«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
In copertina: Paul Klee, Revolution des Viaducts (Rivoluzione del viadotto), 1937. Hamburger Kunsthalle, Amburgo.
In uno dei disegni praparatori dell’opera Klee aveva indicato il titolo provvisorio: Le arcate dei ponti rompono le righe. Una rivoluzione dunque, un auspicio di profondo mutamento, alla radice, di sistemi fossilizzati. Gli archi si ribellano all’uniformità del viadotto e avanzano “rompendo le righe”, per superare ogni incatenamento teorico e artistico.
«Migliori e Grecchi sono due metafisici che si ispirano alla tradizione greca e la custodiscono con cura, anche se Migliori guarda soprattutto a Platone e Grecchi soprattutto ad Aristotele. Entrambi amano la verità e il bene». Carmelo Vigna
Questi i temi del dialogo
La genesi della filosofia / L’amore per Platone / “La filosofia si fa, non si impara” / Il Multifocal Approach / Possibili critiche al Multifocal Approach / Uomo: una natura razionale e morale? / Sul timore della definizione / Su ciò che non è stato ritrovato / Presocratici: una lettura multifocale? / Chi fu il “primo filosofo”? / Sulla definizione della filosofia e la differenza con le scienze / Socrate sofista? / Sulla filosofia ellenistica e post-ellenistica / I Greci cercavano per trovare risposte utili / Sul bene / Sulla verità: questione logico-fenomenologica o (anche) onto-assiologica? / Utopia e progettualità / Sul trascendente / La dolcezza come virtù filosofica / L’anticrematistica: filo conduttore delpensiero antico? / Stato dell’arte della filosofia antica in Italia / Oltre alla filosofia… / Su Platone Primo Ministro… / Sulla educazione dei giovani / Sulla morte
Maurizio Migliori si è laureato in filosofia (1967) presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e poi specializzato presso la stessa università (1969) sotto la guida di Giovanni Reale, con cui ha continuato a collaborare fino alla morte del Maestro (2014). Docente di Scuola secondaria superiore per oltre 20 anni (1968-1991), poi professore di Storia della filosofia antica presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Macerata per oltre 20 anni, prima come associato (1991-2001), poi come ordinario (2001-2015). In pensione, continua a svolgere attività didattica nella stessa Università. Autore di numerosissimi articoli su riviste italiane e straniere e di numerosi libri, tra cui la nuova edizione di Aristotele, La generazione e la corruzione, Bompiani, Milano 2013; Il disordine ordinato. La filosofia dialettica di Platone, 2 voll., Morcelliana, Brescia 2013. Con Petite Plaisance ha pubblicato La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni (2019, pp. 592).
Per tutti gli scritti di Maurizio Migliori, cliccare qui. (oppure: autore, M. Miglori)
Luca Grecchi, Luca Grecchi svolge attività di insegnamento e di ricerca presso le Cattedre di Storia della Filosofia e di Filosofia Morale della Università di Milano Bicocca. Ha pubblicato, nella collana Questioni di filosofia antica delle Edizioni Unicopli i libri Natura (2018) e Uomo (2019), e, per l’editore Morcelliana, Leggere i Presocratici (2020). È curatore dei volumi Sistema e sistematicità in Aristotele, Immanenza e trascendenza in Aristotele, Teoria e prassi in Aristotele (Petite Plaisance, rispettivamente 2016, 2017, 2018).
Regno dell’uomo, matematismo e meccanicismo (Galilei, Bacone e Cartesio)
Il disegno umanistico del «regnum hominis» / La caratteristica della concezione moderna del «regnum hominis» / Il matematismo del Galilei / Regno dell’uomo e meccanicismo nel pensiero di F. Bacone / L’atteggiamento di Bacone verso la matematica / R. Descartes come fondatore della filosofia moderna / Regno dell’uomo e meccanicismo nel pensiero cartesiano / La funzione del matematismo nel sistema cartesiano / La matematica e il dubbio universale / I due centri di certezza nel sistema cartesiano / Matematismo e meccanicismo / Le aporie del cartesianesimo.
Le difficoltà del matematismo. Il problema della «res extensa». Cartesio e Spinoza
Le condizioni per un cartesianesimo integrale / Sua incompatibilità con il concetto di anima-forma / Risoluzione del cartesianesimo nello spinozismo / Spinoza e Cartesio /Le caratteristiche del razionalismo spinoziano / Il matematismo nel pensiero spinoziano / Matematismo e meccanicismo / Occasionalismo e pascalismo.
Esteriorità e interiorità nella conoscenza (Locke e Leibniz)
Gli elementi della «modernità» nel pensiero del Locke: «regnum hominis» e meccanicismo / Come nel pensiero del Locke vi sia presente anche il matematismo / Il rapporto del Locke con la distinzione fra qualità primarie e qualità secondarie / Conseguente critica del concetto di sostanza da parte del Locke / Inadeguatezza del nominalismo tradizionale alla critica del Locke / Il matematismo come limite dommatico della ricerca lockiana / Il dualismo d’interiorità ed esteriorità / Leibniz e la sua ripresa al matematismo antico / Matematismo antico e matematismo moderno / La polemica vichiana e la prevalenza del matematismo nella cultura illuministica.
Il superamento kantiano del matematismo e i suoi limiti
La filosofia kantiana come ricerca assoluta / Condizioni della ricerca e funzione esercitata in essa dalla matematica e dalla meccanica / Raporto della dottrina dell’Io trascendentale con la funzione esercitata nella ricerca dalla matematica e dalla meccanica / Dall’estetica e dall’analitica alla dialettica / Il matematismo e le aporie della dialettica / Il matematismo come limite della ricerca kantiana.
Questo contributo intende riflettere sulla – antica e, insieme, attualissima – nozione di speranza a partire da una breve indagine etimologico-semantica (a cui si torna, chiudendo il cerchio, al termine del saggio), nella convinzione che la riflessione sulle parole e sulle loro origini possa donare alcune feconde piste al pensiero.
Il breve saggio si snoda lungo due linee direttrici fondamentali: la speranza come páthos, ovvero come passione, sentimento o desiderio, e la speranza come areté, ovvero come “virtù”, nozione che, nel senso greco e, più nello specifico, aristotelico del termine, implica la capacità di amministrare correttamente la passione. In questo secondo caso, inoltre, si assiste alla messa in campo di un “versante attivo della speranza”, che chiama in causa il soggetto agente e volente, che ha il compito di dare forma al suo desiderio. Qui il “sogno ad occhi aperti” diventa prassi, si fa progetto.
L’itinerario si interseca in molti modi ad altre fondamentali nozioni, tra cui, solo per indicarne alcune, quella di paura (che si configura come una passione che dirige il soggetto nella direzione opposta rispetto alla speranza), quella di rischio (a cui la originaria vocazione all’“apertura” prodotta dalla speranza è intimamente connesso e che richiede, a sua volta, un’opera di “saggia amministrazione”) e quella di fiducia (a cui la speranza è costitutivamente intrecciata e che chiama in causa un altro profilo della riflessione, affrontato al termine del saggio, quale quello educativo).
«La felicità è la vita stessa quando viene vissuta al meglio: si è felici perché si vive bene, perché la vita ha acquisito un peso, una direzione, un orientamento, perché la vita si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice e anonima sussistenza, trasformandosi in una vita dotata di senso, in una individuale e particolarissima consistenza. […] felicità intesa come pienezza, come attingimento pieno del telos. Se il telos è interno all’energeia che lo produce, se il fine è contenuto nell’azione ed è indistinguibile da essa, allora è impossibile pensare ad una felicità che risieda escludivamente nel bersagio e non anche lungo i passi che conducono al suo raggiungimento […] lungo tutto il tragitto della vita». Arianna Fermani, Vita felice umana, 2006.
«[…] il problema della vita nel suo complesso a qualcuno di noi può sembrare meno impellente di quanto non sembrasse a Socrate. Epure la sua domanda ci incalza ancora oggi e reclama l’impegno a riflettere sulla nostra vita nel suo complesso, e cioè nella totalità dei suoi aspetti e in tutta la sua profondità». Bernard Williams, L’etica e i limiti della filosofia, 1985.
Nel concetto della filosofia come domanda totale, problematicità pura, e perciò metafisica, risiede la classicità del pensiero antico. […] Se la filosofia rinuncia al suo carattere di domanda totale rinuncia al […] senso antico della filosofia, intesa come acquisizione perenne dello spirito, come vero κτῆμα εἰς ἀεί [possesso pe sempre]». Enrico Berti, Quale senso ha oggi studiare la filosofia antica, 1965.
«ὡς ἡδὺ καὶ μακάριον τὸ κτῆμα» [quanto soave e felice è il possesso della filosofia]. Platone, Repubblica, 496 c.
«[…] il movimento nel quale è contenuto anche il fine è anche azione. […] Uno che vive bene, ad esempio, ad un tempo ha anche ben vissuto, ed uno che è felice, ad un tempo è stato anche felice». Aristotele, Metafisica, IX, 6, 1048 b.
Note sul testo Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del biosteleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come euprattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
Note sull’autore
Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: L’etica di Aristotele. Il mondo della vita umana, Brescia, Morcelliana, 2012; By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach, a cura di E. Cattanei, A. Fermani, M. Migliori, Sankt Augustin, Academia Verlag, 2016; Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani, Brescia, Morcelliana, 2019. Ha tradotto integralmente le Etiche di Aristotele (Aristotele, Le tre Etiche, Milano, Bompiani, 2008; Giunti, 2018) e ha collaborato all’edizione dell’Organon (a cura di M. Migliori, Milano, Bompiani, 2016).
Indice Prefazione di Salvatore Natoli
Introduzione
Parte prima. Semantica della felicità
Capitolo primo. La felicità come domanda originaria 1.1. Domanda “di” felicità
1.2. Domande “sulla” felicità 1.2.1. Felicità: una questione terminologica 1.2.2. Felicità e forme di vita
Capitolo secondo. Felicità e dolore 2.1. L’esperienza del dolore 2.1.1. Il dolore come accadimento 2.1.2. Le forme del dolore 2.2. Cicatrizzazione del dolore e cura di sé 2.2.1. Approcci al dolore 2.2.2. Cura del dolore e cura di sé 2.2.3. L’assunzione del dolore 2.3. Concludendo
Capitolo terzo. Felicità e piacere 3.1. L’esperienza del piacere 3.2. Fenomenologia del piacere 3.2.1. Il piacere nell’orizzonte della corporeità 3.2.2. Dinamiche piacevoli e dolorose
3.2.3. Il corpo e i desideri: la veemenza di un fiume in piena
3.2.4. Anima e corpo di fronte al piacere 3.2.5. Piaceri e criteri di scelta 3.3. Il ruolo del piacere nella vita felice
Capitolo quarto. Felicità e realizzazione di sé 4.1. Profili della virtù: tentativi di un recupero 4.1.1. Virtù come eccellenza 4.1.2. Virtù come forza 4.1.3. Virtù come disposizione 4.1.4. Virtù come giusto mezzo 4.2. La virtù come architettonica della felicità 4.2.1. Vita felice e accordata: la virtù come musica 4.2.2. Vita felice e ordinata: la virtù come misura 4.2.3. La virtù come arte del vivere bene
Capitolo quinto. Felicità e beni esteriori 5.1. Primi approcci al problema 5.2. Felicità e fortuna 5.2.1. Lampi di felicità, colpi di fortuna 5.2.2. Fortuna e virtù 5.2.3. Felicità e fortuna: osservazioni conclusive 5.3. Felicità e amministrazione dei beni 5.3.1. Il possesso e l’utilizzo di due beni supremi: la sophia e la phronesis
Parte seconda. Prassi di felicità
Capitolo primo. Felicità e valorizzazione delle proprie risorse 1.1. Vita felice e buon utilizzo dei propri talenti 1.1.1. Per una eudaimonia nell’orizzonte della physis 1.1.2. Felicità al singolare, felicità al plurale 1.2. Eudaimonia come ritrovamento e buona allocazione del proprio daimon 1.2.1. Felicità come consapevolezza 1.2.2. Percorsi esistenziali e traiettorie di felicità 1.3. Saggezza e sapienza di fronte alla felicità
Capitolo secondo. Felicità come conquista di pienezza 2.1. Felicità tra esperienze di pienezza e pienezza di vita 2.1.1. Tentativi di articolazione della nozione di pienezza
2.2. Per una pienezza nell’orizzonte dell’energeia 2.3. La difficoltà di far spuntare le ali: la felicità come conquista 2.3.1. Felicità pienamente consapevole e pienamente umana 2.4. Riflessioni conclusive
Conclusioni 1. Per concludere 2. Vita felice umana: appunti di viaggio
Bibliografia 1. Dizionari e lessici 2. Testi antichi 3. Testi moderni e contemporanei 4. Letteratura critica e studi generali
«Le ferite non scompaiono mai del tutto, soprattutto se profonde […] tuttavia, anche se non scompaiono, possono cicatrizzare. In questa cicatrice, che è, contemporaneamente, segno del patimento e sintomo di guarigione, si gioca la possibilità, per l’uomo che ha incontrato la morte e il dolore e che di fronte ad essi ha sofferto, di “ricominciare” a vivere», A. Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele.
Tra le molte pubblicazioni di Arianna Fermani
Arianna Fermani
L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristote
«Non è una differenza da poco il fatto che subito fin dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro ma, al contrario, è importantissimo o, meglio, è tutto» (Etica Nicomachea, II, 1, 1103 b 23-25).
Questo contributo mira a mettere a fuoco il tema dell’educazione di Aristotele, mostrando come tale riflessione risulti essere originale ed attuale. L’indagine prende avvio dall’esame delle occorrenze di alcuni lemmi all’interno del corpus del filosofo particolarmente significativi rispetto al tema della educazione, come ad esempio
Si intende mostrare come la riflessione aristotelica sulla paideia, oltre ad un utilizzare una specifica metodologia di indagine, si muova all’interno di due fondamentali scenari educativi: nel primo (che a sua volta si articola in una serie di sotto-questioni, come ad esempio il tema dell’insegnabilità della virtù o quello dell’emotional training e dell’educazione delle passioni) l’educazione precede l’etica, mentre nel secondo l’educazione consiste nell’etica, secondo il fondamentale modello teorico dell’energeia.
Arianna Fermani è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’ “International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana. Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.
Arianna Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele, Editore: eum, 2006 [prima edizione]
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
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Arianna Fermani, L’etica di Aristotele: il mondo della vita umana, Editore: Morcelliana, 2012
Utilizzando tutte e tre le Etiche aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà “si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”. Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta, persino nella loro incompatibilità, convivano. La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.
Sommario
Ringraziamenti Premessa I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni II “Essere” e “dirsi in molti modi” Introduzione I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele II. Autenticità delle tre Etiche III. Obiettivi e struttura del lavoro
PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù Capitolo primo: Giustizia e giustizie Capitolo secondo: La fierezza Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio” Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio
SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca” Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore
TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi Conclusioni Bibliografia Indice dei nomi
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Aristotele, Le tre etiche. Testo greco a fronte, Editore: Bompiani, 2008.
In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.
Il confronto tra Platone ed Aristotele è stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità: emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici greche delle nostra immagine di ragione.
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Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani, Interiorità e anima: la psychè in Platone
Vita e Pensiero, 2007
Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso l’”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero contemporaneo torna positivamente a misurarsi.
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Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.
Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas” 1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M. Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia. Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani, Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts, and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda. longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F. De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.
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J. Rowe, Arianna Fermani, Il ‘simposio’ di Platon
Academia Verlag, 1998
Cinque lezioni sul dialogo con un ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata, Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.
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Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità
“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità; Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203
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ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE
Arianna Fermani
Vita e Pensiero, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202
In questo volume vengono raccolti cinque saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e all’aristotelismo di epoca imperiale.
Il 1º maggio 1886, in piazza Haymarket, a Chicago, Illinois, si tenne un raduno di lavoratori ed attivisti anarchici a sostegno delle lotte di lavoratori in sciopero. Uno sconosciuto lanciò una bomba su un gruppo di agenti di polizia, uccidendone uno istantaneamente. La polizia inizio a sparare ad altezza d’uomo: furono uccisi altri sette agenti da fuoco amico ed altri civili. Nel processo successivo venne emessa una condanna a morte per impiccagione di otto lavoratori anarchici di oginine tedesca (August Spies, Albert Parsons, Adolph Fischer, George Engel, Louis Lingg, Michael Schwab, Samuel Fielden e Oscar Neebe), che in seguito vennero riconosciuti innocenti. Nell’immagine la copertina di un numero di «Corrispondenza Internazionale» del 1978 , con l’illustrazione d’epoca dell’impiccagione di quattro di essi (11 novembre 1887: Spies, Parsons, Fischer ed Engel ). August Spies, prima di essere ucciso, pronunciò la celebre frase “Verrà il giorno in cui il nostro silenzio sarà più forte delle voci che strangolate oggi“.
Questo sardo, gobbo, e’ intelligente. Troppo. E per questo dobbiamo fare in modo che questo cervello smetta di funzionare
Benito Mussolini
Ottantatré anni fa moriva Antonio Gramsci. Vogliamo “pensare” questo «Primo Maggio», con i pensieri di Antonio Gramsci.
Petite Plaisance
Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri.
Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare.
Gli intellettuali sono i ‘commessi’ del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico.
Lo studentucolo che sa un po’ di latino e di storia, l’avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori crederanno di essere diversi e superiori anche al miglior operaio.
Odio gli indifferenti. […] Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. […] Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? […] Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.
Il tempo è la cosa più importante: esso è un semplice pseudonimo della vita stessa (lettera a Tania, 2 luglio 1933).
La bontà disarmata, incauta, inesperta e senza accorgimento non è neppure bontà, è ingenuità stolta e provoca solo disastri.
Sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà. (19 dicembre 1929)
«Il campo della razionalità espressa da logos è sempre quella dell’interazione fra uomini (che si esprime anche nel termine “dialettica”, derivato da dialeghesthai, “dialogare”, “discutere”)».
Mario Vegetti, Filosofia Antica, Zanichelli, Bologna, 1992, p. 15. Ora in Id., Filosofia e sapere della città antica, Hoepli, Milano 2018.
«Il logos non è per Socrate uno strumento retorico di persuasione, del tutto indifferente alla questione del vero e del falso; […] È anzi attraverso il linguaggio, e non attraverso i sensi, che la verità si presenta all’anima. Questo rapporto fra anima e verità, che passa attraverso il logos, ci porta subito fuori dell’ambiente sofistico; ed è chiaro indice di una connessione di Socrate con le grandi filosofie della tradizione di Pitagora, di Parmenide e di Eraclito».
Mario Vegetti, Filosofia Antica, op. cit., p. 125.
«Ci sono delle parvenze del bene: l’interesse dei potenti, o i piaceri del corpo, o l’apparente felicità degli ingiusti. Ma la parte essenziale dell’uomo è l’anima, e il vero bene è il bene per l’anima. Sarà dunque guardando nella propria anima che l’uomo scoprirà il bene: qui Socrate riprende il detto delfico “conosci te stesso”, e tramite esso si ricollega ancora una volta, al di là dei Sofisti, ad Eraclito. L’importanza dell’anima come centro della vita morale, come discriminante fra veri e falsi beni, non è necessariamente legata alla sua immortalità. Socrate propende certo per la tesi dell’immortalità dell’anima, ma (a differenza dei pitagorici e del suo discepolo Platone, e più vicino in questo a Protagora) non pone questa tesi come certa e fondamentale. È l’anima del concreto soggetto vivente a giocare un ruolo centrale nella morale socratica».
Mario Vegetti, Filosofia Antica, op. cit., p. 126.
Un classico della storia della filosofia antica, che ritorna finalmente in libreria a più di 40 anni dalla sua prima apparizione. Pubblicato come testo scolastico nel 1975 da Zanichelli, il contributo di Mario Vegetti costituiva la prima parte del primo dei tre volumi che formavano il manuale Filosofie e società, opera che ebbe poi altre due edizioni (nel 1981 e nel 1992, sempre da Zanichelli). Dalla metà degli anni ’70 alla fine degli anni ’90, la storia della filosofia antica di Mario Vegetti è stata il libro di testo su cui si sono formate diverse generazioni di studenti. Ma quasi subito si è trasformata in qualcosa di più: un libro cult, che presentava e proponeva, in modo innovativo, i filosofi del mondo antico sotto una luce inedita e meno stereotipata. Questo gioiello della manualistica scolastica viene ora riproposto in una nuova veste grafica, rivolgendosi a un pubblico di lettori più ampio. E ha tutte le carte in regola per farlo: l’autore, con uno stile accattivante e una straordinaria chiarezza espositiva, illustra le dottrine filosofiche sempre all’interno del preciso contesto culturale e sociale da cui scaturiscono le linee problematiche, i campi teorici, le conflittualità ideologiche. Un’esposizione della filosofia antica vista nelle sue relazioni concrete e variabili con le diverse forme del sapere (la matematica, la biologia, l’etnologia, la storia, l’antropologia, la sociologia, l’economia), ma anche con le forme della vita sociale e politica, e con le istituzioni culturali. Vegetti offriva e offre tuttora un’immagine della filosofia antica ricca, variegata e quanto mai convincente. Uno strumento di conoscenza, di informazione e di cultura che ha aperto ed è ancora in grado di dischiudere ai giovani e a un pubblico più maturo lo spazio della filosofia.
Indice testuale
Società e cultura in Grecia dal VII al V secolo – Natura, scienza e città: il pensiero ionico del VI e V secolo – Il sapere del tempio e la nascita della filosofia nel VI e V secolo – «Salvare i fenomeni»: una nuova forma della ragione scientifica nel materialismo del V secolo – Politica, linguaggio e scienze umane: la cultura ateniese da Solone a Socrate – Filosofia e scienza regia: Platone – L’eredità di Platone: scienza e teologia nell’Accademia del IV secolo – L’enciclopedia del sapere e il grande intellettuale: Aristotele e la sua scuola – Società e organizzazione della cultura dal IV al I secolo a.C. – Antropologia e ideologia: la «rivoluzione filosofica» del mondo ellenistico – Le scienze nell’epoca ellenistico-romana (dal III secolo a.C. al III secolo d.C.) – Cultura e società nel mondo romano dalla repubblica all’impero – Il sistema e il commento: neoplatonismo e aristotelismo dal I al VI secolo d.C.
«La modernità che abbruttisce, la città folle, l’uomo malato di se stesso, ci hanno fatto abbandonare la via che in noi stessi (noi siamo i nostri stessi salvatori) deve portare dalla morte alla vita, dalla follia alla serenità. Solo certi messaggeri, certi folli, poeti, sconosciuti, barboni, cercatori si calano in se stessi, solitari tra altri solitari, per raggiungere questa divinità perduta».
Henry Miller, Conversazioni a Pacific Palisades, Guanda, Parma 1992. p. 144.
«Ah, ridestare le loro coscienze, finché non si rendano conto di quanto è indegno il comportamento cui si sono abbandonati, per poi ricondurli, pentiti, al sentimento di tolleranza e d’amore verso il prossimo».
Henrik Johan Ibsen, Rosmersholm [1866] (La casa dei Rosmer o Villa Rosmer), dramma in quattro atti, Einaudi, Torino 1990.
“Rosmersholm è un dramma sconvolgente dall’inizio alla fine, e con un terribile crescendo di tragicità, di una tragicità che tocca i problemi più profondi della natura umana, che mostra la distanza tra ciò che l’uomo vuole e ciò che può. Mostra con una metafora l’indistruttibile capacità di felicità dell’uomo, quella capacità che, quando ogni scopo cessa di esistere, ogni aspirazione, ogni speranza, persino allora gioisce ancora di ogni minima cosa che le si offre, del lombrico che ha trovato quando è uscita a dissotterrar tesori. Rebekka vuole fare dell’uomo che ama una creatura nobile ed è felice quando lui la segue sulla passerella. Muore contenta, felice, muore nell’illusione di aver raggiunto il suo scopo; una conclusione senza dubbio adatta a far riflettere. Ma c’è proprio da chiedersi se questo riflettere induca a una commozione profonda per la debolezza umana o non piuttosto a un calmo sorriso. Ibsen ha molte affinità con Cervantes, con questo immortale creatore di un essere nobile”.
Georg Groddeck, prefazione a “Rosmersholm” di Henrik Ibsen, ed. Einaudi.
«L’uomo contemporaneo accosta tutte le cose in un arruffio incoerente e questo dimostra che anche la sua interiorità è un coacervo privo di qualsiasi connessione. L’uomo contemporaneo non si trova più di fronte alla stabile datità delle cose e le cose non gli vengono più incontro una ad una, né egli stesso s’avvicina alla singola cosa compiendo un atto particolare: verso l’uomo contemporaneo, la cui interiorità è un coacervo incoerente, si muove oggi un sconclusionato arruffio esterno. Non si presta neppure più attenzione a cosa ci viene incontro, poiché si è soddisfatti purché qualcosa venga ed è proprio in una siffatta confusione che qualsiasi cosa e chiunque può immischiarsi».
Max Picard, Hitler in noi stessi, Pgreco, Roma 2016, p. 14.
Un tentativo di cogliere l’essenza del mondo attuale alla luce del concetto nietzscheano di «ultimo uomo»
Il saggio L’ultimo uomo di Salvatore Antonio Bravo intende esaminare e «riattualizzare una figura lasciata di sfondo e che poco è stata evocata nella storia della filosofia» (p. 5): quella dell’«ultimo uomo» (der letzte Mensch) nietzscheano. Si tratta, com’è noto, di un tema cardine del pensiero filosofico di Friedrich Nietzsche; nondimeno, come rileva lo studioso, nonostante gli innumerevoli studi dedicati al suo pensiero, «titoli che trattino specificatamente dell’uomo più inquietante sono pressoché assenti» (Ibidem). Questo fatto appare paradossale: l’analisi del concetto di «ultimo uomo» è infatti di vitale importanza per la decodificazione della filosofia nietzscheana, al punto che non si può realmente pervenire alla sua comprensione se si prescinde dalla considerazione di tale figura. Nella misura in cui l’«ultimo uomo» rappresenta l’incarnazione del «nichilismo», che Nietzsche identifica con la cifra della nostra civiltà e del nostro tempo, va da sé come la sua analisi sia del tutto imprescindibile per intendere la diagnosi nietzscheana della contemporaneità. Alla luce di ciò, la nozione di «ultimo uomo» appare, per alcuni aspetti, più importante di quella di «superuomo»: infatti, se è vero che questa coincide, in un certo senso, con la “causa finale” della costruzione filosofica di Nietzsche, è altresì vero che è l’«ultimo uomo» che costui ha in mente nella sua radicale critica dell’evo presente. Sulla scia della lettura della filosofia nietzscheana data da Costanzo Preve, che ha il merito di aver «spostato l’asse interpretativo dell’opera nietzscheana dal superuomo all’ultimo uomo» (Ibidem), Bravo si propone di indagare tale concetto «al fine di coglierne la validità interpretativa rispetto all’attualità» (Ibidem). Se dunque, da un lato, egli mira a far luce su alcuni aspetti del pensiero di Nietzsche, dall’altro la sua ricerca appare rivolta alla comprensione del nostro tempo proprio a partire dall’analisi nietzscheana. Come emerge dalle opere di Nietzsche, l’«ultimo uomo» non è che un semplice replicante: «uguale a tutti, si confonde con ognuno» (p. 7). Non solo appare incapace di distinguersi dalla massa, ma addirittura vede con sospetto ogni tentativo di differenziarsi rispetto ad essa. Costui rappresenta il venir meno dell’uomo, poiché la sua identità consiste nell’assenza di identità. Nel mondo in cui egli domina «non vi sono idee, non vi sono modi di sentire e di esserci differenti: lo scorrere del tempo è un «eterno ritorno dell’eguale» consistente in una «replicazione ad infinitum di parole, frasi, gesti, comportamenti eguali, orientati verso una riconciliazione massificata che respinge ogni tensione creativa» (Ibidem). In un mondo siffatto, nota Bravo, «scompare ogni maieutica ed ogni dialettica» (Ibidem). È il suo «integralismo nichilista» a renderlo «il più inquietante» tra gli uomini. La sua visione del mondo è unicamente orientata al «trionfo della sicurezza: precondizione per il successo dei suoi piccoli raggiri da mercato» (p. 8). Lo strumento della sua affermazione è la «tecnica» (Gestell), mentre il suo habitat è la “società di mercato”, l’orizzonte nel quale «si rende manifesta la morte di Dio e con essa la morte dell’uomo» (Ibidem). Questo “mondo storico” segna il tramonto di ogni umanesimo, poiché il regno della cieca manipolazione tecnico-utilitaristica ripudia e respinge qualsiasi forma di resistenza al suo imporsi, qual è quella costituita da realtà e concetti come “essere”, “natura umana” o “verità”. Alla ricerca dialogica della verità come fondamento della comunità, l’impero del mercato sostituisce l’«esattezza» delle scienze, intesa come strumento di gestione e manipolazione della vita umana. Di un fondamento veritativo irriducibile a tale «esattezza» non è piùnulla. Con l’evento della morte di Dio, muore così anche la filosofia; non resta che l’egemonia del nulla o «nichilismo». Per la sua capacità di prevedere alcuni esiti prodotti dalla tecnica e dal mercato, Nietzsche, secondo Bravo, può essere considerato il “profeta” «dell’ultimo integralismo: quello economico, il più insidioso, il più pervasivo, poiché risponde ad una logica semplice: “comprare – vendere”; e, mediante tali attività, trasforma in verità ontologica, in paradigma, il mercato» (p. 9). La società mercatista, per Nietzsche, rappresenta «la realizzazione assoluta della “décadence”», che «partorisce gli uomini che meritano il grande disprezzo» (p. 13). L’«ultimo uomo», in questo senso, non figura che come il “prodotto” di un complesso lavoro di ingegneria “sociale” che ha nel totalitarismo del “mercato” – l’unico vero Dio della postmodernità – il proprio “ingegnere” – o, meglio, il proprio Demiurgo. Il sentimento che più lo caratterizza è l’assenza di sentimento, ovvero l’indifferenza: nulla in lui desta reale gioia o stupore, così come nulla in lui crea sgomento o angoscia: «ripiegato su se stesso e sui suoi piccoli affari, ha quale obiettivo quello di rassicurarsi e gratificarsi nei giochi minuscoli di potere e piacere. Vive nella sua caverna, giudicandola l’unica possibile; […] non immagina un mondo altro possibile» (p. 10). «Schiavo della sua indifferenza, sa solo agire e reagire, è veloce nel contare, nella tattica della piccola politica, ma ogni grande pensiero, ogni sospensione della prassi per una comprensione completa e feconda gli è estranea» (p. 12). L’«ultimo uomo» parla sempre del proprio “io”, senza però intendere che esso non è che un fantasma: «in realtà, in sua vece, parla il sistema tecnocratico» (p. 11). Ogni pensiero profondo è in lui e da lui rimosso: per l’«ultimo uomo», il solo “essere” possibile è il “visibile”, il “corporeo”, ciò che si presta a ridursi ad oggetto di scambio, mercanteggiamento, chiacchiera, contraffazione e consumo. «La consapevolezza è espulsa dal percorso vitale perché dona profondità e diventa elemento di interruzione di un flusso finanziario» (p. 7); e «chi sente diversamente» in questo mondo, preconizza Nietzsche, «se ne va da sé al manicomio» (Così parlò Zarathustra, Proemio, § 5). Il giudizio nietzscheano sul «totalitarismo del mercato», afferma Bravo, «è accostabile a quello di Marx» (p. 16): ciò che Nietzsche scrive a proposito della condizione di “alienazione” che caratterizza gli uomini nell’età del «nichilismo» ricorda i rilievi marxiani sulla massificazione e sull’alienazione degli individui che il capitalismo inevitabilmente genera. Secondo lo studioso, «Nietzsche come Marx secondo prospettive diverse ravvisa i movimenti che avrebbero portato al gelo dell’ultimo uomo ed al depauperamento progressivo della creatività e della progettualità singolare e comunitaria» (p. 59). Entrambi, insieme a Hegel, «hanno colto lo stesso pericolo: l’uomo ad una dimensione, l’uomo mediocre, l’animo piccolo borghese anonimo porta con sé una forza titanica distruttiva. Si avvale della tecnica e delle tecnologie, e le utilizza per il salto finale, ovvero conquistare ogni parte del pianeta al capitale, mentre avanza l’ultima ideologia, ogni coscienza è a sua volta terra di conquista» (p. 19). La società (post-)moderna è una «gabbia d’acciaio» in cui «l’ultimo uomo può diventare il cannibale della propria comunità o di altre comunità» (p. 23). Come rileva Bauman, ognuno, in questo palcoscenico, è in pericolo: il processo di razionalizzazione che esso inscena partorisce individui autolatrici, cinici e inconsapevoli che non pongono alcun freno alle proprie azioni e appaiono disposti a tutto pur di realizzare il proprio utile. Ma chi sono questi individui? Bravo mette in luce come non esista, nella prospettiva di Nietzsche, un solo “modello ideale” di «ultimo uomo», poiché, dal momento che egli rappresenta l’assenza di qualsivoglia identità, molteplici sono le “maschere di carattere” che egli è in grado di indossare. Tra queste vi sono «lo storico, lo scienziato positivista, il razionalista socratico, il demagogo, il razzista, il nazionalista, il religioso» (p. 12), così come i «ricchi borghesi» e i «socialisti rivoluzionari». Questi ultimi, secondo Nietzsche, non personificano un tipo umano differenziato, una sorta di homo novus; all’opposto, la loro ragion d’essere è nei borghesi stessi, dei quali incarnano i sentimenti dell’invidia, del rancore e del risentimento. «Nell’esposizione-confronto tra chi ostenta e chi possiede e chi invidia», evidenzia lo studioso, vi è per il pensatore «la genealogia, l’origo delle ideologie socialiste», poiché «il mercato […] invita all’invidia, e dunque diventa causa delle stesse ideologie degli egoismi e dei rancori. […] I ricchi borghesi ostentano la loro muscolatura mediante i beni in loro possesso» e «offrono con essi l’ostentazione del loro potere; dall’altra parte», invece, vi è «la penuria e dunque l’invidia: i proletari vorrebbero essere al posto dei ricchi borghesi, e dunque fomentano la rivoluzione, la distruzione di ogni gerarchia e valore» (p. 15), ossia, in una parola, il «nichilismo». A questo punto, si tratta di capire quando si sia realizzata, per Bravo, la profezia di Nietzsche. La risposta che egli offre stupirebbe di certo la maggioranza degli studiosi del pensiero nietzscheano. Secondo costui, la sua compiuta realizzazione non ha luogo nella prima metà del Novecento, ma a partire dal Sessantotto. È con il Sessantotto, la «fuga da ogni regola», che si aprono le porte alla «possibilità totale della mercificazione» grazie al «trionfo del capitale senza borghesia e senza etica. Il capitale liberato da ogni vincolo può dunque dimorare ovunque; così l’Occidente diviene la casa del capitale» (p. 29). Grazie al Sessantotto, «ogni trasgressione è innalzata sugli altari», non perché costituisca una forma di “liberazione”, ma «poiché produce beni di consumo» (Ibidem). “Liberati” da ogni resistenza al dominio della merce, agli individui non resta che accettare e promuovere con nichilistica esaltazione la precarizzazione dell’esistenza, la disgregazione sociale, l’omologazione culturale, la deificazione del progresso e, infine, la tecnicizzazione della vita, dei rapporti umani e della politica. Si approda così all’idea che il presente incarni la gloriosa «fine della storia» e che questo mondo, nonostante suoi difetti, rappresenti «il solo» e «il migliore dei mondi possibili». E così sia. Il “mondo storico” previsto e descritto da Nietzsche si presenta oggi come un orizzonte ineluttabile, una realtà di cui si è parte e con cui si è costretti a fare i conti in ogni istante della vita quotidiana. La sua prospettiva, tuttavia, è tutt’altro che fatalista: da questo mondo, egli avverte, il «possibile» non è né può essere espunto. È vero che «il deserto avanza», ma è altrettanto vero che esso, per il filosofo, «incontra e si scontra con anime immense che rompono la massificazione» (p. 49). Esse, spiega Bravo, sono coloro che «conservano il contatto con il dionisiaco», «la riserva delle energie psichiche della creatività vissuta nella carne e pensata con la carne, ciò che racchiude «potenzialità del pensiero che la ragione non conosce» (Ibidem). Sono «gli ispirati di Dioniso», dunque, che, per Nietzsche, «possono cambiare la storia, rovesciano il regno della necessità, divenendo i portatori di pensieri inauditi» (p. 49). Ciò che consente di liberare il «dionisiaco» nell’uomo e trasformarlo è descritto dal filosofo con l’espressione «eterno ritorno dell’eguale». Esso rappresenta «la palingenesi per poter creare», poiché determina l’arresto di quel «tempo meccanico, deterministico e positivistico» che è «il tempo ciclico del capitale», il cui infinito ripetersi segna «l’annichilimento della categoria del possibile» e «di ogni trasformazione individuale e collettiva» (p. 21). «L’eterno ritorno trasforma il tempo in ente voluto» (Ibidem) dando origine all’«oltreuomo», a colui che «sospende il tempo del fare, della ripetizione, per scegliere l’agire, nella rinuncia alle fantasie di onnipotenze la condizione per la creatività, per il dominio e la conoscenza di sé» (pp. 21-22), rivelando il «possibile» là dove, per l’«ultimo uomo», non vi sono che «necessità» e «normalità». Ad ogni modo, l’emersione del «possibile», ossia della possibilità di uscire dalla «gabbia d’acciaio» tecno-capitalistica, non si manifesta, per Nietzsche, solo in senso “individuale”, con l’«oltreuomo». Come evidenzia Bravo, pur non essendovi opere «nelle quali egli ha trattato in modo sistematico un modello alternativo al sistema», «sono presenti tracce per un ipotetico programma sociale» (p. 45). Se si legge ciò che il filosofo scrive in alcuni suoi scritti, si può constatare che «le tragedie della sua epoca sono lette attraverso la cattiva distribuzione delle ricchezze»: «la polarizzazione dei capitali» e «l’assenza della politica», per costui, generano «estremismi pericolosi, la radicalizzazione dello scontro» (Ibidem). La critica di Nietzsche si rivolge così a un’«economia senza politica» che «frammenta e distrugge ogni tessuto sociale e diviene precondizione per nuovi e fatali sconvolgimenti in una deriva conflittuale della dismisura» (Ibidem). Quale sia il rimedio da porre a tale situazione è indicato da Nietzsche nell’aforisma 285 del secondo volume di Umano, troppo umano, nel quale esorta a togliere «dalle mani dei privati e delle società private tutti i rami del trasporto e del commercio, che sono favorevoli all’accumulazione dei grandi patrimoni, ossia in particolare il commercio del denaro», e a considerare «tanto i grandi possidenti quanto i nullatenenti come esseri pericolosi per la comunità»; è solo tenendo «aperte tutte le vie del lavoro alla piccola proprietà», contrastando sia la povertà sia «l’arricchimento senza sforzo ed improvviso», che si può rendere la proprietà «più morale» e preservare la comunità (Umano, troppo umano II, aforisma 285). Sulla base di ciò, è lecito sostenere che anche in Nietzsche si delinea, per certi aspetti, una “via sociale” al superamento del «nichilismo» – una “via” che rivela all’uomo nuove «possibilità» rispetto all’ordine dominante. Il saggio di Bravo ha il merito di mostrare un “ritratto” di Nietzsche sconosciuto anche a molti interpreti del suo pensiero. Dalla presente analisi, il “filosofo del martello”, lungi dall’impersonare il mero “profeta dei fascismi” – come pretende una delle interpretazioni che da decenni domina il dibattito mediatico-culturale –, appare piuttosto come il “profeta” di quell’«ultimo uomo» che, dal Sessantotto in poi, ha conquistato ed egemonizzato la scena del mondo. La sua diagnosi, tuttavia, non ha affatto un esito depressivo, poiché mira ad individuare nuovi percorsi in grado di condurre oltre il «nichilismo» che anima la società (post-)moderna. Il confronto con il pensiero nietzscheano permette di cogliere che, dietro l’idea che questo sia «il migliore» o «il solo» mondo possibile, si cela l’ennesimo mito da sfatare. «Il futuro non è fatalità, ma sistema aperto che attende tutti» (p. 68): è questo, per Bravo, il grande insegnamento di Nietzsche. Egli chiarisce come il compito della filosofia, lungi dal risolversi nella decostruzione fine a se stessa o nell’accettazione fatalistica dello status quo, consista nel farci «assumere la consapevolezza delle macerie» (p. 67) e «prepararci al possibile» (p. 52) per «ridare dinamicità alla storia» (p. 68) e «ridisegnare la condizioni per nuove coscienze, per una coscienza liberata dal giogo dell’asservimento» (p. 54). Si tratta di un atto che si rivolge contro il mondo esterno, ma che è anzitutto rivolto contro se stessi: l’«ultimo uomo», infatti, non è mai solo l’altro da sé, ma vive «in ognuno di noi», poiché «ciascuno di noi vive all’interno del dispositivo di potere […] e porta con sé l’ospite inquietante» (p. 51). Solo accettando questa tremenda verità diventa possibile «restituire una forma alla storia» (p. 68). La via che conduce alla trasformazione della realtà passa dunque attraverso la radicale trasformazione di sé. È questo il senso della lezione di Nietzsche – una lezione che è dedicata all’«ultimo uomo» che tutti noi siamo.
Le osservazioni pedagogiche di Kant sono oggi un monito. Il fine più alto dell’educazione è la responsabilità verso il futuro.
I grandi pensatori sono stati filosofi-educatori: pedagogia e filosofia sono un corpo speculativo unico, pertanto filosofare significa educarsi ed educare: i processi sono sincretici. Nessun pensatore potrebbe definirsi solo in rapporto alla filosofia, poiché i sistemi – l’arte di inventare concetti e di problematizzarli – sono già, di per sé, attività educative. Il motto del criticismo kantiano è “aude sapere”, ma potrebbe essere: legge del filosofare. Non si tratta di un’attività al singolare, ma comunitaria. Il particolare, poi, la forma specifica del sapere filosofico è il suo rapportarsi al potere in modo dialettico, a volte conflittuale, al fine di difendere l’autonomia del filosofo e delle genti contro le ipostasi artificiose ed ideologiche del potere. La filosofia è esigente: senza il rischio della solitudine non è che conformismo da salotto.
Immanuel Kant (Königsberg 1724-1804) si occupò di pedagogia. Tale aspetto è spesso poco conosciuto. Fu un suo allievo, Theodor Rink, a pubblicare le sue osservazioni pedagogiche nel 1803. Nella prima parte dell’opera Pedagogia, al paragrafo sette, afferma che i príncipi spesso trattano il popolo come se fosse appartenente al “regno animale”. Il potere spesso strumentalizza i popoli e ne fa carne da macello. L’educazione deve avere come scopo non l’utile, ma la formazione umana e dev’essere rivolta a tutti. Una simile osservazione, oggi, è più vera che mai: le istituzioni scolastiche sono curvate sull’utile del mercato, pertanto la formazione è solo un percorso per diventare strumento dell’ipostasi economia a cui tutto si deve. Un essere umano, invece, ha bisogno di una pluralità di attività, affinché il suo sviluppo sia armonico: cure fisiche, disciplina ed istruzione. Il percorso che conduce all’autonomia è lungo e complesso. L’adolescente, come l’infante, per poter imparare “il libero pensiero” deve sperimentare l’autorità senza autoritarismo. È necessario che vi siano figure educative che contengano e modellino le pulsioni e gli istinti, i quali se lasciati liberi finiscono per dominare la persona, e limitare anche l’altrui libertà. Senza disciplina non si può vivere la libertà: questa è una verità eterna. Oggi si assiste ovunque alla distruzione della figura paterna per poter consegnare le nuove generazioni al mercato ed al consumo. Il pedagogismo contemporaneo demonizza l’autorità, ma non riflette sulle conseguenze della sua assenza, e specialmente sulla solitudine di bimbi ed adolescenti senza punti di riferimento:
«L’uomo è la sola creatura capace di essere educata. Per educazione, in senso largo, s’intende la cura (il trattamento, la conservazione) che richiede l’infanzia di lui, la disciplina che lo fa uomo, infine la istruzione con la cultura. Sotto questi tre rispetti, egli è infante, allievo e scolare. Appena gli animali cominciano a sentire le proprie forze, le usano regolarmente, cioè in maniera tale da non recar danno a sè stessi. È curioso il vedere, per esempio, come le giovani rondinelle, appena uscite dal loro uovo e tuttora cieche, sappiano disporsi per modo da far cadere i loro escrementi fuori del nido. Gli animali non hanno dunque bisogno d’essere curati, sviluppati, riscaldati e guidati, o protetti. Vero è che la più parte di essi domandano nutrimento, ma non cure. Per cure bisogna intendere le precauzioni che prendono i genitori per impedire ai loro nati di far uso nocivo delle loro forze. Se, per esempio, un animale venendo al mondo gridasse come fanno i bambini, diverrebbe certamente preda dei lupi e di altre bestie selvagge attirate dalle sue grida. La disciplina o educazione ci fa passare dallo stato di animale a quello d’uomo. Un animale è pel suo istinto medesimo tutto ciò che può essere; una ragione a lui superiore ha preso anticipatamente per esso tutte le cure necessarie. Ma l’uomo ha bisogno della sua propria ragione. Costui non ha istinto, e conviene che formi da se stesso il disegno della sua condotta. Ma, siccome non ne possiede la immediata capacità e viene al mondo nello stato selvaggio, ha bisogno dell’aiuto altrui. La specie umana è obbligata a cavare a grado a grado da se stessa colle proprie sue forze tutte le qualità naturali che appartengono all’umanità, una generazione educa l’altra. Se ne può cercare il primo principio in uno stato selvaggio o in uno stato perfetto di civiltà; ma nel secondo caso, bisogna pure, ammettere che l’uomo sia poi ricaduto nello stato selvaggio e nella barbari».[1]
L’universale fine dell’educazione L’educazione è un processo di responsabilità collettiva, è un’ardua impresa, perché le generazioni tramandano la loro esperienza alle nuove generazioni, le quali hanno il compito di vagliarla e migliorarla. Continuità e discontinuità coesistono, si trasmette un’identità culturale non solo per conservarla, ma specialmente per ripensarla. L’autonomia si attua nel confronto critico con l’identità di provenienza. Senza “appartenenza” non vi è umanità, perché non vi è identità. Non è possibile non svolgere una comparazione con il presente, in cui vige la distruzione di ogni tradizione linguistica e politica, al punto che non vi è più conflitto. Senza confronto non si formano personalità, non si strutturano autocoscienze, vi è solo la solitudine dell’adolescente a cui è permesso tutto: in tal modo perde se stesso. Il conflitto, se non è distruttivo, consente di conoscere se stessi, ed invita le parti in dialogo ad argomentare su valori e scelte sclerotizzate dall’abitudine, o a giudicarne la loro validità etica e razionale:
«L’uomo deve innanzi tutto svolgere le sue attitudini per il bene; la Provvidenza non le ha messe in lui bell’e formate, ma come semplici disposizioni, e però non vi è ancora distinzione di moralità. Render se stesso migliore, educare se medesimo, e, s’egli è cattivo, svolgere in sè la moralità, ecco il dovere dell’uomo. Quando vi si rifletta consideratamente, si vede quanto ciò sia difficile. L’educazione, pertanto, è il più grande e il più arduo problema che ci possa esser proposto. Difatti le cognizioni dipendono dall’educazione, e questa dipende alla sua volta da quelle. Onde non potrebbe l’educazione progredire che di mano in mano; e noi possiamo arrivare a farcene un’idea esatta solo in quanto ciascuna generazione trasmette le sue esperienze e le sue cognizioni alla generazione posteriore, che vi aggiunge qualcosa di suo e le tramanda così aumentate a quella che le succede. Qual cultura e quale esperienza dunque non suppone questa idea? E però essa non poteva sorgere che tardi, e noi stessi non l’abbiamo ancora innalzata al suo più alto grado di purezza. Si tratta di sapere se l’educazione nell’uomo singolo debba imitare la cultura che l’umanità in generale riceve dalle sue diverse generazioni».[2]
Educazione privata e pubblica All’educazione privata è preferibile l’educazione pubblica, poiché si apprende la libertà nelle relazioni plurali, in cui non solo si impara ad ascoltare (competenza difficilissima), ma specialmente si trascende il naturale egocentrismo di ogni essere umano in formazione. In famiglia si è il centro di ogni attenzione, prevale l’interesse personale. Nello spazio pubblico si impara ad essere cittadini capaci di rispettare regole e doveri comuni a tutti, “il mondo” si configura nello spazio pubblico nella sua problematicità:
«L’educazione privata è data dai genitori stessi, o, se per caso non ne abbiano il tempo, la capacità o il gusto, da altre persone che li aiutano in ciò, mediante una ricompensa. Ma questa educazione data così da persone ausiliarie ha il gravissimo difetto di dividere l’autorità fra i genitori ed il precettore. Il fanciullo deve regolarsi secondo i precetti dei suoi maestri, e deve in pari tempo seguire i capricci dei suoi genitori. È necessario che in questo genere di educazione i genitori depongano tutta la loro autorità in mano dei maestri. Ma fin dove l’educazione privata è preferibile alla educazione pubblica, o questa a quella? L’educazione pubblica, in generale, sembra più vantaggiosa dell’educazione domestica, non solamente in rispetto alla abilità, sì anche in rispetto al vero carattere di cittadino. L’educazione domestica, oltre non correggere i difetti appresi in famiglia, li aumenta».[3]
Responsabilità e formazione Il fine più alto dell’educazione è la responsabilità verso il futuro: i genitori solitamente si occupano del presente senza porsi il problema del valore qualitativo ed etico del tempo immediato, mentre i potenti utilizzano i loro popoli come strumenti per soddisfare i loro disegni di grandezza. Le nuove generazioni hanno bisogno di educatori che insegnino loro non solo la responsabilità verso il futuro, ma specialmente che si è parte di un’unica umanità. Solo in questo modo il percorso educativo di generazione in generazione può trarre dalle persone il “bene” ed avere la sua teleologia:
«Un principio di Pedagogia, al quale dovrebbero mirare segnatamente gli uomini che propongono norme di arte educativa, è questo: Che non devesi educare i fanciulli secondo lo stato presente nella specie umana, ma secondo uno stato migliore, possibile nell’avvenire, cioè secondo l’idea dell’umanità e della sua intera destinazione. Questo principio è d’una importanza grande. I genitori educano per lo più i loro figli per la società presente, sia pure corrotta. Dovrebbero, al contrario, dar loro una educazione migliore, perché un migliore stato ne possa venir fuori nell’avvenire. Ma qui si parano dinanzi due ostacoli: 1° I genitori non si curano per ordinario che di una cosa sola, ed è che i loro figli facciano buona figura nel mondo. 2° I principi risguardano i propri sudditi come strumenti nei loro disegni. I genitori pensano alla casa, i principi allo Stato. Gli uni e gli altri non si propongono per fine ultimo il bene generale e la perfezione a cui è destinata l’umanità. Le basi fondamentali d’un disegno d’educazione fa d’uopo che abbiano un carattere mondiale. Ma il bene generale è un’idea che possa tornar dannosa al nostro bene particolare? Niente affatto! Imperocché, quantunque sembri che gli si debba sacrificare qualcosa, veniamo così a lavorar meglio pel bene del nostro stato presente. E allora quante nobili conseguenze! Una buona educazione è proprio la sorgente d’ogni bene nel mondo. I germi che sono riposti nell’uomo debbono svilupparsi ognor di vantaggio; imperocché nelle disposizioni naturali dell’uomo non v’ha principio di male. La sola causa del male sta nel sottoporre a norme la natura. Nell’uomo non vi sono che i germi per il bene. Da chi dee provenire il miglioramento dello stato sociale? Dai principi o dai sudditi? Conviene che questi si migliorino prima da sè stessi, e facciano la metà di strada per andare incontro a governi buoni? Se, invece, deve partire dai principi questo miglioramento, si cominci dunque a riformare la loro educazione; poiché si è commesso per lungo tempo questo grave sbaglio, di non resistere mai agli stessi principi nella loro gioventù. Un albero che resta isolato in mezzo ad un campo perde la sua dirittura nel crescere e stende lungi i suoi rami; al contrario, quello che cresce nel mezzo di una foresta si mantiene diritto, per la resistenza che gli oppongono gli alberi vicini, e cerca al disopra l’aria ed il sole. Avviene lo stesso nei principi. Ma vale ancor meglio siano educati da qualcuno dei loro sudditi che dai loro pari. Non si può attendere il bene dall’alto se prima non vi sarà migliorata l’educazione! Qui bisogna dunque contare più sugli sforzi dei privati che sul concorso dei principi, come hanno giudicato Basedow ed altri; dacché l’esperienza c’insegna che i príncipi nell’educazione badano meno al bene del mondo che a quello dello Stato, e vi scorgono solo un mezzo per giungere ai loro fini. Se col denaro soccorrono la educazione, si riservano il diritto di stabilire le norme che loro convengono. Lo stesso va detto per tutto ciò che risguarda la cultura dello spirito umano e l’incremento delle umane conoscenze. Questi due risultamenti non sono procurati dal potere e dal denaro, ma solo facilitati; bensì potrebbero procurarli ove lo Stato non prelevasse le imposte unicamente nell’interesse del suo erario. Neppur le Accademie li hanno dati finora, ed oggi più che mai non si scorge alcun segno ch’esse comincino a darli».[4]
I germi del bene sono in ogni essere umano, ma senza educatori, strutture e spazi pubblici la predisposizione al bene non resta che una possibilità senza atto. La comunità deve essere educante, ogni adolescente ed infante è parte di una totalità comunitaria che deve responsabilizzarsi verso di essi: l’alternativa è la barbarie.
Libertà L’equilibrio tra autorità ed autorevolezza non è certo semplice, in quanto il fine di ogni educazione è lo sviluppo delle naturali potenzialità comunitarie e soggettive dell’educando, le quali confliggono con le sue pulsioni individualiste. È necessario guidare l’adolescente, insegnargli la libertà con gradualità. La libertà si deve sperimentare sotto l’occhio vigile dell’educatore, al fine di incoraggiare esperienze di autonomia, nelle quali l’adolescente deve educarsi a gestire il senso del limite ed a contenere i suoi fini, perché anche gli altri li possano concretizzare. Ogni vita nel suo sviluppo deve lasciare spazio alle altre esistenze. La libertà non è finalizzata alla soddisfazione del proprio incontenibile piacere, ma primariamente a conoscersi mediante il rapporto dialettico con le alterità:
«Qui devesi por mente alle infrascritte regole. 1° Bisogna lasciar libero il fanciullo fino dalla sua prima età e in tutti i suoi movimenti (salvo in quelle occasioni in cui può farsi del male come, per esempio, se prendesse in mano uno strumento tagliente), a patto bensì di non impedire la libertà altrui, come quando grida, o manifesta il suo brio in modo troppo rumoroso e da recar disturbo agli altri. 2° Gli si deve mostrare ch’ei può conseguire i suoi fini, a patto bensì ch’egli permetta agli altri di conseguire i loro propri; ad esempio, non si farà niente di piacevole per lui s’ei non fa ciò che desideriamo, come d’imparare ciò che gli viene insegnato, e via dicendo. 3° Bisogna provargli che l’autorità, il costringimento a cui si sottopone, ha per fine d’insegnargli ad usar bene della sua libertà, che lo educhiamo ed istruiamo affinché possa un giorno esser libero, cioè fare a meno del soccorso altrui. Questo pensiero sorge assai tardi nella mente dei fanciulli, poiché non riflettono nei primi anni che dovranno un giorno provvedere da sè stessi al loro mantenimento. Credono che la cosa andrà sempre come nella casa paterna, cioè ch’essi avranno da mangiare e da bere senza darsene alcun pensiero. Ora senza questa idea, i fanciulli, segnatamente quelli dei ricchi ed i figli dei principi, restano per tutta la vita come gli abitanti di Otahiti. L’educazione pubblica ha qui manifestamente i più grandi vantaggi: vi s’impara a conoscere la misura delle proprie forze ed i limiti che c’impone il diritto altrui. Non vi si gode alcun privilegio, poiché vi sentiamo dovunque la resistenza, e ci eleviamo sopra gli altri solo per merito proprio. Questa educazione pubblica è la migliore immagine della vita del cittadino. Resta ancora una difficoltà che non vuol essere qui dimenticata, e risguarda la cognizione anticipata del sesso, a fine di preservare i giovinetti dal vizio prima dell’età matura».[5]
Si impara a diventare cittadini con esperienze formative che esulano il successo e la competizione. A tal fine è indispensabile l’educazione pubblica con la quale si apprende la condivisione e la responsabilità. Le osservazioni pedagogiche di Kant sono oggi un monito che dal passato ci esorta a pensare alle conseguenze dei processi di privatizzazione ed atomizzazione dell’educazione. Comunità vi è soltanto in presenza di cittadinanza attiva e consapevole. Ma ciò può avvenire solo mediante un percorso di formazione che riponga al centro la persona nella comunità e non certo il mercato globale. Il cosmopolitismo kantiano, spesso invocato a sostegno della globalizzazione, ha piuttosto come fine la formazione del cittadino libero e razionale e non certo del suddito globale.
Salvatore Bravo
[1] Immanuel Kant, Pedagogia, Liber Liber, pag. 9. [2]Ibidem, pag. 11. [3]Ibidem, pag. 14. [4]Ibidem, pag. 12. [5]Ibidem, pag. 15.
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