«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
L’interesse della moderna storiografia filosofica per le vicende del processo e della morte di Socrate, avvertiti come gli eventi cruciali della vita del filosofo e delle successive immagini che ne sono state trasmesse, è un’eredità degli antichi. Senofonte, come Platone e altri autori le cui opere sono andate perdute, scrive una difesa postuma per scagionare Socrate dalle accuse per cui, nel 399 a.C., il filosofo fu processato e condannato a morte dalla restaurata democrazia ateniese.
Con il proposito di dar conto delle vere ragioni di quella “superba fierezza” che a parere di molti animò i discorsi di Socrate in tribunale, Senofonte ci consegna dunque la sua Apologia, offrendo al contempo una propria interpretazione della filosofia e dell’etica socratiche. Quello che ne emerge è un ritratto composito, in cui elementi distintivi del Socrate senofonteo si uniscono a tratti che lo rendono riconoscibile ai lettori dei dialoghi platonici. Sulla base di una nuova traduzione del testo e mediante un confronto costante con l’Apologia di Platone, il saggio introduttivo mira a distinguere e a interpretare queste componenti, indagando i principi etico-filosofici a cui il Socrate senofonteo si appella per costruire la propria difesa dalle accuse formali – empietà e corruzione dei giovani – ma anche, su un piano più generale, per giustificare il proprio insegnamento.
Con l’esplicita esaltazione di virtù quali l’autosufficienza e il dominio di sé, l’adesione alle pratiche cultuali della polis e il richiamo costante a una vita trascorsa senza commettere ingiustizia, il Socrate senofonteo si auto-rappresenta nell’Apologia come un filosofo (e cittadino) meno atopos rispetto alla sua controparte platonica, ma non per questo meno esemplare. E precisamente di un Socrate di esemplare giustizia, libero dai desideri del corpo e liberale nell’insegnamento, “utile” e saggio, Senofonte ci offre una testimonianza a cui vale la pena tornare.
Francesca Pentassuglio, Eschine di Sfetto. Tutte le testimonianze, Brepols, Thurnout 2017, p. 219.
Quarta di copertina
Di Eschine di Sfetto, come di tutti gli altri Socratici a eccezione di Platone e Senofonte, non è pervenuta alcuna opera completa. Abbiamo tuttavia testimonianza di sette dialoghi “socratici”, conservati in stato frammentario: l’Alcibiade, l’Aspasia, il Milziade, il Callia, il Telauge, l’Assioco e il Rinone. Il presente studio sui Sokratikoilogoi di Eschine presenta una raccolta di tutte le testimonianze antiche sulla biografia e sugli scritti del Socratico, per la prima volta integralmente tradotte in italiano. Corredata da un ampio commentario storico-filologico, la raccolta include alcune nuove testimonianze che sono state aggiunte al corpus e che contribuiscono ad arricchire la comprensione dei dialoghi eschinei. I testi sono introdotti da uno studio di carattere storico-filosofico, volto ad approfondire la figura e la biografia di Eschine, nonché a definire il suo statuto come fonte sul pensiero di Socrate. Contestuale all’analisi dei singoli dialoghi, di cui sono ricostruiti per quanto possibile la struttura e l’argomento, è l’indagine sui principali motivi filosofici trattati, che costituiscono spesso veri e propri topoi della letteratura socratica: il ruolo della ricchezza e il valore della povertà, il rapporto tra virtù e conoscenza, la cura di sé e, soprattutto, il legame tra eros e paideia. A tal fine, una particolare attenzione è rivolta ai paralleli testuali e tematici che legano i dialoghi di Eschine alle opere di altri Socratici, analizzati mediante un’esegesi comparativa che miri a “riattivare” tutte le componenti dei dibattiti interni che attraversarono la letteratura socratica e a restituirne, in tal modo, la ricchezza e la profondità.
Sommario
Francesca Pentassuglio è attualmente Alexander von Humboldt Postdoctoral Fellow presso la Universität zu Köln. Si occupa di filosofia socratica, di etica antica e della ricezione di Socrate nel tardo platonismo. È autrice del volume Eschine di Sfetto. Tutte le testimonianze (Brepols, Thurnout 2017) e di diversi contributi dedicati alle fonti antiche sul pensiero socratico.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
Quanto prezioso e irrimediabilmente perduto sia ogni secondo della nostra vita, solo un film ce lo può mettere davanti agli occhi. Solo nel momento in cui qualcuno ci ha raccontato la nostra storia, come la storia del nostro battito del cuore, sappiamo chi siamo. […] Il tempo di solito lavora contro di noi, contrasta i nostri piani, manda a monte i progetti e pone un limite alla felicità di ognuno. L’arte cinematografica è figlia della tecnica e il prodotto di un mondo senza Dio […]: visto che viviamo nel secolo che ci ha regalato la macchina del tempo, allora vogliamo anche utilizzarla per strappare al flusso del tempo pezzi del suo bottino. Proprio in quanto uomini non religiosi, noi registi vogliamo lasciare le nostre tracce nell’universo-tempo, vogliamo conferire durata agli istanti della vita. “Verweile doch, du bist so schön” si dice con struggente desiderio nel Faust di Goethe.
Edgar Reitz, Film e tempo, 2006
Barbara Rossi
Recitare il tempo. Le voci della Heimat di Edgar Reitz
Prefazione di Henry Arnold. Introduzione di Cristina Jandelli. Postfazione di Sergio Arecco.
In Appendice: Michele Maranzana, Reitz e la macchina del tempo:appunti per un itinerario filosofico.
ISBN 978–88–7588-279-2, 2021, pp. 208, Euro 20 – Collana “Il pensiero e il suo schermo” [5].
In copertina: Un’immagine emblematica di Edgar Reitz sul set.
«La trilogia di Heimat, il romanzo familiare dal respiro epico e, insieme Bildungsroman, sterminata narrazione dove la ‘cronaca’ si intreccia alla finzione, la microstoria alla macrostoria, le memorie e i destini individuali a quelli collettivi, è anche un ineffabile palinsesto sull’arte di raccontare: quella capacità narrativa definita dal nonno ferroviere – lui non aveva una teoria per la sua arte di narrare e tuttavia era fermo nei suoi principi: i luoghi dell’azione dovevano essere reali […], i protagonisti dei suoi racconti avanzavano la pretesa di essere vissuti davvero – che Edgar Reitz ricorda con affetto, basandola su un principio di verità» (Barbara Rossi, Edgar Reitz. Uno sguardo fatto di tempo, Bietti, Milano 2019, p. 20).
Barbara Rossi, media educator e studiosa indipendente, è laureata in Storia e Critica del Cinema presso l’Università degli Studi di Torino; presidente dell’Associazione di cultura cinematografica e umanistica “La Voce della Luna” di Alessandria, con la quale propone corsi e rassegne sulla storia e il linguaggio del cinema, è vicepresidente della FIC (Federazione Italiana Cineforum). Ha organizzato incontri di formazione riservati ai docenti per il Museo Nazionale del Cinema di Torino e ha collaborato con il gruppo di ricerca “Memofilm, la creatività contro l’Alzheimer”, facente capo alla Cineteca di Bologna.
Giornalista pubblicista, ha curato la rubrica Le lune del cinema per la rivista “Cineforum”, con la quale attualmente collabora. Suoi saggi di argomento cinematografico sono stati pubblicati in diversi volumi antologici: nel 2015 è uscito, per l’editore Le Mani, il volume Anna Magnani, un’attrice dai mille volti tra Roma e Hollywood; nel 2019, all’interno della collana Bietti Heterotopia, Edgar Reitz. Uno sguardo fatto di tempo. Cura annualmente, in collaborazione con l’Associazione Culturale Italo-Tedesca di Alessandria, una rassegna che porta sul grande schermo il meglio della produzione cinematografica tedesca contemporanea. Ha organizzato, in collaborazione con l’Università delle Tre Età di Alessandria, la proiezione della trilogia di Heimat di Edgar Reitz.
«Il racconto-fiume seriale di Edgar Reitz impiega personaggi-attori che compongono la Heimat degli spettatori. Una patria di finzione disseminata di figure che si rincorrono nei primi tre cicli e infine, in Heimat-Fragmente: Die Frauen (2006), viene sostituita dalla soggettività della protagonista, Lulu, che incorpora frammenti dell’opera-mondo come atti di memoria filmica riattualizzata. Per comprendere chi sono i principali attori di Heimat e cosa fanno in questo grande ciclo, che abbraccia (e oltrepassa) l’arco cronologico 1919-2000, occorre, come fa Barbara Rossi nel suo saggio introduttivo, ricordare sia la loro formazione che ripercorrerne le biografie artistiche: tutte si definiscono infatti a partire dall’incontro con Edgar Reitz».
Cristina Jandelli
«Il tempo è un fenomeno inspiegabile. Il tempo è vita e la vita è un viaggio verso la fine del tempo. Quello che stiamo vivendo diventa qualcosa che abbiamo vissuto. Tempo si trasforma subito in tempo passato. Gone … Il film ha lo scandaloso privilegio di uscire dal tempo. Per giocarci, accelerarlo o fermarlo, a suo piacimento. Il film è tempo compresso: le lunghe 26 ore di Zweite Heimat corrispondono – in realtà – a 10 anni. Il film salta, omette e scorre in avanti, per fermarsi all’improvviso. In un momento, un attimo “così bello…”; oppure doloroso. E può fare anche di più: rende il tempo ripetibile. Detto in modo diverso, fa fermare completamente il tempo. Il ventenne Hermann Simon è ancora tra di noi. Il film non invecchia. Invecchia solo attraverso noi spettatori. Incontra in noi un‘altra vita e diventa, così, un altro film. Rimane lo stesso e tuttavia emerge sempre di nuovo. Ma deve essere visto. Se il film non viene visto, muoiono anche Maria, Clarissa o Hermann. È il grande merito di questo libro non solo evidenziare e riaccendere un aspetto essenziale della trilogia di Heimat, ma anche mantenere vivo il film. E quindi è stato un onore e un piacere per me far parte di questo libro, oggi, nell’anno 2021. Come mi ero amalgamato con la figura di Hermann Simon 30 anni fa, così sono uno spettatore oggi. Hermann può essere vivo, l’Henry Arnold di allora non esiste più. Il “tempo delle prime canzoni” è ormai passato. […] Il “buon tempo antico” è un’altra chimera. I film di Edgar Reitz, invece – così si spera – rimarranno».
Henry Arnold
Barbara Rossi, profonda studiosa del regista tedesco, nonché sperimentata didatta del linguaggio cinematografico, mette, all’inizio della sua riflessione, e fin già dal bellissimo sottotitolo della sua monografia, Uno sguardo fatto di tempo, immediatamente le carte in tavola. Il lettore deve familiarizzare senza indugi con la materia oggetto d’indagine. E deve riconoscere che un lavoro su Reitz non potrà non essere dedicato, in buona parte, all’opera monstrum della sua filmografia, a quell’Heimat che non solo lo ha fatto scoprire al mondo, ma che ha costituito, con le sue dimensioni abnormi – tre parti rispettivamente di 11, 13, 6 episodi, 15h40’ + 25h32’ + 11h32’, più un prologo, un epilogo con Heimat. Frammenti. Le donne e una quarta parte in funzione di prequel, L’altra Heimat. Cronaca di un sogno, alquanto sui generis –, un’esperienza unica, per l’autore come per lo spettatore, nonché un passaggio decisivo nella storia del cinema contemporaneo.
Sergio Arecco
Una esperienza umana fondamentale, quella del tempo: in fondo, viviamo dentro cicli e mutamenti. Qualcosa torna a noi e si ripete, come le stagioni, qualcosa scorre via in maniera irreversibile, come i giorni della nostra vita. Intuiamo collettivamente qualcosa come eterno e qualcosa come caduco, oscuramente sentendo che siamo contenuti e circondati dal tempo. Siamo impastati di tempo. Un tempo imperioso, che si impone alla nostra maniera di stare al mondo, a tal punto da renderci indispensabile pensarlo e cercare di dominarlo. Facciamo calendari e orologi, sogniamo macchine del tempo e sviluppiamo filosofie e fisiche del tempo. Eppure non riusciamo a sottrarci al suo potere, mentre la stessa sconfitta travolge il pensiero raziocinante e sistematico della filosofia e della scienza, questa medicina teoretica dell’angosciosità fondamentale della condizione umana, che nel suo pensare il tempo si scontra con aporie insanabili, dove soluzioni opposte all’interrogativo su che cosa esso sia si fronteggiano eternamente senza possibilità di vittoria. Cos’ha a che fare il cinema di Edgar Reitz con questo? Tutto. Lo ha in primo luogo in quanto cinema, quindi in quanto cinema di Reitz, regista di cui è stato detto che ha «un meraviglioso sguardo fatto di tempo, intessuto di memorie private e collettive, di racconti veri o fittizi, di storie e di Storia» (Barbara Rossi, Edgar Reitz. Uno sguardo fatto di tempo, Bietti, Milano 2019, p. 209).
ISBN 978-88-7588-221-1, 2018, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “il pensiero e il suo schermo” [1]. In copertina: Il giudice E. Cotton Winchell sulla cima del monte californiano a cui diede il suo nome nel 1888: incarnazione dell’autentico “uomo del Wild West”.
ISBN 978-88-7588-218-1, 2018, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “il pensiero e il suo schermo” [2]. In copertina: Il volto di Django Freeman (Jamie Foxx) in una scena del film Django Unchained, 2012, scritto e diretto da Q. Tarantino.
ISBN 978-88-7588-253-2, 2019, pp. 224, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “il pensiero e il suo schermo” [3]. In copertina: Charlie Chaplin, Charlot soldato (Shoulder Arms), 1918, fotogramma.
ISBN 978-88-7588-230-3, 2019, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “il pensiero e il suo schermo” [4]. In copertina: Stanley Kubrick sullo sfondo di una sequenza di 2001. Odissea nello spazio, con l’astronauta David Bowman (interpretato da Keir Dullea). In quarta: il monolito nero.
Barbara Rossi, Recitare il tempo. Le voci della Heimat di Edgar Reitz. Prefazione di Henry Arnold. Introduzione di Cristina Jandelli. Postfazione di Sergio Arecco. In Appendice: Michele Maranzana, Reitz e la macchina del tempo:appunti per un itinerario filosofico.
ISBN 978–88–7588-279-2, 2021, pp. 208, formato 140×210 mm, Euro 20 – Collana “Il pensiero e il suo schermo” [5]. In copertina: Un’immagine emblematica di Edgar Reitz sul set.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
Chi si accosta a Spinoza quasi sempre sta cercando un maestro di vita. Alain vede appunto in Spinoza essenzialmente un saggio, che cerca la verità per fondare su di essa una vita giusta e felice. E la verità sta nel riconoscere che le cose e gli altri non esistono in funzione nostra, ma seguono una propria legge necessaria; capirlo può portare a sottrarsi alla loro influenza (cioè alle passioni), ad agire in modo autonomo, cioè in base alla propria natura, a realizzare così se stessi e quindi ad essere felici. Questo dice lo splendido congedo che Alain rivolge ai lettori della sua presentazione di Spinoza, ed è un viatico alla lettura. «[…] À chacun de fêter sa Pentecôte, qui consiste à jouir du bonheur de penser, et à pardonner à Dieu. C’est là l’idée la plus cachée et la plus pacifiante. Repousser de soi le Pascal qui ne cesse d’importuner Dieu. Et soyez heureux».
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Il fine delle riforme è la standardizzazione dell’essere umano: la scuola deve formare “il tecnico” e non la persona
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L’anno scolastico volge al termine, le circostanze pandemiche hanno favorito i processi che erano in atto da decenni, in primis la riduzione della scuola a semplice costola del mercato. Si è trattato di un anno di passaggio, già da più parti si proclama che la nuova normalità investirà la società tutta. Per la scuola si prevede un’accelerazione sulla digitalizzazione e la trasformazione dei docenti in quantificatori, in registratori delle competenze. Docenti anonimi per una scuola al servizio della crescita economica. La persona e la comunità scompaiono dietro la cortina di ferro dell’asservimento al mercato. È il mercato de facto a stabilire fini e contenuti dei programmi e l’azione didattica, ogni fine costituzionale è ridotto ad elemento di sottofondo secondario. L’articolo tre della Costituzione per il quale la Repubblica promuove il libero sviluppo delle personalità, ed a tal scopo rimuove le disuguaglianze iniziali, è superato dalle logiche acquisitive e competitive. La scuola (articolo 33 e 34) presidio e prassi della democrazia è sostituita dalla legge del mercato. Sempre meno scuola e sempre meno contenuti comportano la contrazione della democrazia, l’homo oeconomicus è il nuovo modello antropologico a cui ci si “deve adattare”. La svolta implica il definitivo abbandono della tradizione italiana per l’imitazione dei modelli anglosassoni. L’obiettivo è l’uniformità dei sistemi d’istruzione europei, ogni tradizione patria dev’essere trascesa in nome di un’unità europea che si svela essere strumento delle oligarchie. Il liceo dev’essere superato, al suo posto si impone “il regime degli istituti tecnici” per formare non più cittadini, ma ubbidienti lavoratori: si insegna la sussunzione e non la cittadinanza. Inquieta il silenzio dei docenti e della cittadinanza. La scuola pubblica è di tutti e per tutti, se ha la chiarezza del suo fondamento costituzionale e didattico. “Il falso progressismo” è entrato nella scuola e non solo, governa con i suoi automatismi e le parole ad effetto dietro cui si nasconde il nulla che avanza. Per comprendere la decadenza ammantata di progresso dei tempi attuali è sufficiente leggere qualche pagina della pedagogia di Giovanni Gentile che nel 1923 istituì il liceo:
“L’insegnante insegna, in quanto non misura, né ricorda neppure le ore che passa nella scuola; e chi guarda a ogni minuto l’orologio, non può riuscire a concentrare il proprio pensiero, a unire l’anima propria con quella dei suoi scolari nel lavoro fecondo che è proprio dell’insegnamento, in quella comunione degli animi in cui si adempie una delle forme più pure della vita religiosa dell’uomo […] Esso consiste, a dir vero, in un bene che, diviso, non diminuisce; comunicato non si perde da chi lo produce, anzi s’accresce con suo vantaggio sempre maggiore” [1].
Il docente non è un misuratore del tempo della lezione e delle prestazioni dell’alunno, oggi diremmo delle competenze, ma è “un maestro” che ha come scopo la formazione dell’alunno: docente ed alunno, pur nell’asimmetria dei ruoli si formano reciprocamente in una relazione che non può essere quantificata.
Incontro educativo L‘incontro educativo è una relazione in cui i tempi della crescita conoscono regressioni, stasi ed improvvise svolte, se il docente assume il comportamento di uno scienziato che in laboratorio stimola “il fenomeno alunno”, lo descrive e lo quantifica, siamo di fronte ad un nuovo autoritarismo non riconosciuto. Lo studente che deve continuamente certificare le competenze non può che percepirsi come un produttore di competenze, “è chiamato” a mostrare il suo valore con la sola documentazione. La scuola selettiva di Giovanni Gentile era meno competitiva e classista della scuola che si profila, in quanto le certificazioni sono ad uso delle classi più abbienti. Sarà il denaro a fare le competenze, e specialmente la relazione docente-alunno sarà inquinata dal più bieco positivismo che si coniuga con l’economicismo.
La pedagogia di Giovanni Gentile ha la chiarezza che la didattica è relazione umana. L’essere umano è dinamico, la coscienza ed il vissuto impongono continuamente la capacità di ascoltare “l’invisibile”, se il docente si limita a raccogliere la documentazione, la relazione sarà sostituita dalla “transazione burocratica”. L’attività scolastica è vita che si rinnova nel quotidiano e nello scorrere dei giorni e non può essere irrigidita in prestazioni da quantificare in certificazioni, crediti, debiti, attività culturali a cui l’alunno ha partecipato. La valutazione diviene di censo, i contenuti senza i quali nessuna attività critica e creativa è possibile sono sostituiti da attestati che si comprano sul mercato della formazione:
“Non c’è un sapere che insegni l’arte di fare scuola: se per fare scuola s’intende farla davvero, a certi giorni, a certe ore, via via, a certi alunni, sempre nuovi, con animo sempre nuovo, in circostanze sempre diverse, su problemi che mai non si ripetono. […] E guai al maestro che non sappia procedere se non sulle dande dei precetti! La vita è creazione eterna[2]”.
Scuola della prassi o antipositivistica L’antipositivismo di Giovanni Gentile è oggi più attuale che mai. Se il positivismo è il principio di ogni processo di sussunzione, in quanto l’essere umano deve fatalmente piegarsi al giogo fatale dell’empirico, l’Idealismo è prassi e Spirito, ovvero l’essere umano è la fonte della storia e del suo destino. La prassi gentiliana ha fecondato anche Antonio Gramsci, perché mette in atto processi di consapevolezza che dimostrano che l’umanità è “la radice” della storia. Se il fascismo non è riuscito ad omologare totalmente la nazione italiana, forse, lo si deve anche alla Riforma Gentile, al suo antipositivismo che non ha consentito la completa omologazione fascista, ma ha contribuito a consolidare in molti soggetti il pensiero divergente e riflessivo, malgrado le finalità totalitarie del regime:
“Noi siamo la radice da cui tutto germoglia, e da noi, come appunto da propria radice, tutto torna ad attingere il succo vitale che lo mantiene in essere. Noi, dunque, siamo il principio del mondo che è il nostro mondo, noi, non già in quanto siamo o ci facciamo uno tra gli oggetti della nostra coscienza, bensì proprio in quanto siamo il soggetto attivo del conoscere[3]”.
Il neopositivismo di cui è affetta la scuola italiana ed europea è l’espressione compiuta del nuovo autoritarismo in atto. La quantificazione degli esseri umani è il nuovo razzismo da smascherare che si cela tra le parole della propaganda: inclusione, debiti, crediti, eccellenze, competizione e competenze. Il fine delle nuove riforme è la standardizzazione dell’essere umano, la scuola deve formare “il tecnico” e non la persona. Il presente con il suo linguaggio ci descrive il futuro, spetterà a noi confermarlo o trasformarlo con la nostra indifferenza o con la nostra sana partecipazione capace di filtrare il meglio della tradizione e dell’esperienza storica non per trasmetterla pedissequamente, ma per ripensarla nelle mutate condizioni storiche. Si profila una società senza significato, in cui il logos sarà sostituito dalla propaganda, siamo tutti corresponsabili del presente e del nuovo che avanza nella forma della desertificazione dell’umano.
[1] G. Gentile, Lavoro e cultura. Discorso prefascista ai lavoratori di Roma. In G. Gentile, Opere, XLV, Politica e cultura, Le Lettere, 1990, pag. 247.
[2] G. Gentile, Sommario di pedagogia, cit., vol. I, pp. 123 124.
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Non passa giorno senza che la macchina mediatica non si scagli contro i nemici della democrazia, non si indigni contro le violazioni dei diritti umani perpetrate al di fuori dei giardini fioriti dell’U.E. Per loro fortuna, noi viviamo nella migliore delle democrazie possibili e pertanto i professionisti dell’antifascismo e del rispetto dei valori costituzionali possono dormire sonni tranquilli per quanto riguarda le faccende interne e concentrare, così, al meglio le forze per denunciare violenze, arbitri ed illegalità che affliggono chi non vive in questo nostro mondo libero. Sempre per loro e nostra fortuna, capita che da noi, se qualcuno mal consigliato protesta contro un qualche provvedimento adottato per salvaguardare il bene pubblico, non finisca ammanettato in una cella angusta e puzzolente, ma si ritrovi comodamente assistito nel reparto psichiatrico di un attrezzato ospedale di una ridente città di È quanto è successo, qualche giorno fa, ad uno studente diciottenne di Fano che, istigato – riporta preoccupata la stampa locale,[1] ribadisce preoccupata ed indignata la Preside che ancor prima di essere insegnante e dirigente è una mamma – da un losco cinquantenne no mask, solito ad aggirarsi intorno agli edifici scolastici per adescare irrequieti adolescenti in rotta di collisione con le norme anti-Covid, ha inscenato in classe una protesta contro l’uso della mascherina. Il ragazzo – già noto alle cronache scolastiche per essere un bastian contrario – si sarebbe incatenato (?) al banco e si sarebbe tolto la mascherina. Di fronte ad un tale atto osceno perpetrato in luogo pubblico, per di più destinato all’educazione dei giovinetti, è stato allertato il 118 che è prontamente intervenuto ed ha condotto il ragazzo al Pronto Soccorso dove, di fronte al suo stato di evidente confusione morale, gli è stato amorevolmente affibbiato un TSO, convalidato prontamente dal Tribunale di Pesaro. Gli è toccato in sorte il privilegio di essere uno dei primi a sperimentare “la scuola affettuosa” che il neo ministro dell’Istruzione sta progettando per aiutare le nuove generazioni ad uscire dalle “gabbie del Novecento”, quel secolo buio di totalitarismi, guerre, rivoluzioni, conflitti sociali ed una irrequietezza di fondo che la medicina liberal-liberista ha saggiamente sopito. La messa in sicurezza dell’edificio e dei suoi occupanti si è svolta senza incidenti, tanto più che al personale sanitario si sono affiancati i carabinieri: la classe dello studente plagiato è stata trasferita in un’altra aula, mentre il teatro dell’increscioso incidente è stato sottoposto ad opportuna sanificazione. Tutto è rientrato nell’ordine: sui lidi di Fano i bagnini cominciano a prepararsi per l’estate, gli studenti dell’Istituto in cui è avvenuta la disdicevole vicenda continuano ad alternare giorni in presenza e giorni in DAD, dopo avere trascorso quasi un anno in DAD integrale, le forze dell’ordine sono sulle tracce del cattivo maestro per di più cinquantenne e forse nemmeno troppo in forma, il ragazzo si sta riposando nelle stanze ovattate dell’Ospedale dove forse arriva l’odore del mare. Alcuni no mask ne approfittano per fare un po’ di confusione – la vita in provincia in fondo è monotona ed ogni occasione è buona per divertirsi – ma le forze dell’ordine li stanno identificando uno a uno e chissà che non si scopra che sono al soldo di qualche agente russo, o del Vecchio della Montagna, o del nipote di Saddam Hussein che, per vendicare lo zio ingiustamente accusato di usare armi chimiche di distruzione di massa, sta dando una mano al Covid che, ci hanno messo in guardia i virologi, si ringalluzzisce tutto quando si imbatte in qualcuno senza mascherina. Le forze del Bene hanno segnato un punto a loro favore, ma, come è noto, vincere una battaglia non significa vincere la guerra e sono tanti e tali i pericoli che minacciano questo nostro mondo libero che dobbiamo prepararci ad una lunga guerra di posizione dove ciascuno è chiamato a fare il proprio dovere. Gli insegnanti, per esempio. I giovani sono il cuore pulsante del Paese, è la sollecitudine per le generazioni future ad ispirare le scelte politiche di ogni governo che si rispetti ed è per questo che prendiamo il Recovery Fund, ma, purtroppo, sono fragili, corrono dietro alle nuvole e alle farfalle e finiscono per perdere la strada maestra, per perdersi dietro pericolose chimere, come dimostra anche il triste caso fanese. Grande è la responsabilità degli insegnanti, i quali non sempre sono all’altezza del compito che la società affida loro, distratti spesso da questioni di stipendio, oppure incaponiti nella vetusta idea di insegnare la loro materia. La dea Fortuna splende, però, sempre nei nostri cieli europei e da lassù ci manda un prezioso kit pedagogico per aiutare gli studenti delle Superiori a combattere disinformazione e fake news, al fine di rafforzare la resilienza della società.[2] È davvero commovente che istituzioni cui spetta il gravoso compito di governare un (quasi) intero continente nel bel mezzo di un’emergenza sanitaria che minaccia di durare a lungo trovino il tempo di preoccuparsi che la formazione dei giovani poggi su salde fondamenta veritative. D’altronde, solo un osservatore distratto potrebbe stupirsene; non è la prima volta che la U.E., attraverso uno dei suoi organismi, si occupa di ristabilire verità non ancora sufficientemente chiare ai popoli europei. E di riscrivere la storia, ponendo fine una volta per tutte con un tratto autorevole al dispersivo lavoro di ricerca degli storici che, oltretutto, porta ben pochi vantaggi all’erario e così stabilisce ex lege l’equiparazione di comunismo e nazismo. Quanto a quei milioni di russi sovietici morti per liberare il suolo europeo dalle armate di Hitler, sembra si tratti di una fake news messa in giro dai nostalgici dei Cosacchi e di disgustosi rituali antropofagi ai danni dei più piccoli. D’altra parte, sarebbe da sciocchi preferire due brutali energumeni che a furia di calci e pugni spediscono in galera qualche nemico della Verità ad un’eterea, immateriale Polizia del Pensiero che aiuta a discernere il vero dal falso comodamente da casa, attraverso un semplice clic, oppure prende corpo negli accenti nobili e persuasivi di un professore, tutto compreso dell’importanza del compito riservatogli: formare le giovani generazioni alla nuova cittadinanza europea, digitale, resiliente e naturalmente inclusiva, salvo per quei pochi disinformati che, incapaci di comprenderne i vantaggi, recano danno a se stessi e alla collettività.
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[1]https://www.ilrestodelcarlino.it/fano/cronaca/senza-mascherina-scuola-1.6326800 . Il ragazzo è stato dimesso ieri, dopo che del fatto si sono interessati dei politici facenti riferimento alla Lega, ben contenti di avere l’occasione di sventolare la bandiera della difesa della libertà, generosamente lasciata nelle loro mani dai benpensanti progressisti e sinistroidi, sempre più sinistri. Chi scrive ha proposto ad un Coordinamento di docenti della provincia, nato nel corso delle lotte contro la riforma renziana, un comunicato sulla vicenda che sottolineava essere la scuola luogo di dialogo e non di ricoveri coatti: proposta respinta per l’opposizione di qualcuno che temeva di fare il gioco della Lega, alla quale evidentemente intende lasciare libero tutto il campo!
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Liberarsi del dominio e non delle identità di genere. La libertà non è la pratica del nulla, ma la tensione tra le identità, il cui fine è conoscersi per donarsi
L’indifferenziato L’indifferenziato è la nuova frontiera del capitalismo assoluto, normare ed omogeneizzare sono strumenti con cui l’economicismo trasforma il diritto al riconoscimento delle differenze in “indifferenza programmata”. Il capitalismo assoluto deve governare le differenze, le deve evirare dei loro contenuti per strumentalizzarle. Dietro la cortina di ferro dell’esaltazione delle differenze difese da una pluralità di statuti giuridici si cela la paura del diverso. Ogni diversità autentica è una prospettiva sul mondo, reca in potenza la possibilità di favorire il materializzarsi pubblico delle contraddizioni del sistema. Esse indicano un altro modo di vivere, denunciano con la loro esistenza che il presente non è tutto, ma è il configurarsi di un periodo storico nel quale la vita è offesa dalla crematistica, dalla disintegrazione di ogni identità comune. Il capitalismo assoluto ha ribaltato l’essere in nulla per eternizzarsi, per neutralizzare ogni prassi. Il capitalismo assoluto ha organizzato un nuovo totalitarismo, si usano le parole dell’emancipazione e il piacere congiunto al desiderio di onnipotenza per ipostatizzare il presente. Si utilizzano le indubitabili sofferenze e contraddizioni del passato per impossessarsene e consolidare il sistema capitale. Vi è uno spostamento del dispositivo repressivo, le differenze sono acclamate, sono obbligate a dichiararsi per essere strumentalizzate all’interno della logica dei consumi. Solo la visione d’insieme restituisce l’immagine ed il fondamento che guida le differenze: devono emergere per omologarsi nell’infinito piacere, nel consumo tracotante che consente al capitale di espandersi. La questione gender è interna a tale logica, svuotare ogni differenza per legittimarle tutte consente di spazzare via con la famiglia, i legami stabili per favorire forme di individualismo liquido: esseri umani senza identità, senza ruoli, negati nella loro differenza fisica sono liberati da ogni responsabilità-progettualità per entrare nella precarietà lavorativa organica alle identità liquide. La precarietà di genere e lavorativa diviene un corpo unico, in tal modo “i precari” del nuovo mondo possono muoversi all’interno del dispositivo della precarietà con assoluta normalità ed indifferenza. Nella condizione attuale le persone omosessuali sono discriminate diversamente dal passato, poiché le si usa come modello per legittimare la precarietà affettiva che introduce al consumo senza limiti. Non sono trattate da “persone”, ma come atomi che si aggregano e disgregano, in modo da diventare “archetipo dell’emancipazione” ed “educare” al nuovo modello sociale ed economico. La nuova emancipazione neoliberista non parte dalle condizioni materiali del soggetto, in cui vi è la condizione sociale, il gruppo di appartenenza e il genere, ma dal concetto di individuo: definizione generica che vorrebbe eliminare ogni identità, in nome di una libertà nullificante e nullificatrice. Coloro che identificano l’omosessualità come la causa di ogni male, non hanno la chiarezza del problema, spostano la loro attenzione sull’effetto, rimuovendo la causa, ed in questo gioco di rimandi volutamente o in modo ideologico conservano il sistema attuale. Si soffermano sui sintomi per evitare di affrontare la causa profonda del problema. La teoria gender la si può comprendere solo all’interno della cultura scettica e storicista, secondo la quale non vi è che il tempo della storia ad annichilire forme e culture, pertanto nega l’esistenza della natura umana e con essa ogni fondamento veritativo. Lo scetticismo filosofico è promosso in ogni istituzione educativa, che diviene il centro di trasmissione e giustificazione del capitalismo assoluto. Uomini e donne hanno, sicuramente, gli stessi diritti, ma nel riconoscimento della differenza: il corpo non è un semplice accidente, ma condiziona senza determinare rigidamente ruoli e comportamenti. Una società plurale vive della dialettica tra diversi modi di ascoltare il mondo, la complementarietà è un valore che educa all’integrazione. Le differenze naturali non sono la fonte della discriminazione, ma l’uso ideologico delle differenze ha determinato rigidità dei ruoli e tragedie
Il male e l’onnipotenza Eliminare la natura umana, in nome della libertà, è la piena realizzazione di un nuovo nichilismo, il quale ha dismesso i panni della critica sociale e della trasgressione concettuale per affermare una nuova forma di “conservazione”. Dominare con il mito del piacere e dell’eccesso è un nuovo tipo di autoritarismo mascherato ed occulto difficile da individuare e comprendere. La fuga dalla natura umana per il paradiso edenico dell’identità liquida comporta la fuga da ogni responsabilità sociale e comunitaria, per cui non resta che l’esperienza del piacere e dell’eccesso da cui il capitale trae plusvalore. L’illimitatezza è il mezzo con cui il modo di produzione attuale trae il profitto ed i capitali per attuale le logiche di sussunzione. Gli uomini non sono più utili, sono espressione dell’ apparato simbolico del limite, pertanto si associa il maschio al male. La figure maschile è sempre stata l’autorità etica, che a prescindere dalle sue forme storiche, ha dato forma ad ogni civiltà con la collaborazione simbolica dell’archetipo femminile. Eliminare uno dei due poli significa desimbolizzare per istituzionalizzare una società di atomi senza destino, storia e progetto. Esseri senza idee e senza valori sono facilmente dominabili e molto condizionabili. La libertà assoluta è il mezzo culturale utilizzato dal capitalismo assoluto per il consenso: si coltiva l’illusione dell’onnipotenza. Ogni figura simbolica che rappresenta il limite, la forma, la progettualità è abbattuta. La figura paterna è perennemente sotto attacco in nome della libertà senza freni. La figura maschile è rappresentata come mostruosa, è la presenza patologica che impedisce la piena e totale realizzazione della felicità in terra. La violenza è solo al maschile, si occulta la quotidiana violenza delle differenze di censo, della precarietà, dei diritti sociali negati e si incanala l’aggressività verso gli uomini, a cui si chiede di rinunciare di essere tali, per essere copia del femminile.
Desimbolizzare e pregiudizi L’omosessualità è utilizzata per indicare la nuova via da seguire, il nuovo modello da cui gli uomini devono imparare “la convivenza civile”. Si tratta di un’omosessualità edulcorata, le persone omosessuali sono rappresentate secondo stereotipi utili a destabilizzare la comunità. La fuga da ogni ordine simbolico ha l’effetto di partorire una nuova visione antropologica: l’essere umano è causa sui, non ha legami con la comunità, né con il passato, non ha doveri. La nuova e unica legge a cui ci si deve attenere è il proprio immediato desiderio. Regressione generale ad uno stadio preedipico e dominio sono il fondamento del capitalismo assoluto. I padri di famiglia con annessi significati simbolici sono destituiti di ogni autorevolezza ed autorità. Non restano che le donne perennemente vittime, e nel contempo obbedienti all’inclusione. Il capitale le usa per “stabilizzare” la precarietà e ne sollecita la liberazione da ogni vincolo. La santificazione delle donne è menzognera, le donne sono persone e quindi possono essere violente come gli uomini e specialmente diversamente: l’aggressività delle donne è più spirituale per una naturale differenza fisica. La storia e l’attualità non dimostrano che le donne in posizioni di potere siano “eticamente” migliori degli uomini, anzi, paiono più determinate e meno propense all’ascolto ed al compromesso. L’illusione di onnipotenza diventa presto incubo, le nuove generazioni sono senza padri e senza madri, sono gli eredi di un mondo desimbolizzato. La tragedia etica è nel nostro quotidiano, giovani senza padri, madri e maestri difficilmente potranno generare famiglie o ideologie di resistenza sono consegnati ad una solitudine impari nella quale scorgono solo la presenza delle merci. Ogni essere umano si forma avendo come punto di riferimento dei modelli, con cui confliggere e confrontarsi, ma fondare una personalità sull’autogenerazione significa rinunciare alla “cura dell’altro” per consegnarlo al caos informe delle pulsioni. Una società senza generi non è l’equivalente di una società senza classi, ma è la compiuta peccaminosità in atto: il regno dell’eccesso e dell’informe non può che produrre una nuova inedita forma di barbarie. La libertà in questa cornice è la violenza deregolamentata, la legge del più forte utilizzata da “esseri camaleontici”. Uscire dal linguaggio del capitale per decodificarlo e riportarlo alla sua verità strutturale e materiale è il primo passo per uscire dall’inutile guerra dei generi. È necessario orientarsi verso il vero nemico che assimila e destruttura natura e personalità mostrandosi “diabolico”, nel significato etimologico della parola, ovvero, divisorio. Per riprendere il percorso di emancipazione è indispensabile dissipare le fumisterie con cui il capitale inganna i suoi sudditi solleticandone la fuga verso un Eden intessuto di autodistruzione. Bisogna liberarsi del dominio e non delle identità di genere. La libertà non è la pratica del nulla, ma la tensione tra le identità, il cui fine è conoscersi per donarsi.
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Francesca Pentassuglio, Eschine di Sfetto. Tutte le testimonianze, Brepols, Thurnout 2017, p. 219.
Quarta di copertina
Di Eschine di Sfetto, come di tutti gli altri Socratici a eccezione di Platone e Senofonte, non è pervenuta alcuna opera completa. Abbiamo tuttavia testimonianza di sette dialoghi “socratici”, conservati in stato frammentario: l’Alcibiade, l’Aspasia, il Milziade, il Callia, il Telauge, l’Assioco e il Rinone. Il presente studio sui Sokratikoilogoi di Eschine presenta una raccolta di tutte le testimonianze antiche sulla biografia e sugli scritti del Socratico, per la prima volta integralmente tradotte in italiano. Corredata da un ampio commentario storico-filologico, la raccolta include alcune nuove testimonianze che sono state aggiunte al corpus e che contribuiscono ad arricchire la comprensione dei dialoghi eschinei. I testi sono introdotti da uno studio di carattere storico-filosofico, volto ad approfondire la figura e la biografia di Eschine, nonché a definire il suo statuto come fonte sul pensiero di Socrate. Contestuale all’analisi dei singoli dialoghi, di cui sono ricostruiti per quanto possibile la struttura e l’argomento, è l’indagine sui principali motivi filosofici trattati, che costituiscono spesso veri e propri topoi della letteratura socratica: il ruolo della ricchezza e il valore della povertà, il rapporto tra virtù e conoscenza, la cura di sé e, soprattutto, il legame tra eros e paideia. A tal fine, una particolare attenzione è rivolta ai paralleli testuali e tematici che legano i dialoghi di Eschine alle opere di altri Socratici, analizzati mediante un’esegesi comparativa che miri a “riattivare” tutte le componenti dei dibattiti interni che attraversarono la letteratura socratica e a restituirne, in tal modo, la ricchezza e la profondità.
Sommario
Francesca Pentassuglio è attualmente Alexander von Humboldt Postdoctoral Fellow presso la Universität zu Köln. Si occupa di filosofia socratica, di etica antica e della ricezione di Socrate nel tardo platonismo. È autrice del volume Eschine di Sfetto. Tutte le testimonianze (Brepols, Thurnout 2017) e di diversi contributi dedicati alle fonti antiche sul pensiero socratico.
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Nonostante la sua brevità, il saggio sulla “cosa” (Das Ding) occupa una posizione cruciale nella produzione del cosiddetto “secondo Heidegger”. Qualcosa in merito lo si può già dedurre dalla circostanza che ha occasionato la stesura dei testo: si tratta di una conferenza tenuta, il 6 giugno 1950, presso l’Accademia di Belle Arti bavarese. Di fronte agli studenti dell’Accademia Heidegger voleva proporre una riflessione sul fare artistico inteso nel senso più profondo del termine, quello che rinvia in ultima istanza alla poiesis, e di qui all’accezione più fondamentale sul modo d’essere delle cose. In questa prospettiva, lo vedremo, il saggio si inserisce nella medesima linea critiea dischiusa dalla più antica questione de L’origine dell’opera d’arte (1935), e più in generale, dall’itinerario ermeneutico che risale alla Lettera sull”‘umanismo” (1947). Per altro verso però, esso appare, anche alla luce del suo stesso titolo, strettamente intrecciato con il corso del 1935/36, che aveva appunto quale oggetto La questione della cosa. Nell’insieme, è il periodo in cui Heidegger, muovendo per cerchi concentrici, avvia la riflessione genealogica sul nichilismo europeo, e sulla sua intima complicità con il tema della tecnica (La questione della tecnica, 1954). Il saggio Das Ding si colloca perciò al crocevia di un insieme di direttrici di ricerca intrecciate in un unico Denkweg, quel “cammino di pensiero” nel quale, per tentativi, si fa strada la straordinaria avventura intellettuale intrapresa da Heidegger in concomitanza con la cosiddetta “svolta”. Si tratta della lunga fase di pensiero nella quale Heidegger, rileggendo la storia della metafisica come la vicenda unitaria del progressivo oblio dell’essere, tenta in pari tempo di attingere a una verità più originaria di quella che ha preso forma, in modi sempre diversi, ma rispondenti a un piano di coerenza “destinale”, nella logica e nell’ontologia occidentale. Proprio in questo senso l’evidente complessità del testo deriva innanzitutto dal fatto di essere un “precipitato teorico”: invece di discutere le enormi questioni implicate dalla “svolta”, Heidegger sperimenta la possibilità di oltrepassare la storia del nichilismo in direzione di un nuovo inizio, di un pensiero capace di inaugurare, o quanto meno di preparare, l’avvento un nuovo rapporto tra l’uomo e la verità. Di qui procede la ragione di un’ulteriore difficoltà: tra gli scritti heideggeriani Das Ding è indubbiamente celebre per la complessità del suo linguaggio, spesso considerato “poetico”, evocativo, o ancora ermetico ed esoterico.
Ma occorre considerare che sebbene questa cifra stilistica risenta della profonda influenza della poetica di Hölderlin (cui Heidegger dedica, in questi stessi anni, alcuni dei suoi scritti più importanti), essa si giustifica in realtà in base a un’urgenza strettamente teorica: il tentativo di attingere a una nuova vicinanza all’essere, rimontando la storia di una millenaria rimozione, richiede la messa in opera di un nuovo linguaggio, la riscoperta di una parola “originaria”, cioè originariamente estranea alla grammatica del pensiero che ha dato inizio alla storia della metafisica e al portato “reificante” delle sue categorie. […]
Matteo Vegetti, La brocca di Heidegger, in: La questione della brocca, a cura di Andrea Pinotti, Mimesis, Milano 2007, pp. 69-85.
Quarta di copertina Che cosa è una cosa? Circondati, talvolta assediati dalle cose, usiamo volentieri il termine “cosa” per parlare d’altro, dimenticando proprio quel che fa di una cosa una cosa (ad esempio, di una brocca una brocca). Quattro grandi filosofi del Novecento provano qui a ricordarcelo. Ragionando di vasi, di brocche, di manici, Simmel e Bloch, Heidegger e Adorno ci offrono quattro casi esemplari di quel ritorno alle cose stesse che è stato non solo la parola d’ordine di un movimento filosofico particolare, la fenomenologia, ma anche un complessivo orientamento del pensiero contemporaneo verso l’esperienza nella sua vivente corporeità: un’esigenza urgente di concretezza che non significa cedimento all’empirismo, ma piuttosto delicata empiria, scrupolosa dedizione agli oggetti, infaticabile svelamento dei loro infiniti strati di senso. Il lettore può sperimentare qui quattro diversi stili, profondamente affini ma anche irriducibili nelle loro peculiarità, con cui la filosofia è tornata ad accostarsi ai molteplici sensi delle cose: a partire dal senso estetico, quello che in primo luogo e originariamente ci dischiude l’oggetto in quanto cosa della percezione e dell’immaginazione, aprendoci al mondo.
Sommario Georg Simmel, L’ansa del vaso (introduzione di Andrea Pinotti) Ernst Bloch, Una vecchia brocca; Il rovescio delle cose (introduzione di Maurizio Guerri) Martin Heidegger, La cosa (introduzione di Matteo Vegetti) Theodor W. Adorno, Manico, brocca e prima esperienza (introduzione di Markus Ophälders)
Matteo Vegetti, laureato in Filosofia e in Psicologia, ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università di Torino. Professore ordinario di Teorie dello spazio alla Supsi (DACD), insegna all’Accademia di Mendrisio. Ha inoltre insegnato per otto anni Estetica al Politecnico di Milano, e ha tenuto corsi all”Istituto Suor Orsola di Napoli e all’Università degli Studi dell’Insubria. Tra le sue più importanti pubblicazioni: La fine della storia (Milano 2000), Hegel e i confini dell’Occidente (Napoli 2005), Lessico socio-filosofico della città (curatela, con P. Perulli, Varese 2006), Filosofie della metropoli (curatela, Roma 2009), L’invenzione del globo (Torino 2017).
Sono onorato del vostro invito a inaugurare il ciclo di studi inerente alla città di Como. Si tratta tra l’altro, a mio avviso, di un’iniziativa necessaria, poiché si inserisce con tempismo in un momento particolare della storia della città. Un momento difficile che investe la “vocazione” di Como, la sua identità urbana e forse la sua stessa collocazione in un contesto territoriale ed economico in rapida trasformazione. Occorre provare ad avere una chiara consapevolezza di questo passaggio critico. Si tratta a mio avviso di ripensare il senso, e dunque l’identità del territorio [… clicca qui per continuare a leggere]
Un tuffo …
… tra alcuni dei libri di Matteo Vegetti …
La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève, Jaca Book, 1999
Hegel e i confini dell’Occidente. La fenomenologia nelle interpretazioni di Heidegger, Marcuse, Löwith, Kojeve, Schmitt, Bibliopolis, 2005
Questo libro ricostruisce un momento cruciale della filosofia europea: il ritorno a Hegel, negli anni ’30, come paradigma per pensare la svolta che inaugura il mondo contemporaneo. In questa prospettiva La Fenomenologia dello spirito rivela un’inquietante ambiguità: da un lato sembra compiere la storia della metafisica avviata da Aristotele; dall’altro preannuncia i segni della sua dissoluzione, l’emergenza di un’istanza teorica che eccede la sfera riflessiva del sapere, rinviando agli scenari “anti-idealistici” aperti da Nietzsche, Marx, Heidegger. Le categorie di “movimento”, “forza”, “vita” si configurano allora come i vettori della crisi che investe i fondamenti ontologici della realtà, ponendo Hegel in dissidio con se stesso e con l’intera tradizione che nella mediazione del sapere assoluto avrebbe dovuto trovare conclusione autocosciente. Rintracciare questa soglia significa rimettere in questione il pensiero della fine della storia nei suoi stessi effetti, ovvero nelle forme dell’ontologia, dell’antropologia e della politica. L’elaborazione di questi temi viene qui condotta in discussione critica con quattro figure ermeneutiche strettamente intrecciate tra loro: Heidegger, Löwith, Kojève e Schmitt. Ne deriva un’apertura genealogica sui confini storici e concettuali dell’occidente.
Il libro La città. Note per un lessico socio-filosofico, a cura di Paolo Perulli e Matteo Vegetti con prefazione di Massimo Cacciari, edito dall’Accademia di architettura dell’Università della Svizzera italiana nel 2004, ha vinto l’Annerkennungspreis del concorso ZIPBau Award 2006. Il concorso premia ogni anno esercitazioni universitarie di tema architettonico, urbanistico e sociologico.
La pubblicazione raccoglie alcuni testi d’esame elaborati dagli studenti dell’Accademia di architettura per il corso La città. Storie, struttura, filosofia dell’anno accademico 2002-3 tenuto a due voci da Paolo Perulli e Massimo Cacciari. Scopo del corso era quello di favorire una discussione complessiva circa il significato filosofico e sociologico delle città alla luce delle profonde trasformazioni che ne hanno mutato la morfologia e il concetto.
Gli studenti (ormai diplomati) hanno scelto uno dei termini discussi durante le lezioni per sviluppare poi autonomamente una propria ricerca. Nei loro interventi hanno prestato particolare attenzione alle metamorfosi della città e alla sua espansione, alla relazione con il sacro, al fenomeno del nomadismo, ai luoghi di confine, al caos, all’informazione e alla comunicazione che nella città si sviluppano. L’esercitazione ha così permesso di comporre una sorta di “lessico della città”.
Filosofie della metropoli. Spazio, potere, architettura nel pensiero del Novecento (a cura di), Carocci, 2009, 2013
Che cos’è la città? Questa domanda risuona in Europa quando, dalle travolgenti trasformazioni della modernità, emergono i contorni inquietanti e misteriosi della metropoli. Per rispondere alla sua sfida i principali autori discussi in questo libro – Weber, Spengler, Simmel, Benjamin, Kracauer, Jünger, Foucault, Deleuze, Derrida – sondano un campo di analisi rimosso dalla filosofia politica classica, che ha scelto lo Stato come suo oggetto privilegiato. Del resto, proprio quando la metropoli sembra realizzare il destino dell’Occidente, lo sfaldamento dei criteri politici e sociali della modernità pone una nuova questione: come interpretare il ruolo e il senso della città nel contesto geopolitico della globalizzazione? Ripensare l’avvento e le trasformazioni della metropoli diventa allora una mossa necessaria per riconoscere il presente e prefigurare il futuro.
L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria, Einaudi, 2017
Risvolto di copertina Sviluppando la riflessione di Carl Schmitt circa il potere degli elementi (terra, mare, fuoco, aria), Vegetti indica nell’avvento della spazialità aerea l’esordio di una seconda fase globale, che attraverso l’aviazione, le onde elettromagnetiche, i sistemi della telecomunicazione satellitare, i viaggi spaziali e la tecnologia informatica ha plasmato un nuovo spazio e una nuova coscienza spaziale. L’autore studia in chiave genealogica gli effetti riconducibili a questa profonda transizione storica: effetti di ordine politico e sociale, ma anche antropologici, dato che la metamorfosi dello spazio esige un riorientamento complessivo del rapporto tra il soggetto e il mondo cui appartiene. In questa prospettiva il volume interroga la crisi della statualità, ovvero del nomos della terra quale la modernità l’ha conosciuto, e la nascita di un nuovo ordine globale ancora in cerca di se stesso.
Indice Introduzione. I. L’unità del mondo. Leviathan, Behemoth, Ziz. II. One World: l’impero dell’aria. III. Planetarizzazioni della Terra. IV. Mondi globali. La terra e i flussi. – Appendici. – Note. Indice dei nomi.
Paul Gauguin (1848-1903), “Brocca a forma di testa, Autoritratto” / “Jug in the Form of a Head, Self-portrait”, 1889, Porcellana dura vetrificata in verde oliva, grigio e rosso / Stoneware glazed in olive green, gray and red, Altezza / Height 19.3 cm, Museum of Decorative Art, Copenhagen.
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Un percorso veritativo per uscire dal pessimismo del consumo dell’Essere e dal suo uso ideologico in funzione antiumanistica. Il presente invoca un cambiamento di rotta.
Interpretazione adattiva L’interpretazione di Heidegger di Costanzo Preve decostruisce l’uso antimetafisico e “la trasmissione” adattiva al capitalismo assoluto del filosofo di Meßkirch. Heidegger è decodificato, e presentato dalle Accademie e dal circo mediatico, come l’autore del requiem alla metafisica, pertanto non resta che il nichilismo e il trionfo degli enti. La critica di Heidegger alla società inautentica del capitale si arena nello svelamento, nella verità che resta inattingibile (ἀλήθεια), quindi sono gli enti a regnare. L’inautentico non è trascendibile, al presente non vi è alternativa, è negata la temporalità politico-progettuale per devenire gestione economico-amministrativa dell’eterno presente. Heidegger da critico del trionfo della tecnica e della categoria della quantità nel suo imperio e dominio assoluto è trasformato in filosofo organico al potere.
Costanzo Preve, invece, interpreta Heidegger quale filosofo che legge la storia della metafisica capovolgendo la ricostruzione hegeliana: per Hegel la storia della metafisica è il progressivo svelamento della verità nella storia, per Heidegger vi è il progressivo rivelarsi della metafisica come abbandono dell’Essere e della verità. Il comunismo reale e il capitalismo sono il momento apicale del disvelamento che invoca una svolta, un ritorno sui «sentieri interrotti»:
«La connotazione heideggeriana della lunga storia del pensiero filosofico occidentale come storia universale delle avventure della metafisica, e solo nella metafisica, rappresenta la prosecuzione tematica e metodologica della concezione hegeliana della storia della filosofia non come disordinata filastrocca di opinioni casuali, ma come manifestazione storica di oggettività logiche ed ontologiche. Una simile opinione può sembrare bizzarra, se si pensa che ciò che in Hegel appare come problema un progredire temporale della consapevolezza teorica, appare in modo rovesciato in Heidegger come progressivo allontanamento da una situazione originaria migliore, e non peggiore».[1]
L’Essere consumato L’Essere non si è consumato, come vorrebbero i paladini del nichilismo del capitale. Non può consumarsi l’Essere, perché la verità-fondamento è altro rispetto agli enti. Si applica volutamente la categoria del consumo all’Essere per poter escludere dalla visuale la verità e sostituirla con gli enti. Se l’Essere si è consumato nella storia come qualsiasi merce, non resta che il nulla, pertanto gli enti non incontrano limite e senso alcuno. La tecnica abita l’essere umano che agisce manipolando ”ente tra gli enti”. Con il consumo dell’Essere la storia si ritira, perché ogni progetto politico necessita di un fondamento veritativo:
«La consumazione della lunga storia occidentale in tecnica planetaria non è ovviamente una consumazione dell’Essere in quanto tale, per il fatto che la metafisica non potrebbe mai “consumare” l’orizzonte trascendentale dell’Essere stesso. Ciò che viene “consumata”, piuttosto, è la lunga serie di illusioni storiche legate all’assolutizzazione indebita degli enti via via assolutizzati».[2]
La “diagnosi” di Heidegger è inserita all’interno di categorie estranee alla filosofia: ottimismo/pessimismo. Heidegger sarebbe un pessimista. Il pessimismo consolida il capitalismo assoluto con la sua “filosofica disperazione”. Ogni critica che riporti il calco della disperazione e del pessimismo è un mezzo per confermare il presente. La filosofia, in quanto prassi veritativa, dovrebbe usare la categoria di vero/falso, per cui l’analisi heideggeriana svela il trionfo del falso e dell’antiumanesimo col dominio degli enti sull’umano, e indica la necessità di un cambiamento di rotta. Essa invoca e ci invoca alla ricerca della verità, ad uscire dal falso per andare incontro alla radura (Lichtung), ad orientarci verso la verità. La radura è l’immagine di uno spazio improvviso nel bosco nel quale la verità si svela in un abbaglio, la si intravede, ma non si lascia catturare, perché essa non è un ente, ma il fondamento degli stessi. La radura è una forma di “riorientamento gestaltico” per uscire dalla trappola dell’assolutizzazione degli enti e della manipolazione:
“Ma la nozione heideggeriana di Tecnica non è assolutamente avvicinabile in termini di pessimismo verso le possibilità immediate di trasformazione positiva delle cose. Si tratta di una diagnosi storica di un evento della storia dell’Essere, e le diagnosi si interrogano in base alla dicotomia vero/falso, e non in base alla dicotomia ottimismo/pessimismo».[3]
Compensazioni narcisistiche L’imperio degli enti e della crematistica conducono ed inducono alla vita inautentica, essa è segnata dall’inautenticità. In assenza di un fondamento veritativo, le esistenze sono preda del caos e dell’economicismo. Il pensiero è solo calcolo quantitativo acquisitivo; pertanto l’omologazione genera forme parossistiche di identità narcisistiche, prede dell’onnipotenza mediatica dietro cui si cela il nulla: il narcisismo compensa il vuoto quotidiano:
«Mano a mano che il mondo sociale esterno non appare più come la realizzazione voluta di un cosciente progetto umano, ma come la risultante imprevedibile di meccanismi anonimi incontrollabili, il soggetto per conservare la sua identità, sia pure largamente illusoria deve autopotenziarsi e “centralizzare” il senso delle cose su se stesso e la sua attività di creazione semantica dei significati vitali».[4]
Prassi contro l’Evento Costanzo Preve condivide la critica e l’appello alla verità di Heidegger, ma non può seguirne il sentiero che porta all’Evento (Ereignis). L’Evento è improvviso, viene a noi, se si abbandona il calcolo e il fare tecnico; implica l’attesa destinale. Costanzo Preve, invece, fonda il suo Umanesimo comunitario rielaborando filosofi della prassi e della responsabilità dell’agire (Aristotele, Marx, Hegel). La natura generica dell’essere umano (Gattungswesen) consente in circostanze storiche determinate di scegliere per progettare nuovi modi di vivere sul fondamento comunitario della natura umana. Nella relazione comunità individuo, vi è la prassi della verità, poiché il soggetto umano pensante sviluppa, discerne e valuta le sue potenzialità sul fondamento della verità. La politica diviene, in tal maniera, prassi e consapevolezza condivisa del limite: le libere individualità possono attualizzarsi solo nel limite. Sono i soggetti che “calcolano” con il logos la presenza ed il senso degli enti. Il soggetto umano diviene l’autore della sua storia senza titanismi:
«La comprensione di questo punto è teoricamente decisiva. Se infatti si parla di “essenza umana generica” (Gattungswesen), ciò significa che Marx pensava che l’essenza umana generica esistesse, e fosse addirittura la verità dell’uomo, più o meno come nel pensiero greco classico l’anima umana (psyché) era considerata il fondamento della verità. Per Marx, dunque, l’essenza umana generica è la verità dell’uomo. La piena comprensione di questo punto permette di escludere qualsiasi interpretazione di Marx di tipo “storicistico assoluto” in chiave di “relativismo temporale”. Se l’essenza umana generica fosse infatti soltanto l’insieme dei rapporti sociali di produzione (come Marx confusamente e contraddittoriamente fa capire in altri passi sparsi della sua opera mai rivista e tantomeno risistemata), se ne avrebbe la conseguenza che essa non esiste, e si avrebbero tante essenze umane generiche quante sono e sono state le formazioni economico – sociali umane (e cioè migliaia), il che equivale appunto a dire che essa non esiste. Lo storicismo – relativismo, ovviamente, è sempre una forma di nichilismo. Se allora io rifiuto ogni interpretazione storicistico – relativistica di Marx (la presunta essenza umana è al 100% l’insieme storicamente determinato e sempre mutevole dei rapporti sociali di produzione e di classe), devo tener ferma la posizione per cui dicendo “essenza umana generica” (Gattungswesen) Marx intendeva alludere a qualcosa di logicamente ed ontologicamente reale, e non ad una sorta di sociologismo eracliteo. Ed io penso allora che se si tiene ferma questa interpretazione si coglie il nucleo metafisico profondo del pensiero di Marx, che in caso contrario resta un evanescente fantasma».[5]
Impegno comune Costanzo Preve ha aperto un campo d’azione storico, in cui tutti siamo chiamati all’impegno per uscire dalla reificazione del mercato: il primo passo è sostituire nel giudizio la categoria ottimismo/pessimismo, con vero/falso. Solo la visione argomentata e logica della verità può essere elemento motivante per uscire dall’anomia del pessimismo indotto e dalla trappola del falso:
«Accettare tale ontologia significa rifiutare l’inevitabilità del passaggio al socialismo o al comunismo in quanto l’essere sociale, a differenza della natura, ha la possibilità di scegliere e quindi non ci può essere alcuna ineluttabilità nelle trasformazioni sociali, la scelta è sempre fondamentalmente non deterministica. Questa rinuncia è gigantesca e non mi stupisce che i comunisti l’abbiano ignorata quando Lukács era in vita e poi l’hanno completamente rifiutata. Egli chiedeva al movimento comunista una conversione totale e cioè la rinuncia al presupposto religioso che il comunismo è qualcosa di ineluttabile che nasce dalle ceneri della società capitalistica e che è possibile prevedere come se si trattasse di una legge di natura. Egli ha impostato giustamente il problema anche se poi è rimasto a metà strada; non perché fosse vile ma perché era un uomo totalmente inserito nella Terza Internazionale, diceva di sé di esser un vecchio cominternista. Se devo parlare di un mio profilo filosofico posso dire che secondo me la via individuata da Lukács era giusta, ma che bisogna andare avanti, ammettendo, per esempio che, mentre la teoria della storia di Marx è strutturalista, la filosofia in cui Marx incorpora questa teoria è idealista[6]”.
Bisogna riprendere il percorso veritativo per uscire dal pessimismo del consumo dell’Essere e dal suo uso ideologico in funzione antiumanistica. I tempi per il riorientamento non sono profetizzabili, ma il presente invoca un cambiamento di rotta non più procrastinabile. Non ci sono sentieri sicuri su cui inerpicarsi, ma dinanzi a noi sono compresenti più sentieri. Sta a noi “scegliere” quale attraversare: la storia è il luogo della scelta contro il fatalismo messianico e pessimistico.
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