Luca Grecchi – «Il desiderio chiamato Utopia». Jameson indica la strada giusta, quella di chi ritiene necessario non solo criticare, ma soprattutto costruire: criticare senza costruire è cosa ancor più sterile del semplice stare a guardare.

Luca Grecchi

Il  desiderio chiamato Utopia. Jameson indica la strada giusta, quella di chi ritiene necessario non solo criticare, ma soprattutto costruire: criticare senza costruire è cosa ancor più sterile del semplice stare a guardare.

 

Fredric Jameson, critico letterario statunitense e teorico politico marxista nato nel 1934, è noto al grande pubblico soprattutto per i suoi studi letterari (è stato allievo di Erich Auerbach), nonché per la sua ottima analisi del postmoderno. In questo libro, tuttavia, egli tratta specificamente di un tema troppo spesso ingiustamente snobbato dalla teoria marxista, ovvero quello dell’utopia. Il suo approccio risulta in merito, come mostreremo (leggendo il suo libro Il desiderio chiamato Utopia, Feltrinelli, Milano 2007, ed. or. 2005.), non viziato dai consueti pregiudizi marxisti, in quanto la sua valutazione dell’utopia come ideale riferimento teoretico e politico, risulta essere nella sostanza molto positiva.

Jameson inizia sottolineando, come si fa di consueto, la ambivalenza del termine «utopia», interpretabile – secondo l’etimologia greca volta per volta preferita – sia come «luogo inesistente» (per i detrattori dell’utopia), sia come «buon luogo» (per gli ammiratori dell’utopia). A causa di Marx, ma soprattutto di Engels, il marxismo ha da sempre considerato l’utopia come un modello negativo, un luogo ideale irraggiungibile volto solo a rendere astratta ed inconcludente la progettualità politica, facendola confluire in sogni separati dalla realtà che non portano appunto in «nessun luogo». Jameson, non cadendo in questo pregiudizio, ricorda sin da subito che, nonostante questa sia la vulgata prevalente, «Lenin e Marx hanno scritto entrambi di Utopia, il primo in Stato e Rivoluzione del 1917, il secondo ne La guerra civile in Francia del 1871» (pag. 10). Jameson rimarca ciò in quanto si rende conto che, senza una progettualità alternativa, anche utopica, che sia radicalmente altra rispetto alla effettualità capitalistica, la proposta comunista è destinata a non trovare sbocco, e dunque – essa sì – a confluire in «nessun luogo», ossia a non produrre effetti.

Descrivendo le tendenze in atto nell’attuale modo di produzione capitalistico, che per Jameson «smantella instancabile tutti i progressi sociali strappati a partire dalla nascita del movimento socialista e comunista» (pag. 10), egli afferma giustamente che la maggiore «disgrazia non è la presenza di questo nemico, bensì la convinzione universale non solo della irreversibilità di questa tendenza, ma dell’impossibilità e della non praticabilità delle alternative storiche al capitalismo, la certezza che non sia concepibile né tantomeno realizzabile nella pratica alcun altro sistema socio-economico» (pagg. 10-11). La critica al modo di produzione capitalistico, infatti, non può vivere di solo “marxismo” (intendendo con questo termine, genericamente, la critica sociale alla effettualità esistente), ma deve vivere di una progettualità che, pur partendo dal nostro tempo, deve saper immaginare, basandosi su ciò che è in potenza presente nella natura umana, un modo di produzione sociale migliore, che consenta appunto di porre in atto ciò che è in tale natura presente. Per questo, secondo Jameson, è necessaria una ripresa di interesse per l’utopia (che io tradurrei – anche se lui non lo dice – come una ripresa di interesse per la filosofia classica, sulla base della quale soltanto è possibile progettare idealmente), in quanto «non è possibile immaginare un qualsiasi cambiamento fondamentale nella nostra società che non si sia dapprima annunciato liberando visioni utopiche» (pag. 11), ossia progetti alternativi.

Tutto questo discorso, davvero promettente, che Jameson svolge nelle prime pagine del libro, non possiede però, purtroppo, la base filosofica che pure gli sarebbe necessaria, e di conseguenza si smarrisce presto, subito dopo la pur corretta indicazione di principio; dopo le prime pagine, infatti, prende piede soprattutto l’amore per la letteratura di Jameson, che dell’utopia si mostra quasi più interessato alla forma letteraria che al contenuto rivoluzionario, tanto da affermare che essa risulta essere, a suo avviso, un «sottogenere socio-economico» della fantascienza (pag. 12). Nonostante questo “eruditismo”, però, l’approccio di Jameson può essere considerato – nelle sue linee generali – condivisibile, in quanto egli riprende l’approccio di Ernst Bloch presente soprattutto nel libro Diritto naturale e dignità umana, affermando che «vedere ovunque, come fa Bloch, tracce di pulsione utopica significa naturalizzarla, e implica che essa sia in una qualche maniera radicata nella natura umana» (pag. 27). L’uomo, infatti, è sempre il necessario fondamento onto-assiologico di ogni proposta filosofico-politica.

Dove, tuttavia, si può trovare, oggi, la speranza che questo afflato ideale non scompaia, dato che la mentalità capitalistica ha oramai pervaso pressoché tutti i campi della vita? Ritengo che l’unico «luogo» in cui sia possibile ritrovarlo sia proprio la natura umana, che richiede ragionevolezza e moralità, e che è comunque un «buon luogo», in quanto è in potenza presente in tutti gli uomini, sicché questa speranza ha una forte possibilità di realizzarsi, nonostante tutto oggi giochi in senso contrario. I pensatori utopisti, secondo Jameson, ancor più dei filosofi possono svolgere, in questo compito, un ruolo molto importante, in quanto «i grandi rivoluzionari mirano sempre alla attenuazione ed alla eliminazione delle fonti dello sfruttamento e della sofferenza» (pag. 29). In questo senso, egli scrive correttamente che «l’iniziale gesto utopico di Moro, l’abolizione del denaro e della proprietà privata, corre lungo la tradizione utopica come un filo rosso che talvolta affiora prepotente alla superficie, talaltra viene tacitamente presupposto in forma più blanda» (pag. 40), ma che comunque non può mai abbandonare l’ideale umano.

Jameson mostra dunque, in maniera pienamente condivisibile, che l’utopia non deve essere considerata, come ha fatto per decenni il marxismo (abituato a farsi dei nemici tra i “vicini di casa” per sfogare le frustrazioni che, per mancanza di mezzi, non poteva rovesciare sui “lontani capitalisti”), come qualcosa di negativo ed inutile, bensì come qualcosa di positivo ed utile, anzi indispensabile, e che è possibile coniugare – come fecero appunto i grandi utopisti, in primis Moro, ma anche Platone – con la critica del proprio tempo; come ha scritto infatti sempre il Nostro, «non è possibile alcuna Utopia moderna che non intenda porre a tema, tra le tante altre questioni, i problemi economici causati dal capitalismo» (pag. 249).

In Jameson manca certo, come ricordato, la base filosofica e la conseguente proposta politico-progettuale su come organizzare un modo di produzione sociale alternativo; tuttavia, nel bivio iniziale per dirimere la questione, ovvero quello fra «progettuali» (utopisti) e «critici» (marxisti), egli prende subito, a mio avviso, la strada giusta, ossia quella di chi ritiene necessario non solo criticare, ma soprattutto costruire; e di chi, anzi, ritiene quasi che criticare senza costruire sia cosa ancor più sterile del semplice stare a guardare.

Già pubblicato in, L. Grecchi, Il presente della filosofia nel mondo. Postfazione di Giacomo Pezzano: «Nur noch Griechenland kann uns retten», Petite Plaisance, Pistoia 2012, pp. 51-53 (indicepresentazioneautoresintesi ).


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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Sante Notarnicola (1938-2021) – Sante il 22 marzo 2021 è volato via come una farfalla … Ne ricordiamo la vita con i manifesti che a sua memoria sono affissi in varie città. Lui diceva che: «La libertà ha bisogno di attenzioni, di cure continue e soprattutto ha bisogno di memoria».

Sante Notarnicola

A Sante,
alla sua capacità di esser stato,
e di essere ancora,
per sempre,
ad un tempo,
fragile e misteriosa
cristalide,
come gioventù
ricca di speranze,
di possibili metamorfosi,
matrice di trasformazioni
– condizione della realizzazione –
e farfalla
che col suo diafano
e lieve battito d’ali
punteggia
la trama
di Iride.

Carmine Fiorillo

La farfalla
Tentai di gettare l’anima al di là del muro … cercando di seguire la farfalla.

Chiara è una bimba felice.
Nata attrezzata
per i giochi infiniti.

Chiara lo sa, con lei
giocheremo tutta la vita.

Sante Notarnicola


Non c’è vita
che almeno per u n attimo
non sia stata immortale.
 
La morte
è sempre in ritardo di quell’attimo.
 
Invano scuote la maniglia
d’una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.

Wislawa Szymborska


I manifesti affissi in questo marzo 2022
per ricordare la vita di Sante Notarnicola


I manifesti affissi in questo marzo 2022
per ricordare la vita di Sante Notarnicola


[…] ci ho messo 50 anni a diventare comunista. E 20 anni 8 mesi e 1 giorno di prigione. E 11 anni di carcere di massima sicurezza. E 5 anni di celle punitive. E la posta censurata. E i vetri divisori ai colloqui […] E le cariche dei carabinieri nei corridoi delle prigioni. E il sangue nelle celle. E il sangue dal naso. E il sangue dalla bocca. E i denti rotti. E la fame all’Asinara. E il silenzio obbligatorio al bunker della Centrale, a cala d’Oliva. E i racconti dei torturati. E i colpi contro la porta per non farti dormire. E i colloqui respinti senza un motivo. E la posta sottratta. E il linciaggio del vicino di cella. E il vivere col cuore in gola. E la pressione che sale. E il cuore che senti ingrossare. E il compagno che se ne va con la testa. E le divisioni a 5 nei cortili. E le rotture politiche. E le divisioni che teoricamente dovevano rafforzarci. E il dilagare del soggettivismo. E i vetri infranti ai colloqui. E le rivendicazioni coi pugni chiusi. E la ritirata strategica. E gli scioperi della fame condannati. E i sorrisi spariti. E i soggettivisti sconfitti. E gli odi tra compagni. E le demolizioni personali. E la disgregazione umana. E le perquisizioni anali. E le sei diotrie perse. E l’assalto coi cani nelle celle. E i compagni colpiti da schizofrenia. E i primi tradimenti. E la massa di dissociati. E l’isolamento politico. E la piorrea che avanza. E gli anni che passano e i giorni che conti. E i silenzi, i silenzi, i silenzi.[1]

Poesia per comunicare in condizioni difficili. Poesia per rompere l’isolamento a cui vorrebbero costringere corpo e cervello. Poesia come difesa dall’abbrutimento della prigione. Poesia per amare ancora, per vivere ugualmente una vita complessiva.[2]

 

«Caro Sante,
Le tue poesie (alcune, come sai, le conoscevo già) sono belle, quasi tutte; alcune bellissime, altre strazianti. Mi sembra che, nel loro insieme, costituiscano una specie di teorema, e ne siano anzi la dimostrazione: cioè, che è poeta solo chi ha sofferto o soffre, e che perciò la poesia costa cara. L’altra, quella non sofferta, di cui ho piene le tasche, è gratis.

Primo Levi».[3]

***

[1] S. Notarnicola, Materiale interessante. Liberi dal silenzio, Edizioni della Battaglia, Palermo,1997, p. 10.

[2] Ibidem, p. 35.

[3] Lettera di Primo Levi a Sante Notarnicola, in S. Notarnicola, L’anima e il muro, a cura di D. Orlandi, disegni di Marco Perroni, Odradek, Roma 2013, pp. 19-20.






Sante Notarnicola – Tentai di gettare l’anima al di là del muro … cercando di seguire la farfalla.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Con il viaggio interiore di Pinocchio, e attraverso i simboli che attorniano il burattino, l’autrice osa sfidare l’immaginario pietrificato del nostro presente.

In copertina: Marc Chagall, Self-portrait with muse (dream), 1918 [Autoritratto con musa (sogno)].

indicepresentazioneautoresintesi


 In viaggio con Pinocchio
di Fernanda Mazzoli

Con il viaggio interiore di Pinocchio, e attraverso i simboli che attorniano il burattino,
l’autrice osa sfidare l’immaginario pietrificato del nostro presente.

Il Pinocchio di Fernanda Mazzoli è un viaggio tra letteratura di formazione, archetipi e critica sociale, è un processo cairologico come il titolo del saggio ci indica: In viaggio con Pinocchio. Nessun viaggio è mono-tono, ma comporta una serie di aspetti che l’autrice magistralmente tiene assieme in una sintesi armonica ed organica. Il viaggio con Pinocchio non termina mai con la subitanea lettura del libro di Collodi, ma continua più in profondità proprio dopo la comprensione del testo. Se il lettore ha vissuto le metamorfosi di Pinocchio, nelle trasformazioni ritrova se stesso e, specialmente, dinanzi a lui si apre un campo aperto di possibilità: deve scegliere il percorso migliore che lo riporta a se stesso, dopo i processi di reificazione in cui ha rischiato di perdersi. Il saggio di Fernanda Mazzoli osa sfidare l’immaginario pietrificato del nostro presente con Pinocchio ed i suoi simboli. Senza attività di simbolizzazione non vi è significato, per cui il nostro presente riposa nel “niente”. Rinunciando al viaggio interiore la politica è solo un far carriera e la comunità una giustapposizione di individui senza profondità e prassi. Non a caso dopo l’interessante prologo si sofferma sulla rilevanza della figura della fata Turchina, la quale è il logos, perché è la personificazione del fatum, da fari, ovvero di ciò che è stato annunziato. La fata preordina il percorso, è il concetto che prepara la prassi, fino a far coincidere teoria e prassi. Il logos è la fata Turchina, e senza logos non vi è formazione, non vi è crescita qualitativa, ma solo tempo cronologico senza speranza. Il tempo del viaggio è processo che deve maturare al contatto consapevole con il negativo. Pertanto la strada che il burattino deve svolgere per passare dallo stadio legnoso al corpo vissuto è segnato dalla fioritura del legno. Il legno non è materiale inerte, in esso scorre la vita in potenza che deve portare in atto i suoi germogli interiori fino alla completa trasformazione. Nulla è banale in un processo di crescita, ma tutto è meravigliosamente eccezionale:

«La banalità qui non è di casa: è storia, piuttosto, di una contrastata acquisizione della coscienza di sé e del mondo che si fa strada attraverso mille peripezie di carattere iniziatico».[1]

Il viaggio di Fernanda Mazzoli non si limita a cogliere i rapporti tra il testo di Collodi e la letteratura di formazione, rintraccia nel percorso interno al saggio elementi di divergenza e convergenza con il genere picaresco, ma è presente, anche, una lettura critica e sociale del romanzo. Nell’Italia che si avvia verso la sua prima rivoluzione industriale riemerge l’utopia dell’arricchimento facile con il Gatto e la Volpe e il desiderio utopico ed antico di un’abbondanza che  si autoproduce senza l’intermediazione del  lavoro:

«È il vagheggiamento di un’abbondanza che nasce direttamente da se stessa, senza l’intermediazione del lavoro, ad animare le strabilianti narrazioni, ora divertite, ora ingenuamente partecipi, messe in scena dalla letteratura dotta  e da quella popolare».[2]

Il romanzo ci induce a guardare al presente, da esso si dipanano piani di temporalità: vi è l’eternità dei simboli, il tempo coevo di Collodi e il nostro tempo. Il paese della Cocaigne è accostato al mondo debordante di merci dei nostri ipermercati, ma in essi la Cocaigne non è sogno, ma disincanto, perché senza il denaro nulla è possibile; si può solo guardare, ma si è respinti nel grigiore dell’impotenza e della frustrazione:

«Un grande centro commerciale che esibisce sui propri scaffali, accuratamente disposte, merci di ogni tipo e per tutti i gusti e che basta allungare per cogliere, fare proprie e soddisfare tutte le brame, potrebbe essere la versione moderna di Cocaigne».[3]

Pinocchio alla fine della sua iniziazione comprende che la crescita non è l’accumulo dell’individuo proprietario, ma è la luce interiore dei legami di significato senza i quali nulla ha senso. Il burattino ci insegna a non cadere nella trappola degli ipermercati e delle miserie dell’abbondanza. Solo la crescita qualitativa e la chiarezza del bene liberano dai processi di alienazione. Il bene è discreto e silenzioso, ed è Geppetto nel romanzo che testimonia la profondità del bene con la sua vita al limite della miseria, ma incentrata nel dono di sé, nella cura e nella misura:

«Se non modello, Geppetto identifica però un ideale di vita, fondato sulla misura, l’onestà, la sobrietà e il senso del dovere, che Pinocchio farà suo».[4]

In questo tempo bellicoso, il saggio di Fernanda Mazzoli non è fuga dalla realtà, ma ci è di ausilio per riscoprire ciò che è fondamentale per ogni comunità umana degna di essere definita tale: i processi di formazione e germinazione della vita, i quali non terminano con l’adolescenza, ma sono i tempi veri ed autentici di tutta l’esistenza. Il prezzo da pagare è la separazione dall’inautentico per una superiore qualità di vita. Ciò può avvenire in ogni periodo della vita, per cui Pinocchio è l’eterno nella condizione umana:

«È il prezzo da pagare per diventare se stessi, separazione dopo separazione, per raggiungere un’unità più alta, una forma che emerge dal caos dell’indistinto e conquista una sua faticosa libertà».[5]

[1] Fernanda Mazzoli, In viaggio con Pinocchio, Petite Plaisance, Pistoia 2022, pag. 76.

[2] Ibidem, pag. 57.

[3] Ibidem, pag. 66.

[4] Ibidem, pag. 42.

[5] Ibidem, pag. 86.


Pieter Bruegel the Elder, Luilekkerland (“The Land of Cockaigne “), oil on panel (1567; Alte Pinakothek, Munich).jpg
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Sabrina Grimaudo, «Difendere la salute. Igiene e disciplina del soggetto nel “De sanitate tuenda” di Galeno». Problema medico o questione filosofica?

Galeno

Sommario del volume

Introduzione

La salute: problema medico o questione filosofica?

Le definizioni  galeniche della salute tra arcaismo e modernità

La misura della salute

Salute, percezione, congettura. Un bene fragile e i suoi criteri

Le parti dellamedicina e il primato dell’igiene

L’igiene e il suo specialista. Dalla cura di sé al controllo dell’esistenza

L’uomo di ottima costituzione: un canone per la trattazione igienica

Auctoritas e avversari

Bibliografia


Sabrina Grimaudo, Difendere la salute. Igiene e disciplina del soggetto nel “De sanitate tuenda” di Galeno, Bibliopolis. Napoli 2008

Imponente summa di una riflessione sulla salute e sui modi per tutelarla già avviata in alcuni scritti del Corpus Hippocraticum, il trattato di Igiene di Galeno presenta al tempo stesso caratteri profondamente innovativi rispetto ai testi sulla dietetica dei sani di epoche precedenti, e sviluppa una teoria della salute che per ampiezza e spessore concettuale non ha confronti nel mondo antico. Incentrando l’analisi sul trattato di Igiene e sul Trasibulo, ma con uno sguardo complessivamente rivolto all’intera opera di Galeno, il libro ricostruisce l’ideologia galenica della salute, mettendone in luce i legami con la tradizione medica e filosofica ed evidenziandone, anche attraverso il filtro del dibattito contemporaneo sul tema, gli elementi di interesse per il lettore moderno.

Sabrina Grimaudo è docente presso l’Università di Palermo. I suoi studi soni principalmente rivoilti ad aspetti storico-epistemologici della scienza antica, al lessico greco della parentela e all’analisi del rapporto potere/violenza nei testi greci. Oltre avari contributi su riviste specializzate, ha pubblicato Misurare e pesare nella Grecia antica. Teorie, storia, ideologie, L’Epos, Palermo 1998.

Curriculum e pubblicazioni di Sabrina Grimaudo.



Plutarco

«E fra le arti liberali la medicina non è inferiore a nessuna per raffinatezza, eccellenza e diletto e assicura a chi ne ama lo studio un grosso vantaggio, la conservazione della vita e la salute. Quindi bisogna guardarsi dall’accusare i filosofi di varcare i confini quando discutono questioni di salute (οὐ παράβασιν ὅρων ἐπικαλεῖν δεῖ τοῖς περὶ ὑγιεινῶν διαλεγομένοις φιλοσόφοις), anzi vanno disapprovati se non ritengono opportuno sopprimere del tutto i confini e dedicarsi ai loro nobili studi in comune, come in un terreno unico (ὥσπερ ἐν μιᾷ χώρᾳ κοινῶς ἐμφιλοκαλεῖν), mirando a un tempo, nelle loro discussioni, al piacevole e al necessario».

Plutarco, De tuenda sanitate praecepta, 122 D-E.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Serge Latouche con Simone Lanza – Una società che mira alla crescita per la crescita è una società assurda e condannata al fallimento. Si può arrivare alla felicità solo se si sanno limitare i propri bisogni e i propri desideri con una austerità frugale e in vista di un benessere comune.

I testi di questo libro provengono dalla trascrizione di due interviste a Serge Latouche realizzate da me nel 2014 e nel 2016 per la trasmissione radiofonica «400 colpi» di Radio Bechwith Evangelica, una piccola emittente ribelle in val Pellice vicina alla Chiesa Valdese, che qui si ringrazia per aver messo a disposizione le registrazioni.

Le domande e risposte delle due interviste qui riportate non seguono sempre l’ordine originale. La terza parte si basa su scambi a distanza tenutisi in occasione della stesura della prefazione di Latouche al mio libro, Perdere tempo per educare, e ne contengono alcuni stralci; questo scambio si è svolto durante la pandemia da Covid-19, dal marzo 2020 a giugno 2021.

Il testo finale, in parte in italiano e in parte in francese, è stato tradotto e rivisto da entrambi con l’aiuto insostituibile di Claudia Romagnoli. Si è cercato di mantenere la caratteristica parlata e dialogica,  ma si sono verificate e inserite le citazioni delle fonti originali. Inoltre ogni tema affrontato ha delle note minime ed essenziali che permettono di rintracciare nelle varie opere di Latouche eventuali approfondimenti.

Questo testo permette sia di avvicinarsi per la prima volta al pensiero complessivo di Serge Latouche percorrendo temi già trattati in varie opere (prima parte), sia di approfondire la questione pedagogica nel mondo di oggi (seconda parte), sia di entrare nello specifico delle sfide pedagogiche concrete e contemporanee (terza parte). Il testo riprende, rielabora e unisce i numerosi spunti pedagogici già contenuti in molte opere di Latouche, ma li compendia e approfondisce in un discorso unitario e originale, che ha il merito di mostrare con grande chiarezza la relazione tra la sfida pedagogica orientata a un nuovo mondo nel segno della decrescita e le sfide politiche che si impongono in un mondo dominato dal conformismo del disincanto e dall’immaginario colonizzato dall’economia.

Simone Lanza

Serge Latouche con Simone Lanza, Il tao della decrescita. Educare a equilibrio e libertà per riprenderci il futuro, Il Margine, Trento 2021, pp. 9-11.

 


Risvolto di copertina


«Una società che mira alla crescita per la crescita è una società assurda e condannata al fallimento» La società del consumo di massa globale si trova in un vicolo cieco. L’idea di una crescita senza limiti – quando la realtà fisica, biologica e geologica del pianeta appare invece limitata – contiene in sé i prodromi della catastrofe. Ecco allora che un nuovo paradigma economico, che abbia come obiettivo l’armonia con l’ambiente, proprio come avviene ad esempio nelle tradizioni orientali, potrebbe essere la nostra scialuppa di salvataggio. In un dialogo serrato con Lanza, Latouche rivela che avrebbe potuto, e forse dovuto, proclamarsi un «ateo della crescita» o, a essere più rigorosi, un fautore dell’«a-crescita». Dal momento che, mentre alcune cose posso crescere esponenzialmente, altre invece non devono farlo, se ci si accorge che minano le basi del nostro vivere insieme. In un mondo minacciato dai cambiamenti climatici, anche l’espressione «sviluppo sostenibile», oggi sulla bocca di tutti, è di fatto un ossimoro: lo sviluppo in sé e per sé è palesemente non sostenibile e la nostra stessa sopravvivenza richiede nuovi schemi di pensiero.


Sommario

 

Premessa

Prima parte

Il progetto della decrescita

 

Seconda parte

Decrescita e pedagogia

 

Terza Parte

Le sfide pedagogiche contemporanee: decolonizzare il disincanto.

 

Note al testo

Bibliografia


 

Simone Lanza – Perdere tempo per educare. Di fronte a una società che non perde tempo, il compito della pedagogia oggi è quello di rallentare ancora di più. Come già insegnava Rousseau, saper perdere tempo, lasciare spazio all’imprevisto, all’incontro, per dialogare con bambini/e, per sorprenderci e stupirci.
Simone Lanza – Le nuove tecnologie digitali stanno privando infanzia e adolescenza della possibilità di sviluppare memoria, senso critico, capacità cognitive. La realtà virtuale non è l’opposto della realtà, è la dimensione peggiore della realtà odierna: questo libro è dedicato a chi creda che abbia ancora senso sollecitare tutta la comunità educante a perdere tempo per educare.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Un silenzio assordante. Un insegnante umiliato difficilmente potrà trasmettere agli studenti il coraggio delle proprie idee e l’amore per la verità che non è fattore normativo autoritario, ma intima coerenza tra vita e pensiero.

Fernanda Mazzoli

UN SILENZIO ASSORDANTE

Un insegnante umiliato difficilmente potrà trasmettere agli studenti il coraggio delle proprie idee e l’amore per la verità che non è fattore normativo autoritario, ma intima coerenza tra vita e pensiero.

Dietro la troppo facile divisione tra sì vax e no vax, vero tributo al riduzionismo del pensiero ad opera del circo mediatico, quello che si sta delineando è un fenomeno gravissimo che riguarda le stesse strutture della politica: la messa a punto di una cittadinanza condizionata.

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Può darsi che io sia un soggetto in preda a credenze irrazionali, ma qualcosa non mi torna nelle misure messe in atto in ambito scolastico per arginare la pandemia da Covid 19.

Credevo di trovare, già a settembre, classi sdoppiate o meno affollate, mi aspettavo l’installazione in ogni aula di sanificatori d’aria, contavo su un raddoppiamento o almeno un incremento dei trasporti pubblici. È arrivata, invece, a dicembre la sospensione dall’insegnamento e dallo stipendio dei docenti e degli Ata che hanno scelto di non vaccinarsi.

Migliaia di insegnanti che in questi due difficili anni hanno contribuito, insieme ai loro colleghi, a dare continuità all’attività didattica ad Istituti chiusi, rappresentando un punto di riferimento forte per studenti spaventati e disorientati, mentre Miur e media cianciavano di DAD come nuova opportunità metodologica o di banchi a rotelle, sono considerati ora alla stregua di untori da allontanare dalla vita sociale, sino al punto di impedire loro di svolgere il loro magistero e di privarli delle fonti di sostentamento. Infatti, non trattandosi di un provvedimento disciplinare e conservando essi il rapporto di lavoro, sembra che non potranno nemmeno percepire l’assegno alimentare, né svolgere un’ altra mansione regolare.

Tutto questo avviene nel silenzio assordante dei grandi sindacati, dei difensori titolati della democrazia e dei diritti umani, nonché di molte delle voci critiche che si sono levate in questi anni contro l’aziendalizzazione della scuola, di cui questa disposizione rappresenta uno degli esiti. Toccherà, infatti, al dirigente scolastico nella sua qualità di datore di lavoro comminare la sospensione.

Dietro la troppo facile divisione tra sì vax e no vax, vero tributo al riduzionismo del pensiero ad opera del circo mediatico, quello che si sta delineando è un fenomeno gravissimo che riguarda le stesse strutture della politica: la messa a punto di una cittadinanza condizionata, in cui il diritto al lavoro è subordinato all’accettazione delle misure e delle condotte decise dal governo di turno, alle quali si assegna un carattere inconfutabile, in virtù del loro preteso coincidere con il Bene pubblico.

Chi dissente e rivendica la libertà di scelta si ritrova, come ha affermato il presidente del Consiglio nella sua conferenza stampa del 26 novembre1, fuori dalla società. E dalla scuola, dove a contare non sono più la preparazione professionale, la conoscenza dei contenuti disciplinari e la capacità di comunicarli ai ragazzi, ma l’acquiescenza e l’obbedienza, oggi al nuovo culto del vaccino (trasformato da strumento utile a contenere i danni del virus – di cui servirsi con tutte le precauzioni richieste da un farmaco sperimentale – a panacea miracolistica), domani a qualche altro credo, sempre naturalmente rivestito di opportuna aura salvifica.

Questi sono tempi in cui occorrerebbe riflettere sul serio sul sermone del teologo e pastore protestante Martin Niemöller, erroneamente attribuito a Bertold Brecht.

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare“.

Non solo: un provvedimento come quello che scatterà dal 15 dicembre suona come un vergognoso ricatto economico: non si limita a discriminare pesantemente i docenti in base a un parametro che nulla ha a che vedere con la specificità della loro professione, ma introduce un’ulteriore discriminazione fra coloro che potranno concedersi il lusso di essere coerenti con le proprie idee e quelli che, tra mutuo da pagare e figli da crescere, non potranno permettersi di rinunciare allo stipendio.

Saranno, questi, insegnanti avviliti ed umiliati, costretti ad abdicare alla propria libertà in cambio dei mezzi di sussistenza, schiacciati da una violenza – quella economica – che marchia a sangue le persone tanto quanto l’aggressione fisica, se non di più. Difficilmente, un insegnante umiliato potrà trasmettere agli studenti il coraggio delle proprie idee e l’amore per la verità che non è fattore normativo autoritario, ma intima coerenza tra vita e pensiero.

A scanso di equivoci, non ci si riferisce qui a chi ha scelto liberamente di vaccinarsi, ma a chi lo ha fatto o lo farà spinto dalla necessità di continuare a percepire un salario per vivere.

A ben guardare, i conti tornano, eccome: lo svilimento dei docenti è una tessera importante di quel puzzle disegnato dalle riforme degli ultimi venticinque anni, tendenti a fare della scuola una formidabile fabbrica di consenso sociale.

Fernanda Mazzoli

1 Testualmente :

Speriamo che la pandemia si evolva in maniera tale che il prossimo Natale sia normale per tutti. […] Bisogna che anche coloro che da oggi saranno oggetto di restrizioni […] possano tornare a essere parte della società con tutti noi”, dal che si evince che per adesso non ne fanno parte.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Michail Bacthin (1895-1975) – Solo nella relazione comunicativa reciproca, nell’interazione dell’uomo con l’uomo si rivela “l’uomo nell’uomo” sia per gli altri, sia per se stesso.

«[…] non è possibile comprendere l’uomo interiore qualora se ne faccia un oggetto di analisi indifferente e neutrale; non si può impadronirsene nemmeno se ci si fonde con lui, se si penetra in lui con il sentimento.

No, a lui ci si può accostare e lo si può scoprire – o meglio, indurlo a svelarsi – solo comunicando con lui, dialogicamente.

Raffigurare l’uomo interiore […] si può soltanto raffigurando il rapporto comunicativo di lui con l’altro.

Solo nella relazione comunicativa reciproca, nell’interazione dell’uomo con l’uomo si rivela “l’uomo nell’uomo” sia per gli altri, sia per se stesso».

Michail Bacthin, Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002, p. 331.

****

 


 

 

Michail Bacthin (1895-1975) – Il riso autentico non esclude la serietà, ma la purifica dal dogmatismo, dall’unilateralità, dalla sclerosi, dal fanatismo, dalla perentorietà, dalla intimidazione. Il riso è una forma interiore e non esteriore

Michail Bachtin (1895-1975) – Una sola voce non porta a termine nulla e nulla decide. Due voci sono il minimum della vita, il minimum dell’essere. Essere significa comunicare dialogicamente.

Michail Bachtin (1895-1975) – La comprensione creativa non rinuncia a sé. Di grande momento per la comprensione è l’extralocalità del comprendere. Nel campo della cultura, l’extralocalità è la più possente leva per la comprensione. Un senso svela le proprie profondità, se si incontra e entra in contatto con un altro, altrui senso: tra di essi comincia una sorta di dialogo. Senza proprie domande non si può capire creativamente alcunché di altro e di altrui (ma, naturalmente, le domande devono essere serie, autentiche).

Michail Bachtin (1895-1975) – La vera vita della persona è accessibile soltanto a una penetrazione dialogica alla quale essa si apre liberamente in risposta. Nell’uomo vi è sempre qualcosa che solo lui può scoprire nel libero atto dell’autocoscienza e della parola, che non si assoggetta alla determinazione esterna ed esteriorizzante.

Michail Bacthin (1895-1975) – La vita può essere compresa dalla coscienza solo nella responsabilità concreta. Una filosofia della vita non può che essere una filosofia morale. Si può comprendere la vita solo come evento, e non come essere-dato. Separatasi dalla responsabilità, la vita non può avere una filosofia; separatasi dalla responsabilità, essa è, per principio, fortuita e priva di fondamenta.

Michail Bachtin (1895-1975) – Non tutti i motivi che entrano in contraddizione con l’ideologia ufficiale degenerano in un indistinto discorso interno e muoiono. Solo che all’inizio esso si svilupperà in una cerchia sociale ristretta, entrerà nel sottosuolo della salutare clandestinità politica. Proprio così si forma un’ideologia rivoluzionaria in tutte le sfere della cultura.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Josep M. Esquirol – La resistenza è condizione necessaria della possibilità del progetto comunitario, è azione responsabile, è lotta contro la continua disgregazione dell’essere, contro il nichilismo. Ma la resistenza non è immunologia, e non esiste senza modestia e generosità.

La resistenza è condizione necessaria della possibilità del progetto comunitario, è azione responsabile, è lotta contro la continua disgregazione dell’essere, contro il nichilismo. Ma la resistenza non è immunologia, e non esiste senza modestia e generosità

***

«Ci sono solitudini incomparabili nel loro tendere alla condivisione. In realtà, solo chi è capace di solitudine può stare davvero insieme agli altri. […] Il deserto è ovunque e in nessun luogo […]. Chi affronta il deserto è, soprattutto, un resistente. Non ha bisogno di coraggio per espandersi, bensì per raccogliersi e poter così resistere alle dure condizioni esterne. Il resistente non ambisce a dominare o colonizzare, né desidera il potere. Vuole anzitutto non perdere se stesso, ma anche, e specialmente, servire gli altri. Questo atteggiamento non va confuso con la protesta facile e stereotipata: la resistenza, in genere, è un atto discreto.

[…] Eppure non è sbagliato usare la parola resistenza per riferirsi, oltre agli ostacoli opposti dal mondo alle nostre pretese, alla fortezza che possiamo dimostrare nell’affrontare i processi di disintegrazione e corrosione provenienti dall’ambiente circostante e persino da noi stessi. Ed è proprio allora che la resistenza si rivela una profonda pulsione umana.

Il nostro esistere può essere considerato un resistere proprio perché una delle dimensioni della realtà è interpretabile come forza disgregatrice. Di fatto, la prova più dura a cui viene sottoposta la condizione umana è la continua disgregazione dell’essere. È come se le forze centrifughe del nulla volessero saggiare la capacità dell’uomo di resistere al loro assalto. Sebbene i volti dei nemici cambino nel tempo, non si tratta di una sfida legata all’oggi o al passato, bensì di una prova costante, perché è la realtà stessa – per esempio per mezzo del volto del tempo e della sua assoluta irreversibilità – a cingerci d’assedio.

[…] Il silenzio di chi si raccoglie è un silenzio metodologico – letteralmente, è “un cammino” – che cerca di “vedere meglio” […].

Se la resistenza si contrappone soprattutto alla disgregazione, sarà opportuno analizzare la natura specifica di alcune forze entropiche a cui dobbiamo la nostra situazione attuale (nichilismo è il nome di una di esse, forse la più rilevante) […].

[…] Abbiamo sottolineato che la resistenza intesa come raccoglimento non si contrappone all’idea di progetto, anzi, se adottiamo questa prospettiva, la resistenza diviene condizione necessaria della possibilità del progetto. Esistono, invece, una chiusura e un isolamento assolutamente sterili […] . Non ricevere né dare, ecco un isolamento che sta agli antipodi di quello del resistente, le cui orecchie sono invece sempre tese ad accogliere la parola amica, mentre il suo pensare generoso è fin dall’inizio rivolto ad una azione responsabile. La resistenza non è immunologia (da qui il nostro disaccordo con Sloterdijk).

[…] Il resistente non pensa solo, o prioritariamente, a se stesso. Ecco dunque gli elementi della resistenza politica: coscienza, volontà e coraggio, oltre a un’intelligenza strategica per organizzarsi da sé e continuare a lottare nonostante la persecuzione sistematica e inevitabile di cui sarà oggetto. […] Resistere alla tirannia e al totalitarismo significa opporsi alla disgregazione, perché quei regimi […] uniformano e forzano una totalità apparente e falsa.

[…] La forza del resistente viene dal profondo.

[…] La memoria e l’immaginazione (il fervore delle idee) sono le migliori armi a disposizione del resistente.

[…] Non esiste resistenza senza modestia o generosità. Per questo, la presunzione e l’egoismo sono sintomi della sua assenza. Narciso non è resistente.

[…] La vita può essere assolutamente profonda anche nella marginalità, perché quel che davvero conta è la possibilità, per ognuno di noi, di essere inizio. Solo se non si arretra nemmeno di un passo si può continuare a sperare …».

Josep Maria Esquirol, La resistenza intima. Saggio su una filosofia della prossimità, Vita e Pensiero, Milano 2018, pp. 9-17.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Costanzo Preve (1943-2013) – Le stagioni del nichilismo. Un’analisi filosofica e una prognosi storica

Costanzo Preve

Le stagioni del nichilismo

Un’analisi filosofica e una prognosi storica

ISBN 978-88-7588-309-6, 2021, pp. 104, , Euro 10 – Collana “Divergenze” [79].
In copertina: Alberto Giacometti, L’Objet invisible (Main tenant le vide), 1934-35.

indicepresentazioneautoresintesi


Il 1998 è un anno particolarmente opportuno per iniziare un discorso critico complessivo sul nichilismo italiano, la sua origine storica ed ideologica, le sue divisioni interne, la sua dinamica di sviluppo. Il nichilismo filosofico italiano, vogliamo dirlo subito con chiarezza, non è un fenomeno da baraccone o una moda giornalistica. Si tratta di una cosa molto seria, ed anzi in senso assoluto di una delle correnti filosofiche più importanti nel panorama del Novecento culturale italiano. Parlando pacatamente, e pesando bene le parole, si tratta di un fenomeno complessivamente serio ed importante come lo fu il neoidealismo italiano di Croce e di G. Gentile. Il lettore potrà forse stupirsi di una valutazione tanto favorevole, avanzata da chi non si riconosce in questa corrente di pensiero, la respinge radicalmente e ne auspica esplicitamente il superamento. Ma la valutazione storiografica della rilevanza di una corrente filosofica non ha nulla a che vedere con la scelta filosofica personale di un pensatore. I criteri, per l’appunto, sono di tipo storiografico, e prendono in considerazione l’ampiezza, l’articolazione interna, l’influenza sociale e culturale di una determinata corrente di pensiero. In questo 1998 l’intellettuale-massa italiano, il lettore delle pagine culturali dei giornali, lo spettatore “colto” dei dibattiti televisivi, l’insegnante diviso fra degradazione crescente del suo ruolo sociale e velleità di rinascita sulla base della falsa onnipotenza e della concreta impotenza della “scuola-fai-da-te”, eccetera, è in media “nichilista” almeno come più di mezzo secolo fa era “crociano”.

Il nichilismo non deve dunque diventare oggetto di spiritose stroncature di costume, ma deve essere preso molto sul serio. Recenti pubblicazioni, che richiameremo ovviamente nella nota bibliografica in coda a questo saggio, ci invitano a farlo. È un peccato che queste pubblicazioni, in piccola parte anche per loro colpa, vengano fagocitate dalla chiacchiera giornalistica sugli schieramenti di destra e di sinistra nell’Italia dell’Ulivo. Il nichilismo debole di G. Vattimo è di destra, mentre il nichilismo forte di M. Cacciari è di sinistra, o non è piuttosto l’inverso? Ed ancora, è più di sinistra un nichilismo laico, postmoderno, debole e tranquillizzante, oppure un nichilismo più aperto all’esperienza religiosa, forte ed inquietante?

Nello stesso momento in cui pongo queste stupide domande, mi vergogno di fronte al lettore di queste note. In altra sede ho respinto radicalmente la pertinenza della dicotomia “destra”/”sinistra”, e lo ribadisco con forza anche qui. Tuttavia, se c’è un campo in cui questa dicotomia è particolarmente fittizia, pretestuosa ed inesistente, è proprio il campo delle oggettivazioni universalistiche, come la filosofia, l’arte, la scienza e la letteratura. Eppure, sono gli stessi pensatori “nichilisti” italiani che, su questo punto, danno corda alla curiosità classificatoria dei giornalisti, dal momento che la maggior parte di loro invece accetta integralmente la pertinenza della dicotomia destra/sinistra, e dunque nessuno di loro vuole essere classificato a “destra”, ma vogliono tutti invece essere fieramente riconosciuti come i “veri” pensatori di sinistra.

Tutto ciò avviene per tristi ragioni di congiuntura storica. Mentre al tempo della Prima Repubblica (1948-1992) il potere economico e politico stava maggiormente nelle mani della Democrazia Cristiana, ed il potere culturale invece gravitava maggiormente nell’area del defunto Partito Comunista Italiano e dei suoi alleati socialisti, nella presente incipiente Seconda Repubblica l’alleanza di centro-sinistra denominata Ulivo tende ad unificare il potere politico, il potere economico ed il potere culturale, e gli intellettuali si adeguano, anche perché gli “oppositori”, da S. Berlusconi a U. Bossi, vengono percepiti dall’intellettuale-massa conformista come esponenti della non-cultura, ed allora l’adesione simbolica all’Ulivo, o meglio ad un generico ulivismo, appare come uno status symbol culturale obbligato. La stragrande maggioranza dei filosofi “nichilisti” attivi è dunque tendenzialmente di area ulivista, ed ancor più precisamente di area PDS. Volendo scherzare un poco, ma non poi troppo, si potrebbe dire che la separazione fra nichilisti “deboli” e nichilisti “forti” duplica la scissione fra un PDS appagato ed un PDS inquieto, un PDS soddisfatto ed un PDS tormentato. Ma vogliamo rassicurare subito il lettore. Non ci metteremo su questa strada buffonesca. L’ulivismo è un fenomeno storico tragicomico da analizzare in altra sede e con altri strumenti. Qui è bene tornare al nostro proposito iniziale: prendere il nichilismo italiano sul serio. In un saggio breve come questo, in cui lo spazio è programmaticamente limitato, è indispensabile non perdersi troppo nei dettagli, e seguire una linea di ragionamento che non confonda il lettore, ma lo aiuti ad impadronirsi dei termini teorici essenziali della questione.

Lo faremo sviluppando il ragionamento in tre momenti successivi. In primo luogo partiremo dalla situazione culturale italiana attuale, in cui l’egemonia filosofica del nichilismo è un fatto, ed è un fatto che si è consolidato ed irrobustito gradualmente negli ultimi due decenni, a partire dalla metà degli anni Settanta circa. Cercheremo di fare alcune ipotesi di spiegazione di questa crescente egemonia, ipotesi peraltro abbastanza ovvie e di facile comprensione. In proposito, è importante capire che le odierne tensioni nel campo del nichilismo italiano, che la chiacchiera giornalistica più recente ha reso palesi, sono un segno di forza e non di debolezza del nichilismo, come a suo tempo era un segno di forza e non di debolezza del neoidealismo la tensione fra Croce e G. Gentile. Già Hegel aveva parlato di segno di “forza” di un partito filosofico il fatto di scindersi, e di poter sopportare la scissione rafforzandosi anziché scomparire. Nello stesso tempo, deve essere chiaro che restando nel circolo delle polemiche fra le varie correnti del nichilismo italiano si continua a girare in tondo senza alcun costrutto. È necessario prendere le distanze dall’immediatezza, ed affrontare il tema del nichilismo con una ben maggiore prospettiva storica e filosofica.

In secondo luogo, dunque, proporrò al lettore una simile presa di distanza storica e filosofica, attraverso tre punti distinti ma interconnessi. Primo, chiarirò che la nozione di nichilismo è una nozione squisitamente filosofica, che concerne dunque il significato esclusivamente filosofico di verità, ed è dunque una nozione il cui uso storico, ideologico e scientifico è fortemente sconsigliato, ed è anzi da evitare con forza. Secondo, distinguerò tre significati storico-filosofici di nichilismo assolutamente distinti, il nichilismo dell’Occidente, il nichilismo della modernità ed infine il nichilismo della contemporaneità postmoderna. L’importanza di questa distinzione è tale che vi dedicherò tre distinti paragrafi. Terzo, sosterrò che la maggior parte degli equivoci, che impediscono di impostare correttamente la questione del nichilismo, deriva dal fatto che il secondo significato è accuratamente evitato o radicalmente frainteso, ed in questo modo si crea un corto circuito interminabile fra il primo significato ed il terzo, che vengono connessi direttamente l’un l’altro senza mediazione alcuna, con il bel risultato di far saltare l’intero “impianto elettrico”.

In terzo luogo, per finire, tornerò alla discussione contemporanea sul nichilismo italiano alla luce del punto di vista espresso alla fine del secondo momento del mio ragionamento: la questione cruciale è il nichilismo della modernità, non il corto circuito fra il nichilismo dell’Occidente e l’attuale nichilismo della contemporaneità postmoderna. Se si assume questo punto di vista, la cui fecondità si tratta appunto di mostrare al lettore, molte cose altrimenti incomprensibili ed oscure “andranno al loro posto”. Sarà allora non solo possibile comprendere la logica delle scissioni e delle differenziazioni interne al nichilismo italiano, ma anche prendere finalmente una posizione radicalmente esterna ad esso. Non dico che sia una cosa facile. Dico soltanto che è una cosa in via di principio possibile.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Costanzo Preve (1943-2013) – Le avventure dell’ateismo. Religione e materialismo oggi

Costanzo Preve

Le avventure dell’ateismo

Religione e materialismo oggi

ISBN 978-88-7588-307-2, 2021, pp. 112, Euro 10 – Collana “Divergenze” [78].
n copertina: René Magritte, Arte della conversazione, 1963.

indicepresentazioneautoresintesi


Questo breve saggio discute un tema estremamente “lavorato”, noto e diffuso, sul quale la bibliografia è enorme: il rapporto conflittuale e la connessa scelta preferenziale fra ateismo e religione.

È molto difficile dire qualcosa di nuovo su di un tema così “saturo”. Eppure vale la pena tentarlo, anche perché intendo sostenere una tesi in apparenza molto banale, che resta però sconcertante per la maggioranza: la dicotomia ateismo/religione non è una dicotomia essenziale né per comprendere il legame sociale contemporaneo né per indagare il senso individuale della vita oggi, e di conseguenza è impossibile stabilire a priori, con una scelta di campo – di affiliazione, di appartenenza e di identità – quale sia la posizione più valida.

Ateismo e religione sono diventati oggi involucri di contenuti eterogenei, conflittuali e contrastanti. In buona compagnia con le inutili dicotomie come borghesia/proletariato, destra/sinistra, materialismo/idealismo, eccetera, anche la dicotomia ateismo/religione deve essere sottoposta ad epoché, cioè a messa fra parentesi, a dubbio metodico, ad indagine ravvicinata. Le preventive etichette identitarie sono nemiche del chiarimento storico e filosofico dei termini impiegati.

Detto così, sembra molto semplice, ed anche un po’ banale. Tuttavia, la mia affermazione si scontra oggi con due tipi di pregiudizio estremamente robusti e profondi.

Da un lato, duecento anni di razionalismo illuministico, laicismo positivistico ed ateismo marxista ci hanno abituato a considerare la critica della religione, o più esattamente delle superstizioni e delle illusioni religiose, il presupposto irrinunciabile di una visione del mondo scientifica e coerente.

Dall’altro, l’evidente crisi attuale del razionalismo illuministico e del materialismo marxista, entrambi consumatisi per una dialettica di logoramento interno assai più che per un attacco esterno, ha portato molti a rivalutare la fede religiosa non solo per le vecchie e solide ragioni della consolazione individuale nei momenti cruciali della vita, ma anche per la diretta applicazione alla politica del linguaggio teologico e religioso (teologia della liberazione, secolarizzazione, messianesimo, eccetera).

Il segno di eguaglianza che intendo mettere in questo saggio fra ateismo e religione non è però un segno di indifferenza. Non intendo affatto sostenere che si tratta di sciocchezze, pseudo-problemi, crampi mentali, ed altre ingenuità frutto di una frettolosa applicazione delle categorie della filosofia analitica.

La mia tesi è assolutamente opposta: dietro l’apparenza fuorviante dello scontro identitario fra atei e credenti, che si autoclassificano preventivamente in campi conflittuali opposti in base ad una dichiarazione preliminare di adesione all’esistenza o all’inesistenza di Dio, ci stanno contenuti filosofici che vengono sfigurati e schiacciati dal giuramento di appartenenza. Sono questi i contenuti che intendo portare alla luce. Ma è appunto impossibile portarli alla luce se prima la fuorviante dicotomia identitaria non è razionalmente “superata”.

Come si vede, si tratta di una tesi semplice, nonostante le inevitabili contorsioni terminologiche ed i riferimenti culturali, teologici e filosofici colti, semicolti ed incolti cui accennerò in questo saggio, che ho diviso per brevità e chiarezza in soli dieci paragrafi, di valore teorico e filosofico ineguale.

I paragrafi 1, 9 e 10 propongono la mia tesi fondamentale presente nell’intero saggio: la dicotomia ateismo/religione è una dicotomia di tipo identitario, che sostituisce la professione preventiva di appartenenza, talvolta paranoica, al confronto sui contenuti filosofici. Ma affermando o negando Dio gli uomini prendono posizione su due cose interconnesse: il senso della loro vita individuale e la natura del loro legame sociale complessivo.

Sono queste, e solo queste, ed unicamente queste le cose interessanti e rilevanti, ed il fatto che vengano espresse in linguaggio materialistico e/o teologico è certo rilevante, sintomatico ed interessante, ma non è primario per la comprensione dei problemi. I paragrafi 1, 9 e 10 sono stati separati perché mi è sembrato giusto non esporli “in fila”, ma metterci in mezzo un ampio materiale di tipo storico e filosofico.

Il paragrafo 2 discute del difficile posizionamento della religione moderna (e dunque post-cinquecentesca, sia cattolica che protestante) nel triangolo sociale e culturale formato dalle classi signorili, dalle classi popolari e dalle classe borghesi. È in proposito fondamentale la distinzione fra l’ateismo e la scristianizzazione. Le chiese non hanno mai temuto l’ateismo, che è anzi l’interlocutore teorico ideale di ogni teologia intelligente, ma hanno sempre combattuto la scristianizzazione, che è un fenomeno sociale globale sostanzialmente irreversibile perché coincidente con il legame sociale capitalistico globalizzato. Ogni discussione sull’ateismo è dunque utile soltanto quando incorpora “in controluce” una discussione sulla scristianizzazione in Occidente. Ogni “professione di ateismo” è a mio avviso sempre una religione, una religione umanistica dell’immanenza assoluta, ed ogni “assoluto” è sempre implicitamente trascendente.

Il paragrafo 3 valorizza due pensatori cattolici italiani “reazionari”, del tutto estranei ed anzi avversi al cattolicesimo “progressista”, che però hanno saputo cogliere il nesso fra logica della modernità, sviluppo della scristianizzazione ed ateismo filosofico. I due pensatori, ormai entrambi scomparsi, sono Cornelio Fabro ed Augusto del Noce. A mio avviso si tratta di pensatori “tragici”, per un insieme di ragioni cui accennerò brevemente.

I paragrafi 4 e 5 sono dedicati alla distinzione cruciale fra la professione di ateismo (da D’Holbach a Engels e da Lenin a Geymonat), che a mio avviso è sempre una religione, cioè una rappresentazione del reale, e l’interpretazione dell’ateismo (da Hegel a Heidegger), che a mio avviso è sempre una filosofia, cioè una concettualizzazione del reale. Prego il lettore di considerare cruciale questa distinzione.

I paragrafi 6 e 7 sono dedicati a due distinte forme di “dialogo”, quella fra i cosiddetti “laici” ed i cosiddetti “credenti”, dialogo in cui personalmente non credo, e che infatti ho definito il dialogo simulato ed impossibile fra Voltaire e Gesù, ed il dialogo, oggi scomparso ma un tempo alla moda, fra “marxisti” e “cristiani”. Su questo dialogo si sono accumulati molti fraintendimenti, sui quali cercherò di fare un po’ di luce, o quanto meno di avanzare un’interpretazione nuova, e certamente contro corrente.

Infine, il paragrafo 8 è dedicato al fondamentalismo, cioè all’uso politico (e geopolitico) diretto di categorie teologiche. In questo momento l’Islam mi sembra l’unico fondamentalismo ancora parzialmente possibile, mentre non vedo alcuno spazio per fondamentalismi cristiani o ebraici, data la loro incorporazione subalterna nella globalizzazione capitalistica e soprattutto nell’americanizzazione.

L’intero saggio, per la sua brevità, non intende avanzare tesi assertorie, ma solo fornire materiale per un dibattito ancora da svolgere.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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