«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Società e spettacolo La società dello spettacolo è sempre alla ricerca di un catalizzatore sociale da usare come elemento identitario e di distrazione di massa. La morte di Raffaella Carrà è presentata come una tragedia italiana, poiché la schowgirl è parte del tessuto “sociale e culturale” della nazione. Non vi sono ideali, ideologie o religioni a tessere la koinonia sociale, il plusvalore ed il nichilismo passivo hanno reso al suolo ogni solidità umana e metafisica, non resta che produrre miti estemporanei con cui fabbricare processi di identificazione di massa. Tutto è falso nel capitalismo, per cui la fabbrica dei miti deve necessariamente osannare l’ultima diva da utilizzare per occultare il vuoto abissale di una nazione senza poeti, santi e navigatori,. Tutto è stato consumato, pertanto il nulla non può che produrre miti dai piedi d’argilla. Negli innumerevoli salotti televisivi si ripete nella più tradizionale ipocrisia italica la bravura e la completezza della schowgirl. Nessun cenno critico sulla qualità di musiche e canzoni, si esaltano i valori che la cantante ha depositato nelle sue canzoni e che giungono a noi come lascito da conservare, si è inaugurata una nuova “tradizione culturale e musicale”. Se si ascoltassero i testi con un modesto senso critico ci si renderebbe conto immediatamente della “modestia” dei contenuti e della imbarazzante semplicità delle musiche. La Carrà rivoluzionaria ha contribuito, secondo i giornalisti mainstream, a liberare i costumi e specialmente le donne. Si spingono a dichiarare che ha fatto molto di più la cantante per loro che la politica ed i sindacati. Nei testi emerge solo individualismo ed edonismo, una sessualità senza affettività e stabilità. I testi non sono certo rivoluzionari, ma organici al capitalismo nella sua fase apicale, per il quale ogni progettualità affettiva è un limite al libero sciamare edonistico. Non si tratta di moralismo, ma di un dato oggettivo. I testi della Carrà hanno garantito il diffondersi di costumi liquidi, il disimpegno è stato il grande messaggio della cantantei. La donna liberata dal dono e dalla comunità diventa il simbolo della nuova era senza cultura, senza progetti, senza profondità: la società dello spettacolo ha trovato in lei la sua icona. L’indifferenza verso la politica e le tragedie della storia l’ha portata nel 1980 in Argentina: si esibiva acclamata e difesa dalle forze dell’ordine argentine che la proteggevano dalla folla. In Argentina vi era la dittatura militare, si può ipotizzare che esibirsi in concerti, mentre i dissidenti venivano eliminati sia stata una forma di legittimazione di quel potere, o è stata usata in tal senso. Rivoluzionaria per i costumi ha avallato l’edonismo consumistico erotico, ma non ha mai preso parola contro le ingiustizie sociali che laceravano il mondo e la nazione, si è adattata al sistema, è divenuta parte del dispositivo culturale e linguistico del nuovo capitalismo assoluto.
Nuova identità Non secondario è l’uso identitario che della cantante vien fatto, dopo che la scuola, la lingua nazionale e ogni asse valoriale sono stati annichiliti, per reinventare una pubblica identità si usa una diva della società dello spettacolo che con i suoi eccessi scenografici ben si presta a catalizzare l’identità nazional popolare senza turbare con eventuali messaggi critici: Il sistema che inneggia al suo modello di libertà nichilistico mediante una sua diva. Dal vuoto dei contenuti non può venire minaccia alcuna. Ancora una volta si assiste alla decadenza che ha spinto Riccardo Muti ad affermare in una lettera al Corriere della Sera:
“La banalità della tv e della Rete, questo divertimento superficiale, la mancanza di colloquio mi preoccupano molto per la formazione dei giovani”
Muti nella lettera scrive che per lui è preferibile morire, piuttosto che assistere al salire dell’onda dell’ignoranza e dell’arroganza sociale che ha disumanizzato ogni rapporto, non si identifica con l’attuale società del consumo e della dimenticanza. Vi è da chiedersi dove fosse, mentre tutto questo accadeva. La Carrà non la si può non ricordare nei quiz in cui i telespettatori dovevano indovinare il numero dei legumi presenti nei contenitori. Il gioco dei fagioli in Pronto Raffaella? dal 1983 al 1985, non è stato un semplice quiz, ma ha contribuito a normalizzare il nichilismo sociale. Il sistema capitale ha educato generazioni intere che il caso e la fortuna valgono più dell’impegno e del merito. Si può vincere e riscuotere denaro senza merito, esattamente come si può vincere un concorso senza preparazione, la struttura del sistema ha la sua pedagogia ed i complici pedagoghi per insegnare il disprezzo verso i contenuti. La cattiva maestra televisione può diseducare a suon di banda, se è l’unico messaggio presente in essa a reti unificate pubbliche e private. L’omaggio ad ogni persona che non c’è più è vero solo se la verità si fa spazio nella solo formale ritualità funebre. Le lunghe discussioni osannanti, l’esaltazione di ogni gesto ed il silenzio sul contesto in cui ha svolto la carriera sono ormai parte della menzogna conosciuta che continua come un acido a dissolvere i frammenti di razionalità e comunità sopravvissuti alla lunga notte della società dello spettacolo. Nessun uomo è innocente, siamo tutti responsabili del disastro attuale, ciascuno nel proprio ruolo. Responsabilità sociale ed etica sono rifiutati dal sistema, perché lo spettacolo può andare avanti solo al ritmo della menzogna conosciuta, sta a noi singoli pensare le parole che il mainstream usa per poter tracciare un percorso di uscita ed esodo dalla società dello spettacolo.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
«L’immaginazione costruisce sempre con materiali fondati sulla realtà. […] L’attività creatrice dell’immaginazione è in diretta dipendenza dalla ricchezza e varietà della precedente esperienza dell’individuo, per il fatto che questa esperienza è quella che fornisce il materiale di cui si compongono le costruzioni della fantasia. Quanto più ricca sarà l’esperienza dell’individuo tanto più abbondante sarà il materiale di cui la sua immaginazione potrà disporre. Ecco perché nel bambino l’immaginazione è più povera che nell’adulto: la cosa si spiega con la maggiore povertà della sua esperienza. […] L’immaginazione si dimostra una condizione assolutamente indispensabile in tutte le attività intellettuali dell’uomo».
Lev Semenovic Vygotskij, Immaginazione e creatività nell’età infantile, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 29-33.
Lev Semenovič Vygotskij, Immaginazione e creatività nell’età infantile, Prefazione di Luciano Mecacci, Editori Riuniti, Roma 2011
«L’immaginazione e la creatività non sono doni divini, frutti improvvisi, folgorazioni, ma rappresentano un complesso processo di ristrutturazione dell’informazione di cui è dotato un individuo, in stretta dipendenza dai nuovi rapporti che egli istituisce con la realtà naturale e sociale. Se l’immaginazione parte dalla realtà, non ne è però una semplice copia, ma è appunto una immaginazione creatrice, la combinazione in forme nuove di elementi provenienti dall’esperienza, ma che ad essa non possono essere più ricondotti direttamente, perché ne danno una nuova configurazione che è propriamente mentale. Per cui i prodotti dell’immaginazione, scrive Vygotskij, “preso corpo, sono di nuovo rientrati nella realtà ormai come una nuova forza attiva, trasformatrice della realtà stessa”»
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Videor ergo sum Intellettuali e necessità della verità metafisica
Derealizzazione ed impotenza La reificazione e l’atomocrazia nel capitalismo assoluto si struttura con un diffuso scollamento tra realtà storica e vita del soggetto, la condizione schizoide è la normalità dello stato presente. Tali processi sono consustanziali alla sostituzione della verità con il paradigma dell’utile. Le filosofie scettiche fungono da sovrastruttura al dominio globale del mercato. In tale contesto i soggetti “addomesticati” al solo conteggio del PIL non possono che ritirarsi dalla storia e rinunciare alla comprensione dell’orizzonte in cui sono “gettati”. La verità non è che “un mito” del passato, pertanto si rinuncia a capire “il proprio tempo nel pensiero” e la verità della natura umana, senza di essi è improbabile la partecipazione alla prassi. Il cittadino diviene suddito globale, si rifugia nella realtà virtuale (tecnologie e realtà aumentata) limitandosi all’uso delle stesse e specialmente sostituisce la verità con il calcolo dell’utile. Gradualmente la realtà diviene estranea e straniera, si vive in una contingenza a cui ci si adatta, ma non si comprende. Si precipita in un irrazionalismo insidioso, si scambia il virtuale e l’ideologia annessa per realtà, e dunque, la scissione tra pensiero e realtà consolida il capitalismo assoluto, fino a rendere gli esseri umani “accidenti” che appaiono nella storia come elementi complementari del sistema. Costanzo Preve con l’ontologia dell’essere sociale ha l’obiettivo di fondare la comunità e la politica su un principio veritativo capace di veicolare il discernimento tra vero e falso. Per uscire dalla caverna della derealizzazione Costanzo Preve utilizza l’ontologia dell’essere sociale e la deduzione sociale delle categorie, con la prima fonda la verità della natura umana nel logos, nella pratica comunitaria del pensiero, nella sua capacità di astrarre la verità storica del tempo in cui è immerso, tale operazione comporta l’uso della deduzione trascendentale delle categorie con cui discernere il contingente dall’eterno che si manifesta nella storia. Il soggetto non rispecchia la realtà storica, ma la pensa con la mediazione del logos all’interno delle istituzioni, per cui per “natura” l’essere umano è attività pensante che si materializza nella storia. L’eterno è la consapevolezza che alcune conquiste della razionalità non sono contingenti, ma appartengono all’umanità. L’ontologia dell’essere sociale si oppone allo storicismo alleato dell’economicismo, poiché insegna che tutto è storia, e dunque, non vi è verità, ma l’essere umano è solo storia. La verità è sostituita dall’utile e dalla infinita manipolazione. L’essere umano è il niente che appare nella storia, a cui “enti esterni” danno la forma:
“Il punto di vista dell’ontologia dell’essere sociale è il solo che può realmente fronteggiare le due patologie complementari dello storicismo e del sociologismo, formazioni ideologiche entrambe impotenti di fronte alle smentite storiche. E questo perché l’ontologia dell’essere sociale non nega affatto la crucialità decisiva della storia, e non nega neppure il ruolo indispensabile dei soggetti sociali organizzati, ma inserisce questi due fattori “materiali” in una “forma” senza la quale questi due fattori non possono trovare alcun fondamento[1]”
L’essere sociale esige che sia il pensiero che l’essere (sociale e comunitario) siano esaminati da un punto di vista concreto nel rispetto della natura umana, la quale è pensante e comunitaria e si manifesta nella storia, non secondo un’illimitata plasticità, ma secondo forme che rispettino il carattere del logos, il quale calcola il limite e con esso dà forma all’umanità e determina il suo “esserci”:
“Il genere stesso, inoltre, non è pura vuota potenzialità riempibile all’infinito in modo relativistico (dynamis), ma è la realizzazione in atto di questa potenzialità (energheia) in quanto la realizzazione in atto di questa potenzialità, allude ad un contenuto, il contenuto antropologico dell’uomo come animale sociale, politico e comunitario (politikòn zoon), e dell’uomo come animale dotato di ragione, linguaggio e capacità di calcolo geometrico delle proporzioni applicato alle proporzioni sociali e comunitarie (zoon logon echon)[2]”.
Il successo delle filosofie anti-ontologiche lo si può comprendere con la deduzione sociale delle categorie, esse sono organiche all’economicismo crematistico che vuole rappresentare l’essere umano come privo di fondamento veritativo per poterlo spingere verso l’illimitato consumo e l’illimitata manipolazione rendendo l’umanità fragile e disorientata. La negazione della natura umana comporta un robinsonismo generalizzato che ha l’effetto di deviare la vita dei singoli in un mondo virtuale, al quale si chiede una vita sociale e un’impossibile identità. Dietro le forme tragicomiche di narcisismo mediatico vi è una implicita speranza di vivere “una vita umana”, continuamente disattesa, la qualcosa ha l’effetto di provocare un’aggressività diffusa ed incontrollata. L’impotenza generalizzata comporta la fuga dalla comunità e dal sociale abbandonato alle fatali e letali leggi dell’economia. L’individuo è resecato dalla storia, diviene ente astratto nell’impotenza generalizzata. La persona è rappresentata come in-dividuo, ovvero come essere astratto dal suo fondamento comunitario e veritativo. La solitudine dell’individuo astratto è l’inizio dei processi di derealizzazione, in cui l’utile si sviluppa in modo parossistico, invade ogni campo del sapere e della vita comunitaria fino a fagocitarli. Il logos attraverso i processi dialettici può ricucire la scissione tra realtà e logos con l’attività razionale del soggetto. L’Idealismo hegeliano ha insegnato che la realtà diviene razionale, solo se il soggetto “pensa il reale”, per pensare si intende la capacità di coglierla olisticamente per decodificarne la verità storica, in tal modo è possibile capire il progetto, in cui si è implicati per assumere una prospettiva responsabile e progettuale. Costanzo Preve è stato libero discepolo di Hegel, Marx ed Aristotele, ne ha colto i nuclei “eterni” per capire il presente ed elaborare una teoretica della verità che affonda il suo senso nella tradizione da ripensare plasticamente. La realtà è razionale, se il soggetto la trasforma in esperienza pensata e condivisa, ma affinché ciò possa essere è necessaria la chiarezza del fondamento veritativo dell’essere umano. Verità e storia non sono antitetiche, ma la verità della natura umana si rivela nella storia. Senza verità metafisica la menzogna non è più tale, è sola una declinazione del nichilismo, l’indifferenza sostituisce ogni senso etico, se la verità è messa al bando, di conseguenza non resta che il calcolo acquisitivo e l’utile empirico a governare i destini dei popoli. Il cittadino non ha ragione di agire contro le menzogne conosciute, perché non ha paradigmi etici per comprenderle. Tutto è indifferente ed omologato, la verità vale quanto una menzogna, non resta che ritirarsi dalla storia e compensare il senso di nullità quotidiana con l’onnipotenza dell’apparire che nasconde l’impotenza di sistema. L’Umanesimo comunitario in Preve ha lo scopo di trascendere il dualismo tra verità e storia. La derealizzazione aggira il travaglio del negativo, è la grande vittoria del modo di produzione capitalistico sull’umanità. Il capitalismo assoluto, in tal maniera, non si specchia nella sua verità, produce menzognej per potersi espandere senza limiti. L’inclusione nel mercato si realizza per mezzo della derealizzazione: i soggetti sono “educati” alla sola registrazione degli eventi storici. Lo sguardo registra l’accadimento, guarda ed osserva l’evento storico come una realtà su cui non ha potere alcuno. Il pregiudizio metafisico è uno dei mezzi con cui le Accademie e il circo mediatico favoriscono i processi di derealizzazione:
“Il reale è dunque razionale solo se la sua razionalità può svilupparsi attraverso l’esperienza storica. […] Hegel non è un sostenitore del giustificazionismo storico, ed ancora una volta non lo è perché difende la realtà razionale ed ontologica di un orizzonte trascendentale di tipo logico[3]”.
La derealizzazione favorisce l’irrazionale imperio della ragione strumentale, la quale è prassismo senza fondamento, è attivismo acquisitivo, nel quale il soggetto scambia il pragmatismo utilitarista come attività e partecipazione. In realtà il soggetto è passivizzato ed atomizzato, in quanto subisce le decisioni del mercato e della “politica” senza poter orientare il senso della propria esistenza. Vive in un mondo impersonale che accetta fatalmente, poiché “così è” e non può che adattarsi. Le filosofie scettiche e il pensiero debole promuovono con la “morte di dio”, ovvero della verità, l’obiectum, anziché il Gegenstand. Il soggetto e le comunità hanno dinanzi ad essi il mercato con le sue logiche e lo percepiscono come intrascendibile, pertanto lo si accetta come un dato naturale incontestabile ed eterno. La realtà storica non è posta dal soggetto comunitario, per cui l’io comunitario non può che attraversare la storia come una comparsa, ciò comunica a tutti i membri della comunità un senso di inutilità, il quale disorienta ed annichilisce. La cultura è l’anticorpo più vigoroso contro le forme tossiche di derealizzazione, la cultura come paideia, formazione globale, consente di sviluppare l’identità della persona con le sue potenzialità, e di affinare il senso critico, ovvero di pensare “il proprio tempo” per poterlo trasformare. La storia della cultura ci consente di individuare il paradigma per distinguere la cultura dall’ideologia. La prima è cultura dell’universale, i suoi fondamenti sono universali, poiché la formazione e la lettura olistica dei fenomeni culturali e storici, già forma ad una disposizione all’universale, in cui il pensiero ritorna su se stesso per individuare parzialità e rigidità e confrontarsi con esse. L’ideologia è la rappresentazione del reale falsata dall’illusione dell’universale, ovvero si scambia la parzialità per universale, sostenuta dall’assenza della capacità e della motivazione a tornare sulla rappresentazione per liberarla dalle trappole della falsa coscienza. L’ideologia vive di ipostasi, essa necrotizza il tempo storico, divide senza mai unire, mentre la cultura distingue il temporale dall’universale. La cultura è orientamento verso la verità, è trascendere l’immediato per astrarre dalla storicità l’universale in cui ciascuno può ritrovarsi, sentirsi nella propria casa, poiché l’universale è posto in modo corale.:
“Il termine di cultura, nel significato che intendo dargli, non significa solo “alta cultura”, la cultura scritta e visiva dei grandi scrittori e dei grandi pittori, e neppure cultura in senso antropologico come insieme dell’attività lavorativa, linguistica e simbolica dell’uomo, ma significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento (e di autoaccrescimento) della coscienza umana che dura tutta la vita. La cultura è dunque un termine che connota sia l’individuo, sia i gruppi ristretti, sia l’intera società[4]”.
La formazione esclusivamente “specialistica” è già pratica di derealizzazione, in quanto la complessità del reale storico e dei saperi è atomizzato in parti non riconducibili all’unità. La separazione, isola e rinchiude in nuove torri d’avorio, il mondo storico si liquefa nell’iperspecializzazione, al suo posto vi è solo il disegno egemonico-specialistico che si esplica su rappresentazioni virtuali del reale che non sono più tali, è il robinsonismo dei saperi. La razionalità strumentale si sostituisce alla razionalità oggettiva. Si è solo gli esecutori del mercato globale, che si è autofondato escludendo ogni riferimento metafisico ed umano. Il mercato è la sostanza aurea a cui ci si inginocchia, poiché nella percezione generale non dipende dalle generazioni che si susseguono nella storia, non è stato posto dal soggetto comunitario, ma si è autofondato ed autofecondato. I sudditi globali sono i tristi spettatori di tale processo, così Preve argomenta a Luigi Tedesco, in un’intervista, sul tema dell’inutilità e dei processi di derealizzazione:
“(Preve) Sono veramente felice che tu abbia scelto come concetto principale di questa nostra conversazione (destinata probabilmente a chiudere il secondo volume della raccolta delle nostre conversazioni, che risalgono alla fine del 2003) il tema della “inutilità”, per meglio dire il tema della sensazione del crescente aumento dell’ “inutilità” in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale. Sulla base degli stimoli delle tue considerazioni svolgerò alcune autonome riflessioni. In primo luogo, utilizzando la concezione hegeliana del rovesciamento dialettico di una costellazione teorico-pratica nel suo contrario complementare, possiamo ipotizzare che l’inutilità sia il coronamento temporale dello sviluppo dell’utilitarismo individualistico, messo a punto per la prima volta da Smith e Hume nella seconda meta del Settecento scozzese-inglese. Ma come è possibile che l’inutilità sia il coronamento temporale dialettico del suo contrario, e cioè dell’utilitarismo? Nulla di più semplice, se si è abituati all’applicazione del pensiero dialettico. Il cuore dell’utilitarismo è l’autofondazione del meccanismo riproduttivo globale del mercato capitalistico su se stesso, togliendo di mezzo le tre fondazioni tradizionali della filosofia politica, l’esistenza di Dio (non importa se cattolica, protestante o ortodossa variamente secolarizzata e già da tempo privata di ogni promessa messianica), il contratto sociale (non importa se nella forma di “destra” di Hobbes, di “centro” di Locke o di “sinistra” di Rousseau (mi scuso con il lettore intelligente per avere usato queste improprie categorie, da lasciare a Bersani, Casini ed Alfano), ed infine il diritto naturale, concetto che rimanda pur sempre alla natura umana comunitaria associata come principio di legittimazione filosofica di ultima istanza. Con l’utilitarismo di Hume e di Smith, curiosa ed a suo modo geniale ed originale mescolanza di empirismo e di scetticismo, il mercato capitalistico si autofonda sulla propensione allo scambio ed alla mercificazione universale. A distanza di più di due secoli, siamo in grado ormai di fare un vero bilancio storico-filosofico serio, che presuppone probabilmente il raggio temporale minimo di duecento anni, possiamo dire che il principio dell’utilità generale si è rovesciato nella sensazione diffusa ed inquietante della inutilità generale. Siamo arrivati ad avere popoli inutili, generazioni inutili, e più in generale alla sensazione che non vale neppure più la pena argomentare, svelare, dimostrare, eccetera, perchè di fronte allo spread ed al “giudizio dei mercati” ogni discorso sensato appare inutile[5]”.
La derealizzazione, la fuga dalla storia, è favorita da una temporalità senza progettualità, il soggetto “intuisce” nel quotidiano di essere soltanto funzione di un meccanismo, che non ha scelto, e specialmente, può essere sostituito, in ogni tempo: l’utile si trasforma in una spada di Damocle che minaccia potenti e deboli, poiché rende ogni essere umano sostituibile in una perversa uguaglianza che entifica l’umanità.
Videor ergo sum Il linguaggio utilitarista, apparentemente concreto, in realtà è la dose di “quotidiano avvelenamento delle speranze”. L’utilitarismo insegna che il mercato può sostituire con enorme facilità qualsiasi soggetto. L’entificazione è assoluta, pertanto, ogni soggetto senza identità e verità è solo parte dell’automatismo dell’utile. Il linguaggio contribuisce attivamente alla derealizzazione, il codice orwelliano con cui il circo mediatico rappresenta la realtà è anch’esso uno dei mezzi mediante il quale la derealizzazione diviene “normalità alienante”. Le parole non corrispondono a nessun reale storico, sono solo un trucco retorico degli intellettuali asserviti (giornalisti, professori universitari) per giustificare dinanzi al pubblico lo spettacolo dell’osceno[6]. Gli intellettuali non sono dei creatori, ma il mezzo di legittimazione e diffusione capillare dei processi di derealizzazione. Le loro competenze linguistiche sono al servizio del “padrone”. Il linguaggio orwelliano è flatus vocis, pertanto le parole non sono che mezzi per il dominio, con cui indurre alla condizione di “plebe” che dissipa il proprio tempo in attività organizzate da un potere invisibile. Tutto è reso pubblico, ogni gesto, ogni parola, ma il potere resta celato ed irraggiungibile. Se la verità è solo una chimera metafisica non resta che adattarsi, in quanto la resistenza presuppone un’alternativa fondata sulla verità e sulla razionalità oggettiva. La verità nel circo mediatico è associata alla violenza del totalitarismo, per cui si “scoraggia” ogni riflessione su di essa, in quanto foriera di violenza fascista. Le violenze del capitalismo assoluto sono rimosse mediante il velo di Maya del linguaggio mediatico[7]. L’ossimoro (bombardamento etico, missioni di pace) e la reductio ad Hitlerum (Slobodan Milošević, Saddam Hussein, Mu’ammar Gheddafi) sono gli artifici retorici con cui strappare il consenso. Le controriforme che erodono i diritti sociali sono denominate “riforme”, e sono evocate in lingua inglese (jobs act). Il consenso è ottenuto con parole che seducono, ma al cui interno vi sono provvedimenti contro i popoli. L’offuscamento semantico con la neolingua ha lo scopo di mettere in atto un delicato e progressivo lavaggio del cervello con cui trasformare il cittadino in spettatore-consumatore. La neolingua santifica l’apparire, anziché l’essere. La cultura dell’apparire, il bisogno generalizzato indotto a ritagliarsi un cono di luce per sembrare, a qualsiasi costo, connota la società attuale come pornografica. Se il soggetto è perennemente alla ricerca dei riflettori, è sotto la lente di ingrandimento dei meccanismi della società dello spettacolo, non si appartiene, non ha il tempo qualitativo per pensarsi e riflettere sul mondo che, mentre lo espone in vetrina, lo annichilisce: gli sottrae il tempo del pensiero e specialmente la derealizzazione è orchestrata dai poteri pubblici e privati che stabiliscono le leggi dell’apparire. Si coltiva un’immagine pubblica decisa da altri. Nulla è sotto il controllo del soggetto che si trasforma in oggetto del sistema, e si rifugia in un’esistenza virtuale destinata ad essere perennemente sotto scacco. Il soggetto è perennemente pro-vocato, ovvero è “chiamato fuori”, deve essere sotto l’abbaglio della stimolazione, in modo che il pensiero rallenti la sua attività e non pensi la sua condizione storica, ma la subisce, in tal modo l’io è derealizzato, è disabitato dall’io pensante per essere ad immagine e somiglianza del mercato. L’io inseguito, catturato ed umiliato, non agisce, ma reagisce rifugiandosi in un mondo delirante che scambia per realtà. L’io si derealizza, in quanto è resecato da se stesso, dalle sue potenzialità creative e dalla comunità. L’in-dividuo[8] è l’effetto del taglio, dei processi di resecazione-alienazione, pertanto è scisso dalla storia, non resta che il competitore vuoto di se stesso, ma abitato da una realtà violenta e virtuale. Non a caso l’in-dividuo coincide con l’affermarsi del privato che persegue i soli interessi personali, e ciò è un’ulteriore resecazione dalla vita comunitaria. Al termine di tali dinamiche di resecazione non resta che un atomo che ha perso il contatto con la realtà storica, fino a non riconoscerla e a disinteressarsi di essa, il soggetto si ripiega sui soli interessi privati decretando con la solitudine la sua sconfitta. L’io si indebolisce, l’identità diviene liquida fino a disperdersi nelle maschere della società del videor ergo sum:
“Viviamo in un’epoca il cui fondamento non è più il cogito ergo sum di cartesiana memoria criticato da Husserl, ma è il videor, ergo sum. Il termine latino videor è particolarmente adatto a quanto intendiamo qui dire, perché significa sia “sono visto” al passivo, sia “sembro” come verbo intransitivo. Più esattamente “sono visto” (al video) e “sembro” (attraverso il video). Sembra che la visibilità sia la condizione minima di esistenza. Se non si è visti, non si esiste. Ma questa è un’illusione[9]”.
Il linguaggio, in questo contesto, è depotenziato delle sue possibilità creative e critiche, è stereotipato e ripetitivo, in quanto la derealizzazione desertifica il pensiero, e quindi il linguaggio è solo il riflesso del circo mediatico. Senza identità veritativa e comunitaria il linguaggio diviene “chiacchiera” senza fondamento, e qualora si debba far accettare dal pubblico “l’inaudito”, si usa un linguaggio addomesticato ed evirato della sua intensità concettuale. L’eufemismo è orchestrato dai media, a seconda delle circostanze si usano parole che possano “tranquillizzare” lo spettatore. É l’artificio linguistico con cui il sistema protegge se stesso, in modo che si possa far accettare anche l’impossibile allo spettatore-consumatore. il politicamente corretto è l’architrave di un sistema che produce menzogna, edulcora il logos, in modo da trasformare i popoli in armenti belanti disponibili alla democrazia procedurale. Senza logos, verità e linguaggio non vi può che essere la derealizzazione organizzata sul mito del piacere assoluto, della regressione e fuga da ogni condizione emotiva adulta. Coloro che denunciano lo stato presente sono rappresentati come nemici della gioia di vivere e dei diritti individuali. In questo clima di violenza verbale e fattuale si vuole eliminare la speranza, poiché quest’ultima presuppone un “soggetto forte” che pone il reale storico, per cui “sperare” è dimensione della trasformazione sociale indissolubilmente legata all’agire storico del soggetto che pone la storia e ne scorge tra le pieghe le potenzialità di cambiamento. La speranza è la dimensione dell’esodo dal presente. L’inutilità strutturata si palesa con forme compensatorie dell’io, dietro cui si nasconde la perdita della speranza. L’ipertrofia dell’io narcisistico palesa la derealizzazione indotta. È vietato vietare qualsiasi comportamento o scelta tranne lottare per una società diversa:
“Non ci sono più identità, ma fantocci televisivi intercambiabili che si pronunciano nei talk-show per individui del tutto passivizzati. In questa società in cui è vietato vietare qualsiasi cosa, e la sola cosa vietata è il battersi per una società diversa, la vecchia religione invasiva dei costumi familiari e sessuali dev’essere smantellata e delegittimata […][10]”.
Il soggetto può perdersi tra realtà virtuale e pulsionale, gli è concesso ogni appetito, l’importante è che non metta in discussione il presente e che non si occupi del suo futuro. Il tempo è puntiforme, non vi è temporalità progettuale e condivisa, cade così, la motivazione a capire la realtà storica, perché è religiosamente e dogmaticamente difesa dal politicamente corretto. Non resta che ritagliarsi spazi illusori di azione, in cui dimenticare la quotidiana passività con il giogo che diventa sempre più greve fino a schiacciare i sudditi. Il calcio, la rete, la pornografia sono forme di derealizzazione, il soggetto si ritira in fantasie, in sogni puerili di dominio e piacere assoluto, per non guardare con gli occhi della mente la sua riduzione a semplice “ente” tra gli “enti”. La corporeità vissuta nella distanza con la rete, deforma la percezione del proprio corpo vissuto, l’illimitato si consolida nelle aspettative, pertanto il soggetto non regge la relazione duale e comunitaria: l’astratto sostituisce il concreto. L’illusione di essere soggetto attivo è traslata nel nuovo “oppio dei popoli: il tifo, la pornografia, l’ossessione del viaggio e dello spostamento veicolare. I media deviano l’attenzione dei cittadini dai reali problemi sociali e storici con la chiacchiera, che nega il logos ed il linguaggio con forme stereotipate ed anonime di comunicazione. La derealizzazione diviene un dispositivo di controllo sociale, dinanzi al quale il cittadino-suddito ed il popolo-plebe sono senza difese:
“24. Inizierò con alcune osservazioni di superficie su alcuni fenomeni molto noti ma anche poco compresi come il tifo sportivo, la pornografia, la circolazione autoveicolare ipertrofica ed asfissiante, ed infine la televisione e la sua centralità comunicativa, o meglio escludente. Si tratta di quattro fenomeni ben noti, ma come dice giustamente Hegel, il noto in quanto noto non è ancora conosciuto. Per poter portare la comprensione di questi quattro fenomeni sociali al livello della conoscenza teorica occorre abbandonare ogni visione moralistica, snobistica ed elitaria di questi fenomeni, per comprendere che si tratta di quattro fenomeni di individualizzazione artificiale, e pertanto di socializzazione adattativa, del suddito-consumatore di questa nuova terza età del capitalismo. Il tifo sportivo è spesso visto con disprezzo dalle cosiddette “persone colte”. Vi sono anche persone di cultura, come lo scrittore inglese Tim Parks, tifoso degli “ultra” del Verona, che invece ne rivalutano gli aspetti ludici e comunitari. Io sono totalmente privo di snobismo, la gente comune non mi fa per niente schifo, e tendo dunque a prendere sul serio Tim Parks. Ma Tim Parks, ed i molti come lui, parlano anche di calcio, non solo di calcio. C’è una sottile differenza, che non dovrebbe sfuggire neppure a Parks. Quando lo spettacolo sportivo satura ogni comunicazione mediatica, le squadre vengono quotate in borsa, l’ossessiva chiacchiera calcistica ed automobilistica sostituisce nei bar il precedente “parlare di donne” (forse a causa di una diminuzione del desiderio dovuto all’inquinamento atmosferico), ecc., non siamo più di fronte ad un fenomeno sportivo, ma ad una sostituzione della virtualità alla precedente sportività stessa. È bene ribadire che non intendo affatto sostenere che i nuovi tifosi vengono “distratti” dai loro veri interessi sociali o dalla organizzazione della prossima rivoluzione proletaria. Questo modo inattendibile di vedere le cose era tipico dell’ideologia di sinistra, per cui già nell’antica Roma i giochi dei gladiatori e più in generale i circenses avevano il compito di distrarre le masse dalla lotta contro il modo di produzione schiavistico. In realtà, come ha a suo tempo chiarito lo storico francese Paul Veyne, i circenses non avevano lo scopo di “distrarre” le masse da una improbabile rivoluzione, che in forma cristiana avvenne poi comunque, ma di affermare simbolicamente il potere senatorio o imperiale, e poi esclusivamente imperiale. Del resto questo avviene anche oggi, da Agnelli a Berlusconi. Il discorso sportivo socializza in modo artificiale, contrapponendo agonisticamente tifosi socialmente del tutto omogenei, ed in questo modo individualizza in modo adattativo queste stesse persone che vengono teatralmente fatte scannare per Totti e Ronaldo. La pornografia è anch’essa un fenomeno per molti aspetti nuovo ed inedito, e sbaglia chi parla soltanto del mestiere più antico del mondo, o fa notare che l’eccitazione erotica per gli organi sessuali fa parte del corredo biologico della riproduzione umana..[11]”.
La derealizzazione ha lo scopo di strutturare un senso di “superfluità” diffuso. Se il soggetto “sente” che la sua esistenza è inutile, ciò gli comunica un senso profondo di superfluità: non gli resta che rifugiarsi nella realtà virtuale, la quale prende prepotentemente il posto della realtà storica. Il consenso è estorto mediante una rappresentazione parziale e falsata degli accadimenti storici, non a caso “i bombardamenti etici” sono preceduti da un’esposizione morbosa e dettagliata dei crimini del dittatore di turno per strappare il consenso al bombardamento. Il concreto è sostituito dall’immagine astratta, la razionalità critica con l’emozione che sarà presto archiviata. La normalità diviene patologia non riconosciuta, al punto che gli apparati istituzionali curano i sintomi del male per evitare di incidere sul sistema.
Intellettuali e necessità della verità metafisica La verità del capitalismo assoluto va resa “nota”, va tradotta in un linguaggio che rompe la continuità tra struttura e sovrastruttura. Gli intellettuali possono e devono defatalizzare la condizione presente riportando la parola al centro, parola di senso, parola progettante e politica. Il capitalismo assoluto può essere avviato al suo trascendimento con la teoria e la prassi, le quali necessitano di categorie di significato collettive senza la quali la passività dei popoli è il volto concreto della feticizzazione della storia. L’intellettuale è ad un bivio: può contribuire, affinché il sistema possa perpetuare se stesso o devertere dal suo esiziale cammino. L’intellettuale deve riportare la prassi mediante la teoretica del rovesciamento dell’in sé col per sé nelle condizioni storiche date, solo in tal modo il misticismo economico che ci minaccia e reifica può deviare dal cammino nichilistico, dal silenzio della parola e della politica mediando l’immediato con la ragione dialettica. Gli intellettuali devono vivere la doppia temporalità della critica al capitalismo nel presente con lo sguardo rivolto verso la passione per la verità che riconcilia le temporalità storiche in un nuovo ordine. Il ruolo degli intellettuali ed il loro destino sono indissolubilmente legati alla democrazia, nella fase attuale del capitalismo assoluto la palese decadenza degli intellettuali, ormai organici alla società dello spettacolo, coincide con la fase regressiva ed autoritaria della “democrazia della finanza”. La democrazia nel suo significato ideale è attività decisionale e consapevole dei popoli, è pensiero condiviso, attività creatrice e dialettica mediante la quale i popoli si riconoscono ed autoriconoscono nelle reciproche differenze rispettose dei comuni principi: comunità, giustizia sociale, consapevole limitazione dei processi crematistici, riconoscimento delle differenze all’interno di una cornice assiologica comune. La democrazia è misura e senso del limite senza i quali non è che la parodia di se stessa, dove vige la dismisura, la cattiva distribuzione delle ricchezze e dei poteri non vi è che la sudditanza della politica all’economia. È evidente che la democrazia dei nostri giorni agonizza sotto i colpi del liberismo, delle conseguenti mercificazioni e della derealizzazione. La fase imperiale del capitalismo nella sua furiosa volontà di potenza, conquista e vendita omologa le parole, le svuota del loro significato per renderle frecce uncinate per la perenne televendita. La decadenza delle parole, il loro essere organiche alla lingua del capitale è forse il risultato più alto che il capitalismo assoluto ha potuto ottenere. Il pensiero è costituito di parole, la loro funzionalizzazione alla sola vendita ha reso possibile l’attacco alle coscienze; la penetrazione violenta nella mente dei popoli è un’operazione imperiale nuova ed inaudita: i popoli senza lingua e linguaggi indotti a parlare la lingua unica del mercato, possibilmente l’inglese commerciale, vivono la profondità della loro crisi politica nella forma dell’attività-passiva, ovvero apparentemente si fa appello ai popoli ed ai singoli, li si spinge verso un attivismo perpetuo nel campo della produzione, dei desideri e del consumo, ma nel contempo si organizza la loro passività. L’attività perenne senza spazi temporali e fisici per poter dialettizzare il tempo immediato dell’economicismo favorisce la passività, si è presi all’interno di una spirale che invita alla ripetizione del medesimo senza sosta, senza possibilità di far emergere nell’incontro con sé e la comunità la parola che ridisegna l’ordito dei giorni. Il capitale ha reso le parole vuoti ronzii con l’effetto che ogni attività intellettuale legata alla parola è stata anestetizzata. Se il linguaggio è stato divorato dalla struttura economica, le nuove forme espressive e spettacolarizzate divenendo la normalità dello stato presente hanno reso la scissione tra intellettuale e popolo profondissima, la faglia sembra incolmabile, poiché si uccide la parola-pensiero sul nascere con l’effetto di un’assoluta estraneità tra intellettuali e popoli. La decadenza dell’intellettuale è espressione di questi processi in atto, non a caso è concesso all’intellettuale di presenziare nei dibattiti mediatici solo se le sue parole o anche le sue critiche fatalmente confermano il sistema. Vi sono intellettuali che incarnano la cultura dell’eccesso, del narcisismo logorroico fine a se stesso, ed intellettuali che in quanto “pessimisti tragici” descrivono l’apocalisse presente ed insegnano agli ignari ascoltatori che ogni speranza non è che illusione, mentre la prassi è solo un residuo di epoche storiche tramontate. Non resta che adeguarsi al mondo, inseguirlo per imitarlo ed avanzare celati dietro maschere di vuote parole “larvatus prodeo”. Essere spettatori è una condizione, ma non un destino, la condizione attuale non è senza uscita, solo con l’uscita dal ruolo di spettatore e del consumo è possibile ridare senso e consistenza qualitativa alle istituzioni che come gusci vuoti sopravvivono alla società dello spettacolo. Resistere significa donarsi, trasgredire il comandamento dell’utile, e testimoniare che la violenza (Gewalt) è un accidente storico e non la verità dell’essere umano. La quarta guerra mondiale in atto, è una nuova forma di totalitarismo, una nuova forma di violenza che fa convivere “bombardieri e menzogna palese”. Si tratta di svelare non solo la relazione tra i due elementi del binomio, ma specialmente di dimostrare che una simile realtà è “innaturale”, perché non corrisponde alla verità umana. Si instaura una società ideologica, che nega l’ideologia imperante, dichiarando la fine di tutte le ideologie per entrare nel regno irenico della pace a suon di cannonate e menzogne. Costanzo Preve lontano dal circo mediatico e dagli “eunuchi” del potere, ha riportato al centro la verità metafisica. Solo ripartendo dal sentiero interrotto della verità sarà possibile, non solo svelare la menzogna palese nella sua realtà, ma specialmente solo la fede argomentata e dialettica nella verità può riportare la comunità con i suoi individui al centro della storia, perché capaci di pensare la verità e di agire in nome della verità:
“La menzogna palese rappresenta a mio avviso un grado superiore, darwinianamente parlando, della precedente menzogna occulta. La menzogna occulta dava infatti luogo a strategie di smascheramento o di “demistificazione” (come si diceva negli anni Sessanta) e queste strategie nutrivano gruppi appositi di intellettuali che si qualificavano come smascheratori e demistificatori, secondo il modello di quelli che il filosofo francese Ricoeur aveva chiamati “maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche, Freud). La menzogna palese svuota completamente questa funzione critica e si pone come strumento bellico diretto. La menzogna palese, lungi dall’essere “sciocca”, riflette, invece la dura realtà dei rapporti di forza[12]”.
La sola critica non è sufficiente, è necessaria la fondazione metafisica della verità. I rapporti di forza sono senza equilibrio, per cui i dominatori possono rappresentare come verità ciò che i deboli sanno essere menzogna. L’insostenibile causa la fuga nel virtuale come nella malattia mentale. La società attraversata da rapporti di forza insostenibili si disintegra nella derealizzazione: i sudditi nella loro impotenza “fingono di credere alle menzogne”, si ritraggono dall’ostilità nella storia stordendosi in mondi immaginari, in speranze illusorie, in forme di rimozione collettiva delle violenze subite. La nostra è un’epoca che necessita di testimonianza attiva per smentire gli imperativi del turbocapitalismo. I principi di ogni civiltà sono negati in nome della finanza: è l’anno zero della civiltà, è l’epoca della grande dispersione, dopo il diluvio della società dello spettacolo. Dinanzi al diluvio della storia si ha il dovere di attraversare il negativo per ritrovare il fondamento onto-assiologico senza il quale non vi è che il male di vivere. Costanzo Preve ha testimoniato la sua lotta contro i processi di derealizzazione con la sua testimonianza e la sua vita. Riappropriarsi del reale storico è possibile con la fondazione metafisica della verità, poiché essa motiva alla lotta ed induce a pensare: le rivoluzioni e le riforme sono possibili solo nella verità, l’alternativa è una lunga agonia a cui non ci si può opporre. Costanzo Preve ha avuto il coraggio di deviare dal nichilismo per la fondazione metafisica della verità senza la quale non vi è futuro, ma solo il lento consumarsi dei giorni. Per poter riconnettersi con la realtà storica e concettualizzarla è necessario “dire addio” alle appartenenze che sono forme sofisticate di derealizzazione. L’appartenere ad un gruppo, ad un partito, ad un movimento rischia di trasformarsi in difesa ideologica dell’appartenenza e dunque, in allontanamento dalla verità e dall’impegno etico.. Costanzo Preve non si considerava un intellettuale, poiché ne constatava la normale pratica di difesa delle lobby di appartenenza, pertanto è stato fedele al suo destino, è stato filosofo che ha pensato il reale storico senza asservimento derealizzante:
“Con tutti i miei difetti soggettivi, psicologici e caratteriali, e con tutte le mie insufficienze oggettive, scientifiche e filosofiche, rivendico però a mio onore l’avere capito fino in fondo che l’autoidentificazione illusoria e fantasmatica con il gruppo sociale degli “intellettuali”, impegnati e/o organici che siano, non poteva che svilupparsi dialetticamente verso la rovina e l’autodissoluzione, che sono comunque sotto i nostri occhi (Veltroni, Sarkozy, eccetera). Gli intellettuali sono una forma moderna e postmoderna di clero, sia pure un clero non tenuto al celibato ma anzi invitato alla libera scopata postfamiliare. Eretico o ortodosso, giornalistico o universitario, celibe o scopatore, un clero rimane clero. Non dico che un clero non sia talvolta necessario. A volte lo è. Ma oggi il problema non è quello di aggregarsi per produrre collettivamente (inesistenti) profili ideologici articolati e sistematizzati per uso politico, ma di differenziarsi dai greggi esistenti per tentare di avanzare ipotesi teoriche radicalmente nuove. Questo è impossibile se si intende compatibilizzare l’avanzamento di questa ipotesi con l’appartenenza a gruppi intellettuali oggi esistenti, il cui conservatorismo è tale da produrre automaticamente l’esclusione del reo. Termino allora qui questa modesta autocertificazione. Il signor Costanzo Preve è stato a lungo un “intellettuale”, sia pure di seconda fila e non di prima. Ma oggi non lo è più, e chiede di essere giudicato non più sulla base di illusorie appartenenze di gruppo, ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche. E di queste cominceremo finalmente a parlare[13]”.
Per trascendere i processi di derealizzazione necessitiamo di strumenti cognitivi per capire il presente, ma specialmente, necessitiamo non di una Filosofia da “Accademia”, in cui si dibatte sulla “definizione” della stessa, ma della testimonianza di una vita filosofica che mostra e dimostra la possibilità di vivere pienamente la propria umanità nella verità. La testimonianza di Costanzo Preve dev’essere associata a Massimo Bontempelli con cui ha collaborato e che nel testo “Filosofia e Realtà” ha attraversato “il negativo” del sentiero della notte (derealizzazione), mediante la logica hegeliana:
“D’altra parte, per concepire un’uscita dal sentiero della notte, ovvero per individuare un varco nell’attuale orizzonte storico nichilistico, è assolutamente indispensabile identificare la storia che ha materializzato quel sentiero, che ha chiuso il nostro orizzonte. Senza andare con il pensiero a questa radice, infatti, non è possibile capire quali settori ed ambiti dell’attuale esperienza umana ne siano i germogli, e siano intrinsecamente ontooccultanti. Ma se non si capiscono le zone ormai ontooccultanti dell’esperienza, non si può neanche capire attraverso quali esperienze sia oggi possibile manifestare la realtà, e costruire quindi un cammino di uscita dalla derealizzazione umana del sentiero della notte[14]”.
La derealizzazione conduce, secondo l’efficace espressione di Massimo Bontempelli “all’intercosalità”. Se il logos non comprende il proprio tempo, se i soggetti sono reificati non resta che un mondo senza umanità, in cui l’unico legame è lo scambio di “merci”, fino al punto di non riconoscersi ed autoriconoscersi come persone, ma come “merci” da esporre nel mercato delle transazioni. L’intercosalità è il punto apicale dell’alienazione, in cui non si riconosce più la propria umanità.
Ricostruzione genetica, fondazione veritativa, prassi sociale e testimonianza vissuta sono il quadrifarmaco contro il sentiero della notte. L’essere umano è un essere pensante, per cui tutti siamo chiamati a dare nel rispetto delle differenze il nostro contributo testimoniale contro il sonno della razionalità oggettiva e l’incubo della sola razionalità strumentale.
Salvatore Bravo
[1] Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia, Petite Plaisance, Pistoia, 2013, 18.
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«L’uomo tedesco ha per il complesso dell’esistenza di un essere reale la parola Gestalt. In questa espressione egli astrae dall’elemento mobile, e assume che qualcosa di co-appartenente sia solidificato, conchiuso e fissato nel suo carattere. Ma se noi consideriamo tutte le Gestalten, particolarmente quelle organiche, troviamo che non vi occorre mai qualcosa di stabile, qualcosa di quiescente, di compiuto, ma che piuttosto tutto oscilla in un continuo movimento. Per questo la nostra lingua usa la parola Bildung con sufficiente proprietà tanto per indicare ciò che è stato prodotto quanto ciò che è in fase di produzione. Se vogliamo introdurre una morfologia non dobbiamo parlare di Gestalt, ma se ci serviamo di questa parola dobbiamo quantomeno connetterle solo l’idea, il concetto o qualcosa che nell’esperienza venga tenuto fermo soltanto per la durata dell’istante. Il già formato viene subito ritrasformato; e noi, se vogliamo acquisire una percezione vivente della natura, dobbiamo mantenerci mobili e plastici seguendo l’esempio che essa ci dà. […] Ogni vivente non è un singolo, ma una pluralità; anche presentandosi come individuo, rimane tuttavia un insieme di esseri viventi e autonomi, che, eguali secondo l’idea e per natura, appaiono empiricamente identici o simili, diversi o dissimili».
J.W. Goethe, Zur Morphologie. Ersten Bandes erstes Heft 1817, in W, XIX, p. 16; tr. it. a cura di S. Zecchi, in La metamorfosi delle piante, Guanda, Parma 1983, p. 43.
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«Quando Gesù diceva: “il padre è in me ed io nel padre, chi ha visto me, ha visto il padre; chi conosce il padre sa che quel che dico è vero; io ed il padre siamo uno”, gli ebrei lo accusavano di bestemmia perché egli, nato uomo, si faceva Dio. Come avrebbero potuto riconoscere in un uomo qualcosa di divino, essi, i poveri, che portavano con sé soltanto la coscienza della loro miseria, della loro profonda servitù, della loro opposizione al divino, la coscienza di un incolmabile abisso tra umano e divino? Solo lo spirito riconosce lo spirito. Essi vedevano in Gesù soltanto l’uomo, il nazareno, il figlio del falegname i cui fratelli e parenti vivevano in mezzo a loro: tanto egli era, ne avrebbe potuto essere di più; era soltanto uno come loro ed essi stessi sentivano di essere nulla. […] Il leone non dimora in una noce, né lo spirito infinito nella prigione di un’anima ebraica, né il tutto della vita in una foglia secca».
G.W.F. Hegel, Der Geist des Christentums und sein Schicksal [Spirito del cristianesimo e il suo destino], in Id., Werke in zwanzig Bänden, Band I, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1971, pp. 380-381; tr. it., in Id., Scritti teologici giovanili, Guida, Napoli 1972, p. 424.
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La ‘Torre di Babele’ come metafora per la città e il ‘Giardino dell’Eden’ come metafora per la campagna. Entrambi erano caratterizzati da un elemento di crisi e di collasso: la torre di Babele era rimasta incompiuta e abbandonata, il giardino dell’Eden era stato chiuso all’uomo, costretto a migrare verso ambienti meno ospitali.
La città orientale era caratterizzata dai “luoghi del potere”, mentre quella ellenistica (con i suoi elementi di derivazione greca) diede altrettanto spazio ai “luoghi della cittadinanza” – le caratteristiche urbanistiche riflettendo quelle socio-politiche. Per “luoghi del potere” s’intendono le strutture difensive (mura e porte urbiche), gli edifici palatini, i palazzi, ma anche gli arsenali, le stalle, gli opifici militari), gli edifici templari (moltiplicati dalla struttura politeistica, ma culminanti nel tempio del dio cittadino), mentre a certe esigenze già presenti (specie lo scambio sia locale sia a distanza) vengono dedicati dei “non-luoghi” di funzionalità secondaria o intermittente: la porta urbica, lo spazio antistante al tempio, la via regia che attraversa la città. I “luoghi della cittadinanza” sono quelli dedicati alle riunioni politico-amministrative, allo scambio, allo svago: il foro (o agorà), i porticati che spesso lo circondano, il mercato, il teatro, le terme (o più banalmente i bagni pubblici). Per riprendere una distinzione resa celebra dal Guicciardini, al Palazzo si aggiunge e si contrappone la Piazza.
Negli anni Trenta del secolo scorso, il grande Marc Bloch concepì un nuovo paradigma di ricerca storica, nel quale riservò un ruolo privilegiato alla ricostruzione del paesaggio agrario. Questa scelta strategica – indicativa delle concezioni storiche tipiche della scuola delle Anna/es – si rivelò saggia, ed ebbe successo: sia perché bilanciava il peso della città con quello delle campagne, sia perché ottimamente si adattava a sottolineare gli elementi della “lunga durata” contro le strettoie della “storia evenemenziale”. Al seguito di Bloch, lo studio del paesaggio agrario è diventato un ovvio ed importante punto di partenza per la comprensione di ogni ambito storico quale scenario degli avvenimenti politici e delle tendenze socio-economiche, ma anche quale esito fisico di quegli avvenimenti e di quelle tendenze (in Italia si segnalò l’opera di Emilio Sereni). Il paesaggio, modificato dall’uomo attraverso il tempo, costituisce di per sé una fonte e uno strumento per la corretta valutazione della struttura sociale. L’organizzazione dello spazio regionale (comprendente sia gli insediamenti sia le campagne) è una sorta di immagine, impressa nel terreno, del modo di produzione e della struttura sociale che l’hanno prodotta. Questo approccio è stato efficace nella storia medievale e moderna, non solo per una maggiore consapevolezza e un avanzamento metodologico, ma anche per una maggiore disponibilità e diversificazione di dati: registri catastali e archivi notarili, immagini iconografiche e gli stessi resti fisici dell’ antico paesaggio ancora a vista. Per la storia antica (e segnatamente per quella antico-orientale) il compito si è rivelato più difficile. A parte un’evidente arretratezza metodologica, connessa alla priorità assegnata all’edizione dei testi e alla competenza filologica, problemi aggiuntivi derivano dalla scarsità documentaria: i testi catastali sono limitati a poche zone e periodi, e i paesaggi antichi giacciono sepolti sotto la continua sedimentazione delle piane alluvionali, oppure distrutti da successivi interventi umani. In alcune zone, tuttavia, l’archeologia ha contribuito a ricostruire le linee generali dello sfruttamento agricolo. E questo vale non solo per la Grecia classica o per l’Italia romana o per l’Europa preistorica e protostorica, ma anche per alcune parti del Vicino Oriente antico (pp. 6-7).
L’attuale copertura vegetale del Vicino Oriente è ben diversa da quella originaria, che possiamo non solo postulare ma concretamente ricostruire sulla base dei dati paleobotanici. Per condizioni “originarie” intendiamo qui quelle presenti all’inizio del Neolitico, prescindendo sia da quelle più remote, i cui mutamenti dipendono da fattori extra-umani, sia anche da quelle del Paleolitico la cui economia di sussistenza poteva praticarsi senza interventi di modifica ambientale, tuttalpiù con qualche modesto intervento di disboscamento mediante fuoco. È il passaggio dall’economia di caccia e raccolta a quella di produzione di cibo (agricoltura e allevamento) che rende funzionali e anzi necessari interventi sull’ambiente: ampliamento delle radure coltivabili e dunque disboscamento più sistematico, regolarizzazione dei corsi d’acqua, definizione di unità produttive (campi) mediante delimitazione ed anche recinzione, delineamento (per effetto di utilizzo ripetitivo) di percorsi per la transumanza (tratturi), per arrivare, a partire dal Bronzo Antico, a più incisivi interventi come i terrazzamenti collinari e le reti di canali a bonificare le zone paludose (p. 13).
Come ho già avuto occasione di suggerire (Mario Liverani, Power and Citizenship, in Peter Clark (ed.), Cities in World History, Ubuversity Press, Oxford 2013), la città orientale era caratterizzata dai “luoghi del potere”, mentre quella ellenistica (con i suoi elementi di derivazione greca) diede altrettanto spazio ai “luoghi della cittadinanza” – le caratteristiche urbanistiche riflettendo quelle socio-politiche. Per “luoghi del potere” s’intendono le strutture difensive (mura e porte urbiche), gli edifici palatini Ci palazzi, ma anche gli arsenali, le stalle, gli opifici militari), gli edifici templari (moltiplicati dalla struttura politeistica, ma culminanti nel tempio del dio cittadino), mentre a certe esigenze già presenti (specie lo scambio sia locale sia a distanza) vengono dedicati dei “non-luoghi” di funzionalità secondaria o intermittente: la porta urbica, lo spazio antistante al tempio, la via regia che attraversa la città. I “luoghi della cittadinanza” sono quelli dedicati alle riunioni politico-amministrative, allo scambio, allo svago: il foro (o agorà), i porticati che spesso lo circondano, il mercato, il teatro, le terme (o più banalmente i bagni pubblici). Per riprendere una distinzione resa celebra dal Guicciardini, al Palazzo si aggiunge e si contrappone la Piazza. Non ci sono piazze nella città antico-orientale, solo vie di ogni ordine e grado, dalla grande “via regia” fino ai dedali di oscure viuzze; al sole risplendente ma accaldante si preferisce l’ombra. Magari il re preferisce il sole, per motivi simbolici, ma va in giro seduto sul baldacchino e protetto dal grande ombrello, mentre i portatori (se solo potessero) preferirebbero l’ombra (p. 124).
Mario Liverani, Paradiso e dintorni. Il paesaggio rurale dell’antico Oriente, Gius. Laterza & Figli Bari 2018.,
Quarta di copertina
La nostra civiltà comincia il suo viaggio in uno spazio mitico. Un ‘giardino dell’Eden’ in cui l’uomo trovava soddisfatte tutte le sue necessità. Per secoli studiosi e ricercatori si sono interrogati sulla realtà storica di questo paesaggio primigenio. Oggi finalmente è possibile rispondere alla domanda: ma com’era fatto questo paradiso?
Quando l’Europa iniziò la sua esplorazione del Vicino Oriente, le notizie riguardanti quest’area erano sommarie e spesso facevano riferimento a un passato leggendario e mitico. In particolare, due miti ne avevano simboleggiato il paesaggio: la ‘Torre di Babele’ come metafora per la città e il ‘Giardino dell’Eden’ come metafora per la campagna. Entrambi erano caratterizzati da un elemento di crisi e di collasso: la torre di Babele era rimasta incompiuta e abbandonata, il giardino dell’Eden era stato chiuso all’uomo, costretto a migrare verso ambienti meno ospitali. Invece di città, i primi viaggiatori nel Vicino Oriente trovarono rovine, e invece di giardini trovarono il deserto. Col progredire dell’indagine storica e archeologica, le informazioni sulle antiche città (da Ninive a Babilonia) crebbero, mentre le informazioni sulle campagne rimasero scarse e quasi nulle. La storia orientale antica divenne una questione di re e dinastie, di città e palazzi, di scribi e artigiani e mercanti. Si sapeva che la stragrande maggioranza della popolazione antica era costituita da contadini e pastori, ma la ricostruzione della loro vita e del loro ambiente venne a lungo esclusa dal quadro. Oggi le condizioni sono cambiate. Possiamo provare, per la prima volta, a dare un volto al ‘giardino dell’Eden’, a quel paesaggio in cui è germinata alcuni millenni fa la nostra civiltà.
Indice del volume
Mappa del mondo babilonese, ca 500 a.C.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
Nell’immagine in evidenza, a sn.: Rilievo in scisto raffigurante il Buddha, il Vajrapani e alcuni monaci, proveniente da Butkara I (Pakistan) e conservato presso il Museo Nazionale d’Arte Orientale di Roma.
«Non fare ciò che è male / fare ciò che è bene / purificare la propria mente: / questo è l’insegnamento del Buddha», si legge nel Dhammapada, uno dei più influenti testi buddhisti. Studiando i testi del Canone del Buddhismo Theravāda, Antonio Vigilante offre in questo saggio una interpretazione dell’etica buddhista quale etica transpersonale, tesa al superamento del soggetto attraversi tre momenti. Il primo è il passaggio da un sé disperso nella molteplicità dei suoi desideri ad un sé solido e centrato, grazie alla meditazione e ad altre pratiche disciplinari che hanno molte affinità con le tecniche filosofiche greche, in particolare dello Stoicismo. Il secondo è l’apertura di questo sé grazie alle dimore divine, i quattro valori fondamentali del Buddhismo: la benevolenza, la compassione, la gioia partecipe e l’equanimità. Il terzo momento, quello del Risveglio, è l’abbandono del sé e, con esso, della stessa etica, con la sua distinzione tra bene e male. Solo quando il superamento del soggetto è completo l’etica si realizza pienamente e al tempo stesso si estingue, poiché trasceso l’io è spenta la possibilità stessa del male. Centrata sulla negazione della sostanza, l’irrilevanza dell’esistenza del Divino e l’insussistenza del soggetto, la visione del mondo buddhista nega i fondamenti stessi della civiltà occidentale. Ma questi fondamenti, osserva Vigilante, sono venuti consumandosi nel pensiero contemporaneo, da Nietzsche a Sartre, per cui l’etica buddhista sembra indicare oggi una via percorribile da un Occidente in crisi.
Antonio Vigilante vive a Siena. Si occupa di teoria della nonviolenza, pedagogia, filosofia morale e interculturale. Tra i suoi libri: Il Dio di Gandhi (2009), La pedagogia di Gandhi (2010), Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci (2012), L’educazione è pace. Scritti per una pedagogia nonviolenta (2014), A scuola con la mindfulness (2017), La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha (2019). Con Petite Plaisance ha pubblicato: Dell’attraversamento. Tolstoj, Schweitzer, Tagore (2018) e L’essere e il tu. Aldo Capitini in dialogo con Nishitani Keiji, Enrique Dussel e Murray Bookchin (2019).
Indice
Introduzione Nota Abbreviazioni
Il Dhamma del Buddha La via della conoscenza Filosofia e religione Un misticismo ateistico La zattera Il Buddha e la tradizione indiana Śramaṇa Nobili verità La genesi interdipendente L’azione Il nibbāna Razionale e irrazionale
Il sé disperso e il sé dimora La psicologia buddhista I pezzi del carro La nausea La possibilità della gioia L’indicibile Inquinanti
Tecnologie del non sé La cura di sé Enkrateia Il Sāṃkhya Lo Yoga Una pratica di immersione Samatha e vipassanā Lo sforzo Jhāna Lo sguardo profondo Sentieri che si intersecano
Una casa sicura La felicità più alta Dal quotidiano al sublime Etica domestica Non uccidere Non rubare La condotta sessuale Etica della parola Non assumere sostanze inebrianti La via verso il riconoscimento Pacificare le relazioni Genitori e figli Maestri e discepoli Etica coniugale L’amicizia Servi ed operai Asceti e brahmani Essere inclusivi Un’etica concreta Etica e politica
La fortezza dei saggi La via del bhikkhu Lo sciocco e il saggio Artigiani di sé L’amicizia spirituale Dimore stabili Le colpe più gravi
Le colpe meno gravi
L’apertura
Il dimorare divino La benevolenza Controvento Il dolore, la gioia, il distacco Porte aperte sul Risveglio Al di là dei segni Il sé dono Oltre il bene e il male L’abbandono e l’insegnamento
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
Al popolo della pace, la poesia incipitale di questa raccolta, letta da Maura Del Serra nel 2009 in occasione dell’iniziativa 25 TV per 25 guerre, realizzata dall’artista Gerardo Paoletti per “World March” Associazione Mondiale per la Pace, era finora l’unica traccia esistente di interpretazione autoriale dei suoi testi. Adesso, con la selezione di altre 54 poesie, l’autrice offre ai suoi lettori/ascoltatori, un articolato ventaglio della sua produzione poetica, dei temi, luoghi, voci e ritratti in cui l’esperienza personale si fa corale e universale.
Nutrita con intensità empatica e dialogica dalle radici culturali e sapienziali dell’Occidente nel loro intersecarsi con le vene più feconde delle tradizioni orientali, la poesia della Del Serra è percorsa dal costante agonismo tra assolutezza metatemporale della rivelazione e tenebre della violenza storica, solitudine identitaria e unanimismo creaturale, con un ethos appassionato e rigoroso e con una finezza ed originalità stilistica scandita con vibrante emozione anche dalla sua viva voce.
Maura Del Serra, poetessa, drammaturga, traduttrice e critico letterario, già comparatista nell’Università di Firenze, ha riunito le sue poesie nei volumi: L’opera del vento e Tentativi di certezza, Venezia, Marsilio, 2006 e 2010; Scala dei giuramenti, Roma, Newton Compton, 2016; Bios, Firenze, Le Lettere, 2020. Tutti i suoi testi teatrali sono pubblicati nei volumi: Teatro e Altro teatro, Pistoia, petite plaisance, 2015 e 2019.
Fra gli autori da lei tradotti dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo: Cicerone, Shakespeare, Woolf, Mansfield, Tagore, Proust, Weil, Lasker-Schüler, Sor Juana Inès de la Cruz. (www.mauradelserra.com)
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