealistica (a metà fichtiana ed a metà hegeliana), fondata su di un uso originale del concetto di alienazione. Dall’altro una teoria della storia di tipo positivistico, fondata su di una concezione predittiva (o, più esattamente, pseudo – predittiva) delle leggi storiche, pensate come omologhe alle leggi delle scienze della natura (donde materialismo dialettico e teoria gnoseologica del rispecchiamento).

Questa schizofrenia non permette in alcun modo una coerentizzazione del pensiero complessivo di Marx, che infatti non è coerentizzabile. Il successivo marxismo Engels – Kautsky (1875 – 1895) non lo coerentizzò, ma edificò una variante di sinistra del positivismo su base gnoseologica neokantiana. Ebbene, meglio tardi che mai. Sebbene in ritardo, sono ormai estraneo sia all’illusione di avere scoperto il “vero” Marx, sia alla dichiarazione identitaria di appartenenza alla “scuola marxista”.

In quanto al fatto se Marx sia prevalentemente idealista o materialista, si tratta di un problema di storiografia filosofica che mi è ormai del tutto indifferente. Propendo tuttavia per l’interpretazione idealistica per un insieme di ragioni non storiografiche e non filologiche. Primo, troppo spesso il “materialismo” è o ateismo (con il bel risultato di far risucchiare il pensiero di Marx nel laicismo nichilistico), o strutturalismo (con gli esiti finali aleatori dell’ultimo Althusser), o teoria del rispecchiamento (adatta alle necessità conoscitive delle scienze della natura, ma non alla doppia conoscenza – valutazione veritativa delle filosofia). Secondo, idealismo significa scienza filosofica (vedi Scienza della Logica di Hegel), e la scienza filosofica dell’approdo alla libertà del concetto – soggetto è la sola alternativa alla scienza positivistica della previsione.

Il discorso sarebbe lungo, ma per ora può bastare. Comunque, per me oggi Marx non è più il solo classico di riferimento, ma è un classico fra gli altri, ed Aristotele ed Hegel gli stanno ormai davanti.

 

 

Uno dei centri della tua riflessione è la negazione della pertinenza attuale della dicotomia Destra/Sinistra come criterio di orientamento nelle grandi questioni politiche, economiche, geopolitiche e culturali.

Hai infatti più volte sostenuto la convinzione secondo cui la globalizzazione nata dall’implosione dell’URSS non si lasci più “interrogare” attraverso le categorie di Destra e di Sinistra, e richieda invece altre categorie interpretative. In un recente dibattito con Losurdo hai infatti scritto:

 

La mia bussola di orientamento oggi si basa su tre parametri interconnessi:

 

  1. a) il principio di eguaglianza massima possibile all’interno di un popolo su diritti, consumi, redditi, partecipazione alle decisioni. Centralità del tema dell’occupazione. Posto fisso preferibile al lavoro temporaneo, flessibile e precario. Diritti eguali agli immigrati (che non significa immigrazione incontrollata). Messa sotto controllo del capitale finanziario speculativo di ogni tipo. Preferenza del lavoro rispetto al capitale. Difesa della famiglia e della scuola pubblica;
  2. b) il rifiuto del colonialismo e dell’imperialismo, che oggi hanno come aspetto principale l’impero USA ed in Medio Oriente il suo sacerdozio sionista, che utilizza per i suoi crimini il senso di colpa dell’Europa e dei suoi intellettuali rispetto al genocidio effettuato da Hitler, che ovviamente non mi sogno affatto di negare. Diritto assoluto alla lotta per la liberazione patriottica (lo stato nazionale esiste, eccome, ed è un bene e non un male, come dicono i seguaci di Negri e del Manifesto) per l’Iraq, l’Afganistan e la Palestina. Appoggio a tutti i governi “sovranisti” indipendenti (Venezuela, Iran, Birmania, Corea del Nord, Bolivia, eccetera), il che non implica necessariamente l’approvazione di tutti i loro profili interni ed esteri;
  3. c) considerazione dell’elemento geopolitico e rifiuto della sua virtuosa ed infantile rimozione. A differenza di Losurdo, non penso affatto che la Cina abbia una natura sociale “socialista”. Ma la appoggio egualmente, perché un equilibrio multipolare è preferibile ad un unico impero mondiale USA con vari vassalli (fra cui l’Italia è la più servile, con possibile eccezione di Panama e delle Isole Tonga). Chi appoggia questa cose è per me dalla parte giusta. Se poi si dichiara di destra o di sinistra, questo è affare suo, della sua biografia politica e della sua privata percezione valoriale. Ma la percezione valoriale è un affare privato, come i gusti sessuali e letterari e la credenza o meno in un Dio creatore”.

 

Lasciando da parte la pur pertinente critica avanzata da Losurdo, secondo cui ciò che tu cacci dalla porta rientra dalla finestra, cosa bisogna fare per tradurre (e – soprattutto – cosa accade quando si traduce) politicamente la critica di questa dicotomia?

Cosa distinguerebbe ciò dalla semplice riproposizione di un’ideologia da “terza posizione”?

 

Sebbene io sia spesso considerato un pensatore del superamento della dicotomia Destra / Sinistra (cosa che ovviamente non rinnego affatto), questo per me è ormai un argomento superato, secondario e poco interessante. Mi interessa invece il superamento del presupposto storico – ideologico della dicotomia, che è a sua volta la falsa dicotomia Progresso (sinistra) / Conservazione (destra). Per me il progresso e la conservazione sono solo opposti simmetrici in solidarietà antitetico – polare, ed io li respingo entrambi, il che mi costringe anche a respingere la loro concretizzazione identitaria (la dicotomia Destra / Sinistra appunto). Il prezzo da pagare in termini di fraintendimenti e diffamazione fa parte di quella costellazione chiamata da Heidegger “chiacchiera” (gerede). Come non sono né laico né cattolico, parimenti non sono né progressista né conservatore. Se devo definirmi in positivo lo faccio da solo, e non mi faccio classificare dagli altri, e per di più da altri maligni, ostili ed in malafede.

Sul così detto rossobrunismo c’è un equivoco da sfatare. Io non mi considero assolutamente un rosso-bruno, non lo sono e so di non esserlo, e questo non solo politicamente (non mi sono mai sognato di appartenere a gruppi rosso – bruni), ma anche e soprattutto filosoficamente. Il rossobrunismo è del tutto interno all’accettazione ideologica della dicotomia Progresso / Conservazione, e semplicemente vuole unire i “lati buoni” di entrambe le posizioni.

E così si coniugano insieme Marx e Nietzsche, Stalin e Mussolini, con il risultato di fare non solo una grande confusione, ma anche di offrire agli ideologi del potere (e cioè della pseudo democrazia come fantasma di legittimazione) un repertorio di diffamazione su di un piatto di argento. Un conto è essere rosso-bruni, ed un conto è essere oltre il Rosso ed il Bruno. Mi spiace di dover usare un lessico alla Nietzsche / Vattimo, che come sai non mi appartiene, ma è necessario insistere sul fatto che cercare di essere oltre la dicotomia Rosso / Bruno significa non essere né Rossi, né Bruni, né infine rossobruni.

Come scrisse Dante Alighieri, bisogna “lasciar dir le genti”. La capacità di ragionare è inversamente proporzionale all’esibizionismo presenzialistico, che oggi il facile accesso ad internet ed il superamento (Umberto Eco) della separazione fra alta cultura e cultura di massa ha portato a livelli socialmente e culturalmente intollerabili.

 

 

Il potenziale del capitalismo di generare crisi ambientali sorpassa di gran lunga quello di tutti i sistemi economico-sociali precedenti, e ciò è intrinseco alla sua stessa logica di sopravvivenza.

Ben lungi dal riconosce il comune interesse delle generazioni presenti e future per la natura e la società quali condizioni dello sviluppo umano, il capitale converte la natura e le relazioni sociali in puri mezzi di sfruttamento e di accumulazione monetaria.

Fulcro della tua proposta filosofica è l’insistenza sul fatto che l’etica comunitaria dei greci era basata sul metron (ossia la misura opposta allo smisurato), da te intesa come il “cuore sempre vivo dell’insegnamento dei nostri maestri greci”.

Nei tuoi studi sostieni infatti la tesi secondo cui la democrazia della polis antica era prima di tutto una tecnica politica rivolta a limitare e ad addomesticare la dinamica spontanea dell’arricchimento illimitato di pochi (dinamica che porta infallibilmente alla dissoluzione della comunità), dichiarando altresì che la filosofia stessa “trova la sua origine storica nella piazza pubblica greca detta agorà, in cui i cittadini mettevano in mezzo (es meson) la loro capacità di ragione, linguaggio e calcolo (logos), e che questa messa in mezzo comunitaria era rivolta a portare la misura (metron) nelle cose pubbliche di tutti (ta koinà), in modo che concedendo ai cittadini l’eguale accesso regolato alla parola pubblica (isegoria) si potesse raggiungere un nuovo equilibrio (isorropia), e questo nuovo equilibrio potesse portare infine alla concordia fra cittadini (omonoia)”.

A tuo parere Marx stesso è hegelianamente un avversario della “illimitatezza indeterminata”, ed è aristotelicamente un amico della misura nella riproduzione sociale; per il pensatore di Treviri la contraddizione fondamentale del capitalismo sarebbe perciò quella fra ricchezza per il capitale e ricchezza per i produttori e le loro comunità.

In una recente intervista hai inoltre sostenuto che “il problema fondamentale del capitalismo attuale sta nella dinamica di sviluppo illimitato della produzione capitalistica, e nel fatto che l’infinito-illimitato è il principale fattore di disagregazione e di dissoluzione di qualunque forma di vita comunitaria”. Sembri perciò auspicare una rinnovata applicazione del concetto normativo di metron al mondo sociale (ed ambientale); è così?

Murray Bookchin sosteneva che «Il capitalismo non può essere “convinto” a porre dei limiti al proprio sviluppo più di quanto un essere umano possa essere “convinto” a smettere di respirare»; Condividi tale affermazione? A tuo parere, il sistema capitalistico potrebbe tramontare perché costretto a darsi un fine diverso dal profitto, vale a dire la salvaguardia della base naturale (e conseguentemente sociale)?

 

Murray Bookchin coglie genialmente il cuore filosofico della questione del capitalismo, anche se non sono affatto ottimista sulla possibilità di riuscire a darci un fine diverso dal profitto. Per questo ci vuole sempre la buona vecchia rivoluzione, anche se non si vedono soggettività individuali (teoria) e collettive (prassi) in grado di riprendere sensatamente il progetto rivoluzionario. Comunità politica e decrescita economica sono per ora soltanto idee – forza senza basi storiche realmente efficaci.

In greco antico metron significa misura, ma il termine non ha nulla a che vedere con il concetto di misura della rivoluzione scientifica moderna, che ha permesso di passare dal mondo del pressappoco all’universo della precisione (la formula è di Alexandre Koyrè). Si tratta di una misura sociale e politica, legata al termine logos, che non significa soltanto parola pubblica o ragione (logos contrapposto a mythos), ma significa soprattutto calcolo sociale (il verbo loghizomai significa calcolare). L’unione fra logos (calcolo politico e sociale) e metron (misura politica e sociale) sta alla base della teoria della giustizia antica (dike), che non ha ovviamente nulla a che vedere con le moderne teorie della giustizia (Rawls, Habermas, Bobbio), che prescindono tutte dalla sovranità democratica sulla riproduzione economica, eretta ad un Assoluto che ha sostituito il vecchio Assoluto religioso cristiano (comparativamente migliore, a mio avviso, al di là della sua pessima funzione ideologica di legittimazione feudale e signorile).

Polanyi ha fatto molto bene a tornare al concetto di metadoni ed alla distinzione aristotelica fra economia e crematistica (su cui fonda la sua ricostruzione dell’umanesimo greco il filosofo Luca Grecchi). Tutti coloro che invece enfatizzano unicamente i due significati di logos come discorso pubblico o come ragione (ad

esempio Hannah Arendt), dimenticando che invece il significato principale di logos è quello di calcolo sociale rivolto alla doppia fatale dismisura del potere e della ricchezza (metaforizzata, a mio avviso, dall’apeiron di Anassimandro), ci ripropongono una grecità normalizzata e “decaffeinata” (per usare un arguto termine di

Slavoj Zizek). Ma una grecità correttamente interpretata sarebbe ancora più attuale non solo della liberaldemocrazia ottocentesca, ma anche della stessa tradizione marxista, ribadendo che ciò che generalmente passa per “marxismo” non è che un positivismo di sinistra a base gnoseologica neokantiana.

 

 

Vorrei soffermarmi ancora brevemente su tale concetto. Tu infatti sostieni che impadronirsi della genesi della filosofia (e della democrazia) come “razionalizzazione logica (logos) e dialogica (dialogos)” dei conflitti sociali in termini di scontro fra Misura (metron) e Dismisura (apeiron) “è di importanza eccezionale, perché permette di tenere ferma ancora oggi la centralità del conflitto sociale e politico senza più fare ricorso al concetto di Progresso”.

Sembri quindi delineare la possibilità che – attraverso il recupero del principio greco del metron – sia possibile criticare ogni apologia incondizionata del progresso “illimitato”; è così?

Hai inoltre recentemente sostenuto che il principio ideologico del progresso ed il principio filosofico dell’emancipazione devono essere non solo distinti, ma separati, evidenziando la necessità di abbandonare il primo senza rinunciare ad una prospettiva emancipativa. Puoi sviluppare più ampliamente questa tua idea?

 

Molto spesso i critici del principio ideologico del progresso sono anche scettici sulla possibilità di realizzare concretamente il principio filosofico dell’emancipazione (pensiamo alla dialettica negativa di Adorno, al pessimismo radicale dell’ultimo Horkheimer ed al famoso “un solo Dio può ancora salvarci” di Heidegger). Inversamente, si hanno anche sostenitori del principio filosofico dell’emancipazione che restano attaccati al principio ideologico del progresso (pensiamo all’ontologia dell’essere sociale di Lukàcs o all’utopismo escatologico di Bloch). Si tratta allora di capire se vi sia una terza strada, diversa sia da quella di Adorno, Horkheimer ed Heidegger, sia da quella di Lukàcs e di Bloch. Il principio ideologico del progresso ed il principio filosofico dell’emancipazione sono dunque inscindibili ed inseparabili?

Non lo credo, e si tratta appunto di una delle mie principali tesi filosofiche, ed una di quelle cui tengo di più. Il principio ideologico del progresso è “ideologico” appunto perché nacque al servizio di una legittimazione ideologica della borghesia europea settecentesca, che costruì una filosofia progressistica della storia universale (poi sistematizzata in forma ulteriormente meccanicistica, deterministica e finalistica dal positivismo ottocentesco e dal suo fratellino minore, il marxismo storico). Ma ad esempio già l’idealista Fichte fonda la sua teoria dell’emancipazione non su di una ideologia del progresso, ma su di una interpretazione radicale del diritto naturale. Lo stesso “progressismo “ di Hegel (indubbiamente un pensatore progressista) è assai più una teoria dell’acquisizione di una libera autocoscienza, che una teoria della successione obbligata di “stadi” nella storia, come avvenne più tardi nel marxismo, dottrina integralmente “progressista”. Georges Sorel fu uno dei pochissimi pensatori che cercarono di separare il principio del progresso da quello dell’emancipazione, e ritengo che si muovesse nella direzione giusta, anche se il suo codice teorico benemerito era indebolito da una insufficiente comprensione del pensiero greco e di quello idealistico. Ma si tratta di riprendere un secolo dopo il corretto programma di Sorel, radicalizzandolo con un esplicito ritorno al pensiero dei greci, che definirei sommariamente un pensiero della giustizia sociale e politica, sia pure in assenza di una filosofia della storia nel senso moderno del termine.

 

 

In diversi tuoi libri hai sostenuto la tesi per cui in verità la realtà in cui stiamo vivendo è quella di un’oligarchia o, più esattamente, un sistema oligarchico controllato congiuntamente da un circo mediatico e da una rete di mercati finanziari: “un sistema di potere periodicamente legittimato da referendum elettorali di facciata, che ha incorporato residui costituzionali della tradizione liberale classica”.

La democrazia sarebbe in realtà un fantasma di legittimazione, così come erano fantasmi di legittimazione il carattere cristiano della societas christiana del Medioevo europeo o il riferimento al pensiero di Karl Marx del comunismo storico novecentesco. Puoi precisare questa tua argomentazione, facendo riferimento alla prospettiva delineata ne Il popolo al potere?

 

Come già in due casi precedenti (l’interpretazione controcorrente del pensiero filosofico di Karl Marx e la ricostruzione controcorrente della storia della filosofia occidentale dai greci ad oggi) anche nel caso della filosofia politica moderna (di cui la teoria della democrazia è parte integrante) io perseguo un esplicito riorientamento gestaltico. La teoria moderna della liberaldemocrazia insiste su di una dicotomia virtuosa, quella Democrazia / Dittatura. La democrazia è il lato buono, la dittatura (nelle sue varie forme, fasciste, comuniste, populiste, fondamentalistico – religiose, eccetera) il lato cattivo. Io considero questa dicotomia un fantasma di legittimazione, e “fantasma” perché il fondamento della democrazie, il popolo, deve essere in qualche modo sovrano sulla forma essenziale della sua riproduzione sociale. Ma questa sovranità non esiste, perché è nelle mani di oligarchie che nessuno ha eletto. La dicotomia non è dunque oggi (parlo di oggi, non del 1930) Democrazia / Dittatura, ma Democrazia / Oligarchia.

Se si accetta questo riorientamento gestaltico (ma esso è rifiutato da tutto il pensiero universitario, mediatico e politico, non importa se di destra, di centro o di sinistra) il problema non è più di forma, ma di contenuto. E il contenuto sta nella sovranità militare (niente basi atomiche straniere sul territorio nazionale), ed economica (niente delocalizzazioni industriali, precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, eccetera), cui poi seguono “a cascata” tutte le altre sovranità (mediatica, culturale, linguistica, eccetera). È del tutto evidente che oggi non esistono neppure gli elementi minimi di questa sovranità, e per questo la presunta “democrazia” non è che un fantasma di legittimazione.

Vi è quindi “democrazia” oggi (sia in senso greco, che in senso popolare ottocentesco) soltanto quando si è in presenza di reali movimenti sociali e politici di tipo anti – oligarghico, che non si fanno spaventare dal teatro dei burattini delle accuse di “populismo”, categoria tuttofare che ha sostituito il vecchio mostro totalitario a due teste fascismo / comunismo, che è oggi obsoleto come la dicotomia Guelfi / Ghibellini. Benedetto Croce e Norberto Bobbio hanno fatto il loro tempo, e prima o poi forse qualcuno

se ne accorgerà, se riuscirà a perforare la crosta della dittatura ideologica dei mercati finanziari, dei politici, dei giornalisti e dei politologi universitari.

 

 

In questi ultimi anni hai lavorato moltissimo dando alla luce decine di importanti saggi (molti dei quali ancora inediti); prima di congedarci, ci concederesti qualche informazione circa i tuoi progetti editoriali futuri?

 

A proposito del lavoro svolto nei trent’anni precedenti io posso dichiararmi insieme soddisfatto ed insoddisfatto. Sono moderatamente soddisfatto sia per la quantità sia soprattutto per la qualità di molti miei lavori (non di tutti). È vero che non toccherebbe a me dirlo, ma penso che un autore debba avere una certa autoconsapevolezza soggettiva della natura del suo lavoro. Il riconoscimento sociale è stato pressochè nullo, ma tendo a pensare che la ragione di fondo sia dovuta all’assoluta novità delle soluzioni proposte, inaccettabili e irricevibili della casta degli “intellettuali di sinistra”. E’ possibile, anche se lo considero poco probabile, che ci possa essere un moderato riconoscimento postumo. In ogni caso, quando saremo ridotti in polvere, il riconoscimento o meno ci sarà del tutto indifferente.

Sono moderatamente insoddisfatto per almeno due ragioni. Primo, per l’incredibile ritardo identitario a sganciarmi anche formalmente dalla tribù marxista ufficiale – ufficiosa, laddove ormai ero divenuto un filosofo del tutto indipendente. Secondo, il fatto che da un lato ho sempre rimproverato Marx per non avere coerentizzato il suo pensiero, e poi dall’altro neanch’io sono riuscito a coerentizzare il mio. Lo ritengo una lacuna molto grave.

Detto questo, ad altri più giovani toccherà, se lo vorranno, giudicare il mio pensiero. Ritengo però che i miei lavori migliori e significativi siano ancora inediti, e ne segnalo il contenuto a quelle poche decine di amici di cui ho conquistato la stima.

Ho scritto molti saggi monografici su Marx, ma ce n’è ancora un ultimo inedito che ritengo più significativo di altri. In quest’ultimo ho esplicitato oltre ogni dubbio la mia interpretazione di Marx come pensatore tradizionale (e non progressista) e come filosofo idealista (e non materialista) e soprattutto come allievo minore di Aristotele e di Hegel. Non c’è nulla di definitivo finchè si vive, ma ritengo questa interpretazione il mio provvisorio bilancio definitivo di Marx.

Il lavoro cui tengo di più è però una mia originale storia della filosofia, di cui ho scritto una variante più breve (250 pagine) ed una più lunga (600 pagine). Si tratta di una ricostruzione dell’intera storia della filosofia occidentale che non ha precedenti (almeno a me noti), perché da un lato utilizza sistematicamente il metodo “materialistico” della deduzione storico – sociale delle categorie del pensiero filosofico (metodo proposto nel novecento da Alfred Sohn – Rethel, che io però utilizzo in modo del tutto originale), e dall’altro questo metodo è però inserito in una concezione pienamente veritativa del pensiero filosofico, ispirata non certo ai sociologi marxisti, ma ai greci e ad Hegel. È questo il lavoro che considero il più significativo della mia vita.

Vi sono poi alcuni saggi monografici inediti, non casuali, ma che compongono un disegno coerente. Primo, un saggio su Althusser, in cui esamino il suo pensiero, e ne prendo decisamente le distanze su di un punto essenziale. Mentre per Althusser l’equazione filosofica peggiore si scrive come (Soggetto = Oggetto) = Verità, questa per me è invece l’equazione filosofica migliore che si possa scrivere. Secondo, un saggio su Adorno, in cui prendo decisamente le distanze dalla dialettica negativa, considerandola in termini di una sofisticata apologia ideologica di adattamento al capitalismo travestita da opposizione radicale. Terzo, un saggio su Sohn – Rethel, in cui da un lato elogio il metodo della deduzione sociale delle categorie, dall’altro rifiuto la sua la sua critica dell’idealismo ed il suo sociologismo relativistico. Quarto, un saggio su Karel Kosìk, visto come uno dei pochissimi filosofi marxisti novecenteschi che non si sono vergognati di scrivere un capolavoro di filosofia pura (La Dialettica del Concreto) senza sempre travestirla da ideologia. Quinto, un ritorno meditato sulla Ontologia dell’Essere Sociale di Lukàcs, sempre lodata e stimata, ma anche questa volta maggiormente criticata per le sue insufficienze.

Vi sono anche altri studi sul comunitarismo, ancora inediti, e interventi su riviste che prima o poi qualcuno forse raccoglierà. Ma ciò che più conta in un filosofo è quello che i tedeschi chiamano Denkweg, e cioè il percorso di pensiero.

Approfondendo con radicalità il marxismo, ed applicando anche al marxismo stesso la marxiana critica delle ideologie (cosa che in generale i marxisti non fanno, mostrando così a tutti la loro miseria), sono arrivato alla fine a riscoprire il pensiero greco e la cosiddetta metafisica classica. E questo non certo per conversione o pentimento, ma al contrario proprio sulla base del metodo della critica immanente, metodo dialettico se mai ce n’è stato uno.

E con questo posso proprio chiudere.

Enrico Berti – Per una nuova società politica

Enrico Bert

I
Credo che il periodo con cui è giusto porre a confronto il momento attuale, per stabilire che cosa è cambiato e che cosa non lo è, sia il quinquennio 1945-1950, perché in esso prese corpo l’insieme di realtà – un tempo si sarebbe detto il «sistema» – che ha caratterizzato, con lievi variazioni, la vita politica e sociale italiana degli ultimi cinquant’anni. Tre sono, mi sembra, i grandi avvenimenti che si sono verificati in quel periodo, cioè il nuovo assetto costituzionale repubblicano, la divisione del mondo in due blocchi ideologico-militari contrapposti, l’avvìo del processo che ha portato l’Italia ad essere uno dei paesi più industrializzati del mondo.
Di questi tre avvenimenti specialmente i primi due hanno stimolato l’impegno politico degli uomini di cultura. Larga è stata la partecipazione degli intellettuali, specialmente cattolico-democratici e laici, al processo costituente e notevole è stata la loro incidenza. Basti fare i nomi di uomini come La Pira, Dossetti, Fanfani, Mortati, Lazzati, Calamandrei, Basso ed altri ancora, i quali dentro o fuori l’Assemblea costituente hanno elaborato e fatto recepire le idee che stanno alla base della Costituzione italiana. Ugualmente larga è stata la partecipazione degli intellettuali, specialmente marxisti, alla lotta ideologica con cui la sinistra, in mancanza del necessario consenso politico, ha tentato – secondo il disegno di Gramsci, abilmente sviluppato da Togliatti prima e poi da Berlinguer – di conquistare l’egemonia sulla società civile italiana attraverso la cultura (editoria, cinema, arte e spettacolo in genere). Del processo di industrializzazione, opera degli imprenditori, dei lavoratori e della classe di governo, cioè del potere economico, sindacale e politico, gli intellettuali si sono curati poco, rivolgendo tutt’al più il proprio interesse all’aspetto di esso che più direttamente li toccava, cioè lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa e in generale dell’informazione.
Che cosa è cambiato, oggi, rispetto ad allora? Si fa presto a dirlo. Anzitutto sono crollati i regimi comunisti in Europa, sanzionando anche con la fine del pericolo militare quel processo di crisi delle ideologie, in particolare del marxismo, che già era incominciato nel corso degli anni ottanta e che ha prodotto, almeno in apparenza, la diaspora attuale della cultura marxista. Oggi quasi nessun intellettuale italiano si dichiara più marxista, anche se è difficile sapere che cosa accadrebbe nel caso di un forte spostamento a sinistra dell’asse politico del paese. La conseguenza diretta della fine del comunismo è stata la fine dell’unità politica – e, secondo me, anche culturale – dei cattolici italiani, che a sua volta è venuta a sanzionare un processo di secolarizzazione (intesa, dal punto di vista della fede, in senso sia positivo che negativo) in corso ormai da secoli e culminato, per la Chiesa cattolica, nel Concilio Vaticano II. Ma anche la cultura laica ha subìto un processo di «indebolimento», o almeno di de-ideologizzazione, col passaggio dallo storicismo e dal neopositivismo all’ermeneutica. Oggi nessuno più crede a verità assolute, e se qualcuno ancora ci crede – come dovrebbe essere il caso dei cattolici – si guarda bene dal porle alla base di un progetto politico.
Tutto ciò ha finito, innegabilmente, col demotivare l’impegno politico degli intellettuali, anche se, è giusto riconoscerlo, è nata una nuova ragione di impegno per gli uomini di cultura, specialmente per i filosofi, cioè la scoperta dell’etica da parte del mondo della scienza, dell’informazione e della politica. Essa è conseguente ai nuovi problemi posti dallo sviluppo delle tecnologie, specialmente genetiche, ma anche dagli effetti imprevisti prodotti dall’impatto dell’industrializzazione con l’ambiente e dalle dimensioni planetarie assunte dai fenomeni economici (flussi migratori, ecc.). Come ho avuto occasione di sostenere altrove, non solo la medicina ha salvato la vita all’etica (S. Toulmin), ma l’etica ha salvato la vita alla filosofia. È accaduto, infatti, che l’uomo è venuto a trovarsi a corto di ethos, cioè di etica vissuta, proprio nel momento in cui ha raggiunto, in tutta la sua storia, il massimo potere sulla natura e su se stesso, e ciò ha fatto nascere una potente domanda di etica almeno teorica, cioè filosofica, come aiuto per affrontare le nuove emergenze.
Il secondo grande cambiamento verificatosi negli ultimi cinquant’anni, in Italia come altrove, ma nel nostro paese con particolare intensità, è il declino dello Stato moderno, inteso come istituzione sovrana, centralizzata, burocratica ed onnipresente. Il segno più evidente di tale declino è la perdita, da parte dello Stato, del suo attributo più classico, cioè la sovranità, perdita che oggi è in atto sia ad extra che ad intra. Nei rapporti con l’esterno gli Stati – tutti gli Stati, tranne forse gli U.S.A. – hanno perduto l’autosufficienza, sia economica che militare e scientifico-tecnologica. In Europa in particolare è in atto un processo, lento ma inesorabile, di integrazione economica, militare e politica (quella culturale è sempre esistita), che limita progressivamente la sovranità dei singoli Stati. Nei rapporti interni lo Stato si è rivelato sostanzialmente inefficiente, cioè incapace di soddisfare le esigenze di una società articolata, pluralistica, estremamente complessa, ed ha dovuto quindi lasciare spazio a forme di autonomia locale e a rivendicazioni particolaristiche sempre più forti.
Come ha scritto Bobbio, al posto dello Stato sovrano è nato lo «Stato poliarchico» ed è venuta meno la secolare identificazione tra sfera dello Stato (come centro del potere sovrano) e sfera della politica: quest’ultima si è allargata alla società civile, rendendo sempre più incerti i confini tra il «politico» ed il non-«politico»2. Oppure, come ha scritto Matteucci, stiamo passando dallo Stato moderno allo «Stato post-moderno», il quale più che uno Stato è un «sistema», dove tutto è interdipendente e non ci sono più spazi autonomi, ma non c’è nemmeno più un potere sovrano, né un comune punto di riferimento3. Ma ciò era stato previsto sin dal 1951 da Maritain, che nella raccolta di conferenze americane su L’uomo e lo Stato aveva segnalato la crisi della sovranità e il processo di integrazione degli Stati in società politiche transnazionali, destinate a diventare mondiali.4
Parallelamente alla crisi dello Stato si è determinata la crisi dei partiti politici nazionali come strumenti privilegiati di partecipazione alla vita politica. I partiti tradizionali non solo hanno perduto qualsiasi base ideologica, ma hanno anche cessato di essere espressioni di altrettante culture e pertanto hanno cessato di attirare l’attenzione dei giovani, degli intellettuali, del mondo della cultura in genere. Essi sono rimasti strumenti di potere per politici di professione, interessati alla cultura solo nelle – peraltro frequenti – scadenze elettorali, ma in forma del tutto strumentale, senza alcuna progettualità specifica, pronti nella maggior parte dei casi ad approvare tutto e il contrario di tutto, secondo le contingenti presunte convenienze.
Un terzo grande cambiamento verificatosi negli ultimi cinquant’anni è l’accresciuta importanza dei mezzi di comunicazione di massa, specialmente della televisione, che ha completamente sostituito il cinema come strumento di persuasione e di orientamento dell’opinione pubblica, non propugnando progetti politici particolari, ma proponendo stili di vita e quindi modi di pensare immediati, inconsci, diffusi a livello di massa. Hanno conservato una certa importanza i tradizionali mezzi stampati, più i quotidiani e i periodici che i libri, a cui si sono aggiunti strumenti nuovi quali videocassette, compact disks e simili, ed a cui è prevedibile che si aggiungeranno nuovi potenti mezzi basati sulle tecnologie informatiche, del tipo Internet. Ciò crea nuovi importanti centri di potere, di carattere editoriale, indispensabili per la promozione e la diffusione della cultura a livello industriale.
A tutto ciò si aggiunga una crisi economica strisciante, diffusa soprattutto nei paesi più sviluppati, la cui espressione più drammatica è l’aumento continuo del tasso di disoccupazione, specialmente giovanile, dovuta in parte al progresso della tecnologia, che rende sempre meno indispensabile la manodopera, in parte all’immigrazione della forza-lavoro dai paesi meno sviluppati ed in parte, probabilmente, ad altri fattori. Tra le tante cose, invece, che non sono cambiate, e che sarebbe stato necessario cambiare, spicca almeno in Italia il sistema formativo scolastico-universitario, che si è semplicemente dilatato, assumendo dimensioni di scuola di massa, senza tuttavia aggiornare la sua struttura, i suoi contenuti, i suoi effetti sul mondo del lavoro e della produzione, per non parlare del suo livello culturale.

II
Benché siano venute meno, a causa dei cambiamenti sopra ricordati, quasi tutte le motivazioni tradizionali dell’impegno politico degli intellettuali, esiste oggi tuttavia un ampio spazio di intervento, per non dire una forte domanda da parte della società, nei confronti dell’impegno politico degli intellettuali, purché esso si manifesti nelle forme che sono proprie della cultura e che garantiscono a questa la maggiore incidenza sulla vita sociale. Gli intellettuali oggi non sono più chiamati a sostenere una determinata parte politica, a contribuire alla conquista di un’egemonia o ad opporsi alla minaccia di un pericolo incombente. La figura dell’intellettuale organico ad un partito, di gramsciana memoria, è – si spera – definitivamente tramontata. Gli intellettuali oggi sono più liberi, non sono tenuti a rispettare nessuna ortodossia, non devono più temere scomuniche né ecclesiastiche né laiche (salvo, forse, i teologi, quando però sono a carico di un’istituzione privata come una chiesa).
Gli spazi di intervento che si aprono agli uomini di cultura, in particolare dei filosofi, nei quali talvolta la loro presenza è addirittura invocata, sono molteplici. Ho già ricordato la scoperta dell’etica, nell’ambito della quale però andrebbe finalmente superata la tradizionale e vetusta contrapposizione fra cattolici e laici e dovrebbero essere cercate delle basi comuni, indispensabili per concordare quelle discipline di carattere legislativo delle nuove pratiche tecnologiche, che tutti auspicano e che hanno comunque bisogno di un largo consenso. A questo proposito non mi stancherò mai di segnalare la possibilità di assumere come premesse le dichiarazioni dei diritti, contenute nelle carte costituzionali dei vari Stati e nei documenti delle organizzazioni internazionali, e di svolgerne coerentemente le implicazioni di carattere applicativo, in ordine a temi come la vita, l’identità personale, la libertà, l’uguaglianza.5
Anche il settore della formazione, sia scolastica che universitaria, può essere un settore di intervento incisivo da parte degli uomini di cultura, a condizione che sappiano trovare le forme più idonee ad ottenere ascolto dai responsabili delle riforme. Esistono, ad esempio, associazioni professionali o disciplinari che in qualche momento della vita politica italiana hanno trovato ascolto presso le istituzioni e che dovrebbero essere il terreno ideale per l’impegno dei professionisti della cultura. Credo, ad esempio, che l’Unione dei matematici italiani (UMI), la Società Italiana di Fisica e la Società Filosofica Italiana abbiano avuto l’occasione di influire positivamente nell’elaborazione dei nuovi programmi della scuola secondaria superiore, all’interno della cosiddetta Commissione Brocca. E, se mi è consentito dagli amici direttori di questa rivista un riferimento di carattere personale, devo lamentare lo scarso interesse dei filosofi italiani di apparteneneza universitaria per un lavoro di collaborazione con i colleghi della scuola secondaria, che porti ad una profonda trasformazione del sistema formativo nello specifico ambito disciplinare.
Prima di affrontare quello che considero il terzo, e più importante, settore di intervento per gli uomini di cultura sensibili all’impegno politico, desidero però accennare ad un compito specifico degli intellettuali che svolgono la loro professione nell’università. L’insegnamento universitario, data l’età e la composizione sociale dei suoi destinatari, è un’occasione privilegiata e forse unica di testimonianza civile. Spesso i movimenti culturali più innovatori e impegnati anche politicamente nascono proprio dalle università: così è accaduto nel risorgimento, nella resistenza ed anche in quanto di positivo ha offerto la contestazione del Sessantotto e dintorni. Ma quasi sempre l’iniziativa è stata esclusivamente degli studenti, con i docenti in posizione di attesa, pronti a cavalcare la tigre della rivoluzione studentesca nel caso in cui questa avesse successo, o ad atteggiarsi a vittime degli studenti nel caso in cui fossero da questi contestati.
Pochi sono stati, purtroppo, gli esempi di coraggio, di difesa delle libertà, di denuncia delle violenze, offerti da docenti e da intellettuali impegnati. Eppure la testimonianza quotidiana di senso civico, di sollecitudine per la libertà e la serietà degli studi, di attaccamento alle istituzioni democratiche, la cui occasione viene offerta da quella meravigliosa possibilità di vivere in mezzo ai giovani che solo il docente universitario possiede, potrebbe costituire il momento più efficace di un impegno civile e politico, quale che sia la specialità disciplinare nella quale si esercita l’insegnamento e la ricerca, ma a maggior ragione soprattutto quando si insegnano e si praticano discipline filosofiche, cioè quando si parla ogni giorno di idee, di valori, di movimenti ideali, di rivoluzioni culturali e scientifiche.
Ma veniamo al punto più importante, cioè quello connesso al declino dello Stato moderno in generale ed alle particolari caratteristiche che questo fenomeno ha assunto in Italia. È opinione diffusa che, fermi restando i grandi princìpi enunciati nella prima parte della Costituzione – di cui tutti dovrebbero essere grati agli uomini di cultura impegnati nella stagione costituente del 1946-’47 –, sia giunto il momento, per il nostro paese, di ridisegnare la forma dello Stato, non solo per quanto riguarda gli organi di governo, ma anche e soprattutto per quanto riguarda la sua articolazione nella società. Il gran parlare che si fa di federalismo e l’inopinata, anche se sicuramente anacronistica, velleitaristica e probabilmente ipocrita, proposta di rottura dell’unità politica del paese da parte di alcune forze politiche, non sono che l’aspetto più superficiale di una crisi dello Stato che significa essenzialmente inefficienza, impotenza, disorganizzazione, sperpero.
Osservava Bobbio nello scritto sopra citato che la perdita della sovranità da parte dello Stato ha allargato la sfera del «politico» oltre i limiti dello Stato medesimo, fino ad investire la stessa società civile. Ora, è appunto assiomatico che, col progressivo venir meno dello Stato inteso come il luogo in cui si concentrava l’intera vita politica – il monopolio, per dirla con Weber, dell’uso legittimo della forza – venga meno anche la cosiddetta società civile, intesa come la sfera dei rapporti privati («privati», voce del verbo «privare», appunto del potere politico), che è sorta all’inizio dell’età moderna contemporaneamente allo Stato, che si è posta per alcuni secoli in opposizione dialettica con quest’ultimo – Hegel e Marx insegnano ­–, e che è destinata a scomparire con la scomparsa dello Stato moderno.
Nel luogo, ed al posto, dello Stato e della società civile rimane la vera e propria «società politica» (koinonìa politikè, come dice Aristotele), cioè la polis, che non è lo Stato, come spesso a torto si crede, bensì l’insieme di tutte quelle persone che, volenti o nolenti, devono convivere e collaborare alla realizzazione di fini comuni (e quindi non particolari, non economici, ma politici). Ma questa società politica, nel momento della crisi dello Stato moderno, deve darsi nuove forme di organizzazione, deve inventare istituzioni meno sclerotiche, meno burocratiche, meno centralizzate, più articolate, più pluralistiche, più conformi al «principio di sussidiarietà», quello per cui è non solo ingiusto, ma anche dannoso, affidare a istanze superiori e più lontane dai destinatari le decisioni che possono essere utilmente prese da istanze inferiori, cioè più vicine ai destinatari stessi.
Si tratta, insomma, di dar vita a una «nuova società politica», ad una nuova forma di polis adatta all’età dell’informatica, delle interdipendenze planetarie, ed insieme della frammentazione, del particolarismo, del trionfo della soggettività, in cui si superi la contrapposizione di pubblico e privato, di «statale» e «locale». Non sono, come è noto, un politologo – anche se mi appassiona la filosofia della politica6 –, ma credo che una struttura di tipo federale, cioè fortemente articolata al proprio interno in molteplici poteri autonomi, integrata in forme di comunità sovranazionali a loro volta organizzate in senso federativo, possa essere il tipo di organizzazione valido, se non per i prossimi secoli, almeno per un buon numero di prossimi decenni.
Non credo, invece, al potere magico di presidenzialismi o semipresidenzialismi, che moltiplicherebbero inutilmente le espressioni della volontà popolare, già augurabilmente organizzate in molteplici e diversi livelli, e non avrebbero più la presunta giustificazione della difesa di un’unità nazionale del tutto superflua e superata da più complesse strutture federate e integrate. Credo, invece, alla perdurante validità dell’istituto della rappresentanza, anch’essa articolata in una molteplicità di organi collegiali particolari e culminante in un parlamento federale, ed in un governo che di esso sia espressione diretta, dotato di quel minimo indispensabile di poteri che non possono essere affidati con successo alle molteplici istanze locali.
Una simile società politica non potrebbe essere qualificata da nessun aggettivo particolare: non potrebbe essere né una società cristiana (lo dico ad alcuni miei compagni di fede), perché dovrebbe essere il luogo di piena realizzazione anche dei musulmani, degli ebrei e dei non credenti; non potrebbe essere una società socialista, perché le differenze di classe, già in via di attenuazione, dovrebbero prima o poi scomparire completamente (ed in questo mi ritrovo con Marx); ma non potrebbe essere nemmeno una società liberale, nel senso tradizionale del termine, cioè capitalistica, per la stessa ragione (socialismo e capitalismo vanno infatti a braccetto, come Stato e società civile). Lo spazio dell’iniziativa economica privata, come quello dell’iniziativa economica pubblica (non più statale, ma dei poteri autonomi) si andrà progressivamente restringendo, mano a mano che verrà meno la contrapposizione fra pubblico e privato, cioè fra Stato e società civile, mentre crescerà progressivamente lo spazio di quello che è oggi il cosiddetto «terzo settore», cioè il settore delle iniziative economiche «non-profit», vale a dire della cooperazione sociale, del volontariato, della solidarietà, anche verso i paesi dell’attuale «terzo mondo», non per altruismo, ma per un’elementare necessità di sopravvivenza.
Se si dovesse qualificare con un aggettivo la nuova società politica – ma non è necessario –, si dovrebbe ricorrere al più generale e svincolato da ogni ideologia, cioè chiamarla semplicemente società più umana o, come soleva dire Giuseppe Lazzati, «città dell’uomo», cioè una società avente per fine il bene comune, inteso come possibilità di piena realizzazione per ciascuno, e quindi implicante come suoi momenti fondamentali la libertà e la giustizia. Ma ci si potrebbe richiamare anche a fonti più «laiche», quali la Arendt di Vita activa e l’ultimo Habermas. Credo che la configurazione più determinata e lo studio delle condizioni di fattibilità di un simile progetto abbiano motivo di interessare i filosofi e possano quindi giustificare un loro rinnovato impegno politico.

III
Nella descrizione dei suddetti settori di intervento è già contenuta l’indicazione di quella che dovrebbe essere, oggi, la forma in cui l’impegno politico degli intellettuali potrebbe prendere corpo. Se ci rifacciamo ai due grandi modelli classici di impegno politico dei filosofi, quello platonico e quello aristotelico, vediamo che essi divergono in un punto essenziale.
Per Platone, come è noto, la polis non sarà mai giusta, fino a quando i filosofi non prenderanno il potere, cioè non andranno direttamente al governo, o i governanti non diventeranno filosofi, ipotesi entrambe alquanto pericolose per una società complessa come quella contemporanea, perché non fondate sull’istituto democratico della rappresentanza. Per Aristotele invece l’azione politica diretta, cioè il governo, è affare non dei filosofi, quantunque pratici, ma degli uomini politici «saggi» (phrònimoi), e la realizzazione di una buona società politica, tramite una buona «costituzione», è compito soprattutto dei saggi legislatori. Nei confronti di costoro i filosofi hanno il compito di illustrare le diverse costituzioni possibili e di indicarne la migliore, o la più adatta alle diverse circostanze, o la più facilmente realizzabile tra quelle sopportabili.
Oggi il modello platonico di impegno politico può essere realizzato, nel rispetto dell’istituto della rappresentanza, in due modi: mediante l’elezione dei filosofi al parlamento o mediante la nomina di filosofi in un governo che abbia la fiducia del parlamento. Confesso di essere piuttosto scettico circa la possibilità di reale incidenza sulla politica del paese da parte di un parlamentare eletto in quanto filosofo, cioè non in quanto dirigente di partito o politico di professione. Mi è stata più volte offerta tale possibilità, ma ho sempre rifiutato, nella convinzione di poter fare di più nel piccolo ambito della mia professione di docente universitario, scrivendo libri e articoli, o formando studenti e nuovi docenti, piuttosto che all’interno di un gruppo parlamentare o di una commissione condizionati da esigenze e problemi ben diversi da quelli di mia competenza.
Ho anche notato, pur avendo militato in partiti più nobili di quelli coinvolti in «tangentopoli», cioè nella Democrazia cristiana dei tempi di Moro e Zaccagnini e nell’attuale Partito popolare italiano, che l’apertura delle proprie liste elettorali agli uomini di cultura è spesso strumentale, cioè dovuta solo alla speranza – spesso infondata – di raccogliere più voti, e che l’eventuale elezione si scontra subito con la gelosia, manifesta o latente, dei professionisti della politica, i quali si sentono in un certo senso derubati del mestiere, se non addirittura del «posto». Ma, naturalmente, posso sbagliarmi e non escludo che altri colleghi, più bravi o più fortunati di me, possano riuscire là dove io certamente non sarei riuscito.
Non credo di sbagliarmi, invece, nel ritenere che la politica, come ha detto Weber, sia necessariamente una vera e propria professione, la quale esige una dedizione a tempo pieno. Questo non è un bene, perché la politica come professione porta l’uomo politico a sovrapporre inevitabilmente ai fini politici, cioè universali, per la cui realizzazione è impegnato, gli interessi personali, cioè particolari, alla conservazione del potere, della carriera, del «posto». Però credo che sia una necessità insuperabile, dato il carattere estremamente complesso dell’attuale vita politica e il bisogno che il politico ha di un’enorme quantità di tempo per informarsi, documentarsi, curare i necessari rapporti con gli elettori, con i colleghi, con la stampa, senza i quali non può avere alcuna incidenza.
Credo inoltre altrettanto fermamente, sempre con Weber, che sia una professione non solo la politica, ma anche la «scienza», cioè la ricerca, la vita intellettuale, e che anch’essa abbia le sue esigenze, di tempo, di energie, di impegno, il cui mancato rispetto conduce inevitabilmente ad una perdita di quell’incidenza che è propria della scienza, cioè il contribuire in maniera originale al progresso degli studi, la capacità di richiamare l’attenzione degli specialisti sui propri lavori, il lasciare un traccia nella letteratura relativa agli argomenti di cui ci si occupa. Inoltre, in conformità col doppio significato del termine weberiano Beruf, cioè professione e vocazione, penso che tanto la politica quanto la ricerca siano anche una vocazione, cioè un’attitudine ed al tempo stesso una passione, e che sia difficile avere contemporaneamente due vocazioni.
Più efficace, ma anche più difficile da attuare, mi sembra il secondo modo in cui può essere realizzato il modello platonico di impegno politico, cioè l’assunzione diretta da parte di un filosofo di una responsabilità di governo, per esempio come ministro, o come assessore, oppure – secondo alcuni illustri esempi che vediamo oggi – come sindaco di un’importante città. In questi casi infatti è più probabile che egli venga scelto anche per le sue specifiche competenze, ed ha sicuramente più poteri di un parlamentare o di un semplice consigliere. Più facile è che venga scelto un manager, o un economista, o un giurista, cioè quello che si chiama comunemente un «tecnico», ma in tal caso gran parte del carattere platonico della scelta va perduto, perché viene meno proprio quella visione sinottica, cioè non specialistica, non tecnica, dei problemi che per Platone giustifica la coincidenza tra governante e filosofo.
Il modello aristotelico non comporta un’assunzione diretta di responsabilità di governo, né nel potere legislativo né in quello esecutivo, ma un’opera di informazione e, nel migliore dei casi, anche di formazione, esercitata dal filosofo nei confronti dell’opinione pubblica e talvolta anche della classe politica. Essa si realizza attraverso la pubblicazione di articoli nei quotidiani, la concessione di interviste per la radio e la televisione, lo svolgimento di conferenze, la partecipazione a convegni, l’intervento in «tavole rotonde», ma anche l’elaborazione di veri e propri trattati scientifici o, meglio, filosofici, che siano capaci di richiamare qualche attenzione e quindi di lasciare un segno. Una simile forma di impegno non è incompatibile con una certa militanza politica, che va dalla partecipazione ad associazioni di cultura politica – per quanto mi riguarda, ho presenti «Città dell’uomo» fondata da Lazzati e «Carta ‘93» – all’adesione a veri e propri partiti politici, ma sempre senza responsabilità dirette di guida, di organizzazione, di decisione, per le suddette ragioni di tempo e di competenza.
Questo mi sembra il tipo di impegno politico oggi auspicabile per un filosofo, soprattutto in relazione ai suddetti settori dell’etica, della formazione e delle riforme costituzionali; perciò non apprezzo, pur rispettandolo, il totale disimpegno di molti colleghi che considerano la filosofia una turris eburnea in cui rinchiudersi, per dedicarsi esclusivamente alle proprie personali speculazioni. Credo, con i grandi filosofi greci, ma anche con Kant, ed oggi con Apel, Habermas, Davidson, Putnam, Toulmin e molti altri, che la filosofia sia essenzialmente comunicazione, discussione, argomentazione, e che pertanto il luogo di essa non sia il «tempio», ma la «piazza» (l’agorà di Socrate). Del resto anche i filosofi più disimpegnati desiderano molto di pubblicare – almeno quelli di cui per questa ragione è nota l’esistenza –, il che significa che annettono qualche importanza alla comunicazione.
Le metafore della visione e dell’ascolto, che spesso sono state usate nella storia per qualificare la filosofia, non mi persuadono completamente. Penso che la visione, naturalmente come metafora, quindi l’intuizione, il coglimento diretto, sia un atto più proprio dell’arte che della filosofia, anche dell’arte poetica e musicale, e che in filosofia si giunga a «vedere» – se mai vi si giunge – solo dopo essere passati, per dirla con Platone, spesso invocato dai fautori della visione, «attraverso tutte le confutazioni» (dià pànton elènchon). Quanto all’ascolto, che non sia semplicemente ascolto delle voci degli uomini, ma sia ascolto dell’essere, della natura, della storia, di Dio, del nulla, o di qualsivoglia altra voce non umana, penso che non sia affare della filosofia, ma piuttosto della religione o di altre forme di sapienza.
La metafora che esprime meglio l’attività del filosofare è quella del dialogo, inteso non come semplice conversazione, ma nel senso forte di discussione, in cui si formula un problema, si prospettano tutte le possibili soluzioni e si cerca di confutarle una per una, per vedere se ce n’è qualcuna che resiste alla confutazione, e per quanto tempo vi resiste, ed a quali condizioni. In ciò mi sento vicino a Popper, anche se Popper limitava tale metodo alla scienza, non ammettendo altra forma di razionalità. Questo atteggiamento fa della filosofia qualcosa di molto simile alla politica, almeno ad una politica che non sia solo decisione immediata, ma deliberazione a ragion veduta, presa dopo che sono state soppesate le ragioni a favore e contro. Perciò vedo del tutto naturale l’impegno politico conforme al modello aristotelico per quanti concepiscono la filosofia come argomentazione, cioè come procedura razionale. Del resto esso è stato anche la forma di impegno politico dei filosofi più frequente lungo il corso della storia, almeno in Occidente.
Certo, credo che in determinati momenti gli uomini di cultura debbano essere disponibili anche per un impegno maggiore, di tipo «platonico», e credo che si debba essere grati, ad esempio, a quegli intellettuali ed a quei «professori» che hanno fatto la Costituzione italiana. Se gli uomini di cultura, in quel momento, non avessero risposto all’appello della politica, la costituzione sarebbe stata opera di politicanti di professione o di persone elette spesso in modi abbastanza casuali. Personalmente sono anche grato ad un uomo come Romano Prodi, che un bel giorno ha chiuso con la professione di scienziato per dedicarsi a quella di politico, perché senza questa sua decisione non so come avrebbe potuto formarsi una coalizione alternativa a quella conservatrice (questa non è la captatio benevolentiae servile dell’intellettuale nei confronti del potente, perché non so se al momento della pubblicazione di questo articolo Prodi sarà ancora presidente del Consiglio e in ogni caso non mi sembra molto potente).
Ma la sola disponibilità dell’uomo di cultura non basta, se non c’è anche una strategia, un’organizzazione, un collegamento organico con alcune forze politiche, e soprattutto una grande disponibilità di tempo, di energie, di passione, che si configura appunto come una nuova vocazione. Per fortuna, direi, alcuni uomini di cultura talvolta hanno questa vocazione, per fortuna (o sfortuna, secondo i punti di vista) nostra, non certo per fortuna loro, perché credo che vengano a trovarsi in situazioni tutt’altro che invidiabili. Chi non sente questa vocazione, può rendersi ugualmente utile facendo bene il proprio mestiere e magari impegnandosi anche a contribuire, con un apporto di idee, di obiezioni, di argomentazioni, alla realizzazione di quella nuova società politica di cui ho parlato sopra, la quale mi sembra una necessità a cui non si può rinunciare.

Donato Sperduto – Agire o lasciar fluire? Emanuele Severino e Carlo Levi a confronto

Carlo Levi

Introduzione
Sia nei suoi scritti che nella  vita reale, lo scrittore torinese Carlo Levi ha sempre messo in relazione la dimensione ‘teoretica’ con quella ‘pratica’. Non si è ad esempio limitato a scrivere contro il fascismo, ma si è anche concretamente impegnato contro la persistenza di tale regime in Italia invitando gli italiani a non avere paura della libertà (non a caso Paura della libertà è il titolo del primo libro da lui scritto).
Anche il rinomato pensatore bresciano Emanuele Severino vede una correlazione tra ‘teoria’ e ‘pratica’, tra fede nel divenire e «nichilismo dell’Occidente». La celebre affermazione severiniana1 dell’eternità di ogni essere «sembra comportare di diritto la più radicale riforma antropologica»2. Infatti, tra etica ed ontologia esiste un legame inscindibile nel senso che ad una determinata toeria sull’essere segue una precisa dimensione antropologica. Ed è lo stesso Severino a ritenere che il pensare determina l’azione. Egli ha in effetti evidenziato le implicazioni etiche della concezione nichilistica dell’essere.
In questo mio lavoro scandaglio gli aspetti centrali del pensiero severiniano e di quello leviano mettendoli a confronto con l’intento di elucidare i punti che li avvicinano e che valorizzano anche il pensiero di Carlo Levi, il rinomato romanziere italiano autore anche di opere teoretiche ingiustamente trascurate.

1. La fluidità del tutto
Il filosofo bresciano ritiene che non tenendosi fermo all’estrema contrapposizione dell’ente e del niente, il pensiero occidentale ha smarrito il senso dell’essere, l’ha alterato e dimenticato, e così è caduto nell’estrema contraddizione, ha ammesso l’assurdo: che il non-niente (l’ente) è niente. Questo è avvenuto perchè quell’opposizione non è stata fatta valere necessariamente, assolutamente, ma è stata limitata temporalmente. Il nichilismo consiste proprio nella nientificazione di ciò che è, nella persuasione che l’essere divenga (esca dal nulla e ritorni nel nulla), potendo pertanto  non essere, e conseguentemente nella prassi (la volontà di pontenza) che scaturisce da questo convincimento.
Severino avvalora la sua tesi del nichilismo dell’Occidente rifacendosi ai filosofi  greci. Infatti, una volta escluso che il senso della cosa sia metastorico, ossia che non «sia apparso ad un certo momento» della storia umana (SFP, p. 369), egli afferma che il senso (nichilistico) della cosa è stato portato alla luce dalla metafisica greca (marcatamente da Platone).
La civiltà occidentale ha obliato il senso dell’essere, perchè ha voltato le spalle all’eternità dell’essere, affermata da Parmenide. A questo proposito, il motto di Severino è‚ appunto, «ritornare a Parmenide».
La fatidica affermazione della temporalità dell’ente ha dei risvolti etici. Allora quando si è persuasi che l’ente è nel tempo, «la nascita del progetto di dominio e di sfruttamento dell’ente non solo è possibile, ma è inevitabile» (AT, p. 31). Consistendo la volontà di potenza nella volontà che l’ente sia nel tempo, la caratteristica essenziale della civiltà occidentale non può che essere proprio la volontà di potenza.
Severino approfondisce questa tematica ricorrendo significativamente alla metafora del mare proprio perché il divenire esprime «la fluidità del mondo» (LeC, p. 122). Come per navigare occorrono le imbarcazioni, e prima ancora il mare, e, anzi, prima di tutto, che si creda nell’esistenza del mare, così per dominare il mondo occorrono degli strumenti, e prima ancora la dominabilità del mondo, e, «anzi, prima di tutto, che si creda nell’esistenza della dominabilità e flessibilità del mondo; occorre la fede nell’esistenza del dominabile» (FF, p. 109). Ora, essendo il mondo dominabile in quanto fluidità o divenire (le cose escono dal nulla e ritornano nel nulla), gli abitatori del tempo manipolano, producono e distruggono la totalità delle cose, perchè hanno fede nel divenire (nella fluidità) dell’ente, perchè credono di vedere questo divenire. Sì che, se il divenire dovesse risultare impossibile e non evidente, tale dovrà risultare anche il dominio del mondo. Ma allora, credendo nell’impossibile e agendo in base a questa fede (che però non è considerata una fede dall’abitatore del tempo), non sarà azzardato affermare che sulla terra domina ormai la follia estrema, che «la storia della nostra civiltà è la storia della follia estrema» (T, p. 218). Ed è proprio a questa conclusione che Severino perviene evidenziando la tesi della fluidità del tutto propria, a suo parere, al pensiero occidentale (ma, da quanto scrive, anche a quello orientale).

2. La distruzione degli immutabili
La volontà di potenza è incarnata dalle due fondamentali espressioni del nichilismo metafisico: Dio e la tecnica (EN, p. 183). Questi due “tecnici supremi” sottopongono ad una dominazione illimitata tutte le cose. Ma oramai «Dio è morto» ed è la tecnica ad esercitare questa dominazione illimitata. Come si spiega la morte del «vecchio re»? Per rispondere a questa domanda bisogna tener conto dell’interpretazione che Severino dà della storia del pensiero occidentale e che può essere definita così: inevitabile evocazione e distruzione degli immutabili.
I pensatori greci3 hanno inteso il divenire come l’uscire dal niente e il ritornarvi, da parte delle cose del mondo. Ma la fede nel divenire delle cose implica l’imprevedibilità del divenire e questa imprevedibilità genera terrore. Tutto ciò che diviene irrompe nel mondo ed incomincia ad essere, è stato un niente. Ed «è proprio per questo suo essere stato un niente che ciò che irrompe nel mondo è assolutamente, infinitamente imprevedibile […]; e quindi è la minaccia estrema rivolta alle cose esistenti» (LC, p. 23). Per difendersi dall’angoscia del divenire gli abitatori del tempo, a partire da Eschilo, hanno predisposto come rimedio del dolore la verità, l’epistème, ossia «ciò che sta, imponendosi su ogni negazione che vorrebbe travolgerlo» (L, p. 164) e su ogni divenire (FF, p. 12). L’immutabile è quindi il rimedio del dolore. Ma, come ha visto Nietzsche, «il rimedio è stato peggiore del male» (FC, p. 11). La civiltà della tecnica ha così dovuto distruggere l’immutabile perchè rende impossibile il divenire. L’immutabile, infatti, «è il senso prestabilito al quale ogni sopraggiungente deve adeguarsi e nel quale ogni sopraggiungente è anticipato» (AT, p. 123). Ma, una volta anticipato, ciò che diviene non esce dal niente, bensì dalla propria anticipazione. Allora il niente non è più niente (viene cioè entificato) e il divenire diventa apparenza.
Morto Dio, il nuovo rimedio, cioè la scienza e la tecnica, quest’ultima essendo la scienza applicata all’industria, hanno preso il suo posto. Col suo carattere ipotetico, la previsione scientifica riesce a dominare realmente il divenire, riconoscendone l’imprevedibilità. Ma questo non vuol dire che, con l’eclissi dell’epistème, non sia rimasto alcun immutabile. L’unico immutabile che non è stato distrutto dal divenire è «la fede nell’evidenza del divenire», perchè, come ha visto l’attualista Giovanni Gentile, è «quell’unico immutabile che consente al divenire di mantenersi aperto come divenire» (AT, p. 123). Tuttavia, restando all’interno della fede nel divenire, nemmeno scienza e tecnica possono liberare dal dolore (FF, parte IV).
Per Severino si presentano in questo modo almeno due problemi cruciali. Da una parte l’uomo contemporaneo non può più trovare rimedio al dolore nell’Ente eterno, dall’altra si prospetta la mancanza di una vera via che permetta all’uomo di liberarsi dal dolore. Inevitabile porsi la domanda decisiva e darle una risposta fondata: cosa bisogna fare per poter esser felici?
Come vedremo, in Severino ogni sopraggiungente, quindi anche l’alienazione della verità, non è qualcosa che sarebbe potuto non apparire, ma qualcosa destinato ad apparire. Si pone allora il problema del tramonto dell’«isolamento della terra». Cosa si deve fare affinchè tramonti l’isolamento della terra (ossia il mondo del mortale separato dal destino della verità)? La soluzione del problema non può però emergere dalla risposta a questa domanda, anzitutto perchè la domanda: “Che fare?” sorge e trova risposta «soltanto all’interno della fede originaria in cui consiste l’isolamento della terra» (DN, p. 405). Non è restando all’interno dell’alienazione della verità che si può uscirne! La salvezza della verità, che è l’autentico significato del tramonto del nichilismo e dell’isolamento della terra, non è il risultato di una “mia” o “nostra” impresa.
«Nell’orizzonte della verità, “io”, “tu”, “noi” non dobbiamo far nulla» (DN, p. 407). Ma questo non vuol dire che, se «tutte le cose sono e divengono necessariamente», «non occorrerebbe più che noi prendessimo delle decisioni, nè che ci sforzassimo laboriosamente» (Aristotele, De interpr., 18b 31-33). Per Severino, neanche con questo modo di pensare si esce dal terreno del nichilismo. «Chi è convinto che non gli rimane altro che incrociare le braccia – chi cioè è convinto di poterle incrociare e di poter rinunciare ad agire –‚ se tutto accade necessariamente, costui è convinto di essere libero di incrociarle e di rinunciare ad agire, e isola dal Tutto la dimensione delle proprie decisioni» (DN, pp. 447-448). Se il tramonto del nichilismo e dell’isolamento della terra è destinato ad accadere, non solo non si deve far qualcosa, ma non si deve nemmeno rinunciare ad agire – e tanto meno ricorrere all’“attendismo”.
La verità non è qualcosa che deve essere messo in pratica; la liberazione dal dolore del mortale non è quindi la salvezza del mortale, ma ne è il tramonto. «All’essenza della verità non appartiene dunque la domanda: “Che cosa si deve fare?”, ma la domanda: “Che cosa è destinato ad accadere?”» (SFP, p. 32; cfr. anche G, pp. 73-78). Nel destino della verità, ogni cosa si inoltra nel cerchio dell’apparire necessariamente, con un ordine immodificabile e insostituibile. L’isolamento della terra e il nichilismo, che appaiono all’interno della verità dell’essere, non possono non accadere.

3. L’eternità dell’essere
Mi pare opportuno, a questo punto, esporre succintamente i tratti essenziali del pensiero severiniano dell’eternità dell’essere ovvero di quella che vorrei chiamare la metafisica futile di Severino. Ecco a quale conclusione conduce l’argomentazione severiniana ancorata al principio che l’essere è necessariamente se stesso: è immediatamente autocontraddittorio affermare che qualcosa non sia, che si dia un tempo in cui l’essere non sia (che l’essere non sia sé, ma il suo opposto); allora all’essere – e alle sue determinazioni – conviene immediatamente l’essere. «Risiede nel significato stesso dell’essere, che l’essere abbia ad essere» (SO, p. 317) e dunque non si può non dare «l’identità dell’essenza con sé medesima (o la sua differenza dalle altre essenze), ma l’identità dell’essenza con l’esistenza (o l’alterità dell’essenza dall’inesistenza)» (ibid.). L’essere non è dunque indifferente a che sia o non sia e la negazione di proposizioni del tipo «L’essere (l’intero) non diviene» («L’essere è immutabile») e «L’essere (l’intero) non si annulla, e non esce da una iniziale nullità» «è intrinsecamente contraddittoria» (SO, p. 519). La verità dell’essere, la struttura originaria della verità è appunto l’essere (l’eternità) dell’essere ed è l’apparire dell’autonegazione della negazione della verità. Propria alla metafisica futile è, dunque, la “confutazione” (l’élenchos) della negazione della verità dell’essere (del resto sia in ‘futile’ che in ‘confutare’ è presente la radice latina FU, ‘versare’). Autonegandosi, la negazione lascia stare ciò che nega. Se si tiene presente che il verbo latino destino, costruito sulla radice sta, esprime «il senso fondamentale dello “stare”» (DN, p. 131), in questo senso si può parlare di «destino della verità», per indicare  che ciò che la verità dice non può essere rimosso, smentito, e che ogni ente, persino il più insignificante, è già da sempre e per sempre sollevato nell’essere (DN, pp. 124-125).
Tutto è eterno, tenendo presente che per Severino «l’eternità di ogni ente è l’eternità di ciò che esso è nel modo in cui lo è» (DN, p. 99). Tuttavia, tutto è eterno e ogni cosa appare e scompare. Ma quest’ultima affermazione non vuol significare che tutto diviene (appare e scompare). Vi possono essere divenire e percezione del divenire soltanto se “qualcosa” non diviene. Quel qualcosa di immoto è l’apparire trascendentale: ciò che sopraggiunge e esce dallo sfondo dell’apparire (ovvero dall’apparire trascendentale) non esce dal niente e non vi ritorna. Dunque, per Severino «il divenire che appare è sempre il divenire di una determinazione particolare, o “empirica”, del contenuto che appare» (EN, p. 98). Se l’apparire empirico (l’apparire di una determinazione particolare) entra ed esce dall’apparire, l’apparire inteso «come evento trascendentale, ossia come l’orizzonte della totalità di ciò che appare» (ibid.), non può apparire e scomparire. Gli enti possono apparire solo in quanto appare l’intramontabile cerchio, l’apparire trascendentale. Allora, divenendo, l’apparire empirico entra ed esce dall’apparire trascendentale, esce dall’ombra del non apparire ed entra nella luce dell’apparire (e viceversa). La totalità dell’ente (il Tutto) appare, quindi, processualmente, non si svela totalmente nell’apparire trascendentale (l’«eterno» severiniano non è pertanto atemporale). E in G Severino afferma poi che «il cerchio originario dell’apparire del destino esiste in una molteplicità di cerchi.» (G, p. 37)

5. Libertà e necessità
Una volta affermato che qualcosa si inoltra non nell’essere, ma nell’apparire, ossia che le variabili sopraggiungono ed escono dall’intramontabile cerchio dell’apparire, Severino deve risolvere un altro problema squisitamente filosofico: il problema della libertà. Esso può essere posto in questo modo: «le varianti seguono un destino necessario, nel processo del loro apparire e sparire, oppure appaiono, ma sarebbero potute non apparire e scompaiono ma sarebbero potute non scomparire? » (EN, p. 164). È con DN, che costituisce una notevole ‘svolta’ nel pensiero di Severino, che sopraggiunge nel cerchio dell’apparire il risolversi del problema della libertà.
In DN (e prima ancora in AT, pp. 108-111) viene testimoniata l’appartenenza della libertà all’essenza del nichilismo. Proprio con quest’affermazione inizia il cap. 1 di DN: «La libertà appartiene all’essenza del nichilismo, ossia all’alienazione che, completamente inavvertita, guida e domina lo sviluppo della civiltà occidentale» (DN, p. 19). Se la contingenza dell’ente  deve essere esclusa, perchè, oltre ad ammettere la possibilità che l’essere non sia, riferisce un predicato a qualcosa che non appare, e quindi tale riferimento non può esprimere un contenuto fenomenologico, proprio per questo stesso motivo si deve escludere la contingenza dell’apparire. Severino afferma, quindi, categoricamente che «Non solo ogni decisione è eterna e tutto è già da sempre deciso, ma le decisioni che appaiono sono il destino necessario della storia e nulla accade che non sia l’accadimento del destino» (DN, p. 94). Tutto ciò che accade (anche la follia dell’Occidente) è inevitabile, necessario. «Non esiste alcuna cosa che possa sfuggire alla necessità : perchè lo sfuggirle è il negarla […] e il negarla è autonegazione» (DN, p. 124). A differenza della libertà (l’esser disponibili all’essere e al niente), la necessità non è l’essenza della servitù (non è una costrizione): «il cuore di ogni cosa è la necessità stessa della verità, che dunque non ostacola e non imprigiona le cose, ma è il luogo in cui esse sono tutto ciò che possono essere» (ibid.). Il discorso di Severino non è‚ quindi, assimilabile al fatalismo. Nel cuore della libertà – o della contingenza – dell’ente sta invece la nientità dell’ente (DN, p. 120). Tutte queste affermazioni hanno fatto dire a C. Fabro che quella di Severino è «la negazione più radicale della libertà» in cui egli si sia mai imbattuto4.
Severino ci tiene a precisare che la necessità di cui lui parla (la “necessità futile”; cfr. § 11) non ha però nulla a che vedere con la “necessità” evocata dalla cultura occidentale, perchè alla radice di quest’ultima vi è la volontà di potenza. «Nella storia dell’Occidente la “necessità” compare sin dall’inizio divisa in se stessa: come la “necessità“ degli immutabili che dominano la ribellione del divenire, e come la “necessità“ del divenire che continua a sopravvivere sotto il dominio degli immutabii dell’Occidente e prepara la loro distruzione. La volontà di potenza sta alla radice di questa divisione della “necessità“» (SO, p. 97). Entrambe le facce della medaglia della “necessità” tradizionale sono inaccetabili per il filosofo bresciano (si tratterà allora di vedere come deve essere intesa esattamente la “necessità futile” della metafisica futile di Severino).
Dato che tutti gli enti sono eterni, non è semplicemente un fatto che ognuno di essi stia insieme agli altri, ma è inevitabile che ogni ente stia insieme agli altri e che sia «un loro inevitabile compagno. È cioè impossibile che un qualsiasi ente sia, senza che un qualsiasi altro ente sia. Ad esempio, è impossibile che il cielo stellato sia e questo cantare dei grilli non sia; o che la verità dell’essere sia e la storia del nichilismo non sia» (DN, p. 113). Ogni ente è necessariamente unito ad ogni altro, ogni parte è unita al Tutto e ad ogni altra parte. Tutto ciò che appare non può non apparire. «L’apparire di tutto ciò che appare appartiene alla necessità, detta dal dire necessario […], nel senso che la negazione della necessità è autonegazione non solamente in quanto essa nega l’opposizione dell’ente al niente, ma anche in quanto essa nega l’apparire di ciò che appare» (DN, p. 129). La necessità non è soltanto che l’ente non è un niente, ma anche che l’ente appare come concreto determinarsi dell’esser ente, «è dunque l’unione tra l’opposizione dell’ente al niente e l’apparire di una molteplicità di enti determinati […]. E quell’unione è la struttura originaria della verità, ossia la struttura originaria del destino» (DN, p. 130).

6. La Gioia e la Gloria
Come visto, ciò che accade non è il prodotto di azioni, non è ciò che il mortale crede che accade;  «ma ciò che accade è il destino […] che nessun dio e nessun uomo possono “tenere” e dominare» (DN, p. 489). Per Severino, le azioni non producono le “opere storiche”. «Le azioni sono astri eterni che chiamano, perchè si svelino, altri astri eterni. La “storia” è la risposta a questa chiamata. È l’intreccio del chiamare e del rispondere» (FF, p. 271). In quanto non ottiene ciò che essa vuole, la volontà fallisce nel suo intento di essere volontà, non riesce cioè ad essere volontà. Allora, avvalendosi di un verso di Eschilo (Prometheus, v. 314)5, Severino può rilevare che la téchne è molto più debole della necessità.
Ciò che manca alla volontà isolante per essere volontà – e al voluto per essere voluto – è il destino della verità. Esso è quindi eternamente ciò che la volontà non può mai riuscire ad essere. «Solo il destino è la volontà perfetta» (DN, p. 581). Nello sguardo del destino (eternamente apparente), la volontà è apparire e può volere soltanto il necessario e l’eterno: può volere soltanto ciò che è necessità che appaia, che è necessità che sia voluto. Nel cerchio dell’apparire, il destino della verità appare contrastato dall’isolamento della terra. Ma questo contrasto (questa contraddizione) appare come negato. È necessità che appaia come negato; «e questa negazione è essa stessa un tratto della necessità del destino. La volontà del destino è quindi volontà che vuole la negazione del contrasto tra il destino e l’isolamento, cioè vuole il completo tramonto dell’isolamento della terra» (DN, p. 583). Ed è necessità che (anche) questa volontà ossia che il destino appaia. La volontà del destino vuole il tramonto della volontà dell’isolamento della terra. L’apparire di questa volontà è  l’apparire della necessità del tramonto dell’isolamento, che è il tramonto dell’alienazione del destino della verità. E «proprio perchè ciò che appare è il destino, la volontà che vuole il destino» «è la volontà che ha già da sempre ottenuto ciò che essa vuole» (DN, p. 582). Nel discorso non finalistico di Severino, l’isolamento della terra è quindi già da sempre tramontato, oltrepassato – ma esso, nel cerchio finito dell’apparire, contrasta il destino della verità (il dolore «è eternamente oltrepassato dalla Gioia» (PM, p. 105)).
Inoltre, non solo la contesa tra il destino e l’isolamento della terra è già da sempre tramontata, «ma ogni contraddizione è già da sempre oltrepassata»(DN, p. 588). Prima di vedere come viene precisata questa tematica nel volume La Gloria, va rilevato che  ogni contraddizione appare (come negata e, insieme, come non oltrepassata) nel cerchio finito dell’apparire, che non può essere l’apparire del Tutto. Infatti, «l’apparire del Tutto è l’apparire dell’oltrepassamento di ogni contraddizione e, appunto per questo, apparire infinito» (DN, p. 589). L’apparire infinito del Tutto è il contenuto del cerchio finito dell’apparire nel suo aver già da sempre oltrepassato ogni contraddizione che avvolge tale contenuto in quanto finito. E questo contenuto è il destino, che, come contenuto finito, è la propria incapacità ad esser se stesso e che, nel suo aver già da sempre oltrepassato la totalità della contraddizione che lo avvolge in quanto contenuto finito, è se stesso. «II Tutto non è semplicemente altro dal contenuto del cerchio finito dell’apparire, ma è ciò che in verità questo contenuto è. In verità – cioè al di fuori del suo contraddirsi. II Tutto è l’esser se stesso del cerchio dell’apparire del destino» (DN, p. 590).
Ogni contraddizione è da sempre e per sempre un passato. Lo stesso mortale, in quanto contrasto tra il destino della verità e l’isolamento della terra, è già da sempre oltrepassato. E il mortale è appunto questo oltrepassamento: il Tutto è ciò che in verità il mortale è. Il Tutto è l’inconscio più profondo del mortale. Poichè ogni dolore, ogni pena è una contraddizione, il Tutto, come oltrepassamento di ogni contraddizione del finito, è la Gioia. E, quindi, la Gioia è l’inconscio più profondo del mortale.
In G, che costituisce la risoluzione di Destino della necessità, Severino arriva a dire che «la terra, inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è destinata all’oltrepassamento della solitudine: il destino della verità è destinato a manifestarsi non contrastato dall’isolamento della terra. Questa destinazione appartiene al destino. Il disvelamento della Gioia, nel suo esser libera dal contrasto con la solitudine della terra, è la Gloria.» (G, p. 30) Ma la ‘buona novella’ (mi sia consentita l’espressione…) non finisce qui. Anzi, l’evoluzione (infinita?) del pensiero dell’eternità dell’essere fa entrare nel cerchio dell’apparire un ulteriore tassello dello stare della verità:  «la Gloria è il dispiegamento infinito, nel cerchio finito dell’apparire del destino, del suo essere già da sempre totalmente dispiegata nell’apparire infinito della Totalità dell’essente. Il culmine della Gloria è dunque il dispiegamento infinito della terra oltre la solitudine della terra.» (G, p. 32)
La Gloria che compete al cerchio finito del destino «è la necessità che ogni luogo raggiunto dalla terra sia oltrepassato e che dunque sia oltrepassato anche il luogo in cui consiste la solitudine della terra.» (G, p. 92)
Dunque, con La Gloria viene palesato l’oltrepassamento infinito proprio all’apparire e allo scomparire degli eterni: «Poiché è necessario che ogni luogo incontrato dalla terra – ogni eterna configurazione o fase della terra – sia oltrepassato, il dispiegamento della terra nel cerchio del destino è infinito; e quindi, dopo l’apparire di una qualsiasi configurazione, un’infinità di configurazioni della terra attende ancora di entrare nel cerchio del destino. E l’infinità di configurazioni che la terra è destinata a manifestare è a sua volta una parte del Tutto, ossia dell’eterno oltrepassamento concreto della totalità delle contraddizioni, nel quale consiste l’apparire infinito.» (G, p. 153)
Mi pare poi opportuno notare  anche che   per Severino «La Gloria non è una beatitudine futura che ancora attenda di essere: il dispiegamento infinito della terra è già, eternamente; e tuttavia è destinato a inoltrarsi nel cerchio dell’apparire del destino (e nella costellazione infinita dei cerchi) lungo un percorso che non è mai compiuto. Essere la Gloria significa, per ogni cerchio dell’apparire, essere questo disvelamento infinito del dispiegamento eterno della terra – che peraltro appare già eternamente nell’apparire infinito del Tutto, sì che in quel disvelamento non incomincia ad essere nemmeno l’apparire del dispiegamento infinito […] nello sguardo del destino della verità la Gloria di ogni cerchio del destino è insieme la Gloria di ogni altro cerchio. Essere la Gloria significa essere la costellazione infinita dei gloriosi» (G, pp. 155-156)

7. Il non-nonessere
Che ne è della radicale riforma antropologica operata da Severino? Gli scritti severiniani non dicono all’uomo cosa debba fare, come agire, in quanto «è impossibile agire ‘conformemente’ al destino della verità, perché l’agire stesso, in quanto tale, è difformità dal destino, ossia è l’illusione che, all’interno della terra isolata, ha fede nel proprio essere un io che ha la capacità di far diventar altro le cose della terra.» (G, p. 77)  Tutto accade necessariamente e «Già da sempre esiste dunque, ed appare, la totalità dei dolori e dei piaceri, dell’angoscia e della felicità che sono destinati a manifestarsi lungo il sentiero della solitudine della terra, e dei quali è per lo più portatore l’io dell’individuo. Ciò significa che all’Io finito del destino (ma anche all’io dell’individuo, e, poi, a ogni forma dell’io e ad ogni essente) non può accadere nulla che egli non sia già.» (G, p. 63) Carlo Levi direbbe che pertanto, non si tratta di dover agire, quanto di lasciar scorrere o fluire le cose. Vediamo come l’intellettuale torinese è arrivato ad un’argomentazione così radicale. È bene dire che l’ha fatto riferendosi al concetto di “futilità”.
I libri più prettamente filosofici di Levi sono il primo e l’ultimo da lui scritti: Paura della libertà e Quaderno a cancelli. Paura della libertà è stato pubblicato nel 1946, sebbene Carlo Levi l’abbia scritto «sette anni»6 prima, ossia in Francia, nel 1939. (Nel 1964 l’autore vi aggiunge un ulteriore capitolo: “Paura della pittura”, scritto nel 1942.) Questo libro, che Levi considera un «poema filosofico»7, è quindi stato scritto prima ma pubblicato dopo il più celebre Cristo si è fermato a Eboli8 (1945).
Da cosa ha origine l’individuo? Nel suo poema filosofico Levi risponde a questo quesito parlando della “massa”: «Più antica di ogni ricordo, più vaga di ogni speranza, più lontana della nascita, sta in tutti i cuori una oscurità illimitata […] zona nera di eterna passività, necessario nulla, dalla cui contraddizione hanno origine le cose, smisurata e senza termini» (PL, p. 105). Con un’arguta argomentazione che ricorda l’idealismo hegeliano e l’attualismo gentiliano, autori letti o riletti durante la sua detenzione nelle carceri torinesi9 perché legato all’area antifascista, Levi sviluppa questo discorso dicendo che ciò da cui l’uomo ha origine, la massa, è «un assoluto illimitato, e perciò inesistente, come il suo opposto, l’assoluta finitezza»; si tratta di «un concetto che contraddice se stesso», «è il nulla» (PL, pp. 105-106).
Da questo nulla, da questo «caos», nasce ogni individuo. L’uomo «viene dalla massa per differenziarsi» (PL, p. 23). La massa, dunque, è la condizione prima di ogni individualizzazione (o differenziazione, o rinascita). Levi la considera anche la  « forma delle forme»,  «quella forma che sta sotto a tutte le forme e che le comprende tutte, che non ne ha nessuna in modo determinato, ma che ha la possibilità di tutte le forme»10.
In Quaderno a cancelli11 Levi denomina «la pura Probabilità, o Futilità» (QC, p. 110) il punto da cui si origina il processo di individuazione visto che il risultato specifico di tale processo (il punto di arrivo) è ‘aperto’: «tutto è realmente possibile» (Cristo, p. 98). L’indeterminato, il concetto che contraddice se stesso, sembra essere il non essere, il cui opposto è l’essere. In realtà la massa (o l’indistinto originario) è la sintesi di essere e non essere, cioè un’entità che «è e non è insieme, e il suo non essere non ha per opposto l’essere, ma tutt’al più un non-nonessere (di cui non vedo il significato) : essa insieme, non dialetticamente, non è e non-non è» (QC, p. 110). Infatti, come dice  Hegel nella Scienza della logica, il puro essere ed il puro niente è lo stesso; l’inizio contiene dunque entrambi, l’essere e il niente: l’unità di essere e niente.
A quello di non-nonessere (alla massa) Levi associa il concetto junghiano di «indistinto originario»: «Esiste un indistinto originario, comune agli uomini tutti, fluente nell’eternità, natura di ogni aspetto del mondo, spirito di ogni essere del mondo, memoria di ogni tempo del mondo. Da questo indistinto partono gli individui, mossi da una oscura libertà a staccarsene per prender forma, per individuarsi – e continuamente riportati da una oscura necessità a riattaccarsi e fondersi in lui. Questo doppio sforzo sta fra due morti: la caotica prenatale, e il naturale spegnersi e finire. Ma morte vera è soltanto il distacco totale dal flusso dell’indifferenziato, vuota ragione egoistica, astratta libertà – e, all’opposto, l’incapacità totale a differenziarsi, mistica oscurità bestiale, servitù dell’inesprimibile» (PL, p. 23).
L’uomo può ritenersi ‘vivo’ quando prende le mosse dalla massa e le dà forma, senza però approdare nel suo opposto, l’astratta determinatezza : «i soli momenti vivi nei singoli uomini, i soli periodi di alta civiltà nella storia, sono quelli in cui i due opposti processi di differenziazione e di indifferenziazione trovano un punto di mediazione, e coesistono nell’atto creatore» (ibid.). Per Levi, l’animo umano oscilla tra l’indeterminatezza (la massa) e la determinatezza (l’individualità). E la dialettica massa-individualità ha una valenza storica e sociale, oltre che esistenziale: «Quello che è vero per l’individuo, è vero per la società e per lo stato» (PL, p. 55). Allora, il tendere come anche l’aver teso verso la categoria dell’indeterminatezza oppure della determinatezza concerne non soltanto la vita del singolo (la storia individuale), bensì altresì la storia del genere umano.
Un individuo – e un popolo, ed il genere umano – fruisce di autentica libertà nel preciso momento in cui riesce – creativamente – a mediare gli opposti differenziazione-indifferenziazione, a dare forma all’informe. La sintesi degli opposti (la ‘doppiezza nell’unità’), il processo di individuazione, funge da garanzia di libertà ed autonomia.

8. Opposizione tra arte e religione
Levi carica il processo di individuazione di valenze filosofiche e psicologiche. Ma non solo. Esso va infatti rapportato ai concetti di ‘sacro’ e di ‘religioso’: «non potremo intendere nulla di umano se non partiremo dal senso del sacro: il più ambiguo e profondo e doppio e vermaquilino dei sensi, l’oscura continua negazione della libertà e dell’arte, e, insieme, per contrasto, il generatore continuo della libertà e dell’arte. Né potremo intendere nulla di sociale se non partiremo dal senso del religioso, questo figlio poco rispettoso del sacro.» (PL, p. 21)
Il sacro e la religione non coincidono. Anzi, essi costituiscono un’altra coppia di opposti: mentre la prima dimensione connota l’informe e l’indistinto, la seconda ha una valenza negativa in quanto determinazione astratta e mutazione del «sacro in sacrificio» (ibid.). Tanto il sacro quanto la religione sono dei mezzi del processo di individualizzazione, ma ognuno in un diverso e opposto modo. «Il senso, e il terrore, della trascendenza dell’indistinto, lo spavento dell’indeterminato in chi è nello sforzo di autocrearsi e di separarsi, questo è il sacro.» (PL, p. 24)  Significativo il riferimento leviano allo sforzo di autocrearsi e di separarsi, ossia alla creazione. Per scoprire se stesso e il mondo, per autocrearsi, l’uomo deve partire dal caos (dal disordine, dall’informe) per generare il cosmos (l’ordine). L’uomo ha da essere ‘creatore’, ossia – platonicamente – Demiurgo, cioè Artista (Artigiano). Nei suoi scritti Levi ricorre, come Alain, a termini come ‘produttore’ o Contadino per designare la sua visione dell’individuo ‘sano’ che, in quanto tale, non ha reciso – e tanto meno ha intenzione di recidere – il cordone ombelicale che lo lega all’indistinto originario.
Al processo creativo fa da ostacolo la religione.  «Religione è la sostituzione all’inesprimibile indifferenziato di simboli, di immagini reali e concrete, in modo da relegare il sacro fuori della coscienza, porgendo ad essa degli oggetti finiti e liberatori.» (PL, p. 24)  La religione non mira a favorire l’invenzione della verità e la libertà dell’uomo. Al contrario, essa è  «un mezzo che tende, per liberare lo spirito dal senso terrificante della trascendenza, a sostituirla con simboli visibili, idoli.» (ibid.) Dal punto di vista storico, con questa operazione si è dato concretamente il via libera alla tirannide, alla divinizzazione (deificazione) dello Stato, alla hegeliana superiorità dello Stato sull’individuo. La religione protende essenzialmente a far obliare l’indistinto originario, l’autentico punto di partenza di ogni creazione, della libertà creatrice.
La libertà umana non può né consistere  «nella sostituzione all’uomo del suo simbolo, del suo idolo» (PL, p. 25) – ossia nella deificazione dello Stato –, né tanto meno nell’individualismo astratto in cui non si dà alcun senso di comunità o Stato. La libertà dell’uomo implica il continuo (o ciclico) ritorno ad un indistinto originario il cui oblio implica lo staticizzarne il fluire eterno. Queste prerogative vengono salvaguardate dall’arte, che è allora autentica espressione della libertà creatrice dell’uomo.
Dunque, l’affermazione e la determinazione dell’uomo possono avvenire – e di fatto sono avvenute nel corso della storia – in due modi radicalmente diversi: sotto la spinta della religione oppure della poiesis.  «La storia non è che la vicenda eterna del faticoso determinarsi della massa umana, e del suo risolversi in stato, poesia, libertà, o del suo celarsi in religione, rito, costume; e del ricrearsi continuo della massa dall’inaridire degli stati, dal cristallizzarsi delle religioni.» (PL, p. 106)  Le due possibilità di concretizzazione del processo di individualizzazione di cui parla Levi, con evidenti riferimenti al pensiero vichiano, non possono realizzarsi allo stesso tempo, pena la contraddizione. Infatti, mentre la religione  «è la limitazione simbolica dell’universale»,  «è la manifestazione certa di una servitù liberatoria e divina»,  «è rituale fisso», l’arte non può che essere «l’espressione concreta» dell’universale,  «la voce stessa della libertà umana»,   «mitologia». Date queste premesse, Levi non può che trarre la seguente conclusione:  «L’espressione religiosa è dunque l’opposto della espressione poetica» (PL, p. 69). Ricorrendo al religioso, l’uomo si appiglia alla  «certezza», ad una realtà  «trascendente e permanente», caratterizzata dall’immutabilità (PL, p. 71).
Tuttavia proprio l’immutabilità risulta essere espressione di inautenticità non consentendo all’uomo di essere ‘umano’, di essere cioè se stesso e perciò è fonte di alienazione. Invece l’espressione artistica è indice di  «creazione»(PL, p. 73) e libertà, ossia propriamente di mutevolezza e divenire. La religione limita la creazione e la libertà umana (impone loro dei limiti determinati, fissi); l’idolo, la divinità immutabile, impone la sua legge alla libertà e alla creatività, riducendole così in schiavitù, non facendole più essere autonome.  «Figurazione religiosa ed espressione artistica sono antitetiche: questa, creazione tutta umana, non conosce altra legge che la propria e implicita ed eternamente mutevole, anche quando raffiguri gli oggetti della religiosità: quella ha per suo compito di relegare l’arte sull’altare della certezza e della durata, di legarla nei suoi stessi schemi, perché essa continui; di sacrificarla, acciocchè essa possa diventare un legame simbolico, e quindi una pratica comunicazione tra gli uomini. L’opposizione è quella di creazione e di limite» (PL, pp. 72-73) (perciò, precisa Levi, non esiste,  «a rigore, un’arte religiosa: contraddizione in termini» (PL, p. 70)).

9. La morte degli dei (il Naufragio del Piloro)
Come detto, per Levi l’espressione artistica  «non conosce altra legge che la propria»: l’arte non è soggetta a nessuna legge estrinseca, non è soggetta ad altra legge che la propria, ed ubbidisce unicamente ad essa. Levi precisa che questa legge consiste nella libertà creatrice che prende le mosse dall’eterno fluire e dalla mutevolezza e che conserva queste peculiarità dell’umano. In altri termini, arte è sinonimo di divenire. In quanto tale, per usare una felice espressione di Gustavo Bontadini,  «il divenire come legge nega ogni legge del divenire, ogni legge che determini il contenuto del divenire.»12  Se l’arte si rifacesse ad una legge diversa dalla propria, se venisse inquadrata in schemi fissi, essa cesserebbe di essere libera (creazione). La sua legge (o autonomia) non le può consentire di accettare nessun’altra legge all’infuori della propria, ma, anzi, le impone di liberarsi da ogni altra imposizione, di distruggere ogni altra legge. Altrimenti l’arte non sarebbe arte, l’umano non sarebbe umano, ossia libertà creatrice e divenire. Il rifiuto della religione, la nietzscheana distruzione degli dei («Dio è morto») ovvero, per utilizzare la terminologia di Emanuele Severino, la distruzione degli immutabili è dunque necessaria perché essi – come visto – rendono impossibile o illusorio il divenire, la libertà. Soltanto con la distruzione degli immutabili (degli dei) sono possibili l’arte e l’individuo, è possibile forgiare (determinare) in modo originale e  ‘concretamente’ l’indeterminato. Con la morte degli dei è possibile creare od inventare la verità13. È questa la conclusione a cui perviene Carlo Levi fin da Paura della libertà. (Questa profonda tesi racchiude la chiave di lettura delle scelte e delle opere del Levi scrittore, pittore e politico.)
L’arte, di cui Croce proclama l’autonomia, non può quindi essere asservita e assoggettata. E ciò vale per qualsivoglia disciplina e dimensione umana. Il ‘detto’ che sintetizza alla perfezione il pensiero leviano è: «muoiono gli dei, si crea la persona umana» (PL, p. 134).
Per liberare l’uomo dalla paura della libertà, per salvare la libertà (filosoficamente, per ‘salvare i fenomeni’), Carlo Levi afferma coerentemente la necessità di negare gli dei immutabili. Difatti il divenire come legge nega ogni legge del divenire, cioè ogni legge che determini il contenuto del divenire, perché altrimenti il divenire sottosta ad una legge a lui estrinseca che gli impedisce di essere espressione di creatività, libertà e novità:  «perché l’idolo viva, ogni azione autonoma è sacrilega e mortale: solo è necessaria la obbedienza» (PL, p. 113). Dunque, l’idolo (la religione, lo Stato, ecc.) dice a ciò che è ancora informe come deve essere formato, a ciò che è come deve essere oppure non essere, impedendo ogni possibilità di libertà creatrice. Nel caso del dio Stato,  «la sua lingua è legge, e ogni legge è religiosa: poiché non è la norma interna di un’azione singola; ma la norma esterna e arbitraria di ogni possibile azione […]. Ogni autonomia, ogni atto creatore, è per sua natura, fuori di questa legge, nemico dello Stato, sacrilegio.» (PL, p. 112)  La filosofia  dello  scrittore piemontese non potrebbe essere meno esplicita e limpida su questo punto!
La conclusione che si prospetta? Se ci si affida agli dei  «finisce la libertà della legge morale interna alle cose, per iniziarsi la servitù della legge esterna, della legge religiosa» (PL, p. 121).
In uno scritto14 successivo a Paura della libertà Levi ritorna sul tema della morte degli dei descrivendo minuziosamente i vari elementi raffigurati in quadri e disegni concernenti il “Naufragio del Piloro”: «Un oceano artico, con balene, iceberg, gabbiani, pesci, foche, e poi onde nascenti, fino alla tempesta; e una nave [il Piloro], prima dolcemente navigante nella calma del mare, con tutte le sue vele gonfie; e poi il vento, il fulmine, l’albero maestro spezzato, le barche di salvataggio inutili, gli uomini vanamente cercanti scampo nel mare terribile, la poppa che si solleva mentre la nave precipita nell’abisso.» (corsivo mio)
Tuttavia il Naufragio del Piloro non si limita semplicemente a rievocare l’inabissamento di una grande nave. Oltre al senso letterale, affiora quello simbolico. Ciò che viene inghiottito dalle onde del «mare terribile» è sì una nave, che Ercole Levi, padre di Carlo, denominò il Piloro; ma Carlo Levi puntualizza che «il piloro era essere Padre» (questa la dimensione psicologica della tematica in questione). Non solo. Egli rileva inoltre che quel disegno simboleggia l’«infinita possibilità di creazione del reale» e gli fa vedere, «con estasi e rapimento, la realtà farsi, sotto le mani, forma e figura»; e insieme gli fa accorgere «con dolore, repulsione, angoscia, dell’errore, della contraddizione, della volgarità inespressiva che sta dentro la realtà, e nega la poesia.»15
Nel Naufragio del Piloro Levi rappresenta , quindi, in modo simbolico oltre che figurativo, la morte degli dei, la nietzscheiana ‘morte di Dio’. Il divenire è ovviamente rappresentato dal mare. Inizialmente, sotto la dominazione degli dei immutabili, è la calma del mare a regnare; è cioè l’immutabile a dominare le onde del mare. Ma il mare non può essere continuamente calmo, la sua forza ed il suo flusso non possono essere arrestati assolutamente. Ecco emergere pertanto le onde nascenti, indicanti l’affievolirsi della paura della libertà. La ribellione del divenire agli immutabili che intendevano farlo scomparire (negarlo) è a quasto punto inarrestabile: inevitabile la tempesta, lo spezzarsi dell’albero maestro, l’inabissamento della  nave. Gli dei sono troppo più deboli del divenire.
Ritengo pertanto che Carlo Levi vada forzatamente annoverato tra i pensatori moderni che, come vuole Severino, hanno espresso la necessità della distruzione degli immutabili. Oltre a Nietzsche, Leopardi e Gentile, autori ai quali si riferisce il filosofo bresciano, va aggiunto Carlo Levi.

10. Avvenimento versus azione
Per Severino, credendo nel divenire delle cose il mortale, avendo preteso recidere il cordone ombelicale che lo lega necessariamente al destino della verità, crede anche di manipolarle e di distruggerle. Vive conseguentemente nell’alienazione costituitata dal nichilismo (ossia il “Venerdì Santo” che precede la “Pasqua”).
Per Levi, l’uomo che si libera dagli dei non si separa da sé, non si aliena. Al contrario, riconquista l’immortalità ed il paradiso perduti vivendo  «in un tempo ritrovato, dove non vi è prima e poi, giorno e notte, ma dove ogni attimo è eterno»(PL, p. 125). Avendo ritrovato il tempo originario (o perduto), proprio alla massa (all’indistinto originario) e pertanto da identificare con   «l’eternità» o forse con   «il nulla» (Or., p. 15), l’uomo è libero di creare. Ne L’Orologio16, Levi qualifica con l’appellativo di Contadini gli individui « che fanno le cose, che le creano, che le amano »(Or., p. 166). Il Contadino ovvero l’Artigiano / Demiurgo di Platone dà ordine al disordine percependo (vivendo e pensando) il tempo vero, immagine dell’eternità,  «immagine pura di un fluire eterno» (Or., p. 10) ed unica garanzia della vita(lità) dell’individuo. Al Contadino si oppone il Luigino, il parassita che, obliando «l’oscuro fondo vitale di ciascuno di noi» (Or., p. 165) e non creando, per vivere si nutre di chi produce. L’etica dei Luigini si distingue nettamente da quella dei Contadini. E questa opposizione si basa su una diversa percezione del tempo. I Luigini sciolgono il legame che lega ogni essere all’indistinto originario e in questa maniera frazionano l’unità originaria e, dunque, il tempo immagine pura di un fluire eterno. Di conseguenza si affidano al ritmo matematico dell’orologio senza comprendere di vivere nell’alienazione della verità, di intraprendere il sentiero dell’alienazione. I  «due tempi» seguono  «un altro ritmo» ed obbediscono «ad altre leggi». Essi sono, «fra loro, incomunicabili» e già in Cristo si è fermato a Eboli, Levi rileva che essi danno luogo a due opposte civiltà (Cristo, p. 72).
Ma la distinzione tra due atteggiamenti esistenziali opposti figura già in Paura della libertà, proprio dopo che Levi ha trattato dell’indistinto originario. Lo scrittore torinese distingue l’«azione» dall’«avvenimento»: l’azione è «frutto della differenziazione completa: l’individuo, staccato dal tutto, si muove per darsi forma, e il suo movimento è incomprensibile se non a lui.» (PL, p. 23 (corsivo mio)) L’azione concerne quindi i Luigini (o, nel caso di Severino,  gli abitatori del tempo). «L’avvenimento è invece il prodotto dell’attività umana in quanto creatrice, ricca cioè nello stesso momento di differenziazione e di indifferenziazione, di individualità e di universalità[…], libera insieme e necessaria» (PL, pp. 23-24). L’avvenimento è pertanto proprio al Contadino, all’individuo vero.
Pur non anticipando la concezione severiniana dell’eternità dell’essere, le considerazioni leviane sulla dimensione temporale individuano l’importanza del concetto di eternità e della conseguente necessità di distinguere due opposte concezioni del tempo fondanti, ciascuna, un’etica diversa. In effetti, il tempo dell’orologio è l’opposto del tempo vero, della contemporaneità dei tempi: se nella dimensione meccanica del tempo si può distinguere il ‘prima’ dal ‘poi’, nella dimensione durativa del tempo – simile alla crociana contemporaneità ed alla bergsoniana durée réelle –  i tre tempi (passato, presente e futuro) esistono contemporaneamente (sviluppando le considerazioni sul tempo fatte da Sant’Agostino sulla base della teoria platonica del tempo immagine dell’eternità17, Levi avrebbe potuto dire che essi sono presenti, allo stesso tempo). Il tempo meccanico  «non fluisce, ma scatta in una serie di atti successivi, sempre uguali e monotoni»(Or., p. 11). Indubbio, allora, che il Luigino non può assolutamente essere un creatore.

11. La «necessità futile»
Le riflessioni contenute in Paura della libertà ritornano, come ha ammesso lo stesso autore, nei suoi successivi libri. Il cerchi si chiude con Quaderno a cancelli, l’ultimo libro scritto da Levi. In questa sorta di zibaldone, scritto in stato di cecità, Levi passa in rassegna varie tappe della sua vita, riespone ed ‘aggiorna’ molti aspetti e temi centrali del suo pensiero, della sua posizione filosofica.
Anche in Quaderno a cancelli egli parla dell’  «infinito ritorno a un indistinto anteriore prima del tempo […] fatto di archetipi prima di ogni possibile trasgressione» (QC, p. 222; chiaro il riferimento alla teoria junghiana degli archetipi) come anche della massa da cui ha origine la persona umana. Ora, come visto, questo punto di partenza viene denominato  « la Futilità » o anche la  «pura Probabilità» che  «è e non è insieme, e il suo non essere non ha per opposto l’essere, ma tutt’al più un non-nonessere» (QC, p. 110). Ma nella realtà dominano la divisione e la separazione del contemporaneo che hanno dato inizio al tempo degli dei. In Paura della libertà Levi fa riferimento al Paradiso perduto ed in Quaderno a cancelli si riferisce particolarmente alla rottura della  «naturale unità della sfera materno-filiale» (QC, p. 29), alla Morte della Madre. In entrambi i casi si tratta del distacco dal tempo prima dei tempi e della conseguente perdita dell’immortalità da parte dell’uomo. La vera differenza tra i due libri (il primo e l’ultimo di Carlo Levi) consiste nel fatto che mentre il primo   «non è solo un lamento funebre sulla civiltà che scompare, ma anche un volume folto di idee sulla rinascita e la riscoperta della civiltà»18, ossia indica all’uomo il sentiero del Giorno, il secondo libro non ritiene più recuperabile – quanto meno per l’autore – l’immortalità perduta. Inevitabile, quindi, l’attardarsi sul sentiero della Notte19.
Le affinità con il pensiero severiniano non devono sorprendere più di tanto. Infatti, la loro riflessione trova il suo fulcro da una parte nell’eternità e nell’unità del tutto, dall’altra nella critica della civiltà che ha voluto dividere l’indivisibile. Entrambi i pensatori si oppongono alla concezione classica del tempo implicante il “prima” ed il “poi” poichè questa interpretazione ‘malata’ della dimensione temporale implica uno stile di vita alienato, in quanto in tal modo l’uomo recide (o crede di recidere) il cordone ombelicale che lo lega all’eterno, dimentica cioè che l’inconscio dell’inconscio è costituito dall’eternità dell’essere. Al di là (o al di sotto) del tempo meccanico esiste il tempo vero, immagine pura di un fluire eterno (per Levi) o apparire e scomparire dell’eterno (per Severino). La dimensione psicologica affiora esplicitamente sia in Levi che in Severino ed entrambi propongono una concezione della felicità analoga a quella plotiniana, secondo cui l’uomo o, meglio, la parte superiore dell’anima umana, risiede stabilmente nell’intellegibile (nell’eterno), fonte di felicità: per Severino, l’uomo è da sempre e per sempre ancorato all’eterno (è eterno), alla gioia, perfino nell’oblio della verità dell’essere; per Levi, la felicità «è vano cercarla: perché non è raggiungibile che da chi ce l’ha»(QC, p. 203). Ed in Cristo si è fermato a Eboli parla in questi termini della sua consapevolezza dell’essere ancorato all’indistinto originario e della felicità che ne deriva: «Mi pareva di essere staccato da ogni cosa, da ogni luogo, remotissimo da ogni determinazione, perduto fuori del tempo, in un infinito altrove. Mi sentivo celato, ignoto agli uomini, nascosto come un germoglio sotto la scorza dell’albero: tendevo l’orecchio alla notte e mi pareva di essere entrato, d’un tratto, nel cuore stesso del mondo. Una felicità immensa, non mai provata, era in me, e mi riempiva intero, e il senso fluente di una infinita pienezza.» (Cristo, pp. 198-199)
Non è casuale che i due pensatori italiani considerino «invidiosi» (AT, p. 22) e «gelosi» gli dei dell’Occidente (QC, p. 208) che negano l’eternità agli altri esseri per farne una prerogativa esclusivamente loro. Essi si scagliano contro gli dei del Possesso, contro i Padroni che considerano tutti gli altri esseri dei servi. Non per niente, i due filosofi ‘antitradizionalisti’, seppure su una base in parte diversa, sono concordi nel ritenere che non ci si possa impossessare delle cose, parlarne come di qualcosa di ‘mio’ o di ‘tuo’. Levi si rifà sintomaticamente ad una realtà concreta, alla lingua Ronga : «Nella lingua Ronga / non puoi dire mio / così nessuno può offenderti nelle cose / nè privarti di quello che non hai. / Non un uomo, molto meno un dio / parola svanita di inchiostro / dove il pane non è nostro / e nostro non può essere il  Padre» (QC, p. 22).
Alla logica del possesso e dell’utile, tanto Severino quanto Carlo Levi  antepone la logica del futile:  «ma la Futilità / non è utile nè inutile / non appartiene e non possiede / non serve  (non è serva) / non è tenuta e non tiene / a nessuna di queste cose pertiene.» (QC, p. 25)  Ogni ente è se stesso, è eterno. Nessuna gerarchia ontologica è pertanto ammissibile. E nessuno (nessun eterno) può appropriarsi dell’eterno. Pertanto,  Emanuele Severino non può che essere considerato, insieme a Carlo Levi20,  un assertore del pensiero futile: per entrambi si tratta di “lasciar scorrere le cose” (etimologicamente, “futile” significa “che lascia scorrere”: basti pensare al vaso Futile delle Vestali). Sebbene sia soltanto lo scrittore piemontese a parlare di futilità – in relazione al punto di partenza di ogni determinazione umana –, per il filosofo bresciano non si tratta di suggerire all’uomo una norma di vita. Allora, anche per Severino centrale è la nozione di  futilità. La differenza tra i due pensieri futili consiste in questo: se per Levi la futilità è il punto di partenza di un processo che sfocia nella creazione, nell’«avvenimento», nell’impegno concreto, per Severino essa costituisce vuoi il punto di partenza, vuoi il punto di arrivo del suo pensiero: tutto accade (entra ed esce dall’apparire trascendentale) secondo “necessità”.
Allora uno dei principi fondamentali del pensiero severiniano è, propriamente, quello di futilità: la futilità del tutto, ossia il necessario apparire e scomparire dell’eterno. Si prospetta quindi quello che solo in apparenza può essere considerato un paradosso (‘etico’): l’uomo guidato dal principio di futilità. Ritengo pertanto che piuttosto che parlare di neoparmenidismo – o di spinozismo –, come confermato anche dalle pagine di G prese in considerazione nel caso del pensiero di Severino sia più appropriato parlare di metafisica o pensiero futile.  Inoltre, se per etimologia ed assonanza il termine ‘fluidità’ deriva proprio da “futilità”21, non resta che opporre, al senso greco del divenire e della fluidità esplicato da Severino, il senso severiniano del divenire e della fluidità: il necessario apparire e scomparire dell’infinità degli eterni (che si oppone alla ‘modernità liquida’). Visto poi che il filosofo bresciano distingue la “necessità” di cui parla la tradizione occidentale dalla sua nozione di “necessità”, reputo che quest’ultima possa essere considerata, sulla scorta di quanto sostiene Levi in merito al non-nonessere, la «necessità futile» (QC, p. 50): propria del pensiero severiniano è da un lato la necessità della confutazione della negazione della verità, dall’altro  la necessità dell’ apparire e dello scomparire degli enti come base dell’essere dell’uomo (nel caso di Levi, proprio dell’“indistinto originario” è il necessario fluire eterno da cui deve emergere la creatività umana). Quella severiniana è quindi una necessità doppiamente “futile”.
Severino ha avuto modo di dire che «Certo, non si può rendere pietra ciò che è fluido. Questo è l’errore della tradizione dell’Occidente, che al di sopra della fluidità del mondo (e dunque riconoscendola) pone la pietra di Dio. Ma quando si riconosce che il senso greco della fluidità, cioè del divenire, è il contenuto di un sogno […], allora ciò che è impietrito è solo il sogno del divenire, è solo un divenire dipinto, e quindi, affermando l’eternità di tutte le cose, non si impietra più una fluidità reale, ma ci si trova in ac-cordo col cuore delle cose, che ‘non trema’ e che via via va mostrandosi.» (LeC, pp. 122-123) Bisogna però aggiungere che affermando l’eternità del tutto, si arriva ad affermare – conseguentemente – la futilità / fluidità del tutto (prima valenza della “necessità futile”) come anche l’inconfutabilità della verità (seconda valenza della “necessità futile”).
Pertanto, a quella che  chiamo la metafisica futile di Severino fa da controparte, parallelamente, un’antropologia futile. L’uomo è necessariamente un essere “futile”, ovverosia “inaffidabile”. Infatti, in opposizione a Martin Heidegger, che parla di “Gelassenheit”, l’uomo severiniano lascia fluire l’essere (per  Heidegger si tratta invece di lasciar essere gli enti). Di conseguenza, per Severino l’uomo  non può né agire né prendere decisioni in quanto espressioni del nichilismo dell’Occidente. L’uomo, eterna apparizione dell’essere, sa che la verità non può essere messa in pratica. A tale uomo sono poi estranee tanto la fede nel divenire quanto la fede nella verità. La futilità del tutto non è quindi una fede, bensì la verità inconfutabile.
Carlo Levi, invece, pensa ad uomo che, dopo essersi immerso nel mare della “futilità”, agisce, crea ed “inventa” la verità: l’uomo vero è un Contadino, un Demiurgo.

(Mythenstrasse 31, CH-6020 Emmenbrücke – Svizzera; sperd-to@gmx.ch)

Note

1 Cito gli scritti di Emanuele Severino utilizzando le seguenti abbreviazioni (come viene indicato, solo per gli scritti che hanno conosciuto una nuova edizione ampliata le citazioni non si riferiscono alla prima edizione, ma alla nuova edizione): AT = Gli abitatori del  tempo, 2a ed., Armando, Roma 1981; DN =  Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980; EN =  Essenza del nichilismo, 2a ed., Adelphi, Milano 1982 ; FC =  La filosofia contemporanea, Rizzoli, Milano 1986; FF = La filosofia futura, Rizzoli, Milano 1989; FM = La filosofia moderna, Rizzoli, Milano 1984; G =  La Gloria, Adelphi, Milano 2001; L =  Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992; LC =  Legge e caso, Adelphi, Milano 1979; LeC = La legna e la cenere, Rizzoli, Milano 2000; PM =  II parricidio mancato, Adelphi, Milano 1985; SFP =  Studi di filosofia della prassi, 2a ed., Adelphi, Milano 1984; SO =  La struttura originaria, 2a ed., Adelphi, Milano 1981; T =  Téchne, Rusconi, Milano 1979.
2 C. ARATA, L’aporetica dell’intero e il problema della metafisica, Marzorati, Milano 1971, p. 169.
3 Sull’umanesimo della metafisica greca, cfr. la trilogia di L. GRECCHI, L’umanesimo della antica filosofia greca, Petite Plaisance, Pistoia 2007; L’umanesimo di Platone, Petite Plaisance, Pistoia 2007 e L’umanesimo di  Aristotele, Petite Plaisance, Pistoia 2008.
4 C. FABRO, L’alienazione dell’Occidente, Quadrivium, Genova 1981, p. 151. Su E. Severino, cfr. inoltre L. MESSINESE, Essere e divenire nel pensiero di E. Severino, Città Nuova, Roma 1985; A. ANTONELLI, Verità, nichilismo, prassi, Armando, Roma 2003; L. GRECCHI, Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino, Petite Plaisance, Pistoia 2005; AA.VV., Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, Bruno Mondadori, Milano 2005; D. SPERDUTO, Vedere senza vedere ovvero Il crepuscolo della morte, Schena editore, Fasano di Brindisi 2007.
5 Su Eschilo, cfr. D. SPERDUTO, Eschilo in G. D’Annunzio, E. Severino e L. Grecchi, in AA.VV., Filosofia ed estetica, Petite Plaisance, Pistoia 2007, (Koiné, XIV), pp. 79-89.
6 C. LEVI, Paura della libertà [PL], Einaudi, Torino 1980 (1a ed. 1946), p. 12.
7 «Questo è veramente il più importante dei miei libri, nel senso che non è un racconto, e d’altra parte per me è assurda questa definizione di generi, oggi. Io stesso non saprei come definirlo; ma se vogliamo usare empiricamente un titolo, potrebbe essere un poema filosofico» (“Scuola viva: incontri con gli autori”, 1971, p. 13).
8 C. LEVI, Cristo si è fermato a Eboli [Cristo], Einaudi, Torino, 1975 (1a ed. 1945).
9 È questo il ’carcer tetro’? Lettere dal carcere 1934-1935, a cura di Daniela Ferraro, Il Melangolo, Genova 1991.
10 G. PELLEGRINI, Nel sole di Villa Strohl-Fern (Carlo Levi), Corbo e Fiore, Venezia 1985, p. 119.
11 C. LEVI, Quaderno a cancelli [QC], Einaudi, Torino 1979. A questo proposito, cfr. Carlo Levi inedito: con 40 disegni della cecità, a cura di D. Sperduto, Edizioni Spes, Milazzo 2002.
12 G. BONTADINI, Saggio di una metafisica dell’esperienza, Vita e Pensiero, Milano 1938, p. 52. Sull’attualità di Bontadini, cfr. D. SPERDUTO, Tra Gustavo Bontadini ed Emanuele Severino, “Aquinas”, XLIX (2006), nn. 2-3, pp. 671-679.
13 Cfr. D. SPERDUTO, Carlo Levi e l’invenzione della verità, “Critica letteraria”, XXXII (2004), pp. 789-796.
14 C. LEVI, Le tracce della memoria, a cura di M. Pagliara, Donzelli, Roma 2002, pp. 37-41.
15 Ivi., p. 38.
16 C. LEVI, L’Orologio [Or.], Einaudi, Torino 1989 (1a ed. 1950).
17 Cfr. D. SPERDUTO, L’imitazione dell’eterno. Implicazioni etiche della concezione del tempo immagine dell’eternità da Platone a Campanella con un saggio sulla nozione di tempo in Carlo Levi, Schena, Fasano di Brindisi 1998, pp. 41-44 e 85-109.
18 G. FALASCHI, Carlo Levi, La Nuova Italia, Firenze 1978 (1a ed. 1971), pp. 13-14.
19 Sulla ‘morte’ e sulla ‘rinascita’ in Levi, cfr. G. LUPO, Tra inferno contadino e paradiso americano: Carlo Levi, Dante e la Bibbia, “Otto/Novecento”, XXVIII (2004), n. 1, pp. 69-85 e D. SPERDUTO, La rosa bianca e la rosa nera: Il Notturno di Gabriele d’Annunzio e il Quaderno a cancelli di Carlo Levi, “Critica letteraria”, XXXIII (2005), pp. 699-714.
20 Sul pensiero futile di Carlo Levi sviluppato in Paura della libertà (1946) ed in Quaderno a cancelli (1979), cfr. anche D. SPERDUTO, La futilità del tutto. Emanuele Severino e Carlo Levi, “Sapienza”, LVII (2004), pp. 485-489.
21 Sulla “futilità” in Levi, cfr. R. GALVAGNO, Carlo Levi, Narciso e la costruzione della realtà, Olschki, Firenze 2004.

N. A. Dobroljubob – Elaborare nell’anima la ferma convinzione della necessità e della possibilità del completo declino dell’attuale ordine

N. A. Dobroljubob

«Bisogna elaborare nell’anima
la ferma convinzione della necessità e della possibilità
del completo declino dell’attuale ordine di questa vita
per avere la forza di rappresentarla poeticamente».

 

(N. A. Dobroljubob, Stichotvorenija Ivana Nikitina,
Sobr. Soc. v deviati tomach, Goslitizdat, Leningrad 1963, tomo VI, p. 167).

 

Commenta M. Bacthin (in L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi 1979, p. 301): «Alla base della letteratura progressista del Rinascimento stava questa “ferma convizione della necessità e della possibilità del completo declino dell’attuale ordine di questa vita”. Ed è proprio grazie a questa necessità e possibilità di un cambiamento e di un rinnovamento radicale di tutto l’ordine esistente che gli artisti del Rinascimento hanno potuto vedere il mondo così come hanno fatto».

Pierangelo Sequeri – Agorà / Oltre il dialogo. Sfida congiunta alle passioni tristi: seguirei la stella, non il satellite

Pierangelo Sequeri

Pierangelo Sequeri

Dialogare è bene, ma lavorare è meglio. Parlare e ragionare delle cose in cui ne va di noi e dei nostri affetti più sacri e più cari, grazie a Dio, sono cose possibili – e rimangono necessarie – anche al di fuori degli schemi previsti dalle funzioni strumentali di determinati rituali dialogici: giuridici, psicologici, diplomatici, accademici, e via discorrendo.
Le raccomandazioni e le istruzioni a riguardo del dialogo non lo sostituiscono, del resto, se non c’è. Il dialogo è un valore naturalmente: tutto, pur di scongiurare la guerra. Quando sono ridotte al dialogo, però, la cultura e la politica finiscono per mandare in scena due spettacolini ripetitivi, seppur con diversa ambizione: il dibattito metodologico (interdisciplinare, multidisciplinare, o come si vuole) e il dibattito televisivo (con tutti i suoi omologhi politicamente ed ecclesiasticamente corretti). Troppo spesso, in entrambi i casi, solo chiacchiere e distintivo.
La retorica del dialogo, che finisce per sostituire interamente il lavoro del pensiero, e si nutre di svagata indifferenza per la verità nelle cose, soffoca anche il dialogo fra credenti e non credenti (o diversamente credenti, o pensanti, o come volete voi). Nel dialogo fra ragione e fede, infatti, qualunque cosa significhi, tutti gli esseri umani sono semplicemente implicati in qualcosa in cui è in gioco – e a rischio – semplicemente l’umano. Per quanto diversamente – e oppositivamente – si posizionino, in tutta coscienza e libertà (e nemmeno questo è scontato), gli umani hanno sempre a che fare con entrambe. È lì che viviamo, moriamo, e siamo. Questa è la storia dell’uomo. E così continua ad essere. Non c’è nulla di più interessante. Al di fuori di questo nesso – così intricato, così eccitante – nessun argomento ha sapore e attrazione all’altezza dell’umano. Nemmeno il cibo, nemmeno il sesso. Neppure oggi. Lo stesso esperimento della secolarizzazione a-teistica, non riesce ad affondare la società degli umani soltanto fino a che tiene alta la sua dialettica con le parole e i gesti della religione: della cui potenza simbolica, magari surrettiziamente, si nutre inequivocabilmente. Persino dibattiti altrimenti futili – o disperati – intorno alla qualità della vita, sono nobilitati dal fatto di essere innervati da quella dialettica. Diversamente, saremmo già ridotti all’ossessione predatoria per il dominio, alla lotta per le pozze d’acqua, all’eliminazione del più debole (lo so: c’è chi ci sta lavorando, ma non disperiamo di neutralizzarlo). Dell’umanesimo, scomparirebbe la passione e persino il linguaggio.

La mia idea sarebbe quella di fare un appello all’oltrepassamento del dialogo, per passare alla cooperazione. E chi c’è, c’è. Incominciamo dagli intellettuali, che ci hanno decostruito abbastanza. Siamo a pezzi. La vacanza del pensiero è finita e l’occidentale politicamente corretto è un po’ inebetito. Le nuove generazioni incominciano a domandarsi dov’era il trucco, e intanto si agitano alla rinfusa. Dove capita, decostruiscono anche loro, a loro modo. La colpa è nostra.
C’è del lavoro urgente da fare, a parte il dialogo: riguarda beni di prima necessità per l’ominizzazione, che il mercato ha dismesso. La ripresa di iniziativa culturale del cristianesimo chiede, d’altro canto, disincanto del mondo, cultura impeccabile e passione per la cosa. Non siamo nel peggiore dei mondi possibili: sempre nella creazione di Dio, abitiamo. Devoti ossessivi e sbeffeggiatori impudenti ricavano energie parassitarie dalla nostra radiazione malinconica di fondo, che ormai si diffonde “globalmente”. E le investono su opposti estremismi, in nome della fede o della ragione, confondendo molti. In un mondo che perde logos, la reazione a catena del polemos (della guerra, della violenza, dell’aggressività di tutti contro tutti) guadagna terreno e si fa incontrollabile.
In un mondo che rimane senza l’audace e creativa testimonianza della sua comune destinazione cristologica, il politeismo degli dèi razzisti e corporativi occupa la scena. Il tentativo di annichilire il cristianesimo lavora certamente per il nichilismo – dovunque accada. Lo svuotamento dell’incarnazione di Dio fa regredire la religione e l’ominizzazione: indisgiungibilmente. Per questo, noi per primi ci dobbiamo purificare col fuoco, pur di restituire all’evangelo il suo onore. Non solo la sua verità. L’Occidente, del resto, ha covato a lungo il suo uovo di serpente. Puntuale, arriva la sua morìa dei primogeniti. L’autorealizzazione narcisistica (ce n’è un’altra?) rende infelici. L’infelicità può reggere alla penuria di benessere: ma non all’incredulità nei confronti della differenza del bene e del male, o all’indifferenza della vita e della morte. È così fin dall’inizio.
Mi espongo all’azzardo. Il banco di prova che misura la serietà intellettuale della cooperazione di religione e pensiero si può condensare in quattro idoli da sfidare in campo aperto, come Elia, che non guarda in faccia alla sfrontatezza dei sacerdoti di Baal, né alla vigliaccheria di Acab, che vi espone il popolo di Dio. Non sono semplicemente temi da sviluppare, fra gli altri. Sono bastioni da abbattere, luoghi comuni da disinnescare con perfetta ironia del logos: senza “se” e senza “ma”. Pura deontologia dell’onestà intellettuale, con soave letizia dell’annuncio evangelico e della testimonianza contraria. Li enuncio sinteticamente.

Il primo idolo è l’esistenza separata di un mondo giovanile: con logiche proprie, desideri propri, organizzazione propria, irresponsabilità propria. In pochi decenni, questa invenzione (essenzialmente mercantile) ha generato, per contraccolpo, l’universo tignoso della competizione senile: incorporazione di un’adolescenza infinita, scarso interesse per il lavoro della generazione, ricerca di complicità nel godimento e difesa corporativa del potere. I giovani non hanno guadagnato nulla da questa scomposizione, in un primo momento oggetto degli ammiccamenti compiaciuti di una classe intellettuale frustrata dalle sue rivoluzioni mancate. I giovani hanno incominciato a rendersene conto. L’ammiccamento del mercato, almeno, adesso è più scoperto. È l’ora della desublimazione: l’ultima frontiera del freudismo alla rovescia. Essere giovani significa poter godere sessualmente, in qualsiasi forma: senza cura per la generazione e senza fatica della dissimulazione. Essere se stessi, come si dice, senza orpelli ideologici. Caspita. Un piccolo passo per un giovane, un grande balzo per l’umanità. Sulla soglia di questa regressione, per “rimanere giovani” a loro volta, si affollano pateticamente gli adulti (anche quelli apparentemente più pensosi). L’ultimo atto di questo abbandono dell’uomo senza età al mito dell’orda primitiva, è l’incorporazione del concepimento fra le variabili del desiderio di godimento (a certe condizioni “si rimane giovani” e ci si sente “adolescenti onnipotenti”, anche “facendo” un figlio). Di fatto, abbiamo incominciato a perdere il senso delle stagioni e dell’unità della vita: anzi della storia e della sua destinazione. E perdiamo il senso più pieno della libertà: mai così potente come quando si distacca da sé per incorporarsi irreversibilmente in un altro, destinato a non essere parte di me.

Il secondo idolo è il vincolo condizionale dell’economia utilitaristica. Quello secondo il quale si deve crescere sempre, a prescindere. Quello secondo il quale senza risorse finanziarie non si produce neppure cultura, o democrazia, perché tutto ha un costo. Quello secondo il quale l’essere umano è una macchina biologica del godimento predatore e del desiderio autoriferito. Non voglio nemmeno discutere, qui, di capitalismo o di mercato: l’intrascendibilità del fondamento economico-libidico della storia dell’uomo è un credo che unisce tutt’ora il capitalismo e i suoi oppositori. Parlo della potenza simbolica – religiosa, quasi teologale – accordata alla presunta ovvietà di questo strumento che si è fatto fondamento. E della gerarchia che i sussiegosi officianti dei suoi riti distribuiscono come inevitabile, sbeffeggiando gli ingenui che ne dubitano. Battaglia dura: inutile girarci intorno, bisogna mettersi di traverso. È questo che corrode la mente e svuota l’anima. Ora – è evidente – non siamo più neppure in grado di sacrificare vita e creature per la Bestia che promette di tenerci in vita. Siamo straccetti. E non possiamo reggere il gioco. E ci dicono pure che siamo noi che sbagliamo a consumare. Pezzi di interi continenti, con uomini e donne sopra, affondano di questo. Non per caso Gesù dice ai suoi che la sovranità di Cesare, a certe condizioni, può essere riconosciuta. Quella di Mammona, mai.

Il terzo idolo la struttura essenzialmente comunicativa del sapere. L’ossessione informativa, funzionale, strumentale del sapere, ha imposto la credenza nella sua giustificazione strettamente utilitaristica. Non è per la verità, è per la notizia: dopodiché (come dice l’assessore) sono fatti vostri. In uno spazio così angusto, che si dilata solo orizzontalmente, non c’è posto per nessuna profondità, nessuna grandezza d’animo, nessuna verità dell’arte, nessun realismo per la differenza dello spirito, nessuna potenza dell’affezione che allarga la mente, creando libertà e sfidando la morte. Esibizionismo linguistico, tutto fa spettacolo. Perdiamo metà del mondo e quasi tutto il suo cielo. Gli umani si parlano per essere più umani, non solo per comunicare meglio. Il pensiero e il linguaggio avvolgono spessori dell’essere-umano – e anche dell’essere mondano – che si arricchiscono di mille sfumature, dispiegano potenze nascoste, inturgidano la vita di grandezze incomparabili e imperdibili dell’anima. La parola del pensiero – anche quella silenziosa – crea spazi di eternità per la vita a disposizione dell’anima: è per la circolazione extra-corporea dell’anima, che arricchisce di colori caldi il pianeta uomo. Il godimento immediato è sempre un godimento mancato. L’espressione spontanea di sé rimane sempre vagito. Sempre più individui, giovani e sani, grugniscono e firmano con la x. La mente e l’anima chiedono cura. E invenzione e sintassi, circolazione di esperienze e affinamento del linguaggio, abilità nella modulazione delle sintonie e passione per l’attitudine a nuove composizioni che allargano i sensi, fino a renderli capaci di presa sull’eterno. La bellezza dell’anima è la nostra casa comune. Non per niente la qualità della musica è la spia perfetta della civiltà dei sensi spirituali che corrisponde alla formazione dell’umano in noi. I ragazzi, a scuola, anche quelli con l’anello al naso, aspettano solo testimoni competenti, impeccabili, appassionati di questo. Muoiono di rachitismo spirituale, le creature, prima che di violenza e di dosi eccessive.

Il quarto idolo è il carattere privato della nominazione di Dio. Nella cultura occidentale si è sviluppato un consistente pregiudizio a riguardo del senso comune della nominazione di Dio: sarebbe l’indicatore principale della superstizione, dell’inganno, della violenza. Di fatto, nella convinzione di doverla anzitutto sottrarre alla religione, la regolazione della nominazione di Dio è passata alla politica, poi alla scienza. Pur dichiarandosene incompetenti, la politica e la scienza non fanno che parlarne. A vanvera. Manca invece una seria cultura della teo-logia, che è certamente di interesse pubblico, in virtù della sua originaria disposizione alla mediazione del logos. Il cristianesimo dovrà essere, a sua volta, meno timoroso e più generoso: e adoperarsi perché la teo-logia diventi una rispettabile funzione del sapere critico e autocritico di pubblico interesse, non un gergo di mera appartenenza. Nella realtà, la disumanizzazione della nominazione di Dio, rimpicciolito alla misura del privato sentire delle politiche di parte o di etnìa, incoraggia una vera legione di piccoli padreterni. Piccoli, ma non innocui. “Dio” è meglio lasciarlo misteriosamente oltre il limite dei nostri desideri e dei nostri godimenti, piuttosto che riempirlo rozzamente o svuotarlo stupidamente di realtà. Il delirio di onnipotenza è il trascendentale della stupidità, non dell’autorealizzazione: e fa danni, persino in nome di Dio. Di certo, la privatizzazione del nome di Dio, che lo separa dall’universale rispetto per la verità che deve essere restituita alla giustizia – e non possiamo, noi – non ha prodotto nulla di buono. Nulla.

Troppo difficile? Per quel che vale, a questo punto, vi dico la mia opinione anche su questo. Pochi passi dietro la linea del talk show, ci sono fior di menti – che persino i teologi ignorano, a vantaggio dei più nominati in classifica – che non ne possono più dei quattro idoli che ci affogano le creature. Un soprassalto creativo che riapre il mondo ci serve, non la conta delle lenticchie che ci uniscono e ci dividono. Siamo in ostaggio, con tutta la carovana, di passioni tristi: autorefenziali e scettiche, in egual misura, nei confronti della verità che non patteggia con la morte e del desiderio di non abitare la terra invano. Mettere il cuore nell’intelligenza delle cose più vere e degli affetti più sacri, che ci tengono insieme per l’eterno (la generazione, l’amicizia, la grandezza dell’animo, il rispetto del mistero nascosto in Dio), è passione lieta, capace di creare comunanza e slancio, in grado di rimettere in moto la storia.
La bellezza attuale del cristianesimo, per come la vedo io, deve apparire in questo: con tutti i difetti e le incongruenze che porta, questa figura religiosa del Logos è l’unica in grado di proclamare, in nome di Dio, che la verità di Dio è riscatto e salvezza per l’ostinazione di essere umani. La nuova frontiera del dialogo è questa. Per la nuova evangelizzazione, seguirei la stella, non il satellite.

Pierangelo Sequeri

Già pubblicato in Koinè, Anno XVIII  –  NN° 1-3  –   Gennaio-Giugno 2011

Augusto Cavadi – Il saggio di N. Pollastri: «Consulente filosofico cercasi»

Augusto Cavadi

Come molti ricordano, Hegel notava con sottile ironia che chiunque voglia imparare un mestiere – ciabbatttino o medico – ritiene indispensabile sottoporsi ad apprendistato, mentre filosofi ci s’improvvisa scavalcando la fase dell’iniziazione. Oggi si potrebbe aggiungere che, nell’ambito degli studi filosofici, nessuno si sognerebbe di pronunziarsi su un pensatore o su una corrente di pensiero se non avesse letto almeno un titolo della bibliografia attinente. Questa elementare cautela viene allegramente scavalcata in un solo caso: quando ci si pronunzia sulla Philosophische Praxis di Gerd Achenbach e, più in generale, sul variegato mondo delle filosofie-in-pratica. Qui, infatti, è come se gli ultimi venticinque anni fossero due o tre settimane; come se centinaia di volumi e di articoli scientifici, in tutte le principali lingue del mondo, non fossero stati scritti. Sarebbe ridicolo, se non fosse patetico, constatare come serissimi docenti universitari, che non aprono bocca su un argomento quando non sono informati e aggiornati, sono prontissimi a sparare sentenze ogni volta che vengono richiesti di un parere sulla “consulenza filosofica” o su qualche altra pratica filosofica (di cui non hanno la minima cognizione diretta).
Da qualche mese questa superficialità non ha più scusanti: due precursori di questo nuovo ‘paradigma’ filosofico hanno pubblicato degli strumenti propedeutici che, in poche ma incisive pagine, riescono a diradare pregiudizi e fraintendimenti (almeno in chi sia animato da sinceri intenti di comprensione). Il primo saggio (D. Miccione, La consulenza filosofica, Xenia, Milano 2007, pp. 126) ha carattere più divulgativo e presenta, con uno sguardo davvero planetario, la mappa attuale delle diverse ‘scuole’. Il secondo, poi, a firma di Neri Pollastri, non è soltanto accessibile al vasto pubblico, ma anche dotato di notevole spessore teoretico. La tesi centrale dell’autore è inequivoca: la consulenza filosofica è «filosofia, e nient’altro. Non una professione d’aiuto, se non di mero aiuto al filosofare, cioè al pensare e al ricercare nuove forme di pensiero; non una professione d’ascolto, se non nel senso che, per dialogare, è sempre necessario anche ascoltare; non una terapia, perché anzi è il suo contrario, il suo radicale abbandono; non ‘cura di sé’, se non nel senso che, occupandosi del modo di pensare il mondo, si occuperà anche del modo in cui si pensa se stessi; non formazione, se non in un senso estremamente indebolito e allargato del termine; non una ‘tecnica’, perché priva di un obiettivo preciso e predeterminato, se non quello di cercare ciò che non si conosce. Dunque non rimane che ribadire quel che fin dalla sua origine si è intenzionalmente voluto che fosse: la consulenza filosofica è filosofia. E lo è a buon diritto, perché ne condivide i tratti caratteristici, salvo metterli in pratica su un terreno diverso da quello della filosofia tradizionale: nella realtà concreta e quotidiana; con individui particolari, e per giunta non filosofi; alla ricerca di una comprensione del senso degli aspetti minuti e particolari della realtà, più che delle universalità; ‘improvvisando’ creativamente in modo istantaneo, quindi producendo comprensioni del reale forse spesso meno profonde, ma sempre e comunque di tipo filosofico» (pp. 75 – 76).
Ma se è così, il movimento della filosofia-in-pratica lancia al mondo della filosofia una sfida, o meglio una richiesta: di essere contestata punto per punto come qualsiasi altra proposta filosofica (dunque opponendole argomentazione ad argomentazione), ma nel rispetto della sua specificità epistemologica. Le gare di nuoto sono regolamentari sia se si nuota sul dorso sia se si nuota a farfalla: nessuno si sognerebbe di rimproverare ad un atleta che opta per il primo stile di non adottare il secondo. Così fanno filosofia gli storici della filosofia, i teoretici sistematici e i filosofi-in-pratica: ma solo una spocchiosa intolleranza accademica (legata al paradosso di una disciplina che da alcuni secoli – a differenza di tutte le altre discipline dello scibile umano – non si preoccupa delle ricadute sulla società delle proprie acquisizioni) potrebbe tentare di negare cittadinanza filosofica a chi non accetta di situarsi, istituzionalmente, o come creatore di sistemi filosofici originali o come interprete dei sistemi elaborati altrove.

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