«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
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Luciana Repici,Uomini capovolti. Le piante nel pensiero dei greci, Scuola Normale Superiore, Pisa 2020.
Un filosofo è pianta rara che difficilmente attecchisce ma facilmente deperisce e si corrompe, se non sussistono tutte le condizioni perché possa crescere. Diventare filosofi ed essere felici sono acquisizioni che non conseguono se non a prezzo di un duro lavoro.
L’agricoltura dell’anima
Ricompare nelle parole di Timeo l’immagine, cara a sofisti e poeti, dell’educazione come coltivazione. Socrate usa nella Repubblica la stessa immagine per mostrare, come Timeo, le difficoltà di crescita che le nature filosofiche incontrano in contesti politici inadeguati. Un filosofo è pianta rara che difficilmente attecchisce ma facilmente deperisce e si corrompe, se non sussistono tutte le condizioni perché possa crescere. Si potrebbe riassumere in questi termini il quadro che in questo dialogo Socrate fornisce delle modalità di esistenza delle nature filosofiche sulla base del ricorso alla costituzione delle piante. La rarità dipende soprattutto dalla difficoltà di ritrovare tutte insieme in una sola natura l’intera gamma delle doti richieste in una natura filosofica. È raro infatti, secondo Socrate, che tali doti ‘concrescano’ (symphyesthai) come parti di un’unica natura, mentre possono «crescere (phyesthai) smembrate» in molti individui; perciò simili nature «crescono poche e poche volte». Molte e grandi sono invece le degenerazioni cui queste nature così rare vanno incontro.
L’allettamento ad opera dei ‘cosiddetti beni’ esterni e del corpo non è la causa più pericolosa della loro rovina. Molto più perniciosa è per Socrate la rovina che insorge dall’interno di esse a causa di una cattiva educazione. L’analogia con il modo di costituzione delle piante è introdotta proprio a questo punto. Un seme o una pianta, se non ‘si imbatte’ (tychòn) nel nutrimento conveniente e non gode di una stagione o di un luogo adatto, necessita di mezzi di sostentamento confacenti quanto maggiore è la sua forza. Allo stesso modo, nature ottime ma allevate con un nutrimento (trophè) ad esse troppo ‘estraneo’ riescono pessime. In tal caso, esse ‘si imbattono’ (tychousai) in una educazione che le manda tanto più in rovina quanto più sono forti e vigorose. Solo se ‘si imbattono’ nell’istruzione conveniente, esse possono crescere indirizzandosi necessariamente verso la virtù nella sua interezza; si volgono invece in direzione opposta se, dopo essere state ‘seminate’ (spareisa) e ‘piantate’ (phyteutheisa), non sono ‘alimentate’ (trephetai) in modo confacente, «a meno che un dio non càpiti (tychei) in suo soccorso».
La degenerazione è imputabile in parte ai cattivi educatori, ma dipende soprattutto per Socrate dal terreno in cui la natura filosofica si trova a crescere. Egli avverte che, in realtà, nessuna costituzione di città esistente è terreno adatto ad accogliere nature filosofiche. L’analogia con quel che accade alle piante è di nuovo illuminante. Le nature filosofiche infatti «mutano e degenerano», perdendo le loro specifiche proprietà e trapassando a carattere peggiore, per la stessa ragione per cui un ‘seme straniero’ (xenikòn) gettato in una ‘terra straniera’ diventa ‘debole’ (exitelon) e si avvia ‘forzatamente’ a diventare ‘indigeno’ (epichorion). Se ‘incontrano’ (lepsetai) nel loro cammino la costituzione politica migliore, esse possono mostrare la condizione ‘divina’ loro e della costituzione stessa; se invece non ‘si imbattono’ nella costituzione adatta, non possono accrescersi né conservarsi né cooperare al bene comune. Nelle città storicamente esistenti in realtà i filosofi «nascono spontaneamente (automatoi phyontai) senza che la città lo voglia», quasi come piante che si producano per qualche caso fortunato e, poiché ciò che cresce spontaneo non deve a nessuno il suo nutrimento, essi non si sentono neppure in dovere di rendersi utili alla comunità pagando le proprie ‘spese di mantenimento’ (tropheia).
Come si vede, Socrate non sottovaluta la componente di casualità che sembra circondare l’esistenza del filosofo e la preservazione della sua condizione in una città che non sia adatta a riceverlo. La mancata realizzazione del perfezionamento morale non dipende dall’individuo, ma è conseguenza del contesto politico in cui egli è allevato e nutrito. In un contesto politico inadeguato, ossia in una città ingiusta, il filosofo è come una pianta che cresce spontanea, cioè senza cure, in un terreno improprio e riceve un nutrimento improprio. La sua nascita è quindi casuale, cioè non voluta e la sua crescita debole e stentata; in tali condizioni, solo l’intervento di una divinità potrebbe portare a buon fine il suo sviluppo. Neppure l’opera dell’educatore/agricoltore varrebbe a molto e in ogni caso, ammesso che valesse, dovrebbe trattarsi di un tipo di educatore/agricoltore ben diverso da quello che Protagora professava di essere. Solo nella città giusta il filosofo troverebbe il terreno proprio di coltura e di crescita, anche se neppure in questo caso la sua esistenza e condizione avrebbero garanzia di durare indefinitamente.
Anche le costituzioni infatti, come Socrate rileva altrove nella stessa Repubblica, sono soggette a mutare e alterarsi allo stesso modo in cui gli esseri viventi, animali e piante, esauriscono i loro cicli vitali e attraversano periodi alternati di fertilità e in fertilità o nell’ambiente stagioni di siccità si alternano a stagioni piovose. Una questione che possiamo porci è se l’analogia con la costituzione delle piante serva ad evidenziare in Platone una certa fragilità della condizione del bene incarnato nel filosofo. In effetti, una pianta che cresce casualmente come può in un ambiente incurante della sua crescita potrebbe anche apparire come una pianta fragile perché debole, quindi più soggetta a fattori esterni di corruzione; il bene allo stesso modo, se non ricevesse costanti cure, sarebbe fragile perché malfermo, quindi più soggetto all’erosione dei rovesci fortuiti del caso. In un altro luogo della stessa Repubblica tuttavia Socrate indica le piante come modello di capacità di resistenza fisica al mutamento; ma anche in questo contesto l’elemento dell’accidentalità ha la sua parte. Nel passo egli argomenta che un corpo ‘sanissimo e fortissimo’ può resistere al mutamento ad opera di agenti esterni tanto quanto una pianta può opporre resistenza a fattori ambientali quali calore solare e venti e altre ‘accidentalità’ (pathemata) che possono interferire con la sua preservazione e tanto quanto un’anima ‘coraggiosissima e saggissima’ può contrastare un’ ‘affezione’. Si tratta in ogni caso, come Socrate mostra, di una capacità di resistenza relativa, quale si addice a nature di esseri mortali e non immortali e indistruttibili come la divinità”. In realtà, né la sanità o il vigore dei corpi né la virtù delle anime premuniscono interamente dall’azione erosiva di cause accidentali esterne, siano fattori climatici o desideri e passioni.
Nel Fedro la metafora della coltivazione serve a Socrate a mostrare anche che tipo di lavoro occorre per educare un’anima alla filosofia.
Un agricoltore intelligente che volesse prendersi cura dei semi e farli fruttificare – così Socrate argomenta in questo dialogo – li pianterebbe d’estate nei giardini di Adone, per gioire nel vederli diventare belli in otto giorni, o farebbe così solo per gioco e nell’occasione della festa e userebbe invece la tecnica agricola e pianterebbe i semi di cui volesse seriamente prendersi cura nel tempo e nel terreno adatto, per l’amore di vederli giungere a maturità in otto mesi? A questa immagine Socrate ricorre quando vuole spiegare «in che modo nasce e quanto cresce (phyetai)» il discorso che, «accompagnato da scienza», «è scritto nell’anima di chi apprende» ed è capace di difendersi da sé, sapendo con chi parlare e con chi tacere. Egli intende riferirsi al discorso orale.
Ai suoi occhi, al pari dell’agricoltore con i suoi semi, «chi ha scienza del giusto, del bello e del buono» non seminerà seriamente in discorsi «incapaci di parlare in propria difesa e incapaci di insegnare la verità»; nei «giardini scritti» costui seminerà e scriverà solo per gioco, in modo da accumulare per sé ricordi per la vecchiaia e consentire a quanti seguiranno le sue orme di gioire nel coglierne i ‘teneri frutti’.
Nella semina fatta seriamente invece, quella cioè analoga alla semina eseguita secondo i dettami della tecnica agricola, costui si servirà della dialettica. Prenderà perciò un’anima ‘adatta’ e vi pianterà e seminerà «discorsi accompagnati da scienza», capaci di «portare aiuto a se stessi e a chi li ha piantati» e non «infruttuosi (akarpoi), ma recanti un seme, da cui germoglieranno in altre indoli altri discorsi»; ed essi riusciranno a «rendere sempre immortale questo seme e ad assicurare a chi lo possiede la massima felicità possibile ad un uomo». Sono questi i discorsi che Socrate vuole siano considerati suoi ‘figli legittimi’; rinuncia invece a tutti gli altri, che non siano ‘figli o fratelli’ di questi ‘germogliati’ nella sua anima e nell’anima di altri uomini’.
L’agricoltura riprende così il suo aspetto metaforico per rispecchiare il processo di acquisizione del sapere filosofico. Non il sofista è il vero agricoltore, come Protagora pretendeva, ma il filosofo e i suoi semi sono i semi della verità gettati direttamente nel terreno dell’anima di chi si pone all’ascolto dei suoi discorsi. Anche in Platone l’analogia sottolinea che si tratta di un processo lungo e impegnativo. Neppure gli esiti appaiono scontati, se Socrate invita a diffidare di risultati brillanti ma effimeri. L’apprendimento della filosofia e il conseguimento della massima felicità per l’uomo non sono come la coltivazione delle piante nei giardini di Adone, dove le donne usano interrare i semi in vasi, orci e simili recipienti. I risultati vengono rapidamente in questa forma di coltivazione e l’operazione della semina è coronata dal successo della crescita di una vegetazione lussureggiante. Ma il verde si dissecca presto e in questi giardini quasi pietrificati la morte subentra presto alla vita. Diventare filosofi ed essere felici sono invece acquisizioni che non conseguono se non a prezzo di un duro lavoro, come quello dell’agricoltore che non per gioco, ma seriamente getta i suoi semi nei campi di Demetra. Per chi si dedica a questa forma di coltivazione i risultati verranno solo al termine del tempo necessario al compiersi del processo di germinazione e crescita e, ovviamente, solo a condizione che questo arrivi a buon fine. Ma, se il raccolto verrà, sarà ottimo e ogni sforzo sarà ricompensato. Socrate mostra di considerare essenziale la scelta del terreno in cui il filosofo agricoltore deve gettare i semi dei discorsi: solo nel terreno di un’anima adatta a riceverli essi potranno attecchire e germogliare. Essenziale è però anche la qualità dei semi. Il buon raccolto viene infatti se i discorsi sono orali, non scritti e se perciò possono iscriversi direttamente nell’anima di chi apprende; allora, questi semi germineranno e cresceranno in essa come cosa viva mettendo radici non superficiali, ma profonde e seguendo l’andamento della natura invece che forzandola. Poiché, come abbiamo appreso, i discorsi dei filosofi sono anche medicamenti, potremmo pensare ad essi come a piante medicamentose con radici che sprofondano nell’anima di chi ascolta, dispiegando in essa anche il loro potere curativo e risanatore.
Luciana Repici, Uomini capovolti. Le piante nel pensiero dei greci, Scuola Normale Superiore di Pisa, Pisa 2020, pp. 211-217.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Quando ci domandiamo se un altro mondo è possibile, ci stiamo innanzitutto chiedendo: esiste un metodo alternativo per ripartire le risorse? Come distribuiremo le cose in modo diverso? E chi deciderà come vengono distribuite?
Per quanto possa sembrare futuristico, la visione di individui e gruppi considerati come entità da tracciare continuamente ha una storia lunga. È cominciata circa sessant’anni fa alle Galapagos, dove una tartaruga si trovò ad ingoiare un succulento boccone nel quale uno scienziato aveva amorevolmente inserito un sensore. L’aspetto interessante è che le soluzioni adottate all’epoca da chi studiava alci, tartarughe e oche sono oggi adottate dai capitalisti della sorveglianza e presentate come una caratteristica inevitabile della vita nel Ventunesimo secolo. Quel che è cambiato è che ora gli animali da tracciare siamo noi.
In fin dei conti, cosa fanno Facebook e Google? Ci stimolano – delicatamente e con il nostro consenso – a rivelare informazioni su noi stessi. Gli utenti di queste piattaforme non devono pagare un prezzo in denaro, devono solo lasciare che i loro dati vengano estratti. Per ora, i dati accumulati sono perlopiù usati per vendere prodotti o spazi pubblicitari, ma le possibilità sono molto più ampie. Come sottolinea Shoshana Zuboff, una delle grandi domande del XXI secolo sarà: chi possiede e controlla i dati che stanno rapidamente diventando una risorsa economica chiave? Il loro uso servirà a favorire processi democratici, o si rivelerà il propellente di un nuovo capitalismo della sorveglianza?
È possibile che pezzi di un mondo migliore stiano lentamente spuntando, e che il capitalismo abbia infine creato i propri becchini (solo che saranno algoritmi, non lavoratori)?
Gli incalcolabili miliardi di gigabyte che Amazon raccoglie – e le meraviglie dei software utilizzati per analizzare questi dati – forniscono un quadro incredibilmente dettagliato di ciò che la gente desidera. Come ogni società Dot-com, Amazon raccoglie quantità improbabili di dati sui suoi consumatori: un negozio convenzionale non sa quali prodotti osservate, quanto tempo passate a guardarli, quali mettete nel carrello e poi riponete sullo scaffale prima di arrivare alla cassa, o anche quali “vorreste” avere. Ma Amazon lo fa. Nel frattempo, l’integrazione delle operazioni con i fornitori gli assicura che i prodotti possano essere pronti in quantità sufficienti e in tempi rapidi, così da poter esser consegnati in 24 ore.
Considerata l’enorme scala di questa economia, vediamo affiorare una riorganizzazione rivoluzionaria della produzione capitalista, che potrebbe indurci a porre domande audaci: e se Jeff Bezos si stesse in realtà rivelando un maestro della pianificazione, avvicinandosi nelle sue pratiche molto più al pensiero dei padri del socialismo che ai mentori dell’epoca neoliberale?
I capitalisti dell’epoca IoT (Internet of Things) pianificano quotidianamente più di quanto non si riesca ad immaginare, ma se la buona notizia è che la pianificazione evidentemente funziona, la cattiva è che attualmente si esercita entro i confini di un sistema di profitto che limita ciò che può essere prodotto a ciò che è redditizio.
È tuttavia lecito domandarsi se i piani che i campioni del capitalismo di piattaforma usano ogni giorno per portare beni e servizi nelle mani di coloro che possono pagarli, possano un giorno esser trasformati per assicurare che ciò che produciamo arrivi a coloro che ne hanno più bisogno. Detto diversamente, potremmo conquistare le attuali centrali logistiche e di pianificazione – i Google e le Amazon del mondo – e riconvertirle per costruire civiltàegualitarie ed ecologicamente sostenibili? Trasformando il modo in cui distribuiamo le cose, potremmo forse iniziare a trasformare tutto il resto dell’economia – da quali cose produciamo e come, a chi lavora e per quanto tempo?
È giunto il momento di riconoscere che il capitalismo è inadeguato a risolvere i problemi che ha creato, dall’ambiente alle diseguaglianze sociali. E che sia ormai impossibile rimettere il dentifricio nel tubetto. Quello che si può – e si deve – fare, è ridurre progressivamente il campo in cui è il meccanismo impersonale del mercato a regolare i nostri rapporti, ed estendere il campo in cui sono le nostre volontà coscienti a riunirsi su basi paritetiche nel formare una scelta collettiva. Realizzare una società in cui siano i bisogni degli individui e della collettività a muovere la produzione e l’allocazione delle risorse, e non la semplice e inarrestabile sete di profitto.
Di queste ed altre questioni discuteranno – sabato 27 novembre a partire dalle ore 14.30, presso il Polo del ‘900 di Torino – Gabriele Guzzi, Diego Melegari e Marco Veronese Passarella. Presiede: Bruno Segre. Modera: Alessandro Monchietto.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Altra invece la perde per un calcolo prudente: il silenzio è d’oro la parola d’argento.
Altra ancora gusta tanto la propria parola che se la rimangia (peccato di gola?) o tanto la rimesta che gli diventa indigesta.
E c’è chi rifiuta la parola agli altri (non a sé) per timore che gli altri vedano dentro la sua che cosa c’è.
Ma a chi mantiene la parola e non la muta per odio dicono che la parola è la sua mantenuta.
II mistero più nero è di chi non ha la parola perché non ha un pensiero.
Ma quando si dice di un tale, magari un animale, un cane, che gli manca la parola per esprimere un concetto non è vero; un guaito uno sguardo un colpo di zampa bastano ad esprimere un desiderio o un affetto.
La parola è tutto se ne cavi un costrutto.
Franco Antonicelli, Le parole turchine, Illustrazioni di Giovanni Tribaudino, Einaudi, Torino 1973, pp. 102-103.
L’incontro tra Carlo Frassinelli e Franco Antonicelli, e la nascita di una collana che ha fatto la storia, da Melville a Kafka passando per Twain e Stevenson.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Il significato allegorico dello splendore della luce del sole non rimanda ad un altro mondo. Platone direbbe: finché vive, l’uomo deve cercare la verità in questo mondo così come Socrate la seppe cercare […].
Per Platone la possibilità del conoscere dipende dal sapere volgere lo sguardo non verso le tenebre ma verso la luce del sole perché solo la luce del sole consente che la verità venga fuori. Ed anche perché la luce del sole […] coincide con l’idea di sommo bene, rappresenta il fondamento costitutivo della conoscenza umana. «Ora – dice Platone –, questo elemento che agli oggetti conosciuti conferisce la verità e a chi conosce dà la facoltà di conoscere, di’ pure che è l’idea del bene; e devi pensarla causa della scienza e della verità, in quanto conosciute» (Repubblica, 508 d-e).
[…] Per Platone la luce e la vista sono «simili» al sole, ma non sono il bene, così come la scienza e la verità sono simili al bene ma non sono il bene; giacché il sole, cioè il bene, consente mediante la luce la vista al soggetto, ossia la conoscenza dell’oggetto in sé e per sé. Per esprimere tale concetto, Platone si serve di una metafora-similitudine, definendo «il sole prole del bene, generato dal bene a propria immagine» (Repubblica, 508 b-c). Il sole, in quanto generato dal bene, consente la vista del bene, poiché ogni azione dell’uomo dovrebbe essere finalizzata al bene. Solo chi non vuol vedere o preferisce tenere gli occhi chiusi non riesce a scorgere, mediante la luce del sole, il bene. […]
Non è operazione facile quella degli uomini: cogliere l’essenza della verità è arduo, perché si tratta di abituarsi ad una luce che in un primo momento acceca provocando un disorientamento generale; un arretramento e uno sbigottimento dinanzi allo splendore del sole. Così accade che, se per caso un uomo arriva a cogliere il senso autentico della realtà, non è detto che anche gli altri uomini sappiano recepirla, perché impreparati a tal punto da non credere a quanto suggerito da chi invece, per primo, ha colto la verità.
Conoscere è un guardare in alto, ma un guardare in alto metaforicamente parlando, perché l’uomo non resti schiavo della sua ignoranza e della sua condizione sociale. Il guardare in alto sta per volgere il viso alla chiara luce del sole per fuggire dalle tenebre della schiavitù. Il conoscere è un agire, ma un agire che presuppone il miglioramento, se non il cambiamento radicale, delle condizioni dell’uomo nei suoi rapporti con gli altri. Non è un vuoto conoscere privo di contenuti banalmente proiettato verso l’aldilà, così come testimonierebbe la figura del saggio Talete mediante l’aneddoto del Teeteto; è invece il conoscere per cambiare questo stato di cose.
Il filosofo, propugnato da Platone, non sta con la testa tra le nuvole completamente distaccato e disinteressato dalle cose di questo mondo. E ciò anche se alcune posizioni «politico-ideologiche» espresse da Platone non lascerebbero dubbi su una certa sua visione dei mondo in cui si muoveva. Egli riteneva tra l’altro che il vero filosofo non fosse interessato ai beni materiali; eppure conferiva ai filosofi il compito e la capacità di guidare lo Stato. […] Platone non pensava ad uno Stato fondato sulla conflittualità e tanto meno sul dominio di una classe sulle altre, ma […] assume a fondamento del sistema socio-politico l’idea di bene nella sua concezione universale di bene da realizzare per tutti quanti i cittadini.
Piero Di Giovanni, Platone e l’antiplatonismo di oggi, Palumbo, Palermo 1982, pp. 131-135.
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L’opera si sofferma su una virtù “umile” e apparentemente marginale, o addirittura obsoleta: la sobrietà. La sobrietà è una fondamentale virtù al tempo stesso filosofica e cristiana, perché permette di “prendere le distanze” dal mondo e dalle sue lusinghe, e di concentrarsi sull’essenziale. In tal senso, essa costituisce una via privilegiata per la riscoperta del sé più autentico e consente, insieme, di rinnovare il miracolo di quella “meraviglia” in cui consistono l’essenza e la sorgente prima del filosofare. Per confermare questa tesi e consolidare la “riabilitazione” della sobrietà, nell’opera viene riprodotto il testo di un opuscolo composto da uno scrittore e teologo fiammingo vissuto tra Cinquecento e Seicento, il gesuita Leonardo Lessio (1554-1623). Nella vasta produzione di questo pensatore si trova, infatti, un breve saggio dal titolo Hygiasticon, seu vera ratio valetudinis conservandae, che si può tradurre con L’arte di godere di una salute perfetta. Ivi Lessio ha inteso redigere una sorta di sintetico “manuale” per condurre una vita lunga e in buona salute. Tuttavia la sua prospettiva trascende la mera dimensione medico-dietetica: da buon teologo, oltreché esperto di filosofia morale, egli guarda oltre il semplice obiettivo del benessere fisico individuale. La salute, conquistata e conservata mediante una saggia disciplina della condotta, è per lui essenzialmente una risorsa preziosa da spendere al servizio di Dio e del prossimo, dunque da articolare nello spazio pubblico. Il momento attuale sembra particolarmente favorevole a una riproposta dei consigli di Lessio: è infatti in corso un ripensamento radicale dello stile di vita, improntato al consumismo e all’edonismo più smodati, che si è imposto nel mondo occidentale negli ultimi decenni. Nell’ottica della scelta di una vita sobria, dignitosa e ragionevolmente felice, i suggerimenti di Lessio suonano quanto mai puntuali ed efficaci; questo, senza trascurare il loro elevato spessore etico e religioso e il loro contestuale valore di “provocazione”, diretta a stimolare nel lettore la volontà di un salutare mutamento non solo della condotta, ma anche della visione del mondo e, più in generale, della disposizione spirituale. Ciò rende le sue riflessioni adatte a chiunque sia pensoso tanto delle sorti dell’umanità quanto dell’indirizzo da imprimere alla propria esistenza.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Alessandra, hai intitolato la tua Tesi di Dottorato “Ricucirsi con Dioniso. La lectio tragica come esperienza genealogica di cura e di umanità”. Perché occuparsi oggi del dionisiaco nella nostra società?
Grazie Diego. La risposta per me è molto semplice: per nutrire la nostra tensione alla felicità. Vedi, siamo abituati a vedere Dioniso come il dio degli eccessi, della promiscuità sessuale, della trasgressione e dell’ebbrezza, ma questa è una visione molto riduttiva, dettata da una lettura parziale o superficiale delle fonti. Nella mia Tesi di Dottorato mi avvicinavo già a questo tema: cosa succederebbe, nelle accademie, se tornassimo a leggere i testi come se la lettura fosse davvero una pratica filosofica, disciplinata e trasformativa, in poche parole, un esercizio spirituale? E, nota importante, spirituale non significa religioso. Ogni umano, che lo voglia o meno, è un ricercatore, cioè va in cerca di se stesso. Nel suo ri-cercare sta già nutrendo, formando e inseguendo – a volte senza saperlo davvero – la propria intima possibilità di realizzazione personale, il proprio sentiero individuativo. Noi viviamo in un mondo scisso, diviso, frammentato politicamente e psichicamente. Individuarsi significa non-dividersi, essere integrati, tenere insieme i pezzi, in quel costante lavoro da funamboli, da palombari, da sarti che è il ricercare la propria umanità. Hadot afferma che il grande Goethe, in tarda età, si chiedesse: sono capace di leggere, di leggere per davvero? Non è, in fondo, la vita stessa una grande opera di lettura, ri-lettura, scrittura e ri-scrittura di narrazioni originarie, ramificate, genealogiche – mie, tue, dei nostri cari, del pezzo di mondo che abbiamo vissuto? Diego, iniziamo da un testo o da un autore. Quale sceglieresti? Il mio testo sacro sono state le Baccanti di Euripide. Un testo che ho interrogato e da cui mi sono lasciata interrogare per molto tempo, legittimandomi le metamorfosi a cui mi sentivo chiamata. Non è stato facile, sai? Ci è voluto coraggio. Da qui credo che sia abbastanza intuitivo e immediato il collegamento con il contemporaneo. Comprendere questi simboli, oggi, per la loro incredibile attualità, senza appiattirli od oggettificarli è fondamentale. Stiamo vivendo una delle più grandi crisi spirituali mai viste, l’etica non è purtroppo un modo di vivere che alimenta il nostro psichismo individuale e collettivo. Eudaimonia, felicità in greco, è proprio questo, l’etica in atto: sentire il daimon orientato e armoniosamente accordato al bene. Una tensione costante, che segue un sentiero ben preciso però, e questo sentiero è filosofico. E questo sentiero è dionisiaco, perché ci insegna a lasciar andare e a essere chi si è davvero.
Cosa si intende per filosofia del tragico e quale importanza ha la figura di Dioniso (lo straniero, l’androgino, l’irrazionale, l’addolorato)?
Dioniso è una divinità antichissima, addirittura cretese. In quanto archetipo di zoe, la vita indistruttibile non riducibile al bios (il segmento vita-morte), Dioniso è e deve essere travolgente e inarrestabile, infatti indica sempre una rinascita come simbolo della vibrante circolarità vita-morte-nuova vita. Dioniso è, più di tutti, un daimon, un essere intermedio tra il dio e l’umano. Il suo compito è quello di orientare, offrire una mappa del senso, una direzione nella vita. Ma bisogna imparare ad ascoltare e per ascoltare bisogna saper stare nel silenzio – cosa che oggi pare impossibile non solo perché del silenzio abbiamo paura, ma anche perché siamo costantemente calati nell’attività produttiva e performativa. Al contrario Dioniso ci chiama all’ascolto di noi stessi: chi siamo? Cosa desideriamo? Come ci portiamo nel mondo, ovvero come ci com-portiamo? Dioniso ci chiede di rinunciare agli ingombri dell’io, alle derive individualistiche, alle prospettive antropocentriche, alle logiche del potere e del guadagno o dell’accumulo fine a se stesso, al fine di celebrare la vita nella sua forza inarrestabile. Ci chiede, pertanto, di risvegliarci alla vita, di vivere e non meramente sopravvivere. Ancora, Dioniso ci chiede di allenare i sensi, la corporeità, di andare oltre noi stessi ma proprio a partire dal nostro sentire. La trascendenza si compie nell’immanenza. In questo senso la trance estatica si compie qui e ora e coinvolge necessariamente corpi e anime in un comune senso di appartenenza. Dioniso è, infatti, maestro delle cose umili e semplici, insegna a godere dell’istante ma non costringe nessuno a seguire i suoi culti. In quanto dio meticcio, dio del tutto e del suo contrario, dio del paradosso, Dioniso insegna il superamento del pensiero dualistico, frammentato, dicotomico. Insegna a seguire, ad affidarsi ad altri registri del sapere non meno degni di quello razionale, quale la sapienza artigiana del corpo, l’intuito, il presentimento. La filosofia del tragico è, di conseguenza, una filosofia che si inscrive nel culto di questa complessità ecologica, simbolica e non-dualistica. Intendo qui la filosofia, richiamandomi a Luce Irigaray, come quel portare alla luce “la saggezza nelle cose dell’amore” oltre che come “l’amore per la saggezza”. Inoltre l’accezione che do al termine tragico è etimologica: in greco, infatti, il termine tragedia rimanda a un rituale sacro, fatto di canti e balli sfrenati che accompagnano il pianto di un capro sacrificale. Il tragico, dunque, è prima di tutto un’opera di contemplazione e di partecipazione al dolore – il dolore di un altro essere che riflette, ricorda, evoca e rappresenta sempre anche il mio. Ecco il teatro tragico. La filosofia del tragico è quella filosofia che celebra la vita senza negarne gli aspetti più oscuri e traumatici, anzi imparando a danzare insieme a questi, poiché è grazie all’andare giù, in profondità, a fondo, entrando in contatto con le parti oscure di noi stessi, che non solo non affondiamo ma riusciamo anche a trasformare il dolore in un atto creativo, vitale e foriero di luminosità.
Penteo squartato dalle Baccanti, Casa dei Vettii, Pompei, I secolo d.C.
Nel dibattito e nella comunità scientifica quale può/deve essere secondo te il ruolo della filosofia?
La filosofia deve sporcarsi le mani, uscire dalla torre d’avorio dell’elucubrazione fine a se stessa, smuovere le coscienze, formare le persone, prendere posizioni scomode e portarle avanti, stimolare il dialogo e occuparsi delle emergenze politiche, etiche, ecologiche dei nostri tempi. Il tutto con una sensibilità sinestetica e simbolica che integri e non dis-integri. Nel gruppo di Filosofia Morale, guidato prima da Romano Màdera e poi da Claudia Baracchi, i miei maestri, o ancora presso l’Associazione Philo-Pratiche Filosofiche è ormai da decenni che diffondiamo un modo di fare filosofia che sia concreto, reale, in dialogo con il contemporaneo. Proponiamo da moltissimi anni i Seminari Aperti di Pratiche Filosofiche, che sono appunto aperti a tutti, dentro e fuori l’Università, e sono assolutamente gratuiti. Io penso che la filosofia e le scienze umane siano fondamentali per un Ateneo come il nostro, che si fonda sulla ricerca scientifica in senso stretto.
Su cosa si stanno concentrando ora i tuoi studi e quali saranno i tuoi prossimi progetti?
Torno di recente da un’esperienza di Visiting in America dove ho insegnato al fianco del Prof. Gordon Cappelletty, in North Carolina. A novembre parteciperò a Bookcity, insieme alla Dott.ssa Sara Bergomi, con un incontro sul Dioniso delle profondità marine e melmose – un incontro a cui siete ovviamente invitati. Sicuramente, non posso negartelo, caro Diego: come ricercatrice precaria mi sento sempre un po’ sul filo del rasoio. Ad oggi spero comunque di continuare a lavorare in Bicocca con Claudia Baracchi, perché sento che questo è il mio posto e perché la Bicocca mi ha conosciuto fin da giovane. Oltre ai maestri, le persone che ho incontrato qui sono state tutte preziosissime per la mia vita e per la mia crescita professionale, soprattutto il mio collega Luca Grecchi, da cui ho appreso tanta umanità e sapienza filosofica. Ho una vita piuttosto ricca, molti progetti in mente e molti fronti di collaborazione aperti, come quello con il CSTG guidato da Riccardo Zerbetto, che mi ha invitato alla conferenza che hai segnalato in apertura, o quello con la Dott.ssa Giusi Negroni, con cui porto avanti il gruppo di Danzare le Tragedie. In prospettiva c’è una collaborazione aperta con l’ANPI e – in ultimo, ma non per importanza – anche con l’Associazione Felicita, presieduta da Alessandro Azzoni, a cui tengo molto perché si occupa dei diritti degli anziani nelle RSA e dei loro familiari, specie a fronte degli scandali di malasanità e dell’ingiustificabile ecatombe legata alla diffusione della pandemia. La filosofia, come Antigone ci insegna, deve essere coraggiosa, politica, e rispondere sempre alle leggi del cuore.
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Il «metodo tipico della conoscenza umana» consiste, per Alcmeone, nel «tekmairesthai», ovvero nel «procedere appunto per indizi, congetture, prove»: egli, in tal modo, «non faceva che teorizzare la sua stessa prassi di medico, abituato a interpretare l’esperienza per ritrovare in essa un significato, un valore di sintomo, e risalire così all’unità della malattia e delle sue cause». Sotto questo profilo, con Alcmeone «si apriva una nuova via verso il sapere, una via che passava pur sempre attraverso l’osservazione».
I saggi raccolti in questo volume ripercorrono gli ultimi cinquant’anni di ricerca ippocratica. Gli entusiasmi iniziali, ben motivati dalla “scoperta” di un grande territorio del sapere scientifico fino ad allora relativamente inesplorato, dei suoi metodi e della sua efficacia terapeutica, hanno via via ceduto in parte il campo a un più equilibrato atteggiamento critico-storico. Nel suo insieme, una lettura di questi testi può continuare ad offrire un panorama intellettuale utile a comprendere le coordinate metodiche e sociali che hanno consentito la comparsa di uno dei fenomeni più rilevanti dell’antica tradizione scientifica dell’Occidente. I saggi sono disposti in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni al volume ippocratico (1964 e 1973) che sono poste al termine per il loro carattere riassuntivo.
[1]MarioVegetti, Scritti sulla medicina ippocratica, Petite Plaisance, Pistoia 2018, pp. 330-333.
Ad Alcmeone di Crotone toccò, quasi un secolo prima di Ippocrate, il compito di raccogliere l’oscura eredità di ricerca di generazioni di medici, e anche il ricco patrimonio di osservazioni naturalistiche che si era venuto costituendo pur nell’involucro della physiologia: ed egli per primo intuì che questa eredità e questo patrimonio costituivano un campo relativamente autonomo del sapere, che richiedeva una sua specifica consapevolezza e suoi propri metodi di comprensione. Ad un’autonoma presa di coscienza della techne, Alcmeone fu spinto del resto dalle sue stesse conquiste di medico e di biologo, dagli stessi problemi teorico-pratici che la sua scienza veniva ponendogli ogni giorno e che certamente non trovavano risposta alcuna nelle semplificazioni e nella dogmatizzazione dell’empirico operate dalla physiologia. Certo, in questo suo lavoro di costruzione di una consapevolezza scientifica Alcmeone fu agevolato dal diffuso clima di ricerca che il pitagorismo propagava nella stessa Crotone e in Magna Grecia; ma è altrettanto certo che i suoi rapporti con il pitagorismo furono su una base di autonomia, di “dare ed avere”; e del resto non ci sembra una coincidenza occasionale che la fioritura di Alcmeone avvenisse proprio quando, ad opera di Ippaso e comunque dello sviluppo stesso della ricerca matematica, l’edificio sistematico della scuola pitagorica incominciava per altra via a vacillare (a partire dal 510 a.C.).
Alcmeone non attaccò le dottrine dell’arché: semplicemente le ignorò, come quelle che non trovavano corrispondenza alcuna nell’esperienza criticamente osservata. In quell’esperienza, egli riconosceva invece una indefinita molteplicità, non già di princípi sostanziali, bensì di princípi attivi o “qualità”, vale a dire di stimoli capaci di determinare nell’organismo una certa reazione fisiologica (l’amaro, il freddo e così via); di conseguenza, non v’è continuità fra organismo e physis, ma il rapporto fra l’uno e l’altra è un rapporto di stimolo e reazione (come testimonia anche Teofrasto attribuendo ad Alcmeone, in contrasto con Empedocle, la formula della «sensazione per contrari»).
Parallelamente, Alcmeone scopriva, grazie alla pratica spregiudicatamente scientifica della dissezione, che la funzione del percepire è nell’uomo bensì diffusa nei vari organi di senso, ma che essa viene poi coordinata e «interpretata» (per usare un termine dello stesso Ippocrate, che dipende qui da Alcmeone), da un organo centrale, e precisamente dal cervello. La scoperta di tale funzione del cervello spezzava di fatto il legame ombelicale fra uomo e mondo, fra conoscenza e realtà: e Alcmeone poteva rendere esplicita questa rivoluzionaria conseguenza dichiarando che, se la “sensibilità” è una proprietà di tutti gli organismi viventi, la funzione del “comprendere”, cioè di ridurre a sintesi significativa l’esperienza, e di “prender coscienza” della sensibilità stessa, è propria esclusivamente dell’uomo.
Il solco, che così si apriva fra l’uomo e la realtà che egli vuol comprendere e trasformare, era profondo e definitivo. Il mondo dell’esperienza riacquistava la sua concretezza e la sua datità, e l’esperienza stessa veniva riconosciuta incapace di dare spontaneamente conto di sé. Così, l’uomo e lo scienziato riconquistavano un’autonomia e una possibilità di comprensione e di controllo sul mondo, scoprendosi ad esso eterogenei e, nella tensione del conoscere e dell’agire, alla polarità opposta di esso. Ma Alcmeone si avvide di una conseguenza decisiva di tutto questo: la realtà si faceva ad un tratto opaca agli occhi dello scienziato; la verità e la realtà non si palesavano più tutt’intere all’interrogante; la sapienza, intesa come perfetta trasparenza e immanenza di tutto il mondo al frammento di mondo che è l’uomo, restava ormai solo una proprietà degli dèi (ed Empedocle, ispirato e taumaturgo, poteva ben dirsi simile a un dio).
In termini scientifici, la sapienza doveva venir sostituita dall’indagine, la rivelazione dalla congettura. Il metodo dell’analogia, basato sull’immanenza dell’arché a physis e di physis a ogni osservazione, doveva essere sostituito da quello dell’indizio e della prova. Quando Alcmeone poneva il tekmairesthai, il procedere appunto per indizi, congetture e prove, a metodo tipico della conoscenza umana, egli non faceva che teorizzare la sua stessa prassi di medico, abituato a interpretare l’esperienza per ritrovare in essa un significato, un valore di sintomo, e risalire così all’unità della malattia e delle sue cause. In questo modo si apriva una nuova via verso il sapere, una via che passava pur sempre attraverso l’osservazione, ma non più mitizzata bensì indagata per il suo valore di “segno”; e questa era la via che conduceva ad Ippocrate.
Il relativo isolamento di Alcmeone, in quanto puro scienziato, dalle grandi correnti filosofiche, gli agevolava certamente questa spregiudicata presa di coscienza metodologica; e tuttavia gli impediva di esplicitarne tutto il valore, e di generalizzarla fino a determinare chiaramente il rapporto fra teoria e osservazione, fra pensiero e realtà, fra verità e fatto. In altri termini, la zona dell’esperibile veniva bensì restituita alla concretezza che sola rendeva possibile l’indagine scientifica, e di quest’indagine veniva indicato il metodo tipico; ma poi Alcmeone lasciava in ombra la sfera del “pensabile” e insomma la struttura, la funzione, i procedimenti della ragione scientifica, che a quell’indagine era parimenti indispensabile.
Così la portata eversiva del pensiero di Alcmeone nei riguardi della physiologia non veniva immediatamente in luce, ed anzi ancora Empedocle poteva largamente ispirarsi ai singoli spunti di esso nella propria riduzione a sistema della physiologia. Solo dopo che un attacco frontale alla physiologia fosse stato portato in nome dell’autonomia e dell’intrinseca validità della ragione, l’eredità di Alcmeone avrebbe potuto essere raccolta in tutta la sua potenziale fecondità.
MarioVegetti, Scritti sulla medicina ippocratica, Petite Plaisance, Pistoia 2018, pp. 330-333.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Voici, pour la première fois édité et traduit, un texte grec antique perdu dans la langue originale et conservé en arabe. Il s’agit d’une lettre rédigée par un mystérieux Ptolémée, philologue aristotélicien actif à Alexandrie autour de l’an 200 après J.-C., dans laquelle celui-ci rapporte la Biographie et le Testament d’Aristote, ainsi qu’un Catalogue d’une centaine de titres inconnu par ailleurs. Ce vestige est l’une de nos meilleures sources d’information – et la seule qui soit interne à l’école péripatéticienne – sur la vie d’Aristote. Elle permet de reconstituer les liens entre Aristote et le pouvoir macédonien – Philippe, Alexandre le Grand et le général Antipatros – ainsi que l’émancipation progressive d’Aristote à l’égard de Platon. C’est aussi notre seul témoignage sur la première édition, dans l’Antiquité, des écrits savants du Philosophe. Instantané pris sur le vif de l’état de la philologie aristotélicienne, à Alexandrie, à la fin du IIe siècle, ce texte est une lecture essentielle pour quiconque s’intéresse à la question de savoir ce que nous lisons quand nous lisons Aristote.
Ptolémée « al-Gharib »
Ptolémée « al-gharīb » est un philologue aristotélicien de l’Antiquité, sans doute actif à Alexandrie autour de l’an 200 ap. J.-C.
Marwan Rashed
Après avoir été professeur de philologie grecque à l’Ecole normale supérieure, Marwan Rashed est aujourd’hui professeur de philosophie à la Sorbonne, où il enseigne l’histoire de la philosophie grecque et arabe.
Marwan Rashed vous présente une découverte exceptionnelle pour l’histoire de la philosophie ancienne : l’Épître à Gallus sur la vie, le testament et les écrits d’Aristote, de Ptolémée « Al Gharīb », qu’il a édité et traduit.
Introduction 1. État de la question 1.1. Trace de l’épître dans l’Antiquité 1.2. La redécouverte moderne de Ptolémée
2. Le texte et l’auteur 2.1. Structure de l’Épître à Gallus 2.1.1. Prologue 2.1.2. La Biographie d’Aristote 2.1.3. Le Testament d’Aristote 2.1.4. Le Catalogue des écrits d’Aristote 2.2. L’auteur 2.2.1 Ptolémée le Péripatéticien cité par Longin 2.2.2. Ptolémée le Platonicien 2.2.3. Ptolémée le Péripatéticien cité par Sextus Empiricus 2.2.4. Une attribution fautive à Ptolémée Philadelphe 2.2.5. Ptolémée Chennos 2.2.6. Ptolémée l’adultère
3. Ptolémée et les Pinakes d’Andronicos de Rhodes 3.1. État de la question 3.2. Sept points remarquables de la liste de Ptolémée 3.2.1. Absence de l’Éthique à Nicomaque 3.2.2. Une Métaphysique en treize livres 3.2.3. Présence du De interpretatione 3.2.4. Position des Topiques 3.2.5. Le titre des Premiers et des Seconds Analytiques 3.2.6. Le titre des Réfutations Sophistiques 3.2.7. Le titre du traité Du ciel 3.2.8. Conclusion : Ptolémée et l’érudition alexandrine autour de l’an 200
4. L’histoire ancienne du corpus 4.1. Les récits anciens : Strabon, Plutarque, Athénée … et al-Fārābī 4.1.1. La contradiction entre le récit de Strabon et de Plutarque et l’indication d’Athénée 4.1.2. Al-Fārābī : une version favorable au rôle d’Alexandrie ? 4.2. Les six données positives 4.2.1. Les listes anciennes 4.2.2. Le testament de Théophraste 4.2.3. Le renseignement de Posidonius 4.2.4. Rouleaux et traités : Porphyre et Ptolémée 4.2.5. Ptolémée et « la bibliothèque d’Apellicon » 4.2.6. Ptolémée et la découverte d’Andronicos 4.3. Retour sur le texte d’al-Fārābī 4.4. L’histoire ancienne du corpus Aristotelicum
5. La transmission du texte 5.1. Un texte arabe traduit du syriaque 5.2. Tradition directe et tradition indirecte 5.2.1. La tradition indirecte arabe 5.2.2. La tradition directe arabe 5.2.3. Établissement du texte
Sigla
Texte arabe et traduction مقالة لرجل يسمّى بطلميوس فيها وصية أرسطوطاليس وفهرست كتبه وشيء من أخباره الى رجل يسمّى غلس Traité d’un nommé Ptolémée contenant le testament d’Aristote, le catalogue de ses écrits et sa biographie, adressé à un nommé Gallus
Notes complémentaires Bibliographie
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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