Salvatore Bravo – La teoretica di E. Severino rimane in una condizione di indeterminatezza che rende la sua metafisica avulsa da ogni dinamico radicamento storico. Non resta che filtrare dal pensatore de «La Struttura originaria» gli elementi di inquietudine concettuale che possono esserci di ausilio per decodificare il presente.

Emanuele Severino 02
Salvatore Bravo
La teoretica di E. Severino rimane in una condizione di indeterminatezza
che rende la sua metafisica avulsa da ogni dinamico radicamento storico.
Non resta che filtrare dal pensatore de La Struttura originaria
gli elementi di inquietudine concettuale

che possono esserci di ausilio per decodificare il presente

 

Severino nel regno dell’impotenza
La metafisica di Emanuele Severino[1] è stata spesso tacciata di essere astratta ed avulsa dal contesto storico. La curvatura analitica della filosofia degli ultimi decenni impedisce, in realtà, di coglierne lo spessore critico implicito verso la fase avanzata del capitalismo. Emanuele Severino ha problematizzato la volontà di potenza del capitalismo assoluto, ne ha analizzato il fondamento che ne spiega gli automatismi sociali, psicologici ed economici. La hýbris è la verità tragica e terribile dell’onnipotenza della tecnica alleata del capitale. Il capitalismo assoluto è mosso dalla volontà di potenza e di annientamento della vita, in quanto ha assunto “il divenire” nelle sue forme polisemantiche quale dogma indiscutibile. Il divenire palesa la fragilità dell’essere umano esposto alla morte ed al pericolo della nullificazione. La paura di essere “niente”, di venire dal nulla e di ritornarne al nulla comporta il potenziamento della tecnica con la quale si cerca di neutralizzare il pericolo. In tale contesto il fine arretra fino a scomparire per lasciare il posto all’idolatria della tecnica e dei mezzi. Volontà, tecnica e capitalismo sono un corpo unico che si autoalimentano; la volontà di potenza è tecnica che diviene accumulo di capitale e vuole solo se stessa in un crescendo antisociale segnato dal tremendum. La società della paura partorisce mostri. Pertanto lo strumentalismo tecnico è la risposta all’ontologica paura che accompagna la vita umana. La paura in un crescendo senza limiti si trasforma in terrore. La tecnica con il suo potere è la risposta all’accelerazione della storia che liquida il passato senza prospettare il futuro. Si resta, in tal maniera, in un presente sospeso e, dunque, ci si consegna alla tecnica che assume una prospettiva soteriologica. Il regno dell’impotenza rafforza l’uso e l’abuso della tecnica in una spirale muscolare che cela l’impotenza dinanzi al divenire. La grande paura del divenire è da smascherare come “semplice apparenza destinale”, nel cui abbaglio si consolida la spirale di violenza, la filosofia ha il compito di liberare dalla paura, di rispecchiare il disvelamento destinale dell’essere negli essenti:

 

“Evitare che il fine ostacoli e indebolisca il mezzo significa assumere il mezzo come scopo primario, cioè subordinare ad esso ciò che inizialmente ci si proponeva come scopo. Le grandi forze della tradizione occidentale si illudono dunque di servirsi della tecnica per realizzare i loro scopi: la potenza della tecnica è diventata in effetti, o ha già incominciato a diventare, il loro scopo fondamentale e primario. E tale potenza – che è lo scopo che la tecnica possiede per se stessa, indipendentemente da quelli che le si vorrebbero far assumere dall’esterno – non è qualcosa di statico, ma è indefinito potenziamento, incremento indefinito della capacita di realizzare scopi. Questo infinito incremento è ormai, o ha già incominciato ad essere, il supremo scopo planetario[2]”.

 

Divenire e principio di non contraddizione
La filosofia di Severino è, dunque, la risposta alla grande paura mediante la metafisica dell’essere. Per neutralizzare il “male” nei suoi fondamenti pone in discussione il principio su cui si fonda il divenire: il principio di contraddizione. Esso si nega nel suo porsi, poiché implica e giustifica l’assurda opposizione tra essere e nulla su cui si fonda il divenire. Il principio di non contraddizione, invece, deve indicare l’opposizione della parte con il tutto, o l’opposizione tra gli essenti nel loro apparire. Il divenire dev’essere sostituito con l’apparire e lo scomparire degli essenti, questi ultimi sono eterni: ogni attimo, ogni gesto è eterno, poiché ciò che c’è non può diventare nulla, in quanto è iscritto nell’essere degli essenti la loro eternità. L’iperparmenideo Severino dimostra che l’essente non può diventare nulla, perché è. Se ogni ente è già nell’essere, non può tornare nel nulla. L’essente appare e scompare dall’orizzonte di visibilità della coscienza, ma prima e dopo il suo apparire non era nulla, bensì semplicemente era in un altro apparire. Il concetto di essere ha nel suo grembo, quindi, la negazione del nulla: logicamente ed ontologicamente ciò che è non può che essere eterno (gli eterni):

 

“L’aporia dell’essere del nulla è risolta col rilevare che il principio di non contraddizione non afferma la non esistenza del significato autocontraddittorio [ossia la contraddizione in cui consiste il significato nulla] ma afferma che «nulla» non significa «essere» […]. Il non essere, che nella formulazione del principio di non contraddizione compare come negazione dell’essere, è appunto il non essere che vale come momento del non essere, inteso come significato autocontraddittorio. [Dunque], certamente il nulla è; ma non nel senso che «nulla» significhi «essere»: in questo senso, il nulla non è, e l’essere è – ed è questo non essere del nulla ed essere dell’essere, che viene affermato dal principio di non contraddizione[3]”.

 Il principio di non contraddizione in Aristotele è l’espressione più vera del destino dell’Occidente planetario: è il regno del “niente” e del “nichilismo”, poiché il divenire con il terrore che esso comporta ha colonizzato l’intero pianeta. La tecnica da salvezza utopica è diventata distopia distruttrice che annichilisce e nientifica. Ciò che avrebbe dovuto scongiurare è di conseguenza pienamente realizzato. La globalizzazione della tecnica alleata con l’economicismo ha moltiplicato il terrore con i suoi effetti, la sopravvivenza del pianeta è minacciata, per cui la cura si è mostrata peggiore del male che avrebbe dovuto curare:

 

“L’Occidente è la civiltà che cresce all’interno dell’orizzonte aperto dal senso che il pensiero greco assegna l’essere-cosa delle cose. Questo senso unifica progressivamente, e ormai interamente la molteplicità sterminata degli eventi che chiamiamo «storia dell’Occidente», e domina ormai su tutta la terra: l’intera storia dell’Oriente è così diventata anch’essa preistoria dell’Occidente. Da tempo i miei scritti indicano il senso occidentale – e ormai planetario – della cosa: la cosa (una cosa, ogni cosa) è, in quanto cosa, niente; il non-niente (un, ogni non-niente) è, in quanto non-niente, niente. La persuasione che l’ente sia niente è il nichilismo. In tal senso abissalmente diverso da quello d Nietzsche e Heidegger, il nichilismo è l’essenza dell’Occidente[4]”.

La paura è il sentimento analizzato da Heidegger in Essere e tempo, in Severino come in Heidegger la paura (Furcht) e l’angoscia (Angst) divengono condizione ontologica ed esistenziale, sono astratti dalla condizione materiale storica con l’effetto di non essere spiegati nella loro genealogia immanente legata ai processi produttivi.

 

Limiti della metafisica in Severino
Severino indica il problema, ma non lo traduce in conflittualità sociale. Addita nella tecnica, similmente ad Heidegger, un destino da trascendere mediante la ridefinizione ineluttabile dei fondamenti della civiltà. L’essere umano è il custode del destino della metafisica, ma si limita a rispecchiare l’apparire dell’essere, a costatare il destinale apparire degli essenti, anziché la propria e la loro nullificazione. Il fondamento veritativo (l’essere degli essenti) è sfuggente ed indefinibile, in quanto Severino esclude che sia Dio, ma non lo configura in senso positivo. Il presunto fondamento si presta ad un prospettivismo interpretativo che ripropone il nulla in modo altro. I grandi passaggi della storia sono segnati dallo svelarsi dell’essere, l’esser umano deve solo “rispecchiare” l’accadere

 

“Gli eventi improvvisi non hanno radici e quindi scompaiono altrettanto rapidamente di come sono venuti. Ma gli eventi improvvisi, proprio perché tali, sono i più percepibili. Di essi chiunque può dire, e a buon diritto, che “assiste” alla loro comparsa e alla loro scomparsa. I grandi eventi, preparati da lungo tempo e non improvvisi, sono quindi i meno percepibili. Gli spettatori che assistono al loro farsi avanti sono quindi molto pochi. Chi direbbe, guardando il sole nelle prime ore del pomeriggio, che il suo declino ver.so occidente e già incominciato? Ben pochi. ma senz’altro l’astronomo. Lui sì sta “assistendo” all’inizio del tramonto. L’astronomo parla così in relazione auna certa struttura concettuale notevolmente complessa. Anche nel mio libro, a sua volta, si parla di declino del capitalismo in relazione a una certa struttura concettuale notevolmente complessa (che però ed era prevedibile – nulla ha a che vedere con il pensiero di Marx)[5]”.

 

La metafora astronomica utilizzata da Emanuele Severino non è casuale, ma svela la passività con cui l’essere umano deve attendere ed adeguarsi alla manifestazione dell’essere. L’emancipazione è privata del fondamento umano e storico e proiettata nel destino dell’essere che diviene il vero protagonista della storia. L’essere coniuga essenza ed esistenza nella totalità degli essenti, è nella storia e ne determina gli eventi. La libertà è sostituita da una rassicurante necessità. Si opera una scissione tra teoria e prassi con esiti che favoriscono il consolidamento dell’economicismo scientista. Il pericolo dell’astratto è insito nel rifiuto di analizzare le responsabilità politiche, sociali e materiali della condizione attuale. La filosofia di Severino è per tutti e per nessuno, non vi è un soggetto materiale e concreto a cui si rivolge, pertanto la prassi è sostituita dal destino. Il capitalismo cadrà a causa del potenziamento automatico della potenza tecnica, la quale dissolverà la scarsità che spinge alla produzione. Le macchine, nel loro vorticoso affinamento tecnico, produrranno un’infinita quantità di merci che risolveranno la scarsità. Le responsabilità umane si obliano dietro le ferree leggi sovraumane, si proietta nell’alto dei cieli il positivismo tecnocratico che si critica in terra: il determinismo regna sovrano. Non sono indicati i soggetti che dovrebbero operare per trasformare il divenire in apparire. Pertanto ricade in una forma di impotenza teoretica senza prassi e progetto. Il logos in Severino deve appurare l’apparire e lo scomparire degli essenti. Cade la sua funzione principale, ovvero la capacità di misurare e di porre fini oggettivi. L’emancipazione consiste nel liberarsi del Dio tradizionale che stabilisce l’essere e il nulla degli essenti, mentre per Severino tutti gli esenti sono eterni, non vi è un essente privilegiato in cui essenza ed esistenza coincidono:

 

“Ogni ente è eterno. Quindi è eterno anche quell’ente che è lo stesso accadere dell’ente […]. L’ente che accade […] e il suo accadimento è un eterno; quindi è necessario che l’ente accada. Nemmeno la sintesi tra l’ente che accade e il suo accadere può non essere (ossia esser niente)[6]”.

Si potrebbe intravedere nell’eternità di tutti gli essenti un principio di uguaglianza da tradurre in equa distribuzione dei beni materiali ed immateriali e superamento delle logiche padronali con il ritrarsi del Dio signore e padrone, ma Severino non conduce il suo sistema metafisico verso la prassi. La filosofia e la politica, la teoria e la prassi sono rescisse, si ricade nella filosofia dell’impotenza, in un “nichilismo onto-metafisico”.

 

Filosofia e prassi
Riportare la Filosofia alla sua verità significa sottrarsi alla frammentazione specialistica per ridisporsi verso la verità:

 

“la filosofia da città è diventata radura, e le vie che la collegano alle circostanti regioni sono ormai autostrade[7]”.

La filosofia, prima che si disperdesse in innumerevoli specializzazioni, era attività politica. Non è un caso che nel testo riportato Severino la paragoni ad una città; essa ha avuto origine nella polis, dove la parola dialogante fondava la politica sull’universale condiviso, sulla verità che, in tal modo, fondava la politica comunitaria in un orizzonte di senso mediante il “katà métron”. Severino rifiuta la tradizione metafisica greca e cristiana, in quanto si fondano sul principio di non contraddizione e nel divenire, e di fatto recide il legame con la tradizione filosofica. La teoretica di Severino resta in una condizione di indeterminatezza che rende la sua metafisica avulsa da ogni dinamico radicamento storico e dunque rischia un asfittico isolamento intellettuale indebolendone, come rileva Luca Grecchi, il piano ontologico:

 

“L’assenza di una precisa statuizione del fondamento ha condotto anche il pensiero di Severino ad una certa indeterminatezza, nonché all’assenza di un conseguente piano assiologico. Il nostro autore ha infatti dichiarato false tutte le strutture morali derivate dalla grande metafisica greca e cristiana, poiché la stessa metafisica è da lui considerata falsa, «identificando l’essere al niente». Il piano assiologico – umanistico e pertanto non vero – è dunque escluso dall’analisi di Severino[8].

Non resta che filtrare dal pensatore de La Struttura originaria (1958) gli elementi di inquietudine concettuale che possono esserci di ausilio per decodificare il presente. Severino ripone al centro la totalità e l’arte di porre domande profonde senza le quali non vi è futuro e non vi è passato, per cui le domande che si levano devono essere accolte. E, come avviene nella storia della filosofia, ci invitano ad altre risposte e soluzioni. Ma senza l’incipit della domanda nulla può iniziare. I percorsi per uscire dal “sentiero della notte” sono plurali. Per poter avviare l’esodo nessuna domanda e nessun ipotetico percorso dev’essere respinto, ma vagliato con il logos, ogni respingimento preconcetto ci riporta nel “sentiero della notte”.

Salvatore Bravo

[1] Emanuele Severino (Brescia, 26 febbraio 1929 – Brescia, 17 gennaio 2020). 

[2] Emanuele Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano 2009, pp. 8-9.

[3] Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 215.

[4] Emanuele Severino, ἀλήθεια in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 415.

[5] Antonio Sabatucci, Emanuele Severino: la morte del capitalismo, p. 16

[6] Emanuele Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 97.

[7] Emanuele Severino, La filosofia contemporanea, Milano 1986, p. 5.

[8] Luca Grecchi, Nel pensiero di Emanuele Severino, Petite Plaisance, Pistoia 2005, p. 88


Luca Grecchi, Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino.

ISBN 978-88-7588-092-7, 2005, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [4].
In copertina: Auguste Rodin, La Pensée. 1886, marmo, h. cm. 74. Musée d’Orsay.

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.


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Mario G. Losano – Kelsen vuole non spiegare, ma descrivere, poiché la sua teoria formale lascia ad altri lo studio dei contenuti. In questo periplo della dottrina pura del diritto ho additato più le secche che i porti. Per me, l’esprimere pensieri e ripensamenti legati al testo kelseniano che tradussi da studente è non tanto un’opera accademica, quanto un frammento di autobiografia culturale.

Losano Mario G. 01

[…] Dal punto di vista della lotta contro il giusnaturalismo, il relativismo kelseniano dà buoni frutti, spiegando nell’ambito d’una dottrina coerente come sia inammissibile ogni giudizio di valore assoluto. Un successivo esame rivela però che questo relativismo ha un limite: esso è completamente astorico, cioè appiattisce i vari contenuti del valore di giustizia in un’irreale sincronia, mentre, nella realtà storica, quei valori non coesistono, ma si succedono nel tempo, sia pur con inevitabili sovrapposizioni parziali. Soltanto così si può spiegare perché in tempi e luoghi diversi esistano norme di giustizia diverse fra loro, ma funzionali ciascuna al proprio ambiente.
Tuttavia Kelsen vuole non spiegare, ma descrivere, poiché la sua teoria formale lascia ad altri lo studio dei contenuti. Dal punto di vista metodologico è quindi indubbiamente scorretto attribuire contenuti ad una dottrina che non vuole averne; tuttavia è questo l’unico modo per superare la paralisi in cui si irrigidisce la dottrina pura del diritto. Fuor di metafora, bisogna a questo punto prendere posizione fra due giudizi di valore mutualmente escludentisi: la conoscenza è fine a se stessa o deve servire all’azione? Si ritorna così, ancora una volta, alle opposte concezioni della scienza – strumento conoscitivo chiuso in se stesso ovvero strumento del progresso umano – quali già si erano viste nel dibattito sull’avalutatività tra Schmoller e Weber. Nel primo caso, la dottrina pura del diritto va bene così com’è; nel secondo caso, non può più essere seguita.
Fu lo stesso Kelsen – quando, il 17 maggio 1952, ritirandosi dall’insegnamento, tenne l’ultima lezione a Berkeley – a mettere in luce tanto la mancanza di risposte propria della dottrina pura del diritto, quanto la necessità di ottenere una risposta a certi quesiti, che sono poi la condizione stessa per l’esistenza sociale d’una persona: «Ho aperto questo saggio con la domanda su che cosa è la giustizia. Ora, giunto alla fine, mi rendo perfettamente conto di non avervi risposto. La mia unica scusa è che, a questo riguardo, sono in ottima compagnia: sarebbe stato più che presuntuoso far credere al lettore che io sarei potuto riuscire là, dove erano falliti i pensatori pi6 illustri. Di conseguenza non so, né posso dire, che cosa è la giustizia, quella giustizia assoluta di cui l’umanità va in cerca. Devo accontentarmi di una giustizia relativa e posso soltanto dire che cosa è per me la giustizia. Poiché la scienza è la mia professione, e quindi la cosa più importante della mia vita, la giustizia è per me quell’ordinamento sociale sotto la cui protezione può prosperare la ricerca della verità. La “mia” giustizia, dunque, è la giustizia della libertà, la giustizia della democrazia: in breve, la giustizia della tolleranza».
Giudichi il lettore quanto quest’ultima affermazione sia compatibile con i postulati della purezza metodologica illustrati in precedenza. Tuttavia anche Hans Kelsen non ha altra soluzione per sottrarsi all’immobilismo elencatorio cui lo costringe la sua dottrina. Non v’è dunque da stupirsi se anche altri studiosi sentono l’esigenza di sottrarsi al frustrante precetto dell’avalutatività: la purezza è infatti una virtù commendevole, ed all’asceta che la pratica deve andare tutto il nostro rispetto; però una società di asceti sarebbe condannata all’estinzione.
In questo periplo della dottrina pura del diritto ho additato più le secche che i porti. Quando Kelsen separava il diritto dalla natura, ho ricordato i passi in cui egli afferma che una certa concreta efficacia è necessaria perché il diritto esista, cioè sia valido. Quando Kelsen separava il diritto dai valori, ho ricordato che la sua norma fondamentale non fa parte dell’ordinamento positivo, ma deve essere presupposta proprio in base a valori. Quando Kelsen limitava il compito del giurista all’accertamento della semplice validità formale delle norme, ho ricordato come egli fosse consapevole della Gorgone del potere che si cela dietro l’ordinamento giuridico. Quando Kelsen limitava l’attività del giurista a puri compiti elencativi, ho documentato come talora anche Kelsen sentisse il bisogno di infrangere l’elencazione pura di valori di giustizia o di possibili interpretazioni per scegliere un valore o un’interpretazione.
«Quandoque bonus dormitat Homerus», anche il buon Omero ogni tanto s’appisola, si potrebbe pensare con Orazio. Ma si sbaglierebbe: ho colto non i momenti di assopimento del teorico, ma anzi i suoi soprassalti di umanità. Quando il vincolo del sistema che egli va costruendo diviene così innaturale, da imporgli la scelta tra il rispetto della realtà e la coerenza della costruzione, talora Kelsen rinuncia a questa coerenza per rispetto della realtà. La dottrina pura del diritto è quindi una teoria che contiene gli elementi non della propria distruzione, bensì della propria evoluzione futura. Perciò, in queste pagine, ho cercato di distinguerne i punti fermi dalle costruzioni caduche, applicando alla teoria di Kelsen quel relativismo in cui egli vedeva l’unico fondamento della scientificità.
Spero che l’indispensabile precisione della critica non venga scambiata per astio di scuola. Per me, l’esprimere pensieri e ripensamenti legati al testo kelseniano che tradussi da studente è non tanto un’opera accademica, quanto un frammento di autobiografia culturale. Nella mia vita di scholar, le opere del grande giurista di Praga mi hanno costantemente accompagnato, stimolandomi sempre, anche se spesso per dissenso. Dissenso d’altronde inevitabile nell’avvicendarsi delle generazioni: più di mezzo secolo di polemiche, un molteplice esilio e due guerre mondiali non passano senza lasciar tracce su una dottrina; ma la dottrina che resiste a due guerre mondiali, ad un molteplice esilio ed a mezzo secolo di polemiche è una dottrina che, nella scienza del diritto, ha conquistato una posizione ben definita e, in certa misura, anche definitiva.

Mario G. Losano, Introduzione a Hans Kelsen, Il problema della giustizia, Einaudi, Torino 1975, pp. XXXII- XXXV.


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Mario G. Losano…


Prima in Galleria,
poi, più sotto,
ogni singolo volume …

Galleria



Hans Kelsen, La dottrina pura del diritto. Saggio introduttivo e traduzione di Mario G. Losano, Einaudi 1966.


Giuscibernetica. Macchine e modelli cibernetici nel diritto, Einaudi, Torino 1969


La teoria di Marx ed Engels sul diritto e sullo stato. Materiali per il seminario di filosofia del diritto, Università Statale di Milano. Anno Accademico 1968-69, Cooperativa Libraria Università Torinese, Torino 1969



Libia 1970. Materiali sui rapporti fra ideologia ed economia nel terzo mondo. Corso di filosofia politica, Università di Milano. Anno Accademico 1969-70, Cooperativa Libraria Università Torinese, Torino 1970


Corso di informatica giuridica, Cuem 1971


Rudolf von Jhering, Lo scopo nel diritto. A cura di Mario G. Losano, Einaudi, Torino 1972


Liςões de informática jurídica, Editora Resenha Tributaria, São Paulo 1974


Hans Kelsen, Il problema della giustizia, a cura di Mario G. Losano, Einaudi 1975


Informática Jurídica, Saraiva, Edusp 1976


I grandi sistemi giuridici Introduzione ai diritti europei ed extraeuropei, Einaudi 1978


Corso di informatica giuridica. Informatica per le scienze sociali, Einaudi 1985


Hans Kelsen, La dottrina pura del diritto. Saggio introduttivo e traduzione di Mario G. Losano, Einaudi 1991


Storie di automi, Einaudi 1991


Corso di informatica giuridica. Diritto privato dell’Informatica, Einaudi 1997


I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai diritti europei ed extraeuropei, Ed. Laterza 2000


Un giurista tropicale. Tobias Barreto fra Brasile reale e Germania ideale, Laterza 2000


La legge italiana sulla privacy. Un bilancio dei primi cinque anni, Laterza 2001


Sistema e struttura nel diritto. Vol. 1. Dalle origini alla scuola storica, Giuffrè 2002


Sistema e struttura nel diritto. Vol. 2. Il Novecento, Giuffrè 2002


Sistema e struttura nel diritto. Vol. 3. Dal Novecento alla postmodernità, Giuffrè 2002


Automi d’Oriente. «Ingegnosi meccanismi» arabi del XIII secolo, Medusa edizioni 2003


Verso una costituzione federale per l’Europa. Una proposta inedita del 1943, Giuffrè 2003


Mario G. Losano – Francisco Muñoz Conde (org.), El derecho ante la globalización y el terrorismo. “Cedant arma togae”. Actas del Coloquio Internacional Humboldt, Montevideo abril 2003, Tirant lo Blanc, Valencia 2004


Un giudice e due leggi. Pluralismo normativo e conflitti agrari in sud America, Giuffrè 2004


Función social de la propiedad y latifundios ocupados. Los sin tierra de Brasil, Dykinson 2006


 Il diritto economico giapponese, Unicopli 2007


 Il Movimento Sem Terra del Brasile. Funzione sociale della proprietà e latifondi occupati, Diabasis 2007


Hans Kelsen, Scritti autobiografici. Traduzione e cura di Mario G. Losano, Diabasis, Reggio Emilia 2008


Peronismo e giustizialismo, dal Sudamerica all’Italia, e ritorno. A cura di Marzia Rosti, Diabasis, Reggio Emilia 2008


L’ammodernamento giuridico della Turchia (1839-1926), Unicopli 2009


Umberto Campagnolo, Conversazioni con Hans Kelsen. Documenti dell’esilio ginevrino 1933-1940, a cura di Mario G. Losano, Giuffrè 2010


La geopolitica del Novecento. Dai Grandi Spazi delle dittature alla decolonizzazione, Bruno Mondadori 2011


Solidaridad y derechos humanos en tiempos de crisis, Dykinson, Madrid 2011


Parlamentarismo, democrazia e corporativismo, Aragno 2012


La macchina da calcolo di Babbage a Torino, Olscki 2014


Rudolf von Jhering, Lo scopo nel diritto. Introduzione e cura di Mario G. Losano, Nino Aragno Editore, Torino 2014


I carteggi di Pietro Luigi Albini con Federico Sclopis e Karl Mittermaier (1839-1857).
Alle origini della filosofia del diritto a Torino, Accademia delle Scienza 2015


Alle origini della filosofia del diritto in Giappone.
Il corso di Alessandro Paternostro a Tokyo nel 1889, Lexisi 2016


Il portoghese Wenceslau de Moraes e il Giappone ottocentesco.
Con venticinque sue corrispondenze nelle epoche Meiji e Taisho (1902-1913), Lexis 2016


Lo spagnolo Enrique Dupuy e il Giappone ottocentesco, Lexis 2016



El valenciano Enrique Dupuy y el Japón del siglo XIX. En apéndice. Enrique Dupuy, La transformación del Japón en la era Meiji, 1867-1894, Servei de Publicacions de la Universitat de València, Valencia 2017


La rete e lo stato islamico. Internet e i diritti delle donne nel fondamentalismo islamico, Mimesis 2017


Hans Kelsen, Due saggi sulla democrazia in difficoltà (1920-1925). A cura di Mario G. Losano, Aragno, Torino 2018


Norberto Bobbio. Una biografia culturale, Carocci 2019


INTRODUCCION A LA INFORMATICA JURIDICA, EDICIONES OLEJNIK 2019


La libertà d’insegnamento in Brasile e l’elezione del presidente Bolsonaro, Mimesis 2019


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – «Forsan et haec olim meminisse iuvabit». Illuminismo meridionale, plebe ed emancipazione, limite e democrazia nella Costituzione del 1799. Eleonora Pimental de Fonseca, Francesco Mario Pagano, Gaetano Filangeri.

Eleonora de Fonseca Pimental - Francesco Mario Pagano-Gaetano Filangeri

Salvatore Bravo

«Forsan et haec olim meminisse iuvabit»

Illuminismo meridionale, plebe ed emancipazione, limite e democrazia nella Costituzione del 1799

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Illuminismo meridionale
L’Illuminismo meridionale non è presente nei manuali di storia della filosofia, nelle accademie le ricerche sull’Illuminismo si limitano, in genere, gli studi agli autori noti. Gli autori meridionali compaiono solo in casi eccezionali ed all’interno di circoli accademici di nicchia. Il loro oblio ci racconta della sconfitta della la Repubblica del 1799 e della vittoria piemontese sull’Italia meridionale. Per dominare un popolo è necessario privarlo della sua memoria storica e della sua identità, non è necessario eliminarlo biologicamente.
Ma la modernità e la contemporaneità hanno sviluppato innumerevoli dispositivi di sterminio. La scomparsa di una tradizione culturale trasforma i popoli in plebe, in massa informe che attende dal dominatore una nuova anima che funge da falsa identità. Il dominatore “trasmette”, in modo unidirezionale, la sua storia, rade al suolo la storia degli sconfitti e si assicura la loro perpetua sudditanza. Le parole del popolo divengono le parole dei vincitori, gli autori con cui si “pensa e progetta” la storia sono le parole dei colonizzatori. Per i popoli meridionali così è stato. Ai piemontesi ora si sostituisce il dominio anglosassone. Pertanto la lingua ed i valori appartengono ad altri, sono imitate le parole come i comportamenti, mentre i luoghi della memoria divengono mercati per i nuovi potentati. I domini si stratificano ed affondano la memoria. I popoli divengono plebe sviluppando una percezione distorta ed aggressiva di sé. Il vuoto intuito e la violenza perenne dei dominatori si trasformano in identità posticce ed esteriori: il nulla identitario è sostituito con l’eccesso e l’aspirazione collettiva alla privatizzazione di ogni gesto ed allo smantellamento del senso pubblico, fino a sottrarsi ad ogni vincolo etico e comunitario. Nel caos dell’illimitatezza i popoli divengono masse tracotanti che compensano l’incapacità di tracciare il proprio destino con la disarmonia etica ed estetica: dal tessuto urbano all’abbigliamento vi è una struttura comune, ovvero l’occupazione aggressiva di ogni spazio al fine di marcare una presenza per occultare la sconfitta politica con l’esteriorità aggressiva. Le parole sono dette con l’angloitaliano che annichilisce non solo i dialetti, ma anche la lingua italiana. Il dispositivo di dominio ha lo scopo palese di trasformare i popoli in plebi precarie, e tale azione diviene più semplice con i popoli che hanno già subito violenze e mutilazioni identitarie.

Plebe ed emancipazione
La plebe non solo non è un soggetto politico, ma specialmente non ha valori linguistici e religiosi di cui si sente parte. È una massa esposta alle tragedie della storia, e si adatta. Ma, mentre si abbandona al nuovo dominatore a cui chiede identità e storia, diviene servile come i “lazzari napoletani”. La plebe non ha concetto, ma spera nell’obolo del nuovo vincitore. L’Italia meridionale è oggi l’espressione compiuta della condizione plebea, è l’archetipo dei popoli privati della loro anima collettiva e sostituita con i miti e gli incanti anglosassoni: i dialetti arretrano, la religione è in abbandono, la politica è sfregiata del suo senso dai nuovi sceriffi della legge, dall’invocazione impotente agli uomini forti che devono guidare il gregge verso un futuro che non c’è, ma si connota come l’ennesimo saccheggio delle risorse materiali e spirituali.
Ricordare l’Illuminismo meridionale significa riannodare i fili di una memoria spezzata da altri, perché il dominio si configura con la violenza della frantumazione dello spazio e del tempo. Nell’Illuminismo meridionale la differenza tra popolo e plebe non è soltanto delineata, ma specialmente si pone il problema di come trasformare le plebi in popoli. Eleonora Pimental de Fonseca[1] si impegnò nel coinvolgere la popolazione nella politica con il Monitore, il cui motto era “Far diventare la plebe popolo”. Francesco Mario Pagano[2] scrive i Saggi politici (1783 1785) e stese la Costituzione del 1799, mentre Gaetano Filangieri[3] delinea il concetto di felicità individuale mai scisso dal destino della comunità. Il popolo diventa plebe nella passività e specialmente nella rinuncia alla ricerca della felicità personale la quale è servizio alla comunità: la felicità di ordine acquisitivo è plebea, perché la soggettività è consegnata al disincanto delle merci. La Costituzione americana (17 settembre 1787) riporta il diritto alla felicità attraverso l’opera giuridico-filosofica di Gaetano Filangieri.

Limite e democrazia nella Costituzione del 1799
L’ostentazione della ricchezza è oggetto di censura nella Costituzione del 1799, coloro che usano il potere del denaro per offendere l’altrui condizione, e dunque si affermano sull’infelicità altrui, sono oggetto di una censura politica ed educativa. L’illimitatezza è il privato che assimila il pubblico, pertanto è nemico della cittadinanza. Nella Costituzione del 1799 vi è una parte che ha titolo Censura e, nell’articolo 314, si condannano con la censura gli eccessi: non si può essere cittadini senza il senso della misura. Per Pagano l’essere umano ha una sua natura etica, pertanto i diritti devono essere controbilanciati dai doveri. Il senso del limite restituisce dignità all’essere umano, il quale ha una natura etica che gli consente di razionalizzare i comportamenti. Pagano censura l’individualismo che rompe la comunità ed innesca processi di competizione che la disintegra dal suo interno. La costituzione del 1799 condanna l’individualismo in modo da favorire la coesione comunitaria nella quale si consolida la comunicazione e la maieutica. Non a caso gli articoli 398-399, nel Titolo XV, affermano la libertà di espressione come fondamentale per la Repubblica. La libertà di espressione dev’essere supportata da un contesto educato all’ascolto ed al contraddittorio, pertanto l’educazione al limite è la condizione per la comunicazione e la partecipazione politica. La cultura del diritto e del dialogo sono il centro della ricerca giuridica e filosofica di Pagano, il quale risponde al pericolo dei corsi e ricorsi storici vichiani con la cultura del diritto. Per Pagano il ritorno alla barbarie è scongiurato se i popoli non subiscono il diritto, ma partecipano vivamente alla sua elaborazione. L’Illuminismo meridionale dinanzi all’imbarbarimento dei costumi e del linguaggio ci indica un percorso per uscire dalla violenza della passività: il diritto alla cittadinanza partecipata e consapevole. L’alternativa non può che condurre all’anarchia della sregolatezza e all’infelicità generale. In un momento storico in cui si vaccinano i giovani inducendoli a tale operazione non con l’informazione, ma mediante “rave” organizzati nei “centri di vaccinazioni”, si può affermare che la barbarie è tra di noi. I giovani sono trattati come plebi, panem et circenses, in questo caso il panem è sostituito dal vaccino. Il paese dei balocchi si fonde con il biopotere producendo una barbarie unica nella storia: l’informazione ed il contraddittorio sono sostituiti con la musica assordante. La parola maieutica è sostituita con la propaganda, si trattano le nuove generazioni come sudditi da portare nel paese dei balocchi. Si celano gli interessi economici e si accompagnano le nuove generazioni al pascolo della barbarie: la scelta consapevole è sostituita con la musica e ciò rammenta altri periodi storici.

L’Illuminismo meridionale ha posto per primo, e fortemente, la differenza tra plebe e popolo. Ora che i popoli sono indotti dai nuovi piffererai verso l’abisso della plebe, dimostra la sua attualità e la necessità di ripensare il presente con il passato. Senza la tensione concettuale tra il presente ed il passato non vi è futuro, ma solo la sussunzione distruttiva. Forsan et haec olim meminisse iuvabit [“Forse un giorno ci farà piacere ricordare anche queste cose”] (Virgilio, Eneide, I, 203), il verso virgiliano con cui la Pimental si avviò al patibolo risuona ancora, ma ancora non è ascoltato. Gli illuministi meridionali restano testimoni eroici che attendono di essere ripensati. Le parole di Mario Francesco Pagano, il Platone napoletano, nella Costituzione del 1799 risuonano, oggi: sono vere e lontane:

«La libertà è la facoltà dell’Uomo di valersi di tutte le sue forze morali e fisiche, come gli piace, colla sola limitazione di non impedire agli altri di far lo stesso. Contro l’oppressione ogni Uomo ha il dritto d’insorgere, il Popolo ha diritto di insorgere, ma quando diciamo Popolo, intendiamo parlare di quel Popolo che sia rischiarato ne’ suoi veri interessi, e non già d’una plebe assopita nell’ignoranza, e degradata nella schiavitù, non già della cancrenosa parte aristocratica. L’uno e l’altro estremo sono de’ morbosi tumori del corpo sociale, che ne corrompono la sanità».

Salvatore Bravo

[1] Eleonora Pimental de Fonseca (Roma, 13 gennaio 1752– Napoli, 20 agosto 1799).

[2] Francesco Mario Pagano (Brienza, 8 dicembre 1748 – Napoli, 29 ottobre 1799). 

[3] Gaetano Filangieri (San Sebastiano al Vesuvio, 22 agosto 1753 – Vico Equense, 21 luglio 1788).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Max Horkheimer, Theodor W. Adorno – Kant ha anticipato intuitivamente ciò che è stato realizzato consapevolmente solo da Hollywood: le immagini sono censurate in anticipo, nell’atto stesso della loro produzione. Lo spettatore non deve lavorare di testa propria. Ogni connessione logica, che richieda fiato intellettuale, viene scrupolosamente evitata.

Max Horkheimer, Theodor W. Adorno

 «[…] l’istanza del pensiero calcolante […] organizza il mondo ai fini dell’autoconservazione e non conosce altra funzione che non sia quella della preparazione dell’oggetto, da mero contenuto sensibile, a materiale di sfruttamento. La vera ragione […] si rivela da ultimo, nella scienza odierna, come l’interesse della società industriale. L’essere è visto sotto l’aspetto della manipolazione e dell’amministrazione. Tutto diventa processo ripetibile e sostituibile, semplice esempio di moduli concettuali del sistema: anche il singolo uomo […].
Kant ha anticipato intuitivamente ciò che è stato realizzato consapevolmente solo da Hollywood: le immagini sono censurate in anticipo, nell’atto stesso della loro produzione, secondo i moduli dell’intelletto conforme al quale dovranno essere contemplate» (pp. 92-93).

«L’industria culturale assolutizza l’imitazione. Ridotta a puro stile, ne tradisce il segreto, l’obbedienza alla gerarchia sociale. […] Parlare di cultura è sempre stato contro la cultura. Il denominatore comune “cultura“ contiene già virtualmente la presa di possesso, l’incasellamento, la classificazione, che assume la cultura nel regno dell’amministrazione. Solo la sussunzione industrializzata, radicale e conseguente, è pienamente adeguata a questo concetto di cultura» (p. 141).

«L’arte seria si è negata a coloro cui il bisogno e la pressione dell’esistenza rendono la serietà una beffa, e che sono, di necessità, contenti quando possono trascorrere passivamente il tempo […]. Ma il nuovo è che gli elementi inconciliabili della cultura, arte e svago, vengano ridotti, attraverso la loro sottomissione allo scopo, a un solo falso denominatore: la totalità dell’industria culturale. Essa consiste nella ripetizione» (p. 146).

«Il preteso contenuto è solo una pallida facciata; ciò che si imprime è la successione automatica di operazioni regolate. […] lo spettatore non deve lavorare di testa propria: il prodotto prescrive ogni reazione: non per il suo contesto oggettivo – che si squaglia appena si rivolge alla facoltà pensante –, ma attraverso segnali. Ogni connessione logica, che richieda fiato intellettuale, viene scrupolosamente evitata. […] L’idea stessa viene, come gli oggetti del comico e dell’orribile, lacerata e fatta a pezzi» (p. 148).

«L’odierna fusione di cultura e svago non si compie solo come depravazione della cultura, ma anche come spiritualizzazione forzata dello svago» (p. 155).

«L’industria culturale è interessata agli uomini solo come ai propri clienti e impiegati, e ha effettivamente ridotto l’umanità nel suo insieme, come ognuno dei suoi elementi, a questa formula esauriente» (p. 158).

«Nell’industria culturale l’individuo è illusorio non solo per la standardizzazione delle sue tecniche produttive. Esso è tollerato solo in quanto la sua identità senza riserve con l’universale è fuori di ogni dubbio […]. La pseudoindividualità è la premessa del controllo e della neutralizzazione del tragico […] L’industria culturale può fare quello che vuole dell’individualità solo perché in essa, da sempre, si è riprodotta l’intima frattura della società» (pp. 166-167).

«Il modo in cui una ragazza accetta e assolve il suo date obbligatorio, il tono della voce al telefono e nella situazione più familiare, la scelta delle parole nella conversazione, e l’intera vita intima, ordinata secondo i concetti della psicoanalisi volgarizzata, documenta il tentativo di fare di sé l’apparecchio adatto al successo, conforme, fin nei moti istintivi, al modello offerto dall’industria culturale. Le reazioni più intime degli uomini sono così perfettamente reificate ai loro stessi occhi che l’idea di ciò che è loro specifico e peculiare sopravvive solo nella forma più astratta: personality non significa – per loro – praticamente più altro che denti bianchi e libertà dal sudore e dalle emozioni. È il trionfo della réclame nell’industria culturale, l’imitazione coatta, da parte dei consumatori, delle merci culturali pur scrutate nel loro significato» (p. 180).

Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1971.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Tito Perlini (1933-2013) – Il pensiero di Marcuse ha una lucidità impareggiabile nel denunciare gli aspetti letali della totalità integrata e nel prospettare la vitale necessità di spezzarne il cerchio fatato, ma arranca quando cerca di indicare in positivo le modalità da adottare per conferire al movimento teso verso la liberazione la forza capace di incidere efficacemente sulla realtà al fine di una trasformazione di fondo.

Tito Perlini 02

Marcuse ribadisce, in questo testo, alcuni punti caratteristici del suo pensiero che egli tiene ben fermi. Essi sono:

1) Nel capitalismo persiste la tendenza al crollo anche se essa è impedita ad attuarsi dalla contro-tendenza che spinge il capitalismo stesso a configurarsi come totalità integrata ed integrante.

2) Qualsiasi attesa del crollo basata sull’idea della sua inevitabilità è da scartare per il fatto che la teoria, facendola propria, degenera in falsa coscienza rinunciando a porsi, insieme alla pratica, come elemento della trasformazione senza la quale il crollo stesso è impensabile come premessa al socialismo, potendo rivelarsi, se non scongiurato, come qualcosa di catastrofico, tale da provocare una ricaduta nella barbarie.

3) La battaglia decisiva per il rovesciamento del modo di produzione capitalistico deve aver luogo al livello più alto e dimostrare di saper spezzare l’« anello più forte della catena» poiché senza l’intensificarsi di tendenze di segno anti-capitalistico, rivolte ad una rottura di tipo rivoluzionario, nei paesi «avanzati» dell’occidente, il «socialismo realizzato» (per la complementarietà stessa dei due blocchi facenti capo a USA e URSS che, pur restando in contrasto, sono soggetti ad un’unica logica e si integrano e sorreggono a vicenda all’interno di una situazione che favorisce il capitalismo) resterà invischiato nelle sue deformazioni e le tendenze centrifughe producentisi nell’ambito del cosiddetto Terzo Mondo continueranno a venir riportate, con la violenza o mediante forme di subordinazione o integrazione economica, entro l’alveo degli interessi capitalistici capaci di strutturarsi su scala mondiale.

4) È presente nella pratica radicale, che, sola, oggi può nella metropoli del capitale porre le premesse per la rivoluzione, un aspetto libertario e anti-autoritario, che è l’espressione spontanea, soggettiva della rivolta stessa, la quale critica, giudicandole inadeguate all’ampiezza della trasformazione, le forme tradizionali della pratica che si qualificava come rivoluzionaria (il che implica il rifiuto di ogni forma di marxismo reificato e la rinuncia ad ogni tentazione centralistico-burocratica).

Quest’ultimo punto, riaffermato con decisione, lascia comunque drammaticamente aperto il problema del rapporto tra spontaneità ed organizzazione. Marcuse si rende conto che l’appassionata affermazione dei diritti che spettano alla prima non annulla il nodo intricatissimo di problemi posti dal prospettarsi della seconda alla stregua di una necessità ineludibile. Circa una possibile soluzione di questo che è da sempre il punctum dolens del marxismo Marcuse non riesce che a fornire indicazioni vaghe. La parte «positiva» del suo discorso, che insiste sulla necessità per la nuova sinistra di forme di organizzazione decentrate e del ricorso ad un’autogestione cui vengono dedicati solo fugaci accenni, appare francamente come la più debole. Marcuse, del resto, ne è conscio. Di una lucidità impareggiabile nel denunciare gli aspetti letali della totalità integrata e nel prospettare la vitale necessità di spezzarne il cerchio fatato, il pensiero di Marcuse arranca quando cerca di indicare in positivo le modalità da adottare per conferire al movimento teso verso la liberazione la forza capace di incidere efficacemente sulla realtà al fine di una trasformazione di fondo. Una siffatta insufficienza, del resto, non è senza rapporto con la condizione oggettiva entro la quale la teoria critica si dibatte. Il problema dell’organizzazione è il più delicato anche perché, una volta rifiutati sia l’esaltazione tecnocratica dell’organizzazione elevata come tale a valore sia il mito di una spontaneità rivoluzionaria allo stato puro, resta l’obbligo di fare i conti con quella razionalità puramente formale e strumentale con cui il sistema di dominio fa tutt’uno, la quale, anche se negata alle radici, continua pur sempre a riprodursi all’interno di qualsiasi forma organizzativa per «alternativa» questa possa valersi e per vigile possa essere l’impegno di coloro che vi aderiscono a mantenersi immuni dagli effetti esercitati dalla ratio del dominio. E questa una contraddizione che resta irrisolta. Qui il discorso di Marcuse appalesa limiti ben precisi, che non sono certamente solo suoi. Ciò che continua, però, a suscitare simpatia e ammirazione è l’energia davvero indomabile con cui questo grande vecchio, ultimo esponente ormai di una schiera di intellettuali formatisi nel clima saturo di attese messianiche del periodo seguente alla prima guerra mondiale fedeli al retaggio della filosofia classica tedesca e decisi a far propria la causa degli oppressi, a porsi dalla parte di coloro cui viene negata la speranza, continua a ribadire con tenacia, ad onta di ogni smentita apparentemente definitiva da parte dell’accadere storico, la sua non fideistica fiducia, sorretta dal lucido pessimismo della ragione critica, nella capacità degli uomini di giungere a far proprie le possibilità concrete atte a permettere la trasformazione del mondo.

Tito Perlini, Introduzione a Herbert Marcuse, Teoria e pratica, Shakespeare and Company di Guseppe Recchia, Brescia 1979, pp. 35-37.


Tito Perlini (1931-2013) – «ATTRAVERSO IL NICHILISMO Saggi di teoria critica, estetica e critica letteraria», Aragno editore, 2015
Tito Perlini (1933-2013) – La rivoluzione non è Negazione del passato, ma ciò cui essa s’oppone: Il capitalismo, che è antitetico allo sviluppo della civiltà e che mira solo a conservare sé stesso. Vero conservatore non è chi difende un cattivo presente, ma chi insorge contro tale falsa conservazione.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Romano Guardini (1885-1968) – L’uomo malinconico è più profondamente in rapporto con la pienezza dell’esistenza. È nostalgia di evadere dalla dissipazione, divertere dal superficiale, ricoverarsi nel mistero delle cose ultime, è ricerca della semplicità ricca di contenuto. Malinconia è desiderio d’amore, desiderio di unità vivente.

Romano Guardini 02

[…] La spinta verso il nascondimento e verso il silenzio non significa già timore di scontrarsi con la realtà che facilmente ferisce, quanto significa, in ultima analisi, l’interiore gravitare dell’anima verso il grande centro; significa spinta violenta verso l’interiorità e l’approfondimento, verso quella regione, dove la uscita che sia dal caos di ciò che è pura casualità, entra in sicuro porto; dove la vita, sganciata dalla molteplicità delle singole manifestazioni, dimora nella semplicità del fondo delle cose: semplicità ricca di contenuto. È la nostalgia di evadere dalla dissipazione, per ricuperarsi nel raccoglimento del tutto; di sfuggire all’abbandono di chi si sente in preda all’esistenza esteriore, e vuol stare invece nel riserbo e nella protezione del santuario; di divertire da ciò che è superficiale, e ricoverarsi nel mistero delle cause ultime: la nostalgia dei grandi malinconici verso la notte e le Madri.

Albrecht Dürer – Melencolia I, La Malinconìa, 1514.

Malinconia vuol dire connessione con l’oscuro fondo dell’essere – e «oscuro», in questa accezione, non comporta senso peggiorativo. Non significa contrasto con la luce, la quale è bella ed è buona. Non significa «tenebra», significa il vivo controvalore della luce. […]
Proprio l’uomo malinconico è più profondamente in rapporto con la pienezza dell’esistenza. Splendono chiari, a lui, i colori del mondo; a lui risuona con dolcezza più intima, la musica interiore. […] Dall’essere del malinconico sbocca e trabocca a fiotti la vita; a lui come a nessuno, dato di esperimentare la sfrenatezza dell’intera esistenza. Sempre, credo io, connessa con la bontà. Connessa col desiderio che la vita si svolga secondo la bontà e la gentilezza, e sia benefica per gli altri. […]
Qui proprio siamo al cuore della malinconia, la quale, in ultima analisi, non è altro se non desiderio d’amore. Amore, in tutte le sue forme, in tutti i suoi gradi; dalla sensibilità più elementare, sino al più alto amore dello spirito. Lo slancio vitale, il cuore della malinconia è l’Eros: desiderio d’amore e di bellezza. […] Poiché una natura amante sta aperta. È disposta a passare dall’altra parte, è disposta ad accogliere, a dare e a ricevere. È fiduciosa. Non sta in guardia. Prova dolore della transitorietà delle cose, soffre perché le viene tolto ciò che ama. La bellezza vivente è sempre passeggera. E al fianco della bellezza sta la morte. Nondimeno, quasi a difesa estrema contro tutto ciò, ecco la nostalgia di ciò che è eterno e infinito, di ciò che è assoluto; nostalgia di ciò che semplicemente è perfetto; di ciò che è inaccessibile e riposto, profondo al massimo, e interiore; di ciò che è intangibile e aristocratico, nobile e prezioso.
È desiderio di ciò che Platone affermò essere il vero fine dell’Eros: del bene supremo, il quale a un tempo è la vera e propria realtà, ed è la bellezza in sé e per sé, imperitura, sconfinata; è desiderio d’impadronirsi di tale realtà, che sola può compierci, di assumerla e assorbirla, di riunirci a lei. Cosa davvero singolare, e che può essere seguita e constatata attraverso tutta la storia della umana ricerca e dell’umano pensare: noi sentiamo una insoddisfazione particolarmente violenta per ciò che è finito; una volontà di distinguerci, in maniera particolare e con particolare intensità, nell’atto stesso di impadronirci di tale assoluto. Non basta a noi di riconoscerlo, e assumerlo nelle nostre azioni con una volontà eticamente cosciente; c’è in noi un desiderio di unione, di contatto da essere a essere; un desiderio di immergerci, bere ed essere dissetati. Un desiderio di unità vivente.
[…] L’anima disposta da natura alla malinconia è sensibile ai valori, li desidera. Desidera ciò che è prezioso al massimo grado, desidera il sommo bene. Con tutto ciò, par quasi che proprio questo desiderio dei supremi valori le si rivolti contro, poiché vi si accompagna, di regola, come un senso dell’impossibilità di ottenerli. Senso, che può associarsi a determinate esperienze: qui, di aver fallito in tali e tali cose; lì, di aver mancato al dovere; altrove, ancora, di aver perduto tempo, d’essersi giocato non so che d’irrecuperabile … Non sono se non appigli a qualcosa di più profondo: al senso dell’impossibilità, che in certo qual modo accompagna e quasi previene quella nostalgia. […]

Romano Guardini, Ritratto della malinconia, Morcelliana, Brescia 2006, pp. 57-67.


Romano Guardini (1885-1968) – Chi non ama la vita non ha pazienza con essa: la pazienza è l’uomo in divenire che comprende giustamente se stesso, è una forza tranquilla e profonda
Romano Guardini (1885-1968) – Non basta fare il bene, ma occorre anche farlo nel modo giusto. Si deve scegliere e si può ottenere qualcosa di più alto solo se si rinuncia a ciò che è più basso. L’esistenza dell’uomo che vive in modo degno implica questa trasposizione ad un piano più alto.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – “Novel food”: la nuova frontiera del mutamento antropologico

Novel food

Salvatore Bravo

“Novel food”: la nuova frontiera del mutamento antropologico

 

Novel food
L’uomo è ciò che mangia scrive Feuerbach in Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia, “Der Mensch ist was er isst” deriva dall’assonanza tra “ist” (terza persona singolare del verbo “sein”, “essere”) e “isst” (terza persona singolare del verbo “essen”, “mangiare”), con tale gioco di parole il filosofo comunica la relazione tra alimentazione e spirito. Il cibo condiziona lo spirito, perché il corpo e il sangue non sono semplici meccanismi, ma l’alimentazione configura l’attività del corpo vissuto che diviene spirito in una relazione circolare. Ogni gesto e comportamento vive nel corpo vissuto determinandone la sostanza. Lo spirito si magnifica nella vita, ascende o discende dalle sue possibilità di sviluppo in relazione all’aria che respira, all’ambiente in cui si muove, al cibo di cui si nutre, alle relazione che sostiene con ogni componente che lo tiene in vita. Il cibo non è solo energia, per un essere umano è veicolo di storia e comunità. La rivoluzione antropologica in atto ha lo scopo di “diminuire” e “diluire” l’umanità per renderla oggetto di dominio. La disumanizzazione contamina ogni spazio ed attività vitale per determinare una metamorfosi irreversibile. “Novel food” è la nuova frontiera che concorrerà al cambiamento antropologico che si aggiunge all’atomismo sociale, all’idolatria dell’economia e della scienza asservita alla stessa fino alla mutazione della lingua e dei linguaggi secondo le indicazioni dei signori della globalizzazione. Nessuna identità deve sopravvivere al rullo compressore della globalizzazione. Lo sradicamento dev’essere totale per condurre i popoli all’ateismo: la verità e l’universale devono essere rimossi dal linguaggio comune, devono scomparire dall’orizzonte dei significati per essere sostituiti dalle identità liquide e dallo scetticismo depressivo. L’attacco alle culture dell’alimentazione non è neutro, ma essenziale nello logica del nichilismo. L’unità europea ha decretato la possibilità e legittimità di cibarsi di insetti in nome della transizione verde con il regolamento 2015/2283 del 25 novembre 2015 entrato in vigore il primo gennaio 2018. Nessuna discussione sulle possibili alternative, nessun contradittorio, come ormai accade da decenni. Gli ordini giungono senza volto e senza dialettica: si prescrive il cambiamento nella quiescenza generale. L’alimentazione tramite gli insetti ha l’effetto di sradicare la cultura della terra, della trasformazione dei prodotti agricoli a cui è associata la cultura umanistica e della convivialità. Non è secondario in tale prospettiva inaugurare un nuovo mercato intonso, il capitalismo assoluto in affanno è alla perenne ricerca di nuove possibilità di espansione e ciò non può che avvenire nell’ottica di una falsa rivoluzione: in Francia, Belgio ed Olanda il mercato degli “insettivori” è fiorente e in ascesa, pertanto ci dobbiamo omogeneizzare alla nouvelle cuisine come se non avessimo storia e cultura alimentare. L’essere umano del futuro nella sua furia green dovrà nutrirsi di insetti proteici a basso costo. Si può immaginare, in primis, che il cibo tradizionale non scomparirà, ma sarà per pochi privilegiati, mentre le masse plebeizzate dovranno nutrirsi di insetti: la colpa demografica dev’essere pagata con il cambio di abitudini, con la dimenticanza della cultura alimentare di appartenenza. Il nuovo essere umano plebeizzato nel cibo e nello spirito guarderà agli insetti come ad un valore da acquisire per la sua alimentazione. Lo sguardo rapace si allargherà fino ad osservare gli insetti come fonte di energia, anche gli esseri più minuscoli saranno percepiti nell’ottica della trasformazione acquisitiva ed alimentare, nulla deve sfuggire allo sfruttamento e al plusvalore. La vita minuscola o grande che sia sarà categorizzata all’interno della sola logica acquisitiva e del mercato. L’unione europea solletica le nuove generazioni a non avere pregiudizi, ma ad adattarsi al nuovo corso alimentare. Cambieranno le estetiche e le percezioni sensoriali, il nuovo regime alimentare comporterà una serie di effetti volutamente rimossi. Come guarderemo e vivremo gli antichi ed i nostri genitori? Naturalmente come estranei e stranieri appartenenti ad una superata era umana. L’alimentazione non è solo cibo, ma spirito che ci unisce agli avi da cui abbiamo ereditato tecniche agricole e valori a cui sono associate culture comunitarie. La trasmissione di una tradizione non è cadaverica, ma plastica, si pensa e si crea all’interno di un legame che umanizza. La rivoluzione alimentare spezzerà ogni linea di contiguità e continuità nel tempo. L’identità liquida fino ad evaporare non si costruisce solo con l’annichilimento delle identità linguistiche, culturali e di genere, ma anche e specialmente mediante il cibo quest’ultimo è un gesto che si ripete più volte al giorno, per cui attraverso la nuova alimentazione deve passare il messaggio che il passato è un “Medioevo” da sotterrare con le nuove abitudini decise dalle oligarchie imperanti. La possibilità di sostituire la carne con i legumi è esclusa a priori, vi è un disegno di ridefinizione dell’essere umano da parte di un nuovo e tragico illuminismo che ha sostituito la razionalità critica con il dogmatismo economicistico e crematistico.


 

Senza alternative, solo obbedienza
Lo sfruttamento e l’inquinamento possono essere ampiamente limitati con un’agricoltura della decrescita, in cui l’agri-sfruttatore sia sostituito dal contadino che applica tecniche agricole tradizionali ed innovative a basso impatto ambientale. Non secondario è educare ad un diverso rapporto con il cibo e con le merci in genere, non sprecare, ma consumare in modo consapevole è una possibilità esclusa a priori, in quanto bisogna allevare in serie generazioni di sfruttatori e consumatori senza alternativa. Il problema autentico che non si vuole risolvere è il produttivismo e l’ingiusta distribuzione delle risorse. Per non riformare il sistema si è disposti a spingere i popoli e i meno abbienti a nutrirsi di insetti prodotti e venduti da coloro che continueranno a nutrirsi di cibo tradizionale. Il cibo per censo è la nuova frontiera dell’ordoliberismo europeo. La cementificazione avanza, il deserto da metafora filosofica diviene verità quotidiana, e dinanzi ad un disastro che potrebbe essere irreversibile la soluzione è “cibo per tutti a base di insetti”. Il paradigma del capitale deve restare invariato, ed affinché ciò sia ed avvenga ogni cambiamento è sostenuto e giustificato senza la mediazione della ragione dialettica. Il fine ultimo dietro la cortina fumosa delle parole è plebeizzare le masse, purché il mercato viva, addomesticarle alla passività, indurle in nome del progresso a rinunciare alla propria storia, globalizzarsi nel cibo come in ogni abitudine e scelta. Tale obiettivo ha lo scopo di debilitare le identità, senza di esse l’umanità non è che materiale terroso tra le mani del Prometeo furioso delle nuove oligarchie. Nel silenzio siderale del “nuovo che avanza” ogni parola veicolo di pensiero, ogni gesto consapevole di resistenza è prassi preziosa di difesa dell’umano contro l’ateismo programmato del sistema. I consumatori non sono ancora del tutto sudditi, ma cittadini che con le loro scelte determinano il futuro, ancora una volta “il nuovo avanza” non in modo neutro, sono i popoli a determinare con la loro obbedienza ed indifferenza la rivoluzione in atto, pertanto come ci ha insegnato Vico la storia è posta dall’umanità, pertanto sarà la scelta dei popoli l’ultima parola sulle trasformazioni in atto. La vera rivoluzione è nel comprendere, in primis, che se ognuno agisce per togliere la propria minuscola castagna dal fuoco l’incendio divamperà e travolgerà carnefici e vittime legati dal vincolo sottile di un’ambigua complicità. L’agricoltore in questa fase può essere protagonista della storia, se torna ad avere il controllo sulla produzione e a disinvestire sullo sfruttamento della terra. L’agricoltura vive in modo più immediato e diretto lo sfruttamento delle multinazionale e la desertificazione umana e morfologica: il cemento avanza dalle città in decrescita demografica verso le campagne annichilendole e sfruttandole. Ogni gesto personale è determinante per una svolta etica e politica, perché è molto di più di un gesto, esso si integra con la prassi critica di molti e diventa testimonianza da cui può sorgere un nuovo inizio, è solo potenzialità, ma la storia si gioca sulla fiducia nell’impossibile.

Salvatore Bravo

 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Søren Kierkegaard (1813-1855) – Situazione tremenda, quella di una coscienza che abbia subìto, sin dall’infanzia, una compressione tale che tutta l’elasticità dell’anima e tutta l’energia della libertà non riescano più a scrollarla.

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«Situazione tremenda, quella di una coscienza che abbia subìto, sin dall’infanzia, una compressione tale che tutta l’elasticità dell’anima e tutta l’energia della libertà non riescano più a scrollarla. Gli affanni della vita possono bene gravare su una coscienza; quando però si presentano in età più avanzata, manca il tempo perché possano rivestire i caratteri di una forma quasi congenita: diventano un semplice episodio, un momento, e mai qualcosa capace di dominare la stessa coscienza. Qualora invece si sia stati sin dalla prima età compressi a quel modo, si resta come un bambino che, estratto a forza di ferri dal seno materno, si porta dietro di continuo il ricordo dei dolori di sua madre».

Søren Aabye Kierkegaard, Tagebücher, Ausw. u. Uebersetz. y. Th. Haecker, 1923, I, 180 [Journal, 1843; IV A 60]. Cfr. S.A. Kierkegaard, Diario, tr. it. di C. Fabro, Morcelliana, Brescia 1980, t. 3, pp. 69-70.


Søren Kierkegaard (1813-1855) – Occorre essere sinceri di fronte alla possibilità

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Wisława Szymborska (1923-2012) – Utopia è l’isola dove tutto si chiarisce. Qui ci si può fondare su prove. Qui cresce l’albero della Giusta Ipotesi. Dalla sua cima si spazia sull’Essenza delle Cose. Malgrado le sue attrattive l’isola è deserta, e le tenui orme visibili sulle rive sono tutte dirette verso il mare.

Wisława Szymborska002

UTOPIA

 

Isola dove tutto si chiarisce.

Qui ci si può fondare su prove.

L’unica strada è quella d’accesso.

Gli arbusti fin si piegano sotto le risposte.

Qui cresce l’albero della Giusta Ipotesi

con rami districati da sempre.

Di abbagliante linearità è l’albero del Senno

presso la fonte detta Ah Dunque E’ Così.

Più ti addentri nel bosco, più si allarga

la Valle dell’Evidenza.

Se sorge un dubbio, il vento lo disperde.

L’eco prende la parola senza che la si desti

e chiarisce volenterosa i misteri dei mondi.

A destra una grotta in cui giace il senso.

A sinistra il lago della profonda Convinzione.

Dal fondo si stacca la verità e lieve viene a galla.

Domina sulla valle la Certezza Incrollabile.

Dalla sua cima si spazia sull’Essenza delle Cose.

Malgrado le sue attrattive l’isola è deserta,

e le tenui orme visibili sulle rive

sono tutte dirette verso il mare.

Come se da qui si andasse soltanto via,

immergendosi irrevocabilmente nell’abisso.

Nella vita inconcepibile.

 

Wislawa Szymborska, Grande numero, Libri Scheiwiller, 2006.


Wislawa Szymborska – «SULLA MORTE SENZA ESAGERARE». Non c’è vita che almeno per un attimo non sia stata immortale. La morte è sempre in ritardo di quell’attimo.
Wisława Szymborska (1923-2012) – La poesia non tollera né il superfluo, né il vano.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Giuliano De Marco – Percorsi metafisici.     Sulle tracce di Giovanni Romano Bacchin (1929-1995), il professore-artigiano, uno dei più grandi pensatori italiani del Novecento.

Giovanni Romano Bacchin - Giuliano De Marco

Giuliano De Marco

Percorsi metafisici

Sulle tracce di Giovanni Romano Bacchin (1929-1995)

    ***

La lettura di Theorein, la seconda delle opere postume di Giovanni Romano Bacchin (la prima è Haploustaton, Firenze, Arnaud,1995), si presenta alla stregua di una scalata in montagna, dove si procede a piccoli passi, con l’obiettivo di arrivare in alto, magari in cima. E al termine delle seicentoventotto pagine del volume, pubblicato da Aracne editrice, nel 2017, grazie al lavoro paziente e minuzioso del prof. Giovanni Castegnaro, che ne ha curato l’edizione – potendo contare sul dattiloscritto originale, ricevuto dalla vedova di Bacchin, la prof.ssa Cesira Crocesi, e su una copia pro manuscripto, conservata dal prof. Aldo Stella –, si viene colti da quella vertigine che si placa solo di fronte alla visione d’insieme, garantita dall’unità dello sguardo.
Ad accompagnarci lunga la strada, le parole commosse di un suo grande amico, il prof. Enrico Berti, uno dei più autorevoli studiosi di Aristotele a livello mondiale, che nella Prefazione fornisce tutti gli elementi per ripercorrere i passaggi centrali della vita e delle opere di Bacchin: dagli anni giovanili alla vocazione sacerdotale (poi abbandonata, mai rinnegata), fino al matrimonio religioso e alla docenza, da Perugia a Padova, interrotta da quel malore improvviso sulla spiaggia di Rimini, una mattina di gennaio del 1995.
A più di vent’anni da quel tragico evento – rimasto vivo nella memoria di studenti e colleghi –, Berti rende onore alle notevoli capacità speculative del collega, ritenuto

«uno dei più grandi pensatori italiani del Novecento, ma che purtroppo pochissimi conoscono, perché non fece una grande carriera accademica, non frequentò congressi o periodici, non pubblicò con case editrici dalla grande distribuzione. Credo di essere tra i pochi che possono fare questo, almeno in parte, perché l’ho conosciuto prima di tanti suoi allievi, amici e ammiratori, ed ho trascorso vicino a lui il periodo decisivo della sua, e della mia, formazione filosofica» (dalla Pref., p. 9).

Ma chi era in realtà Giovanni Romano Bacchin, il professore-artigiano che concepiva la filosofia vissuta in presenza, parola dopo parola, senza alcun presupposto? Era un seminatore di talenti, distribuiti al suo personalissimo auditorium metafisico, fatto non solo di giovani, pronti a confrontarsi sotto la sua guida, continuamente, con i grandi della storia del pensiero; e infatti «alle sue lezioni – ricorda sempre Berti nella prefazione – accorrevano anche anziani, impiegati, preti, professionisti, tutti affascinati dal suo modo di parlare e, soprattutto, dal suo modo di pensare e di far pensare» (dalla Prefazione, p. 13).

Aveva questo carattere coinvolgente Bacchin, sempre alle prese con domande cruciali, stringenti, mai consolatorie sui tanti perché dell’esperienza (domande che si ponevano e fluivano nello stesso istante in cui venivano formulate); ed era talmente concentrato sulla riflessione filosofica da non dare peso alla sua vicenda professionale, alle opportunità di progredire nella carriera accademica. Se non fosse stato per Berti, che era a capo dell’Istituto e lo segnalò alla facoltà, Bacchin, forse, non avrebbe mai ricevuto l’incarico d’insegnare Filosofia teoretica a Padova.

Ma veniamo al tema fondamentale del testo – che raccoglie gli scritti e le meditazioni di Bacchin durante cinque corsi accademici, tra il 1978 e il 1983 (come ricorda Giovanni Castegnaro nella sua nota editoriale) – e cioè a quel ragionamento filosofico nella sua espressione originaria, vissuto così da Bacchin:

«La metafisica non è più tale se essa risulta comprensibile. Se essa risulta ‘comprensibile’ già non è più metafisica, stante che la funzione sua propria verrebbe espletata da ciò che la ‘comprende’: non solo la metafisica è incomprensibile, l’incomprensibilità è l’essenza stessa della metafisica, appunto perché lo ‘oltre’ non può venire compreso da ciò che esso oltrepassa per definizione» (G. R. Bacchin, Theorein, Aracne editrice, Roma, 2017, p. 20).

Quindi, non un punto di partenza qualsiasi, un riferimento oggettivo per il classico avvio di una discussione, ma qualcosa che fosse infinitamente più stimolante: lo sfondo teoretico di una libertà liberante da ogni costrizione preliminare, «perché ogni parola è un progetto» – sono parole di Bacchin – e non ci sono acquisizioni date; dal momento che «una richiesta che preceda la domanda di verità non può essere vera» (G.R. Bacchin, Theorein, cap. 1.27, p. 94).
Tutto il volume è attraversato da questa volontà di farsi sostenere dalla sola forza delle argomentazioni dialettiche (che si susseguono nei quattro capitoli, densissimi, di Theorein), per documentare, dopo un confronto con la critica del pensiero moderno e contemporaneo – da Cartesio a Kant, fino a Hegel e Husserl – quanto sia ingenuo il tentativo di fondare la scienza e la filosofia sull’esperienza immediata.
Su questa corda invisibile si è mosso Bacchin, che aveva a cuore una cosa su tutte: poter accogliere le scoperte del suo periodare, farsi tutt’uno con la sua ricerca, ricevere linfa vitale da quel «domandare che è un tutto domandare», dalla «problematicità pura» della filosofia – come l’aveva definita il suo maestro Marino Gentile –; cioè inseguire la domanda sul perché di tutta l’esperienza, per trasformarla in una domanda di senso globale ancora più radicale, che reclama un principio trascendente in grado di spiegare tutta la storia umana. (Sulla problematicità pura si veda M. Gentile, Filosofia e umanesimo, La Scuola Editrice, Brescia 1947, p.12 e sgg.). E nel voler rielaborare il pensiero di Gentile, Bacchin fece due osservazioni fondamentali, come sottolinea Berti, sempre nella prefazione:

«1) La problematicità pura è ‘improblematizzabile’, perché ogni tentativo di problematizzarla, cioè di metterla in discussione, è un atto di problematicità, e dunque non fa che riproporla. Era questo un argomento simile a quello usato da Descartes a proposito del dubbio: il dubbio è indubitabile, perché ogni tentativo di dubitarne non fa che riproporlo. Esso dunque mostrava che la problematicità pura era il punto di partenza innegabile, inconfutabile, incontrovertibile, della filosofia , che rispetto al dubbio cartesiano aveva il vantaggio di non essere un atto soggettivo, interno, privato, ma di essere l’espressione dell’intera esperienza, la quale non si presentava più come un oggetto esterno rispetto al soggetto, secondo il dualismo tipico dell’intera filosofia moderna, ma faceva tutt’uno col soggetto, era insieme soggetto esperiente, oggetto esperito e atto dell’esperire. Guadagno, quest’ultimo, dell’idealismo di Hegel, prima, e di Giovanni Gentile, poi.

2) La problematicità pura – seconda osservazione di Bacchin – non è solo il punto di partenza della filosofia, cioè la semplice posizione del problema metafisico, cui debba seguire una soluzione diversa secondo, ad esempio, il percorso indicato da Padovani. Essa è già di per sé l’intero discorso metafisico, perché manifesta l’insufficienza dell’esperienza a spiegare sé stessa e quindi è già di per sé la richiesta, la domanda, ma una domanda insopprimibile e ineludibile (grazie alla sua ‘improblematizzabilità’) di un principio trascendente, cioè dell’intera metafisica».

(dalla Pref., pp. 11 e 12).

Di questo percorso, consumato in 35 anni di esperienze accademiche – molte delle quali condivise da Giovanni Romano Bacchin con Enrico Berti e Franco Chiereghin, il triangolo, come li chiamava Marino Gentile – il volume Theorein si fa testamento di vita e progetto mai completamente realizzato, come aveva intuito lo stesso Bacchin, già nei primi anni Sessanta, quando prese consistenza la sua vocazione all’indagine metafisica. E infatti scriveva così:

«Ogni sfasamento ed ogni alterazione della metafisica – scriveva – sono dunque per se stessi alterazione e quindi dimenticanza del senso dell’ essere o decadimento dell’essere ad un senso che per non esser il suo è, piuttosto, un non-essere; altra giustificazione non ha infatti la metafisica se non l’autenticità  del senso in cui essa è considerazione dell’essere, autenticità che è poi l’essere stesso nel suo porsi, perché svelare l’essere significa almeno lasciare che esso sia ciò che è, semplicemente, indipendente da qualsiasi intervento su di esso» (G.R. Bacchin, Intero metafisico e problematicità pura, sta in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, vol. LVII, n. 2-3, 1965, p. 305).

Un brano che lascia intravedere il criterio costante, il tormento, il fuoco, la molla che ha tenuto fermo Bacchin al suo programma di lavoro; perché pensare in questo modo, con lui, significa, ancora oggi, voler navigare nelle fessure della realtà, intesa come storia complessiva dell’uomo. Vuol dire penetrare nelle fibre più sottili della sua struttura, dove non ci sono detriti, sedimenti di adulterazione o camuffamento, per mettersi alla ricerca dell’essere che fluisce e si dona nella sua purezza, si dispiega, rivelandosi allo sguardo di chi l’accoglie con animo docile.
Forse, per questo tratto dominante della sua personalità di studioso, mai incline a schivare gli equivoci connaturati alla meditazione metafisica – e, forse, anche per l’opzione fondamentale di rigore teoretico che ha sorretto tutto il suo agire –, il professore di Belluno è stato dimenticato in fretta dalla cultura italiana nel suo insieme; attraverso una forma di occultamento delle opere e del pensiero, che è la peggiore dimenticanza possibile per uno studioso – prova ne sia la forte difficoltà a reperire i suoi scritti anche nelle librerie antiquarie. Sembrava esserne consapevole, il professore, quando scriveva così:

«Chi decide di essere incomprensibile ha già deciso con ciò di non ritenersi mai ‘incompreso’, appunto perché si è collocato al di là dell’orizzonte segnato dalla comprensione. Appunto perché toglie ogni possibilità di venire compreso, egli toglie ogni possibilità di ritenersi incompreso».

(G. R. Bacchin, Theorein, cit. p. 22).

Come spesso accade a persone della sua tempra, anche a Giovanni Romano Bacchin è toccato in sorte il destino dei solitari: riuscire a riposare solo nelle menti di chi l’ha vissuto quotidianamente e apprezzato nei corsi universitari; di quei volti assetati di schiettezza e veracità che hanno visto in lui un indomito scalatore nell’essere, dell’esperienza umana, per inseguire una sazietà mai soddisfatta, mai goduta appieno, pronta a convertirsi in nuova esigenza di domanda; perché la filosofia – come amava ripetere spesso – «è abissale presenza della verità assente».

Chi ritrova qualche traccia del suo itinerario, e ha la pazienza di attraversare le pagine di Theorein, può avvertire quelle vibrazioni che percepivano i suoi studenti in aula, quelli che respiravano filosofia assieme a Bacchin; ma più ancora impara a mettersi al suo fianco, in compagnia di quei lettori che non avevano mai sentito il suo nome. Prima d’ora.

[avvertenza: il volume di Giovanni Romano Bacchin, Theorein, è un pod, l’acronimo dell’anglicismo ‘print on demand’; per cui, chi fosse interessato a recuperarne una copia, potrà ordinarlo presso una libreria, o direttamente alla Editrice Aracne, e riceverlo nel giro di 5-6 giorni lavorativi].


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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