«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Platone mostra così che nell’atto di scegliere a quale scopo indirizzare la sua esistenza la vicenda socratica giocò un ruolo determinante. Egli considerava altamente significativo, in particolare, il fatto che l’integerrima morale di Socrate si era più di una volta opposta alla prassi politica impura corrente in Atene sullo scorcio del V secolo. Decidendo di fare filosofia sulla scia di Socrate, e con l’occhio concentrato sugli esiti negativi della prassi etica e politica corrente, Platone inaugura dunque un’idea di filosofia in cui il sapere che si ricerca (ricordiamo che la parola “filosofia” significa “amore del sapere”) non è tanto un sapere fine a sé stesso, orientato al puro conoscere, ma è un sapere diretto a conoscere quei principi generali di fondo che soli possono promuovere il benessere dell’uomo (ovvero la sua felicità) sia nella vita privata sia in quella pubblica. Una delle più importanti eredità che Socrate consegna a Platone è dunque la stretta connessione tra filosofia e vita. Un paio di volte nel corso dei dialoghi (Gorgia 500c; Repubblica 352.d) il Soccate di Platone spiega che l’argomento di cui si discute è straordinariamente importante, perché di tratta di “come si debba vivere”. Pertanto nessun uomo può davvero dichiararsi estraneo alla filosofia, perché sarebbe come se dichiarasse il proprio disinteresse nei confronti della felicità».
Franco Trabattoni, La filosofia di Platone. Verità e ragione umana, Carocci, Roma 2020, p. 41.
«Se il vivere è in sé buono e piacevole […] e se chi vede ha la consapevolezza di vedere, chi ode di udire, chi cammina di camminare e lo stesso vale per tutti gli altri casi, vi è qualcosa che ci rende consapevoli del fatto di esercitare un’attività, cosicché noi possiamo avere la consapevolezza di sentire e di pensare, ed aver consapevolezza di sentire o di pensare significa aver consapevolezza di esistere (infatti si era detto che il fatto di esistere consiste nel sentire e nel pensare), ma se l’avere consapevolezza di vivere è, di per se stesso, una cosa piacevole (infatti la vita è, per natura, un bene, e sentire che questo bene noi lo possediamo in noi stessi è piacevole) e il vivere è desiderabile, soprattutto per le persone virtuose, poiché il fatto di esserci è bene per loro ed è anche piacevole (infatti godono di percepire insieme il bene in sé), se l’individuo moralmente retto è disposto verso gli amici come si comporta verso se stesso (infatti l’amico costituisce un alter ego), allora, come per ciascuno è desiderabile il fatto di esistere, allo stesso modo […] è desiderabile l’esistenza dell’amico. Abbiamo detto che l’esserci è desiderabile perché si ha la consapevolezza che noi stessi siamo virtuosi; una tale sensazione, inoltre, è piacevole di per se stessa. Quindi si deve sentire insieme anche l’esistenza dell’amico e questo avverrà vivendo insieme e condividendo ragionamenti e pensieri. […] Quindi l’individuo felice avrà bisogno di amici moralmente retti».
Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 1170 a 26-34 – 1170 b 1-19, in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 875-877.
Oggi è improponibile l’idea secondo cui lo sviluppo tecnologico trainerebbe con sé, in quanto tale, anche lo sviluppo sociale. L’ideologia del progresso non ha nessuna universalità e nessun universalismo
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Destra Sinistra
Ricostruire l’identità della sinistra e della destra non è operazione teoretica semplice: affermazione banale, ma vera.
La teoria non è scissa dalla prassi, anzi interagisce con essa secondo il paradigma osmotico. Pertanto non vi è ricostruzione che non possa non tener nel debito conto la cornice storica in cui siamo situati. Ogni fuga all’interno di semplicismi integralistici – o nostalgie verso un passato che non ritornerà – non può che rallentare i processi di più corretto riposizionamento. La storia del comunismo ci insegna che a mutate circostanze storiche è necessario salvare i principi attraverso “adeguamenti al contesto storico”. Esempio ne sono state la NEP (1921-1928) di Lenin, come pure le innumerevoli declinazioni del comunismo alle contingenze storiche nazionali. Viviamo, dunque, come direbbe Gramsci, in un interregno: il nuovo non nasce, il vecchio non muore. In questa sospensione si consolida il Regno animale dello Spirito al punto da apparire come la “fine della storia” che coinciderebbe con la negazione dell’umano. Ma fin quando l’essere umano vivrà la storia non avrà concluso la sua corsa, sarà apertura alla speranza, corrente calda che muove verso il futuro. La distopia liberista si è strutturata anche grazie all’eclissarsi della sinistra e del comunismo, non solo come esperienza storica realizzata, ma anche come opposizione ideologica.
La sinistra è preda di processi di auto-dissolvimento, in quanto imita per opportunismo le destre, e specialmente, nega la sua identità politica. In tali circostanze gli spazi per il dibattito risultano limitati, o meglio la sinistra di potere rifiuta il confronto con se stessa per abbracciare la causa del capitalismo a cui dà sostegno nel timore di scomparire dalle scene mediatiche e, specialmente, per conservare posizioni di potere. Salva il corpo per salvare l’anima; la realtà è che ha perso entrambi, in quanto il compromesso è diventato complicità, fino a trasformarsi nella testa d’ariete del capitale: taglia i diritti sociali per divenire l’araldo dei soli diritti individuali, e incentiva la “cultura” del privato contro il pubblico. Non difende il suo popolo, ma lo consegna alle multinazionali, alla finanza ed alla cultura anglosassone. Porta a termine un’operazione filosofico-politica iniziata con il contratto di Hobbes, in base alla quale l’individuo astratto riduce ogni ente a solo mezzo compreso, lo Stato. Lo slittamento della cultura liberale nella sinistra è palese, si fa portatrice delle istanze liberiste con un mutamento privo di razionalità critica, ma che punta solo all’utile ed al risultato immediato. La sinistra post crollo muro di Berlino (1989) ha scelto la via più breve e più semplice, si è adattata al nuovo corso della storia, rimuovendo la sua ingombrante identità e ritirandosi dai territori e dalla storia. Non restano che slogan e nomi continuamente cangianti ad occultare il nichilismo nelle parole di mediocri politicanti che hanno come unica causa veloci carriere che si consumano nella ridda sempre più accelerata nel nichilismo senza prospettive. Le passioni tristi, di conseguenza, sono la normalità di un’epoca senza vitalità e senza memoria. Per poter ricostruire la sinistra bisogna congedarsi dal presente, sempre più simile ad una palude con i suoi opportunismi e “pensare il proprio tempo”, come Hegel ha insegnato.
L’attualità storica si connota per la sua temporalità vorticosa; la globalizzazione con i suoi scambi commerciali e finanziari interconnessi ha messo in atto una temporalità senza concetto ed immediata, e spesso frammentata, nella quale i soggetti politici si disperdono e mutano:
«In particolare nell’idea di temporalità che ‘divora se stessa’ che consuma la propria dimensione di ‘durata’ man mano che aumenta la propria velocità di trasformazione e finisce per destituire di senso tutte le diverse forme di consapevolezza umana basate sulla percezione del tempo (memoria, esperienza, aspettativa, identità personale e sociale ecc.), sembra ritrovarsi il tema stesso dell’auto-contraddittorietà del moderno: di una ‘modernità’, appunto, che radicalizzandosi si nega o comunque si ‘rovescia’. Così come nell’immagine di un tempo parossisticamente accelerato tanto da decostruire ogni struttura stabile dell’esperienza, e nella possibilità stessa di concepire una ‘storia’ (un racconto temporalmente ordinato), si concentra buona parte della sensazione di incertezza, volatilità, sradicamento e paura che costituisce la ‘materia prima’ delle riflessioni recenti».[1]
Accelerazione temporale
L’accelerazione provoca dispersione e passività, ma è pur vero che questo stato di cose è favorito dal nichilismo globale e trasversale. Senza paradigmi ideologici, spogli di ogni processualità logica e concettuale ed esposti ad una temporalità divoratrice, le identità si annichiliscono, e i popoli non hanno così i mezzi per capire e riorientarsi nella precarietà strutturale del postmodernismo. Tale condizione non è una fatalità storica, ma una condizione creatasi, anche a seguito dell’omogeneizzazione della sinistra con la destra. La categoria della merce e del libero scambio senza limiti hanno inciso anche nell’organizzazione-percezione spaziale, la quale è ora senza confini e senza identità. Le frontiere si aprono ad un flusso ininterrotto di merci e di eccedenze del capitale (veri protagonisti del ‘nuovo corso della storia’) che trascinano con sé popoli ormai divenuti plebi senza volto, in quanto costretti alla migrazione perenne. Lo spazio diviene un luogo nel quale convivono sincreticamente e senza stabilità individualità plurime in disgregazione. La sinistra tace, anzi sostiene i flussi in nome dell’accoglienza umanitaria da donare al capitale ad ai capitalisti pronti a sfruttarne la disperazione.
Spazio globale e iperluogo Lo spazio globale diviene l’inferno perenne, dove il capitale con il sostegno delle destre e delle sinistre raccoglie i suoi frutti. L’indebolirsi dello stato nazionale stigmatizzato come la fonte di ogni male, è in realtà la rifeudalizzazione su scala planetaria. Lo Stato e la nazione sono sostituiti da potentati economici che assoldano la politica per utilizzarla ai loro fini. Lo Stato come garante di diritti sociali ed identità è perennemente oggetto di pubblico ludibrio, in quanto pone dei limiti al degrado dei popoli: l’identità è il male assoluto di cui bisogna liberarsi per consegnarsi al flusso della globalizzazione, si associa l’identità comunitaria e patria al nazionalismo per strutturare pregiudizi e rifiuti emotivi non mediati dalla ragione critica:
«In effetti, nel proprio processo vertiginoso di costruzione di uno ‘spazio globale’, essa sembra imporre alla precedente ‘spazialità nazionale’ lo stesso trattamento che questa aveva a sua volta riservato alla ‘spazialità feudale’: la travolge e dissolve, ne forza i confini e li relativizza, infine, nella sostanza, la delegittima e svuota».[2]
L’iperluogo rappresenta la nuova spazialità della globalizzazione, in cui in un solo punto sono compresenti “mondi diversi” che appaiono per dileguarsi nella globalizzazione. La sinistra che verrà deve essere capace di rispondere a tale nuova complessa condizione. Il problema è se bisogna sostenere i flussi, regolamentarli secondi i desideri del capitale, o se invece prospettare una diversa soluzione al problema. L’iperluogo è l’effetto del capitalismo finanziario che agisce per polverizzare istituzioni, lingue ed identità nazionali secolari, al loro posto vi è solo l’antiumanesimo. Il soggetto umano è preda di forze fatali che lo soverchiano, le quali “accadono” e non hanno soggetto, ma sono ipostatizzate e naturalizzate. La nuova sinistra se vuole smarcarsi dalle destre dovrebbe porre distanza concettuale, etica e politica dalla religione del capitale o continuerà ad essere parte integrante della tragedia nell’etico:
«Si spiegherebbe così – con questa trasformazione – della città da luogo di flusso o, se si preferisce, in ‘iperluogo’, in spazio in cui precipitano in un punto solo molti luoghi prima separati- l’intrinseca instabilità delle consolidate identità politiche qualificate spazialmente, come appunto ‘Destra/Sinistra’: quel loro mutare di segno, rovesciarsi nel proprio opposto, cambiare posizione relativa pur restando immobili, cui ci ha abituato l’esperienza quotidiana, così come allo sradicamento esistenziale di chi, nella liquefazione dei luoghi, sperimenta ormai sempre più spesso lo spaesamento dell’ubiquità (ciò che si prova quando a dirla con Gogol, “senza essere partiti, non si è già più là”) e l’irriconoscibilità del proprio paesaggio».[3]”
Religione del progresso Uno dei dogmi a cui la sinistra deve rinunciare, non senza problematizzarlo, è il dogma del progresso. La religione del progresso tecnologico, della liberazione da ogni vincolo comunitario ed etico e dell’aumento del PIL ha comportato un abbassamento inquietante della qualità delle relazioni umane. La competizione disintegra comunità e famiglie ed offre ai vincitori come ai perdenti solo una diversa solitudine. La riduzione di ogni ente a puro fondo di investimento sta rendendo il pianeta inospitale alla vita ed incentiva un individualismo astratto incapace di pensare e sentire il senso della comunità senza la quale non vi è che l’alienazione globale. La tecnica al servizio dell’accrescimento del capitale e del tenore di vita nell’Occidente in estensione all’intero globo mina ogni relazione autentica inaugurando l’antiumanesimo come nuova religione della violenza planetaria legalizzata:
«Ma così è accaduto anche per la sua variante ‘materialistica’: per il concetto di ‘sviluppo’ cui risulta sempre più difficile, per lo meno sul piano razionale (perché invece la sua apologetica continua a dominare sul piano della dogmatica ideologica), associare, com’era naturale fino a ieri, un’effettiva idea di benessere non misurato in puri termini di reddito, mentre si vanno moltiplicando le letture che tendono a coniugare, in forma finora impensabile, crescita dell’economia e diffusione del malessere sociale ed esistenziale, sviluppo economico e disgregazione sociale, aumento quantitativo della ricchezza e aumento qualitativo del disagio nelle forme insidiose dell’incertezza, della precarizzazione e improgrammabilità della propria vita, della crescente fragilità delle ‘biografie personali’ e nell’improponibilità di quelle collettive: in sostanza l’insieme di quegli elementi fattuali, ormai ben visibili nella nostra quotidianità, che spezzano irrimediabilmente la tradizionale identificazione di ‘progresso tecnico e progresso sociale’, o meglio, che rendono oggi improponibile l’idea – che era stata, fino a ieri, alla base del “consenso culturale-normativo di fondo” sull’idea di progresso e sulla politica del tecnologie da essa univocamente e acriticamente orientata – secondo cui lo sviluppo tecnologico trainerebbe con sé, in quanto tale, anche lo sviluppo sociale».[4]
Lo spazio ed il tempo della globalizzazione si trasformano sotto l’effetto della religione del progresso ultimo baluardo ideologico di una sinistra di governo complice dell’ordinaria violenza quotidiana. La nuova sinistra per rispondere a tali urgenze non può limitarsi a semplici dichiarazioni, ma deve rifondarsi su fondamenta metafisiche, deve uscire dai falsi miti ormai consunti per rimettere in atto processi razionali divergenti. Ritornare al logos e abbandonare i miti per discernere e rifondare sull’esperienza storica degli ultimi decenni comporta la necessità di introdurre nuovi fondamenti metafisici senza i quali ci si consegna al fatalismo della globalizzazione, alla religione stadiale del progresso senza prospettiva e senza umanità. L’anno zero della sinistra può essere l’inizio per uscire dall’abisso della coazione a ripetere, per intraprendere un percorso di ricostruzione critica adeguata ai tempi, ma nel solco di un’identità che non può essere granitica, ma neanche un nulla dai mille volti interscambiabili. Le facili e false dicotomie devono essere sostituite da valutazioni sui contenuti senza negare i principi costitutivi, solo in questo modo è possibile un nuovo inizio in nome della complessità consapevole:
«L’intelletto astratto ama le dicotomie, vive di dicotomie, si nutre di dicotomie, e la ragione sta in ciò, che per loro natura le dicotomie sono paralizzanti, portano a ciò che si chiama in filosofia “antinomie”, in modo che la manipolazione classista dell’irrigidimento antinomico porta alla conclusione che non c’è niente da fare in pratica, in quanto qualunque azione sarebbe unilaterale, e porterebbe da Scilla a Cariddi. Una di queste antinomie è l’opposizione frontale fra il progressismo ed il tradizionalismo. Se il comunitarismo vuole essere qualcosa, deve cominciare ad essere un superamento reale della dicotomia Progresso/Tradizione. L’ideologia del progresso era estranea agli antichi ed ai medioevali, almeno come la conosciamo noi, ed è un prodotto integrale delle origini della egemonia borghese e del mondializzarsi del mercato capitalistico. L’ideologia del progresso non ha nessuna universalità e nessun universalismo, ma nel suo insieme rappresenta la razionalizzazione falsamente universalistica delle pretese di estensione a tutto il mondo dell’occidentalismo individualistico e capitalistico. Il fatto che il movimento operaio, socialista e comunista abbia adottato l’ideologia del progresso, limitandosi a collocare il capitalismo alla penultima stazione ed il comunismo all’ultima, con la conseguenza di assorbire la secolarizzazione messianica della fine della storia, deve essere visto come un sintomo della inguaribile subalternità filosofica di questo soggetto sociale. Ed a sua volta la subalternità ideologica, politica e storica. Il secolo 1890-1990 è stato purtroppo lo scenario teatrale di questa incurabile subalternità. Rispondere a questa subalternità presuppone la coerentizzazione e la rigorizzazione di una concezione comunitaria del comunismo, a sua volta esito della comprensione del fatto che il semplice collettivismo (coatto) si rovescia necessariamente in individualismo (anomico)».[5]
L’atto di nascita di un’ipotetica sinistra è fondamentale per comprenderne destini e programmi. La sinistra di cui necessitiamo dev’essere partecipata, deve riattivare la potenza del concetto contro la tecnocrazia che produce movimenti e partiti all’occorrenza per scioglierli in base agli interessi dei nuovi signori feudali. L’imprinting iniziale determinerà la storia della sinistra che, ora, non c’è.
Salvatore Bravo
[1] Marco Revelli, Sinistra Destra. L’identità smarrita, Laterza, Bari 2009, pag. 173.
«Mi si rimprovera […] di essermi limitato ad una scomposizione puramente critica del dato, invece di prescrivere ricette (comtiane?) per la trattoria dell’avvenire». K. Marx, Poscritto alla seconda edizione del I Libro de Il capitale, Londra, 24 gennaio 1873.
«[…] l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. […] egli realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà». K. Marx. Il capitale, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1973. pp. 195-196.
Petite Plaisance
Per descrivere il “comunismo” Marx si rifugia spesso dietro la vaghezza del «sogno di una cosa» e banalizza la coscienza utopica che desidera il sorriso delle stelle (“de-sidera”) per l’armonia comunitaria di cui avverte la mancanza. Non dice che il comunismo è conforme alla natura umana, che è realizzabile in atto poiché è in potenza presente nella natura umana. La stella polare è nella fondata progettualità della buona utopia per una buona vita, e non nelle «ricette per la trattoria dell’avvenire». Eppure aveva ben chiaro il rapporto tra l’ape e l’architetto.
Marx ed Engels avevano ragione a sostenere che se il comunismo non fosse in potenza presente nella realtà capitalistica, esso non potrebbe nemmeno realizzarsi in atto. Tuttavia, affermando soltanto che esso era in potenza presente nella dialettica storica, Marx ed Engels non hanno mai esplicitamente sostenuto che così è in quanto il comunismo è conforme alla natura umana, e dunque che il comunismo è realizzabile in atto (e desiderabile) poiché è in potenza presente nella natura umana. Non è infatti la dialettica storica, la quale è prodotta spesso da situazioni contingenti, ciò che deve rendere più o meno ottimisti circa la possibilità di realizzare il comunismo, ma è proprio la natura umana. Il comunismo è invero costantemente ricercato dagli uomini, anche se sovente con scarsa consapevolezza, proprio in quanto esso costituisce quel mondo razionale e morale in cui gli uomini stessi desiderano vivere. Esso rappresenta il modo di produzione più adatto a creare quella armonia comunitaria in cui principalmente consiste la buona vita. Sostenere ciò non significa affermare che il comunismo necessariamente si realizzerà in atto, come prevalentemente sostennero Marx ed il marxismo in base alla presunta «dialettica storica». La dialettica storica non può essere interamente controllata. Sostenere questo significa solo affermare che se il comunismo si realizzerà in atto, è unicamente poiché esso è presente in potenza nella natura umana. La dura critica riservata da Marx agli utopisti nel Manifesto (ma anche in Miseria della filosofia e altrove) non fu dovuta alla loro critica delle fondamenta privatistiche e mercificate della società esistente. La pars destruens posta in essere dal pensiero utopico, per quanto poco scientifica, era sufficientemente argomentata. Il problema era nella pars construens, che Marx ed Engels ritenevano essere completamente disancorata dalle possibilità reali offerte dalle modalità sociali. Tuttavia, su questo punto occorre riflettere, per mostrare come una fondata progettualità comunista possa anche essere costruita sul pensiero classico antico, e non solo sul pensiero marxiano. La critica di Marx non è infatti estendibile a tutto il pensiero utopico – la Repubblica di Platone, ad esempio, è un’utopia politica molto attenta a considerare le modalità sociali presenti –, ed in più va sottolineato che il confronto fra la pars construens (sempre ad esempio) di Platone e la pars construens di Marx è innanzitutto un confronto fra qualcosa che esiste compiutamente (in Platone) e qualcosa che non esiste se non implicitamente (in Marx), e fra queste due alternative la prima è sempre preferibile alla seconda. Quando devono descrivere il “comunismo”, Marx ed Engels si rifugiano pressoché sempre dietro la vaghezza di espressioni quali «il sogno di una cosa»,[1] o altre dello stesso tenore, oppure tendono ad affermare che il comunismo deve essere l’opposto dialettico del capitalismo, attribuendo però a quest’ultimo una importanza troppo grande e troppo aleatoria, nel ritenerlo (per quanto “in negativo”) un riferimento costitutivo. Non si vuole qui sostenere che si debbano elaborare a tavolino anche i “particolari” della futura società ideale comunista. Tuttavia, almeno le linee generali della stessa dovrebbero essere elaborate in anticipo, poiché chi aspira al comunismo deve sapere non solo che ciò fa parte della sua natura di uomo, ma deve anche sapere, in linea di massima, in quale modo di produzione potrà realizzare la propria natura, per valutare se l’alternativa al tempo presente sia o meno desiderabile.
Questo è il compito principale del pensatore comunista. Limitarsi a criticare, per quanto con buone ragioni, il modo di produzione esistente senza essere in grado di pensare nemmeno ad una alternativa possibile migliore, è sterile ed inconcludente, e forse addirittura dannoso per la stessa credibilità della proposta teorica comunista. Limitarsi oggi a fare quello che suggeriva Marx, ossia ad essere gli “esecutori” delle presunte leggi della storia, anziché i “grandi architetti” di future società giuste, significa mettersi interamente nelle mani del modo di produzione capitalistico, le cui interne contraddizioni, sicuramente ben comprese da Marx, potrebbero richiedere secoli per determinarne la dissoluzione. Il tema interessante è che quando in Marx ed Engels la descrizione del comunismo assume una qualche concretezza, come appunto nel Manifesto, le linee generali di un modo di produzione comunista sono delineate in maniera universalistica, ossia attenta a princípi e fini generali, volte a creare un quadro di produzione sociale razionalmente e moralmente gestibile per la soddisfazione dei principali bisogni umani. In questo senso, la più importante indicazione di Marx ed Engels è quella della pianificazione comunitaria. Ciò è comprovato, appunto, dalle pur contingenti indicazioni del Manifesto: «espropriazione della proprietà fondiaria», «imposta fortemente progressiva», «abolizione del diritto di eredità», «accentramento dei mezzi di trasporto nelle mani dello Stato», «aumento delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano comune», «educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli», ed in generale «accentramento di tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato». È possibile certo sostenere che anche questa idea di “comunismo”, in Marx ed Engels, fu derivata in opposizione dialettica alla idea di “capitalismo”, e pertanto non può assumere valore generale. Questo è in parte vero. Tuttavia, anche in assenza di una esplicita fondazione umanistica da parte di Marx, queste sue indicazioni progettuali paiono molto coerenti e concrete, certamente compatibili – almeno in parte – con una pianificazione comunitaria e democratica della produzione sociale. Sapere di condividere, se non la lettera, almeno lo spirito di fondo di un pensatore come Marx, sicuramente il maggiore teorico del comunismo mai vissuto consente di non consegnare Marx ai semplici sostenitori del bellicoso “comunismo-antagonismo” o del vago “comunismo-autogestione”, dannosi i primi, inconcludenti i secondi.[2]
Note
[1] «La riforma della coscienza consiste soltanto nel fatto che l’uomo lascia che il mondo divenga la sua coscienza interna, che l’uomo si risvegli dal sogno su se stesso, che si renda chiare le proprie stesse azioni. Il nostro intero scopo non può consistere altro – come nel caso di Feuerbach riguardo alla religione – che ogni domanda religiosa e politica venga tradotta in forma umana autocosciente. […] Si vedrà allora che da tempo il mondo possiede [nel senso di custodisce, ha in sé] il sogno di una cosa, del quale gli manca solo di possedere la coscienza, per possederla veramente» (K. Marx, Lettera a Ruge, settembre 1843, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, III, 1843-1844, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 156). Interessante notare – per rendersi conto di quanto queste espressioni di Marx abbiano influenzato la riflessione teorica di tanti intellettuali del Novecento – come il «giovane» P. P. Pasolini incontri il «giovane» Marx proprio quando deve scegliere il titolo del suo primo romanzo, Il sogno di una cosa (scritto nel 1949-50, ma pubblicato da Garzanti solo nel 1962). Il tema del «sogno» verrà ripreso anche da E. Bloch nel suo Karl Marx, il Mulino, Bologna 1972, pag. 57-82.
[2] Cfr., su questi temi, Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”, Petite Plaisance, Pistoia 2013, pp. 80-83.
«Apparirà, allora, che il mondo possiede da lunghissimo tempo il sogno di una cosa, di cui esso deve solo possedere la coscienza per possederla veramente». Certamente – ma come si possiedono i sogni, dove sono custoditi? Qui non si trana, naturalmente, di realizzare qualcosa – nulla è più noioso di un uomo che abbia realizzato i propri sogni: è l’insulsa buona lena socialdemocratica della pornografia. Ma nemmeno si tratta di custodire intangibili in camere di alabastro, coronati di gelsomini e di rose, ideali che, diventando cose, si sfracellerebbero: è il segreto cinismo del sognatore. Bazlen diceva: quel che abbiamo sognato, lo abbiamo già avuto. Tanto tempo fa, che nemmeno ce ne ricordiamo. Non in un passato, quindi – non ne possediamo i registri. Piuttosto i sogni e i desideri inadempiuti dell’umanità sono le membra pazienti della resurrezione, sempre in atto di risvegliarsi nell’ultimo giorno. E non dormono chiusi in preziosi mausolei, ma stanno confitti come astri viventi nel cielo remotissimo del linguaggio, di cui appena decifriamo le costellazioni. E questo – almeno – non l’abbiamo sognato. Saper afferrare le stelle che come lacrime cadono dal firmamento mai sognato dell’umanità è il compito del comunismo.
Giorgio Agamben, Idea della prosa, Quodlibet, Macerata 2020, p. 61.
«[…] gli uomini scompaiono davanti al lavoro; […] il bilanciere della pendola è divenuto la misura esatta dell’attività relativa di due operai, come lo è della velocità di due locomotive […], non si può più dire che un’ora di un uomo vale un’ora di un altro uomo, ma piuttosto che un uomo di un’ora vale un altro uomo di un’ora. Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più la carcassa del tempo».
Karl Marx, Miseria della filosofia, Rinascita, Roma 1949, pp. 44-45.
«Una condizione della produzione fondata sul capitale è quindi la produzione di un cerchio della circolazione costantemente allargato […]. La tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto del capitale stesso. Ogni limite si presenta come un ostacolo da superare. […] La produzione di valore eccedente relativo […] richiede produzione di nuovo consumo […]. In primo luogo espansione quantitativa del consumo esistente; in secondo luogo: creazione di nuovi bisogni mediante la diffusione di quelli esistenti in una cerchia più ampia; in terzo luogo: produzione di nuovi bisogni e scoperta e creazione di nuovi valori d’uso. […] In conformità con questa sua tendenza il capitale tende a trascendere […] il soddisfacimento tradizionale […] dei bisogni esistenti, e la riproduzione di un vecchio modo di vivere. Nei confronti di tutto questo esso è distruttivo […]».
Karl Marx, Grundrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, a cura di G. Backhaus, 2 voll., Pgreco, Milano 2012, pp. 374-377.
«[…] La circolazione del denaro come capitale è fine a sé stessa, poiché la valorizzazione del valore esiste soltanto entro tale movimento sempre rinnovato. Quindi il movimento del capitale è senza misura».
Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 168.
Perché non voglio essere complice di una espropriazione simbolica
[…] Amazon non è una libreria, ma un ipermercato. […] Per Amazon non c’è differenza tra l’istituzione culturale e un supermercato alimentare e commerciale. […] Persino oggi, che Amazon produce serie televisive, offre musica online, ha recentemente aggiunto alla sua offerta pezzi di ricambio per auto e motociclette e progetta di diventare un operatore di telefonia mobile, tutti collegano questo marchio all’oggetto e al simbolo che chiamiamo libro. […]
Perché tutti siamo cyborg, ma non robot
[…] non vogliamo essere dei robot. Il lavoro che devono compiere i dipendenti di Amazon è robotico. Lo è stato fin dall’inizio: nel 1994, quando a lavorare nel garage della casa di Jeff Bezos a Seattle erano cinque persone, erano già ossessionati dalla rapidità. […] Oggi gli amazonians sono coadiuvati da robot Kiva, capaci di sollevare 340 chili e di muoversi alla velocità di un metro e mezzo al secondo. Sincronizzati con i lavoratori umani tramite un algoritmo, si incaricano di alzare e spostare gli scaffali per facilitare la raccolta dei prodotti. Una volta messi insieme i prodotti che il cliente ha acquistato, un’altra macchina, chiamata Slam, dotata di un grande nastro trasportatore, si incarica di incanalarli e impacchettarli. Kiva e Slam sono il risultato di anni di ricerche. Amazon ha organizzato competizioni di robot, nell’ ambito dell’International Conference on Robotics and Automation di Seattle, allo scopo di perfezionare lo smistamento degli ordini. […] Amazon ha progressivamente eliminato il fattore umano. Nei primi anni contava su redattori che scrivevano recensioni dei libri in vendita; adesso non c’è alcuna mediazione neanche nel procedimento di impaginare e mettere in rete un libro auto-pubblicato. Ha robotizzato la catena di distribuzione e pretende che noi consumatori agiamo allo stesso modo. Invece no.
Perché rifiuto l’ipocrisia
[…] Su Amazon sono in vendita svariate edizioni di Mein Kampf […]. A quanto pare Amazon rifiuta la censura. Tuttavia, la cosa certa è che Amazon censura o privilegia i libri a seconda dei propri interessi. […]. Le uniche cose che contano sono la rapidità e l’efficienza del servizio. Sembra addirittura che non vi sia intermediazione. Che tutto sia automatico, quasi istantaneo. Ma dietro tutte queste operazioni individuali esiste una grande struttura economica e politica. Una struttura che esercita pressioni sulle case editrici per ottenere il massimo beneficio del prodotto, come fa con i fabbricanti di monopattini o con i produttori di pizze congelate. Una macrostruttura che decide la visibilità, l’accesso, l’influenza: che sta modellando il nostro futuro.
Perché non voglio essere complice del neo-impero
In Amazon non ci sono librai. La partecipazione umana nel settore è stata eliminata perché ritenuta inefficiente. Perché mina la rapidità, l’unico valore dell’azienda. Il procedimento è nelle mani di un algoritmo. L’algoritmo è il culmine della fluidità. La macchina trasforma il cliente in un influencer. […] Amazon elimina gli intermediari o li rende invisibili (equivalenti a robot). Sembra una macchina computerizzata. Aspira a essere talmente fluida da apparire invisibile. Eliminando le spese di spedizione, trattando sul prezzo con i grossi clienti per ottenere il minor prezzo possibile per il cliente individuale, Amazon sembra a buon mercato. Molto economico. Ma sappiamo che ciò che è economico costa caro. Molto caro. Perché l’invisibilità è un camuffamento: tutto è così rapido, così trasparente, così fluido, che sembra non vi sia intermediazione. E invece c’è. La paghi in denaro e in dati. Domanda, oggetti, prezzi, invio: i processi individuali si dissolvono nella logica immateriale della fluidità. Per Jeff Bezos come per Google o Facebook – il pixel e il link possono avere una correlazione materiale: il mondo delle cose può funzionare allo stesso modo del mondo dei byte. Queste tre aziende hanno in comune la volontà imperialista di conquistare il pianeta, sostenendo l’accesso illimitato alle informazioni, alla comunicazione e ai beni di consumo, mentre al contempo fanno firmare ai loro dipendenti contratti di riservatezza, tessono complesse strategie per non pagare le tasse nei paesi in cui operano e costruiscono uno stato parallelo, trasversale, globale, con regole e leggi proprie, con una propria burocrazia e gerarchia, con una loro polizia. E con propri servizi di intelligence e laboratori ultrasegreti. Google [X], il centro di ricerca e svi1uppo di progetti futuri dell’azienda, si trova in un luogo indeterminato, più o meno vicino al quartier generale della compagnia. Il suo progetto più ambizioso è lo sviluppo di palloni sonda stratosferici che nel giro di dieci anni assicurino l’accesso a Internet alla metà della popolazione mondiale che attualmente non è connessa. Il progetto parallelo di Amazon è Amazon Prime Air, la sua rete di distribuzione tramite droni, che oggi sono un ibrido tra l’aereo e l’elicottero, con un peso di venticinque chili. A partire dallo scorso agosto è stato cambiato il regolamento della Federal Aviation Administration degli Stati Uniti, per agevolare il volo di droni a scopi commerciali e per far sì che diventasse più semplice accedere alla licenza di pilota di droni. Viva il lobbying. E che il cielo sia invaso da robot volanti che consegnano biscotti Oreo, cagnolini di peluche, monopattini, tostapane, paperelle di gomma e … libri. […] Amazon possiede fin dall’inizio tutti i tuoi dati reali, fisici, legali. Persino il tuo numero di carta di credito. Forse non riescono ad accedere al tuo profilo sentimentale, emozionale e intellettuale così facilmente come Google o Facebook, ma in cambio sanno quasi tutto riguardo a ciò che leggi, mangi, regali. È facile dedurre il profilo del tuo cuore e del tuo cervello a partire dalle tue cose. E l’impero è nato dalle cose che possiedono il maggior prestigio culturale: i libri. Amazon si è appropriata del prestigio del libro. Ha costruito il maggior ipermercato del mondo con una spessa cortina fumogena sotto forma di biblioteca.
Perché non voglio che mi spiino mentre leggo
Tutto è cominciato con un dato. Nel 1994 Bezos lesse che il World Wide Web cresceva a un ritmo mensile di nuovi utenti del 2300%, lasciò il suo lavoro a Wall Street, si trasferì a Seattle e decise di cominciare a vendere libri via Internet. Da allora i dati hanno continuato a moltiplicarsi, si sono raggruppati organicamente assumendo la forma di un mostro tentacolare o di una nube tempestosa o una seconda pelle: ci siamo trasformati gradualmente in dati. Li lasciamo nelle migliaia di operazioni quotidiane che contengono le nostre impronte digitali su Internet. Li emettono i sensori del nostro cellulare. Stiamo costantemente scrivendo la nostra autobiografia digitando sulla tastiera, con le nostre azioni, con i nostri passi. In occasione dell’ultima Giornata del Libro, Amazon ha rivelato quali sono state le frasi più sottolineate in questi cinque anni sulla piattaforma Kindle. Se leggi libri sul loro dispositivo, sanno tutto sulle tue letture. A quale pagina le abbandoni. In quali casi invece arrivi fino alla fine. A che ritmo leggi. Cosa sottolinei. Il grande vantaggio del libro cartaceo non è la sua maneggevolezza, la durata, l’autonomia o l’intimo rapporto con i nostri processi di memoria e apprendimento, ma il fatto che è disconnesso in modo permanente. Quando leggi un libro cartaceo l’energia e i dati che emetti attraverso i tuoi occhi e le tue dita sono soltanto tuoi. Il Grande Fratello non ti può spiare. Nessuno può privarti di tale esperienza né analizzarla o interpretarla: è soltanto tua. […]
Perché sostengo la lentezza accelerata, la vicinanza relativa
[…] In primo luogo, convincendo il resto dei lettori della necessità del tempo dilatato. Il desiderio non può essere esaudito immediatamente, perché in tal caso cesserebbe di essere un desiderio, perderebbe senso. Il desiderio deve durare. Bisogna andare in libreria; cercare il libro; trovarlo; sfogliarlo; decidere se il desiderio aveva una ragion d’essere; forse lasciare quel libro e desiderare il desiderio di un altro; fino a trovarlo; oppure no […]
Perché non sono ingenuo
No: non lo sono. Non sono ingenuo. […] Credo nella resistenza minima e necessaria. Nella preservazione di certi rituali. Nella conversazione, che è un’arte del tempo; nel desiderio, che è il tempo fatto arte. Nel fischiettare, mentre passeggio tra casa mia e una libreria, melodie che ascolto soltanto io, che non appartengono a nessun altro. […]
Jorge Carrión, Contro Amazon. Diciassette storie in difesa delle librerie, delle biblioteche e della lettura, Edizioni e/o, Roma, 2020, pp. 13-22.
Io ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare.
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Movemi desiderio di dare dottrina.
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La filosofia è somma cosa.
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Coloro che vivono con intelletto e con ragione
sono dotati di una certa divina libertà.
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Non abuso di alcuna autorità, poiché non sono ricco.
Ma ciò significa che sono quel che sono, non grazie alle ricchezze.
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Ho come maestro il Filosofo che,
determinando i principi eterni della morale,
ha insegnato che a tutti gli amici bisogna anteporre laverità.
Movemi desiderio di dare dottrina
«Parlare alcuno di sé medesimo, pare non lecito. E ancora la propria lode e il proprio biasimo è da fuggire, sì come fare falsa testimonianza; però che non è uomo che sia di sé vero e giusto misuratore, tanto la propria carità ne inganna. [Tuttavia] dico che per necessarie cagioni parlare di sé è [talvolta] concesso. E tra le altre necessarie cagioni due sono le più manifeste. L’una è quando senza ragionare di sé grande infamia o pericolo non si può [far] cessare. L’altra è quando, per ragionare di sé, grandissima utilità ne segue altrui per via di dottrina. Movemi timore d’infamia, e movemi desiderio di dare dottrina».
Dante Alighieri, Convivio, I, 2.
La filosofia è somma cosa
«E sì come essere suole che l’uomo va cercando argento e fuori de la ‘ntenzione truova oro, lo quale occulta cagione presenta, non forse sanza divino imperio; io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofìa, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se non misericordioso; per che sì volentieri lo senso di vero la mirava, che appena lo potea volgere da quella. E da questo imaginare cominciai ad andare la dov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero».
Dante Alighieri, Convivio, II, 12.
Io ho il mondo per patria
«Io che ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare, benché abbia bevuto all’Arno prima di mettere i denti e tanto ami Firenze da patire, per amor suo, ingiustamente l’esilio, appoggio le spalle del mio giudizio più alla ragione che al senso».
Dante Alighieri, De Vulgari Eloquentia, I, 6.
Coloro che vivono con intelletto e con ragione sono dotati di una certa divina libertà
«L’ignoranza del volgo non ha nel giudizio alcun discernimento; e come crede che il sole abbia il diametro di un piede, così riguardo ai costumi, è ingannata dalla stessa fallace credulità. Ma a noi cui è concesso di conoscere l’ottimo che è in noi, non conviene seguire le vestigia del gregge, anzi siamo tenuti a correggerne gli errori. Infatti coloro che vivono con intelletto e con ragione, e sono dotati di una certa divina libertà, non sono costretti da nessuna consuetudine; e non è meraviglia, poiché essi non sono diretti dalle leggi, ma piuttosto le leggi da essi».
Dante Alighieri, Ep. XIII, a Cangrande della Scala.
Non abuso di alcuna autorità, poiché non sono ricco. A tutti gli amici bisogna anteporre la verità
«È vero, certo: io sono una delle ultime pecorelle dei pascoli di Cristo; è vero: non abuso di alcuna autorità pastorale, poiché non sono ricco. Ma ciò significa che sono quel che sono, non grazie alle ricchezze, ma per grazia di Dio e amore della sua Casa. Inoltre ho come maestro il Filosofo che, determinando i principi eterni della morale, ha insegnato che a tutti gli amici bisogna anteporre la verità. […] fra tanti che usurpano l’ufficio pastorale, fra tante pecore se non scacciate, per lo meno trascurate ed abbandonate sui pascoli, la mia è l’unica voce pietosa, voce di privato, che si faccia udire ora che la Chiesa è quasi sull’orlo dell’abisso».
Uno dei tratti costitutivi della civiltà cortese, del mondo dei cavalieri e delle dame, è una forte coscienza di sé e dei propri valori, del proprio stile di vita. La nuova leisure class delle corti sviluppa un gusto naturale del fasto e della socialità, si compiace di creare e produrre forme belle, nell’ordine dei pensieri, dei sentimenti, dei comportamenti, nella scelta e nella produzione degli oggetti, vesti, gioielli, arazzi. La sua etica si fonda sulla generosità, sulla lealtà, sulla fedeltà, sulla discrezione, sul culto della dama, sul rifiuto di ogni bassezza e viltà (questo almeno nello specchio idealizzante in cui ama, compiaciuta, contemplarsi). Lo slancio del cuore è tutt’uno con il rituale, creando un linguaggio nuovo, fatto di eleganza, di sensibilità, di erotismo.
In questo stile di vita ha un ruolo determinante la “letteratura”, che entra come canzone, come racconto, come romanzo nella sfera pubblica e nella sfera privata di dame e cavalieri. Che media il rapporto con il passato, che fornisce le conoscenze, le motivazioni, gli scenari dei gesti e delle azioni.
[…] La cultura cortese ci consegna innumerevoli “scene di lettura”. Già nelle chansans de toile, arcaiche o arcaizzanti che siano, la giovane fanciulla innamorata, seduta alla finestra, «lit en un livre mais au cuer ne l’en tient (legge in un libro, ma il suo cuore è altrove)».
[…] Il libro, segno di distinzione e strumento di svago, assume anche una funzione, più o meno forte, di riferimento, di orientamento per i comportamenti: con i suoi personaggi e con le sue storie offre dei “modelli”. Nel prologo e nella chiusa dei romanzi cortesi compaiono spesso degli appelli al lettore perché entri nella strada dell’imitatio. […] Il libro, la letteratura, possono configurare addirittura, con funzione di guida, e in uno spazio immaginario sospeso tra il conscio e l’inconscio, una sorta di anticipazione di quanto verrà offerto nella vita. […] Nel famoso episodio di Paolo e Francesca, nel canto quinto dell’Inferno, Dante ha colto e fissato, in una icona indimenticabile, la forza del libro sulle emozioni e sui destini.
[…] L’ammirazione per dei personaggi letterari, immaginari, può trasformarsi nell’animo del lettore, se l’immedesimazione prevale sulla percezione del mondo che lo circonda, nella proiezione assoluta in un modello ideale. Egli diventa così prigioniero di un “desiderio mimetico”, se vogliamo seguire le riflessioni di René Girard, che ha indagato con grande acutezza teorica e con ben ragionati esempi – Paolo e Francesca, Don Chisciotte, Julien in Le Rouge et le Noir, il principe Miskin nell’Idiota di Dostoevskij, il personaggio-poeta della Recherche… – gli aspetti di fascino metafisico, di possessione e di illusione che possono acquisire degli eroi letterari, delle persone che vivono solo nei libri.
[…] L’illustrazione forse più impressionante – per l’intensità, per lo scavo psicologico e retorico, per il ritmo potentemente rallentato e onirico – della “chiusura” e della réverie in tutta la letteratura medievale, la dobbiamo a Boccaccio, nell’Elegia di madonna Fiammetta. […] Nell’animo di Fiammetta la passione si afferma come esclusiva, tanto più tenacemente quanto più la scelta adultera si presenta combattuta e rischiosa. Le convenienze morali e sociali – tutta la sua vicenda, in parallelo a quella dell’amante Panfilo, è lì a dimostrarlo – pesano più per lei che per l’uomo. […]
Nel quadro di queste riflessioni sull’atto della lettura, sul libro come mediatore, ci interessano in particolare le letture, i modelli di Fiammetta. Sì perché Fiammetta è una grande “lettrice di romanzi”. Per l’abbondante utilizzazione di temi e personaggi della classicità greco-romana, per il quasi completo travestimento classico della geografia e del costume trecentesco – non solo nella scrittura del narratore, ma anche negli atteggiamenti di Fiammetta e di Panfilo – Cesare Segre ha suggerito la felice formula di «firmamento di archetipi».
Mario Mancini, Lettori e lettrici di romanzi, in in AA. VV., Lo spazio letterario del medioevo. 2. Il medioevo volgare, vol. III: La recezione del testo, Salermo Editrice, Roma 2003, pp. 155-176.
Mario Mancini è un filologo, saggista e accademico italiano. Con i suoi scritti, ha dato un forte contributo allo studio ed alla diffusione di opere letterarie provenzali, come per la poesia dell’occitano Bernard de Ventadorn e per il romanzo cortese Roman de Flamenca (della cui edizione italiana è curatore). Ha studiato a Padova, Vienna e Heidelberg. Dal 1976 fino al pensionamento è stato professore ordinario di Filologia romanza nell’Università di Bologna. Ha coordinato il lavoro di équipe di un’ampia Letteratura francese medievale (Bologna, Il Mulino 1997). È nella direzione della rivista “Medioevo romanzo” e nel comitato scientifico di “Critica del testo”. Condirige la collana “Biblioteca Medievale” (Roma, Carocci), dove sono stati pubblicati più di cento volumi. Ha curato, tra l’altro, l’edizione delle Canzoni di Bernart de Ventadorn (Roma, Carocci, 2003) e Roman de Flamenca, proponendo un’edizione italiana con testo in provenzale a fronte. Ha pubblicato saggi, in una prospettiva stilistica e di storia delle idee, principalmente sull’epica, sui trovatori, sul Roman d’Alexandre, sul Roman de la Rose, sull’impatto della letteratura medievale nella modernità. Fondamentale nella sua formazione fu l’incontro con Erich Köhler, che definì l’impronta dello studio sociologico dell’amor cortese nella letteratura, di cui ha tradotto e curato Sociologia della fin’amor: saggi trobadorici (Padova, Liviana, 1987).
Un tuffo …
… tra alcuni dei libri di Mario Mancini …
Società feudale e ideologia nel «Charroi de Nîmes», Olschki, 1972
Metafora feudale. Per una storia dei trovatori, il Mulino, 1993
La gaia scienza dei trovatori
Canzoni/Bernart de Ventadorn, Carocci, 2003
Il “lai” di Narciso, Carocci, 2004
Il punto su I trovatori, Laterza, 2004
Lo spirito della Provenza. Da Guglielmo IX a Pound, Carocci, 2004
Flamenca, Carocci, 2006
Metafora medioevale. Il “libro degli amici” di Mario Mancini, Carocci, 2011
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