«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
La scarna indicazione, che Giambattista Vico offre nella Scienza nuova, della differenza tra la filosofia, «scienza del vero», e la filologia, «coscienza del certo», ha sicuramente una portata universale, cioè sta a indicare due momenti della conoscenza in generale, quelli che già Aristotele aveva caratterizzato come conoscenza del «che» (hoti), ovvero esperienza, e conoscenza del «perché», ovvero scienza, presupponendo che la conoscenza del vero sia, appunto, conoscenza del perché, cioè della causa (Metaph., I 1.981a 28-30; II 1.993 b 23-24). Se però si applica tale distinzione allo studio storico di un filosofo, come intenderei fare nella presente occasione, la filologia assume il suo significato più circoscritto, e anche più proprio, di conoscenza dei testi, cioè di «che cosa» il filosofo ha esattamente detto, o meglio scritto, e la filosofia assume il significato di spiegazione di tali testi, cioè di conoscenza del «perché» l’ha detto («causa» infatti, nel senso aristotelico, indica qualunque tipo di spiegazione).
Ovviamente il momento filologico è tutt’altro che semplice, perché non si riduce alla comprensione del dettato linguistico, ma include anche l’accertamento della sua autenticità, cioè della sua effettiva appartenenza all’autore studiato; della sua affidabilità, cioè dell’attendibilità dei testi, per gli antichi in genere manoscritti, in cui esso è contenuto, e quindi dell’origine e della storia di questi; del suo esatto significato lessi cale e grammaticale, e quindi del lessico e della grammatica delle lingue antiche. Non meno importante dell’accertamento di che cosa un filosofo ha realmente detto è l’accertamento di che cosa egli non ha detto, cioè di che cosa non si trova affatto nei suoi testi, il che serve a evitargli attribuzioni troppo generose, o troppo rancorose, di dottrine da lui non mai effettivamente professate.
Il momento filosofico, a sua volta, ha tutta la complessità messa in luce dalle diverse forme di ermeneutica, e quindi comprende la conoscenza del contesto anzitutto testuale (l’intera opera e l’intero corpus delle opere del filosofo), ma poi anche culturale, sociale, insomma storico in generale, e la conoscenza delle interpretazioni che di un testo sono state date nella storia, delle controversie che esso ha suscitato, dell’influenza che esso ha esercitato, ma anche la valutazione del significato che esso ha per noi oggi, cioè del suo valore, sia pure relativo, di verità. È più onesto, infatti, che tale valutazione sia esplicita, piuttosto che taciuta e tuttavia tacitamente operante e influente sull’interpretazione. In tal modo il lettore sarà più libero di prendere, a sua volta, posizione, e di giudicare l’attendibilità dell’interprete. Va detto infatti che, almeno nello studio dei filosofi, la filologia è di per sé poco interessante, se non serve a una conoscenza approfondita del loro pensiero, la quale permetta eventualmente di farne tesoro per il proprio modo di pensare. La tesi che intendo proporre è che senza filologia non c’è buona filosofia, ma senza filosofia la filologia, almeno ai filosofi, non interessa.
Enrico Berti, Filosofia e filologia nello studio di Aristotele, in Id., Storicità e attualità di Aristotele, Edizioni Studium , Roma 2020, pp. 51-52.
«[.. . ] la persona è, al tempo stesso, fonte della legge stessa, e solo in virtù di ciò le è sottomessa. [ …] La nostra propria volontà che agisse solo per rispetto della condizione di una legislazione universale possibile mediante le sue massime, questa volontà [ … ] è l’oggetto vero e proprio del rispetto e la dignità della condizione umana consiste precisamente in questa capacità, di essere universalmente legislatrice, pur congiunta con la condizione di essere, al tempo stesso, sottoposta a tale legislazione».
Immnuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi [1785], III, trad. it. di V. Mathieu, Rusconi, Milano 1994 (ora Bompiani, Milano 2003), p. 171.
«L’autonomiaè, dunque, il fondamento della dignità della natura umana e di ogni natura razionale».
Immnuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, op. cit., II, p. 161.
Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo, e con la natura, dev’essere una manifestazione determinata e corrispondente all’oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà. Se tu ami senza suscitare una amorosa corrispondenza, cioè se il tuo amore come amore non produce una corrispondenza d’amore, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’infelicità.
Karl Marx
Lo scandalo del denaro
I Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx e pubblicati nel 1932, sono giudicati un’opera “giovanile”. In realtà i manoscritti sono fondamentali per riscontrare – in un periodo di passaggio tra le opere giovanili e le opere della maturità – il nucleo profondamente umanistico del pensiero marxiano. Per umanistico si intende la centralità dell’essere umano nella storia e nel sistema sociale e politico, che può essere giudicato positivamente, se risponde all’essenza generica e sociale dell’essere umano. L’umanesimo marxiano pone al centro della storia l’essere umano. Non si tratta di un essere umano astratto ed idealizzato, ma colto nella concretezza della sua realtà materiale. L’umanesimo marxiano riporta il male ed il dolore alle condizioni storiche che ne determinano la genesi, per trascenderlo. Il male non ha realtà ontologica, ma alligna nei rapporti sociali ed economici. Marx è nello stesso solco di autori come Spinoza e Rousseau, i quali hanno smascherato il male metafisico per riportarlo a quella che è realmente la sua dimensione all’interno delle relazioni sociali. Il male è l’epifenomeno dei sistemi che negano la natura sociale dell’essere umano. L’essere umano che soffre è spesso il portatore infetto di relazioni sociali sbagliate, innaturali. Marx ha la capacità di scandalizzarsi dinanzi al male, non indietreggia, ma lo attraversa. Il negativo, ove necessario, va vissuto e compreso per poter riportare l’ordine razionale dove vige e regna il male. Scandalo[1] in greco significa “inciampo”, per cui bisogna inciampare in esso, per potersi cognitivamente rialzare e ritrovare la dignità dell’essere umano. Essa vive nell’autonomia del giudizio che si coniuga con la prassi storica: teoria e prassi sono tra di loro in una tensione feconda e sono capaci di riorientare l’umanità. Il male non è un destino, ma una condizione socialmente fondata dalla struttura economica e dalla sovrastruttura. Lo scandalo primo è il denaro. Sembra dotato di poteri taumaturgici, visto che è adorato come divinità, al punto da far apparire ciò che non è per ciò che è: il denaro ha il potere di ridurre la persona a sola quantità. È il possesso a determinare il valore della persona, al punto che il possessore di denaro è giudicato eccezionale, ogni virtù gli appartiene miracolosamente: la persona autentica scompare per lasciare spazioin verità ai processi di derealizzazione dell’essere umano; ci si “dis-orienta” dinanzi alla nuova divinità, al feticcio che tutto converte in oro – come Re Mida – fino a morirne.
«Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne».[2]
Il male alberga nel possesso, nella nuda quantità, tanto che se il possessore di denaro è osannato, colui che ne è privo è giudicato un reietto, una non persona, il paria a cui tutto si può chiedere e niente donare. L’antiumanesimo, già si svela nell’analisi del denaro, poiché in realtà colui che possiede il denaro e colui che non ne ha sono egualmente oggetto dello stesso paradigma: il possesso. Il valore delle persone è transeunte: dipende dal denaro; mentre quest’ultimo è ipostatizzato dà il valore. Il denaro imprime il valore, si rende autonomo, non è più mezzo, ma fine, feticcio dinanzi al quale ci si inginocchia:
«S’intende da sé che l’economia politica considera il proletario, cioè colui che senza capitale e senza rendita fondiaria vive unicamente del lavoro, di un lavoro unilaterale ed astratto, soltanto come lavoratore. Essa può quindi sostenere il principio che egli, al pari di un cavallo, deve guadagnare tanto che gli basti per poter lavorare. Essa non lo considera come uomo nelle ore non dedicate al lavoro, ma affida questa considerazione alla giustizia criminale, ai medici, alla religione, alle tabelle statistiche, alla politica e alla polizia».[3]
Economia classica e critica dell’economia L’economia classica occulta la verità che si cela nella genetica della proprietà privata; essa non è semplicemente l’effetto del lavoro. La proprietà privata ha nel suo grembo la violenza del sistema. La proprietà ha la sua ragion d’essere nell’alienazione, non nel semplice sfruttamento, ma nella riduzione graduale della persona in cosa (Ding), l’alienazione (Entfremdung) è dunque male non ontologico, ma sociale. La persona diviene straniera (Fremd) a se stessa, è sciolta da ogni relazione con se stessa e con gli altri, è solo nuda vita. La persona – divenuta oggetto – è negata nella sua natura sociale e generica (Gattungswesen) per diventare strumento di una struttura sociale nichilista, perché idolatra il possesso per negare l’essere umano. Il soggetto che pone la storia diviene oggetto della realtà economica che si rende autonoma. L’alienazione riguarda anche il possessore, ma nell’operaio, nel lavoratore dipendente si rivela la violenza (Gewalt) di un sistema inemendabile:
«L’economia politica nasconde l’estraniazione insita nell’essenza stessa del lavoro per il fatto che non considera il rapporto immediato esistente tra l’operaio (il lavoro) e la produzione. Certamente, il lavoro produce per i ricchi cose meravigliose; ma per gli operai produce soltanto privazioni. Produce palazzi, ma per l’operaio spelonche. Produce bellezza, ma per l’operaio deformità. Sostituisce il lavoro con macchine, ma ricaccia una parte degli operai in un lavoro barbarico e trasforma l’altra parte in macchina. Produce cose dello spirito, ma per l’operaio idiotaggine e cretinismo».[4]
Prassi e comunità L’essere umano è nella natura, ma se ne differenzia in quanto non è semplice presenza, non si limita a rispecchiare la realtà (Obiectum), ma la trasforma (Gegenstand) in modo consapevole. L’essere umano trasforma la natura, l’economia, i valori ed in tal modo pone il suo mondo (Welt), il quale non è semplice ambiente (Umwelt). L’animale riproduce il suo ambiente, le sue attività sono complesse, ma istintive e ripetitive. L’essere umano crea mondi, è capace di immaginare il futuro, e di cogliere nel presente non solo le contraddizioni, ma anche le potenzialità da mettere in atto. L’essenza generica dell’essere umano è generatrice di mondi, e ciò non si concretizza in solitudine, ma in modo comunitario. Nell’azione comunitaria vi è la rinuncia al titanismo romantico, all’eroe che fa di se stesso il trasformatore dei mondi. Solo la comunità può operare un’autentica prassi, e quest’ultima è responsabilità etica verso la storia e verso la comunità. La partecipazione collettiva è attività che esige l’impegno etico di tutti, perché la storia non è proprietà esclusiva di taluni o proprietà esclusiva di classe: la storia è il luogo topico dell’umanità, è la casa dell’essere umano:
«L’universalità dell’uomo appare praticamente proprio in quella universalità, che fa della intera natura il corpo inorganico dell’uomo, sia perché essa 1) è un mezzo immediato di sussistenza, sia perché 2) è la materia, l’oggetto e lo strumento della sua attività vitale. La natura è il corpo inorganico dell’uomo, precisamente la natura in quanto non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo sia congiunta con la natura, non significa altro che la natura è congiunta con se stessa, perché l’uomo è una parte della natura. Poiché il lavoro estraniato rende estranea all’uomo 1) la natura e 2) l’uomo stesso, la sua propria funzione attiva, la sua attività vitale, rende estranea all’uomo la specie; fa della vita della specie un mezzo della vita individuale. In primo luogo il lavoro rende estranea la vita della specie e la vita individuale, in secondo luogo fa di quest’ultima nella sua astrazione uno scopo della prima, ugualmente nella sua forma astratta ed estraniata. Infatti il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva stessa appaiono all’uomo in primo luogo soltanto come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservare l’esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita della specie. E la vita che produce la vita. In una determinata attività vitale sta interamente il carattere di una “species”, sta il suo carattere specifico; e l’attività libera e cosciente è il carattere dell’uomo. La vita stessa appare soltanto come mezzo di vita. L’animale è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. E quella stessa. L’uomo fa della sua attività vitale l’oggetto stesso della sua volontà e della sua coscienza. Ha un’attività vitale cosciente. Non c’è una sfera determinata in cui l’uomo immediatamente si confonda. L’attività vitale cosciente dell’uomo distingue l’uomo immediatamente dall’attività vitale dell’animale. Proprio soltanto per questo egli è un essere appartenente ad una specie. O meglio egli è un essere cosciente, cioè la sua propria vita è un suo oggetto, proprio soltanto perché egli è un essere appartenente ad una specie».[5]
Comunismo Nei Manoscritti Marx indica gli elementi essenziali del comunismo, il paradigma a cui deve rispondere. La storia non si può prevedere, pertanto si limita a descrivere i fondamenti del comunismo. Il comunismo è la fine dell’autoestranazione: l’essere umano nel comunismo metterà in atto un sistema sociale che favorisce lo sviluppo e l’affinamento della natura dell’essere umano. Si tratta dell’umanesimo integrale, in quanto la persona deve poter sviluppare le sue potenzialità, dev’essere il fine che guida il sistema socio-economico e non certo esserne l’oggetto. Comunismo, dunque, come inizio della storia e fine della lotta darwiniana che ha reso l’essere umano simile agli animali non umani, come movimento dialettico che trascende le scissioni alienanti che hanno attraversato la storia:
«3) Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraniazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi. Questo comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. È la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione».[6]
Anno zero Si può ricominciare da Marx per comprendere il presente e per immaginare il futuro. Ma se non vi è il senso etico dello scandalo ogni inizio è improbabile, non bastano le condizioni socio-economiche per guidare la prassi, è necessario ascoltare la profondità etica che ciascuno reca con sé per riprendere il cammino storico. La grande operazione attuale del capitalismo assoluto è l’addomesticamento del senso etico: la nuova disciplina del potere “educa” all’indifferenza ed all’utile personale, in modo che l’ingiustizia possa essere normalizzata e diventare la seconda natura dell’essere umano. Resistere significa donarsi, trasgredire il comandamento dell’utile, e testimoniare che la violenza (Gewalt) è un accidente storico e non la verità dell’essere umano. La nostra è un’epoca che necessita di testimonianza attiva per smentire gli imperativi del turbocapitalismo. I principi di ogni civiltà sono negati in nome della finanza: è l’anno zero della civiltà, è l’epoca della grande dispersione, dopo il diluvio della finanza. Vico ha descritto il diluvio e la regressione umana conseguente, ma ne ha evidenziato anche la devastazione ambientale, in quanto l’abbandono della civiltà riguarda l’umanità e l’ambiente in cui concretamente si vive. Dinanzi al diluvio della storia si ha il dovere di attraversare il negativo per ritrovare il fondamento onto-assiologico senza il quale non vi è che il male di vivere. I classici sono di ausilio per comprendere il reale storico, ci donano immagini con cui concettualizzare la storia: resistere significa, anche, centralità dei classici nelle nostre vite:
«Ma delle Nazioni di tutto il restante Mondo altrimenti dovette andar la bisogna; perocchè le razze di Cam, e Giafet dovettero disperdersi per la gran Selva di questa Terra con un’ error ferino di dugento anni, e così raminghi e soli dovettero produrre i figliuoli con una ferina educazione nudi d’ogni umano costume, e privi d’ogni umana favella, e sì in uno stato di bruti animali: e tanto tempo appunto vi bisognò correre, che la Terra disseccata dall’umidore dell’Universale diluvio potesse mandar’in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de’ fulmini, da’ quali gli Uomini storditi, e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi, che Varrone giunse a noverarne quaranta, e gli Egizj dicevano, il loro Giove Ammone essere lo più antico di tutti; e si diedero ad una spezie di Divinazione d’indovinar l’avvenire da’ tuoni, e da’ fulmini, e da’ voli dell’ aquile, che credevano essere uccelli di Giove».[7]
Salvatore Bravo
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[1] Scandalo, latino scandalum, a sua volta dal greco σκάνδαλον (skàndalon), ossia “inciampo”. [2] Marx, Manoscritti economico-filosofici, Il denaro, da Archivio Marx-Engels, 2007. [3]Ibidem. [4]Ibidem, Il lavoro estraniato, da Archivio Marx-Engels 2007. [5]Ibidem. [6]Ibidem, Proprietà privata e comunismo, da Archivio Marx-Engels 2007. [7] G. Vico, La Scienza Nova, Edizione Centro di Umanistica Digitale dell’ISPF-CNR, progetto ISPF, “Biblioteca vichiana”, 2007, pag. 44.
Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo, e con la natura, dev’essere una manifestazione determinata e corrispondente all’oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà. Se tu ami senza suscitare una amorosa corrispondenza, cioè se il tuo amore come amore non produce una corrispondenza d’amore, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’infelicità.
Karl Marx
Se i sentimenti, le passioni, ecc. dell’uomo non sono soltanto determinazioni antropologiche in senso [stretto], ma affermazioni veramente ontologiche dell’essenza (della natura), e se essi si affermano realmente solo per il fatto che il loro oggetto è per essi sensibile, si intende che: 1) il modo della loro affermazione non è per nulla unico ed identico, ma anzi il modo diverso di affermarsi costituisce la particolarità della loro esistenza, della loro vita; il modo con cui l’oggetto è per essi, è il modo particolare del loro godimento; 2) là dove l’affermazione sensibile è la soppressione immediata dell’oggetto nella sua forma per sé stante (mangiare, bere, lavorare un oggetto, ecc.), proprio là ha luogo l’affermazione dell’oggetto; 3) in quanto l’uomo è umano, e quindi anche il suo sentimento, ecc., è umano, l’affermazione dell’oggetto da parte di un altro è anche un godimento suo proprio; 4) solo attraverso l’industria in pieno sviluppo, cioè attraverso la mediazione della proprietà privata, l’essenza ontologica della passione umana diviene tanto nella sua totalità quanto nella sua umanità; la scienza dell’uomo è quindi essa stessa un prodotto dell’attuazione pratica che l’uomo fa di se stesso; 5) il senso della proprietà privata – liberata dalla sua estraniazione – è l’esistenza degli oggetti essenziali per l’uomo, tanto come oggetto di godimento quanto come oggetto di attività.
Il denaro, possedendo la caratteristica di comprar tutto, di appropriarsi di tutti gli oggetti, è dunque l’oggetto in senso eminente. L’universalità di questa sua caratteristica costituisce l’onnipotenza del suo essere; è tenuto per ciò come l’essere onnipotente… il denaro fa da mezzano tra il bisogno e l’oggetto, tra la vita e i mezzi di sussistenza dell’uomo. Ma ciò che media a me la mia vita, mi media pure l’esistenza degli altri uomini per me. Questo è per me l’altro uomo. «Eh, diavolo! Certamente mani e piedi, testa e sedere son tuoi! Ma tutto quel che io mi posso godere allegramente, non è forse meno mio? Se posso pagarmi sei stalloni, le loro forze non sono le mie ? Io ci corro su, e sono perfettamente a mio agio come se io avessi ventiquattro gambe» (GOETHE, Faust, Mefistofele). Shakespeare nel Timone di Atene: «Oro? Oro giallo, fiammeggiante, prezioso? No, o dèi, non sono un vostro vano adoratore. Radici, chiedo ai limpidi cieli. Ce n’è abbastanza per far nero il bianco, brutto il bello, ingiusto il giusto, volgare il nobile, vecchio il giovane, codardo il coraggioso… Esso allontana… i sacerdoti dagli altari; strappa di sotto al capo del forte il guanciale. Questo giallo schiavo unisce e infrange le fedi; benedice i maledetti; rende gradita l’orrida lebbra; onora i ladri e dà loro titoli, riverenze, lode nel consesso dei senatori. È desso che fa risposare la vedova afflitta; colei che l’ospedale e le piaghe ulcerose fanno apparire disgustosa, esso profuma e prepara di nuovo giovane per il giorno d’aprile. Avanti, o dannato metallo, tu prostituta comune dell’umanità, che rechi la discordia tra i popoli…» E più oltre: «Tu dolce regicida, o caro divorzio tra padre e figlio, tu splendido profanatore del più puro letto coniugale, tu Marte valoroso, seduttore sempre giovane, fresco, amato, delicato, il cui rossore scioglie la neve consacrata nel grembo di Diana; tu, dio visibile, che fondi insieme strettamente le cose impossibili, e le costringi a baciarsi! Tu i parli in ogni lingua, per ogni intento [XLII]; o tu pietra di paragone di tutti i cuori, pensa, l’uomo, il tuo schiavo si ribella; e col tuo valore gettalo in una discordia che tutto confonda in modo che le bestie abbiano l’impero del mondo». Shakespeare descrive l’essenza del denaro in modo veramente incisivo. Per comprenderlo, cominciamo dall’interpretazione del passo di Goethe. Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo, Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l’effetto della bruttezza, la sua forza repulsiva, è annullata dal denaro. Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura venti quattro gambe; quindi non sono storpio. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido; ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore. Il denaro è il bene supremo, e quindi il suo possessore è buono; il denaro inoltre mi toglie la pena di esser disonesto; e quindi si presume che io sia onesto. Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose; e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede? Inoltre costui potrà sempre comperarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti, non è più intelligente delle persone intelligenti? Io che col denaro ho la facoltà di procurarmi tutto quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà ? Forse che il mio denaro non trasforma tutte le mie deficienze nel loro contrario ? E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che unisce a me la società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli? Non può esso sciogliere e stringere ogni vincolo ? E quindi non è forse anche il dissolvitore universale ? Esso è tanto la vera moneta spicciola quanto il vero cemento, la forza galvano-chimica della società. Shakespeare rileva nel denaro soprattutto due caratteristiche; 1) è la divinità visibile, la trasformazione di tutte le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e l’universale rovesciamento delle cose. Esso fonde insieme le cose impossibili; 2) è la meretrice universale, la mezzana universale degli uomini e dei popoli. La confusione e il rovesciamento di tutte le qualità umane e naturali, la fusione delle cose impossibili – la forza divina – propria del denaro risiede nella sua essenza in quanto è l’essenza estraniata, che espropria e si aliena, dell’uomo come essere generico. Il denaro è il potere alienato dell’ umanità. Quello che io non posso come uomo, e quindi quello che le mie forze essenziali individuali non possono, lo posso mediante il denaro. Dunque il denaro fa di ognuna di queste forze essenziali qualcosa che esso in sé non è, cioè ne fa il suo contrario. Quando io ho voglia di mangiare oppure voglio servirmi della diligenza perché non sono abbastanza forte per fare il cammino a piedi, il denaro mi procura tanto il cibo quanto la diligenza, cioè trasforma i miei desideri da entità rappresentate e li traduce dalla loro esistenza pensata, rappresentata, voluta nella loro esistenza sensibile, reale, li traduce dalla rappresentazione nella vita, dall’essere rappresentato nell’essere reale. In quanto è tale mediazione, il denaro è la forza veramente creatrice. La domanda esiste, sì, anche per chi non ha denaro, ma la sua domanda è un puro ente dell’immaginazione, che non ha nessun effetto, nessuna esistenza per me, per un terzo, per la […][1][XLIII]; e quindi resta per me stesso irreale, privo di oggetto. La differenza tra la domanda che ha effetto, in quanto è fondata sul denaro, e la domanda che non ha effetto, in quanto è fondata soltanto sul mio bisogno, sulla mia passione, sul mio desiderio, ecc., è la stessa differenza che passa tra l’essere e il pensare, tra la semplice rappresentazione quale esiste dentro di me e la rappresentazione qual è per me come oggetto reale fuori di me. Quando non ho denaro per viaggiare, non ho nessun bisogno, cioè nessun bisogno reale e realizzantesi di viaggiare. Se ho una certa vocazione per lo studio, ma non ho denaro per realizzarla, non ho nessuna vocazione per lo studio, cioè nessuna vocazione efficace, nessuna vocazione vera. Al contrario, se io non ho realmente nessuna vocazione per lo studio, ma ho la volontà e il denaro, ho una vocazione efficace. Il denaro, in quanto è il mezzo e il potere esteriore, cioè nascente non dall’uomo come uomo, né dalla società umana come società, in quanto è il mezzo universale e il potere universale di ridurre la rappresentazione a realtà e la realtà a semplice rappresentazione, trasforma tanto le forze essenziali reali, sia umane che naturali in rappresentazioni meramente astratte e quindi in imperfezioni, in penose fantasie, quanto, d’altra parte, le imperfezioni e le fantasie reali, le forze essenziali realmente impotenti, esistenti soltanto nell’immaginazione dell’individuo, in forze essenziali reali e in poteri reali. Già in base a questa determinazione il denaro è dunque l’universale rovesciamento delle individualità, rovesciamento che le capovolge nel loro contrario e alle loro caratteristiche aggiunge caratteristiche che sono in contraddizione con quelle. Sotto forma della potenza sovvertitrice qui descritta il denaro si presenta poi anche in opposizione all’individuo e ai vincoli sociali, ecc., che affermano di essere entità per se stesse. Il denaro muta la fedeltà in infedeltà, l’amore in odio, l’odio in amore, la virtù in vizio, il vizio in virtù, il servo in padrone, il padrone in servo, la stupidità in intelligenza, l’intelligenza in stupidità. Poiché il denaro, in quanto è il concetto esistente e in atto del valore, confonde e inverte ogni cosa, è la universale confusione e inversione di tutte le cose, e quindi il mondo rovesciato, la confusione e l’inversione di tutte le qualità naturali ed umane.
Chi può comprare il coraggio, è coraggioso anche se è vile. Siccome il denaro si scambia non con una determinata qualità, né con una cosa determinata, né con alcuna delle forze essenziali dell’uomo, ma con l’intero mondo oggettivo, umano e naturale, esso quindi, considerato dal punto di vista del suo possessore, scambia le caratteristiche e gli oggetti gli uni con gli altri, anche se si contraddicono a vicenda. È la fusione delle cose impossibili; esso costringe gli oggetti contraddittori a baciarsi. Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore, fiducia solo con fiducia, ecc. Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo, e con la natura, dev’essere una manifestazione determinata e corrispondente all’oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà. Se tu ami senza suscitare una amorosa corrispondenza, cioè se il tuo amore come amore non produce una corrispondenza d’amore, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’infelicità.
Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1948.
«Voi sezionate l’animale e io lo studio vivo; voi ne fate un oggetto che ispira orrore e pietà, mentre io lo faccio amare; voi lavorate in laboratori dove si tortura e si squarta, io conduco le mie indagini sotto l’azzurro del cielo e al canto delle cicale; voi sottoponete la cella e il protoplasma ai reagenti, io studio l’istinto nelle sue espressioni più alte; voi scrutate la morte, io osservo la vita».
«Altri hanno criticato il mio linguaggio, che non avrebbe la solennità o, meglio, l’aridità di quello accademico. Temono che una pagina, se si legge senza sforzo, non possa essere espressione della verità […]. Ora, se scrivo per gli scienziati, per i filosofi che tenteranno un giorno di gettare luce sull’arduo problema dell’istinto, scrivo anche, e soprattutto, per i giovani, ai quali vorrei tanto far amare questa storia naturale che voi invece fate odiare; ed ecco perché, pur rispettando scrupolosamente la verità, evito di adeguarmi alla vostra prosa scientifica».
Jean-Henri Fabre, Ricordi di un entomologo, Adelphi, Milano, 2020.
χάρις in greco significa: grazia, bellezza, leggiadria, incanto, amabilità, delicatezza, dolcezza, benevolenza, benignità, gratitudine, riconoscenza, rispetto, considerazione, segno di riguardo, segno di affabilità, perfino dono oblativo (come già insegnava Aristotele).
χάρις qualifica modalità dell’essere che emanano da una forza interiore e niente hanno a che fare con mollezza, condiscendenza, malleabililità, remissività, tolleranza, permissivismo, vuoto estetismo. Alcuni pensano che basti essere gentili e cortesi con le persone, ma gentilezza e contesia possono restare ancorate al piano dei rapporti “formali”, che non si trasformano con humanitas senza la delicatezza e la dolcezza che sole sanno andare “oltre” il formalismo di chi poco o niente sa della solidarietà, della reale capacità di ascolto nella autentica attenzione verso gli altri, nella consolidata e giusta attitudine di porre sempre domande di senso, ma senza imporre ad alcuno tempi prederminati per possibili risposte.
χάρις invita ad abbandonare la dimensione del “possesso”, che ci priva della libertà interiore e che ottunde quella che i latini chiamavano la subtilitas sententiarum, la delicatezza del pensiero, sinonimo di finezza di giudizio, di gusto e di espressione, dimensione del “possesso” che progressivamente depriva il proprio animo della delicatezza e della dolcezza verso se stessi.
χάρις ci ricorda con Cornelio Nepote (De viris illustribus, VIII, 4: «In Miltiade erat cum summa humanitas tum mira communitas, ut nemo tam humilis esset, cui non ad eum aditus pateret» [Milziade era uomo di una straordinaria gentilezza e di mirabile affabilità, sì che non c’era nessuno di tanto bassa condizione che non avesse accesso alla sua persona]) che occorre aspirare alla communitas, alla affabilità, al senso di comunanza.
Communitas deriva communis (qualcosa che è comune a molti o a tutti, che è pubblico, generale, universale, contrapposto a proprius, che è proprio a uno solo), e significa appunto comunanza, condizione e/o sorte comune, e dunque: senso della comunanza, socievolezza, affabilità, delicatezza, dolcezza, per se stessi e verso gli altri.
Dione Crisostomo, nell’Orazione XIII dedicata all’esilio, dice che è questa la condizione che gli ha insegnato il disprezzo per i beni materiali e lo ha posto nello stato d’animo adatto alla contemplazione e al filosofare. Ecco come veniva additato: vagabondo, mendicante o filosofo.
Cfr. anche, Dione di Prusa, Boristenico (Or. XXXVI), introduzione, traduzione e commento di Michele Di Febo, con un saggio introduttivo di Giulio A. Lucchetta, Carabba, Lanciano, 2018.
«Come possa accadere che un animo ricco della conoscenza di tante cose non ne divenga più vivo e sveglio, e che uno spirito grossolano e volgare possa albergare in sé, senza migliorarsi, i ragionamenti e i giudizi degli spiriti più eletti che il mondo abbia prodotto, ancora non so».
«Bisognerebbe chiedere chi sappia meglio, non chi sappia di più. Lavoriamo solo a riempire la memoria, e lasciamo vuoti l’intelletto e la coscienza. Proprio come gli uccelli vanno talvolta in cerca del granello e lo portano nel becco senza assaggiarlo per imbeccare i loro piccoli, cosi i nostri pedantes vanno spigolando la scienza nei libri e la tengono appena a fiore di labbra tanto per ributtarla fuori e gettarla al vento».
Michel E. de Montaigne, Saggi, I, 25, a cura di F. Garavini e A Tournon, Bompiani, Milano 2012, p. 239 e pp. 243-245.
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