Diego Lanza (1937-2018) – Appassionato filologo e grecista, innovativo nella lettura interdisciplinare dei testi, sempre in tensione etica, morale, filosofica, che ci consegna quale suggello, testimonianza vivificante e forte dono.
Il 7 gennaio 2020 Diego Lanza avrebbe compiuto 83 anni. Era nato il 7 gennaio del 1937 (tre giorni dopo del suo amico Mario Vegetti, con il quale condividerà, in una straordinaria amicizia filosofica, fondamentali percorsi di ricerca, fino al 7 marzo 2018 quando Diego ci aveva lasciato: Mario Vegetti ci ha lasciato quattro giorni dopo, l’11 marzo 2018.
Vogliamo ricordare Diego con questo suo scritto, «Pathos», in cui vibra non solo la profonda conoscenza filologica dell’appassionato grecista e la capacità sempre innovativa di lettura antropologica e interdisciplinare dei testi, ma anche la tensione etica e morale, filosofica, che lo ha animato per tutta la sua vita e che ha consegnato quale suggello alle pagine del suo ultimo libro, pubblicato postumo, «Il gatto di piazza Wagner», assumendo in sé l’eredità paterna («orgoglio tenace, fedeltà alle proprie decisioni, energia necessaria a una silenziosa coerenza, disprezzo per il mormorio del senso comune») e facendone vivificante e forte dono ai suoi figli.
Associazione culturale Petite Plaisance
Si possono scaricare le 13 pp. in formato PDF.
A seguire, dopo il testo «Pathos», interventi di:
Anna Beltrametti – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti
Massimo Stella – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti
Anna Beltrametti
Diego Lanza (7-1-1937 / 7-3-2018) e Mario Vegetti (4-1-1937 / 11-3-2018)
Anna Beltrametti, Per onorare la memoria di Diego Lanza e di Mario Vegetti
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Si formò a Pavia all’epoca
dell’analisi marxista del mondo antico.
Studiò Aristotele, il pensiero scientifico
e la drammaturgia greca
nei rapporti con la politica e la storia della mentalità
«C’era una volta […] il passato rivive nel presente perché chi lo narra gli dà la vivacità di una nuova esistenza, ne suggerisce, sia pur involontariamente, il significato per il presente».
Così scrive Diego Lanza nella Premessa al suo ultimo bel libro, Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento a oggi, pubblicato da Carocci alla fine del 2017.
E così era Diego Lanza, un interprete acuto e profondamente colto che dava senso a quello che leggeva e che prediligeva i testi su cui si erano misurati i grandi nomi, e non solo di filologi, delle culture europee moderne. Un lavoro a doppio taglio era sempre stato il suo, nella scrittura e nella comunicazione orale: si accostava agli antichi attraversando le più resistenti letture dei moderni e mettendo alla prova i più forti paradigmi ermeneutici del Novecento. Leggeva i testi greci, con speciale propensione per la filosofia e la drammaturgia, tracciando al contempo la storia della cultura che li aveva posti e continuava a porli al centro o all’origine.
Diego Lanza, Accademico del Lincei e Professore Emerito di Letteratura greca all’Università di Pavia, nella stessa Università aveva studiato, alunno dello storico collegio Ghislieri, e nel 1959 si era laureato con Adelmo Barigazzi. Vi era tornato, dopo la specializzazione al Maximilianeum di Monaco di Baviera nel 1960, e vi aveva cominciato a insegnare, prima come assistente incaricato e poi come professore ordinario, ma mantenendo fino alla fine costanti e fecondi contatti internazionali.
L’edizione dell’Anassagora
Si era affermato con l’edizione critica dell’Anassagora [Anassagora, Testimonianze e Frammenti, La Nuova Italia, 1966], una prova di tecnica filologica, ma anche di quell’attenzione al configurarsi del pensiero filosofico che in seguito lo avrebbe condotto ad Aristotele: a tradurre e a commentare, nel 1971, le opere biologiche, e quindi a riflettere sistematicamente sui testi politici, Politica e Costituzione degli Ateniesi.
Era il tempo in cui Lanza, insieme con l’amico Mario Vegetti che a Pavia ricopriva la cattedra di Storia della Filosofia antica, aveva guidato i seminari che sarebbero approdati alla pubblicazione nel 1977 presso Liguori dei due piccoli volumi sull’Ideologia della città, ricerche in quegli anni innovative e fondative, che scoprivano potenzialità e limiti dell’analisi marxista sul mondo antico.
Lanza non aveva tuttavia mai abbandonato il teatro attico, tragico e comico e nel 1987, dunque nella piena maturità, aveva coniugato il filone filosofico e quello teatrale delle sue ricerche nell’edizione della Poetica di Aristotele, un testo che resta ancora un riferimento per gli studi sul teatro attico e che segna un punto di svolta importante nell’organizzazione accademica. In quell’ultimo scorcio degli anni ottanta, l’interesse per la drammaturgia che gli apparteneva fin dall’infanzia – Diego era figlio del critico e autore teatrale Giuseppe Lanza, che lo portava con sé agli spettacoli nelle nebbiose serate milanesi dell’immediato dopoguerra – lo aveva orientato negli studi, ma anche a istituire, precorrendo i tempi, il corso di Storia del Teatro e della Drammaturgia antica.
Lanza aveva così promosso l’analisi iuxta propria principia dei testi teatrali, uno dei campi più caratterizzati della letteratura greca antica, e successivamente, nel 2000, aveva sostenuto la fondazione del CRIMTA (Centro di Ricerca Interdipartimentale Multimediale sul Teatro Antico) presso l’allora Dipartimento di Scienze dell’Antichità.
Ad attestare l’impegno prevalente di questa stagione sono i saggi compresi in La disciplina dell’emozione del 1997, ma anche i magistrali contributi – da segnalare in particolare «La tragedia e il tragico», in Noi e i Greci, Einaudi, a cura di Salvatore Settis – pubblicati nelle grandi opere collettive che aveva condiretto o di cui era stato consulente: insieme con Giuseppe Cambiano e Luciano Canfora, Lanza era stato condirettore dell’opera collettiva Lo Spazio letterario della Grecia antica (Salerno editrice, 1991-1996) e aveva collaborato con Settis nell’ideazione e nella realizzazione di I Greci (Einaudi, 1996-2002).
Laboratorio della memoria
Nel teatro, Lanza aveva riconosciuto il laboratorio più rivelatore della memoria e della mentalità greche, la ribalta di quelle figure antropologiche che i drammaturghi avevano ripreso dai miti e non avevano mai cessato di ripensare e di ricollocare al centro dei loro intrecci e dei conflitti politici cui alludevano. Il teatro e i dialoghi platonici sono i luoghi per eccellenza del tiranno, dunque del potere e delle sue degenerazioni, e dello stolto, come dire della verità d’oro occultata nella bruttezza e nella ingenuità apparente del Sileno-Socrate.
Entrambi danno il titolo a due libri noti di Lanza, Il tiranno e il suo pubblico del 1977 e Lo stolto del 1997, e sono la cifra del magistero del Lanza professore e dell’uomo Diego Lanza. Un uomo dal temperamento non facile, sempre in tensione tra meravigliose aperture culturali e severi imperativi morali; attratto dall’eccentrico e fermo cultore delle regole; attento alle emozioni e ancora di più rivolto a controllarle nei comportamenti propri e degli allievi. Una personalità unica, nei suoi contrasti, di cui gli scritti rivelano molto, segnati come sono dalle sue impronte, riconoscibili come sulla tazza quelle del vasaio, per dirlo con Walter Benjamin a proposito del narrare di Nicolaj Leskov.
Articolo già pubblicato su Alias, il manifesto, 15-04-2018.
Anna Beltrametti
Anna Beltrametti, Per onorare la memoria di Diego Lanza e di Mario Vegetti
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Tre incontri lungo un sentiero mai interrotto.
Diego Lanza
e il teatro (non solo) antico
«Una fredda serata di nebbia decembrina a Milano, piazza Missori anno 1948 […] nell’aula magna dell’allora Liceo Beccaria la rinata Università Popolare organizzava il corso “Il teatro nella storia” […] Quella sera si leggevano le Eumenidi. Fu la prima volta che, seduto su quei banchi affollati, vidi mio padre in abito scuro parlare in pubblico. Non ricordo nulla di quello che egli disse […] nella testa mi rimasero alcune parole che il Coro aveva più volte lamentosamente scandito: “Io dea di antica saggezza, dei giovani dèi odio e abominio” […]. Fu questo anche il mio primo incontro con i Greci».
«Una dozzina d’anni dopo partii per la Grecia, a Nauplion acciuffai l’ultimo autobus per Epidauro e riuscii a trovare un posto in cima alle gradinate stipate del teatro […]. Greci erano quasi tutti gli spettatori di quell’Elettra sofoclea. Il ricordo più vivo della serata è rimasto nella mia mente l’applauso esploso quando Oreste ed Elettra cadono l’uno nelle braccia dell’altra. La gente tutt’intorno a me non batteva le mani alla bravura degli attori, ma molto ingenuamente, ai personaggi e al loro poeta […]. Troppo ingenuamente eppure… […]. Ancora vent’anni e mi trovo a insegnare storia del teatro antico […]. La tragedia greca esercita il suo prepotente fascino […]. L’interesse è vivo, le domande molte […] a cui è possibile dare due tipi di risposte. O spiccare il volo slanciandosi nel metadiscorso della semiotica dello spettacolo, oppure, più cautamente, indagare sull’insieme di documenti e testimonianze che offrano la possibilità di delineare le regole del gioco cui i tragediografi attici dovettero conformarsi […] non curiosità antiquarie, ma norme espressive, convenzioni al pari di quelle che sorreggono un sistema linguistico, una langue».
«Wiesbaden, maggio 1983: a conclusione di una luminosa giornata sui rilievi del Taunus sulle tracce del limes romano in compagnia di giovani amici filologi italiani e tedeschi, l’Antigone al Kleines Haus. La versione era quella tradizionale di Hölderlin, la regia, espressionisticamente allusiva, di Carsten Bodinus […]. Il coro era affidato all’unica voce dolente di una donna provata, spaurita, infagottata in un brutto cappotto militare. A metà della tragedia, immediatamente prima dell’ingresso di Emone, Creonte le si accosta e brutalmente le tira giù cappotto e camicia, scoprendole le spalle […]. I giovani amici, già a disagio, rimangono disgustati dalla scena; l’immagine che avevano di Sofocle doveva essere assai meno inquietante, classicamente sublimata in figure ieratiche, se non addirittura filosofiche. Eppure quel gesto di grande sgradevolezza, che nulla poteva avere in comune con la messinscena antica, illuminava qualcosa di essenziale nella tragedia: chi era per i Greci un tiranno, se non uno stupratore, lo stupratore di un’intera città?»
Diego Lanza ha lasciato un’eredità difficile da ricordare e da descrivere in cui ambiti e interessi si incrociano lungo percorsi inconsueti, intrapresi di volta in volta per spinte intellettuali e personali che intersecavano e complicavano il mestiere del filologo sia per gli oggetti della ricerca sia per i metodi. In questa rete il filo teatrale si mantiene continuo, più o meno esplicito, quasi fosse il filo conduttore da cui ogni esplorazione di Lanza partiva e a cui sempre tornava.
Ho voluto aprire questo ricordo con i tre incontri, tre tappe biografiche, che Lanza aveva raccontato introducendo La disciplina dell’emozione, il volume di riflessioni generali sulla tragedia attica e di saggi di interpretazione, pubblicato nel 1997, nella piena maturità, e dedicato a suo padre. L’interesse o, meglio, la passione per il teatro gli veniva da lontano, dall’infanzia, dalla famiglia, dal padre, Giuseppe Lanza, di cui aveva potuto osservare e ascoltare, ancora prima dell’adolescenza, il lavoro di drammaturgo e di critico. E rimase il tratto distintivo e costante della sua figura di intellettuale contemporaneo.
Lanza si era formato a Pavia, alla scuola di Adelmo Barigazzi, che era stato chiamato sulla cattedra pavese di Letteratura greca nel 1951 e l’aveva tenuta fino al 1968, quando il giovane allievo la ricoprì, prima da assistente incaricato e poi da ordinario.
Barigazzi aveva rappresentato una svolta importante negli studi pavesi di grecistica che all’inizio del secolo erano stati segnati dal magistero dei più polemici e agguerriti “antitedescanti” – Giuseppe Fraccaroli aveva tenuto la cattedra pavese di Letteratura greca dal 1915 al 1918 e dopo la sua morte, per continuità, era stato chiamato Ettore Romagnoli che la tenne dal 1918 al 1935 – e poi, durante la guerra e nell’immediato dopoguerra, affidati a professori incaricati di supplenze temporanee. Nei suoi corsi, Barigazzi aveva introdotto a Pavia la filologia di scuola fiorentina e aveva promosso l’interesse per i testi filosofici e retorici anche frammentari, orientando i primi studi di Lanza che infatti si affermò con l’edizione critica dell’Anassagora, nel 1966, per La Nuova Italia.
Ma non fu Anassagora l’autore d’esordio di Lanza. I primi articoli del giovane studioso, pubblicati agli inizi degli anni Sessanta, al ritorno da Monaco di Baviera, dove aveva conseguito la specializzazione al Maximilianeum, sono dedicati alle forme e ai contenuti del teatro euripideo, all’Oreste, al frammentario Alessandro, alle nozioni di nomos e ison.
E ancora negli anni Settanta, un decennio dominato dallo studio sistematico di Platone e Aristotele – del 1971 è la traduzione delle Opere biologiche di Aristotele in collaborazione con Mario Vegetti e, ancora in stretta collaborazione con Mario Vegetti, tra il 1972 e il 1977, si avviano i seminari di riflessione sul pensiero politico greco, sulla Politica e sulla Costituzione degli Ateniesi di Aristotele in rapporto alla Repubblica platonica, che approderanno alla pubblicazione presso Liguori dei due volumi, L’ideologia della città e Aristotele e la crisi della politica, innovativi per quegli anni e determinanti per il profilo della scuola pavese di Scienze dell’Antichità.
Lanza non perde di vista il teatro: del 1976 è il saggio Alla ricerca del tragico, pubblicato in «Belfagor» e del 1977 il volume einaudiano Il tiranno e il suo pubblico, letto prevalentemente per il tema della tirannide, ma scritto dall’autore con attenzione allo spettacolo del tiranno nelle sue rappresentazioni tragiche.
Nell’Anno Accademico 1983-1984, con l’istituzione del corso di Storia del teatro e della Drammaturgia antica, quasi una novità nell’Università italiana di quegli anni, soprattutto perché destinato anche agli studenti non classicisti, Lanza diede visibilità e peso istituzionale al filone di ricerca che aveva da sempre coltivato e alimentato anche con la costante frequentazione dei teatri e della drammaturgia moderna e contemporanea. Il corso conquistò immediatamente una partecipazione larga e interessata al di là di ogni previsione. E otteneva effetti rilevanti e sul piano teorico e su quello accademico: da una parte ritagliava un ambito fortemente caratterizzato nell’insieme eterogeneo dei testi che formano la cosiddetta letteratura greca e lo riconosceva come campo di indagine (quasi) autonoma; dall’altra e al contempo faceva emergere la specificità del teatro antico rispetto ad altre forme teatrali, geograficamente e storicamente determinate, sottraendo la drammaturgia antica alle discipline più generali.
Gli studi teatrali di Lanza divennero da questo momento anche più frequenti e focalizzati non solo sui testi, ma sulle tecniche dello spettacolo e sulla recitazione, sugli spazi scenici e sull’attore, sul sistema di mezzi e di linguaggi che insieme con la scrittura dei testi definivano la specificità della comunicazione teatrale greca e la sua particolare efficacia. Testimonianze e documenti antichi, pochi, sugli spettacoli incominciavano così a incrociarsi con le informazioni, più numerose sebbene non numerosissime, desumibili dai testi, le cosiddette didascalie interne più o meno trasparenti, e a illuminare alcuni aspetti performativi non meno significativi delle parole.
Su questa base, nella ferma convinzione che i testi drammaturgici debbano essere fruiti diversamente dalla letteratura, intesa stricto sensu come testi scritti per essere letti, nel 2000 Lanza approvò e favorì l’istituzione del CRIMTA (Centro di Ricerca Interdipartimentale Multimediale sul Teatro Antico) presso l’allora Dipartimento di Scienze dell’Antichità. Incominciò così a Pavia la raccolta, la classificazione e l’archiviazione di registrazioni audiovisive a documentazione delle recenti messe in scena del teatro antico e delle interpretazioni ad esse sottese.
A segnare un importante punto d’arrivo di questa doppia e interattiva padronanza di Lanza del linguaggio filosofico e dei linguaggi teatrali è l’edizione della Poetica di Aristotele, del 1987. Il maggiore trattato antico sulla tragedia era riletto e interpretato con esiti nuovi, non più solo in chiave filosofica dall’interno di Aristotele, ma alla luce della drammaturgia attica conservata che, con i propri dati intrinseci opportunamente richiamati, rimetteva in gioco e in discussione l’analisi aristotelica. Che consentiva di cogliere le selezioni e le intenzioni di Aristotele, gli aspetti valorizzati e quelli sottaciuti nella sua in apparenza neutrale descrizione, quasi un’anatomia, della tragedia come forma e struttura. Della traduzione e del commento di Lanza si possono ancora discutere alcune scelte particolari, ma l’impianto complessivo resta, credo, una tappa saliente nella storia degli studi e si mantiene un riferimento obbligato per alcuni temi e alcune posizioni. Penso soprattutto al lucido ridimensionamento della catarsi, sopravvalutata dai commentatori e nella vulgata, e alla separazione del testo di Aristotele dalle resistenti sovraimpressioni degli aristotelici che ne hanno condizionato la lettura e la comprensione.
Dieci anni dopo, nel 1997, con La disciplina dell’emozione da cui questo ricordo ha preso le mosse, Lanza sembra ripensare se stesso sul filo del teatro, la chiave forse della sua ricerca e anche un bandolo della sua vita. Offre una sintesi delle sue letture del teatro tragico a cui premette una mappa dei principi che hanno guidato le interpretazioni. Per leggere una drammaturgia tragica -scriveva e insegnava Lanza-è necessario fare i conti su più piani: con “le regole del gioco scenico” che prevedono il tempo marcato della festa a interrompere la vita quotidiana, lo spazio del teatro ben delimitato e quasi spazio franco all’interno della polis, una scrittura che non basta a se stessa e deve prevedere la recitazione; con la necessità di mettere in scena personaggi che non vengono dalla vita vissuta, ma dalla tradizione e dalla plastica materia narrabile che chiamiamo mito o miti, dunque con la necessità di “rappresentare dèi e rappresentare eroi” e di dislocare le tensioni contemporanee negli altrove del “tempo senza tempo”; [Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento a oggi è il titolo dell’ultimo libro di Lanza, pubblicato da Carocci nel 2017] con l’aspettativa da parte del pubblico di un messaggio o di una provocazione sui temi capitali del presente, i Greci e i barbari, la pace e la guerra, i rapporti di genere; con un “ritmo tragico” fondato principalmente sull’uso sapiente delle strutture drammatiche, della parola e della musica, e mirato alla capacità di emozionare e di pacificare gli spettatori. Un ritmo che sembra mutare radicalmente dalla tragedia greca a quella senecana, come emerge dall’ultimo percorso di lettura, Finis tragoediae.
Personalmente, più mi confronto con i pochi testi conservati della triade tragica eccellente, più resto convinta che, nella curva dell’emozione individuata e descritta da Lanza, la fase del turbamento prevalga oltre la fine dello spettacolo sui linguaggi della ricomposizione e che l’arte di contenere e di disciplinare l’emozione sia subordinata all’arte di sconvolgere il senso comune e di scatenare con l’emozione il pensiero. Ma non è questo dissenso che conta. A contare nella lezione di Lanza è l’aver individuato l’emozione come fattore primario della comunicazione teatrale antica e l’aver acutamente riconosciuto nella relazione emozionale, diversamente giocata di epoca in epoca tra attore e spettatore, l’essenza del teatro di tutti i tempi.
E il tema dell’emozione è centrale nei saggi magistrali di Lanza La tragedia e il tragico (Noi e i Greci, 1996, pp. 469-505) e De l’émotion tragique aujourd’hui («Europe», Janvier-février 1999, pp. 7081), il primo dedicato alla separazione del senso tragico dalla forma tragedia, a cominciare dall’estetica hegeliana per arrivare allo smarrimento dell’artista e dell’intellettuale del Novecento, il secondo alla relazione che si può tentare di immaginare tra l’orrore assoluto del genocidio nazista e la tragedia antica. Avrebbe potuto la tragedia antica nella sua forma codificata rappresentare lo sterminio collettivo?
Non c’è buon teatro che non emozioni, che non disturbi, che non morda le certezze del pubblico. Anche il teatro epico deve emozionare, le riflessioni che passano per il brivido sono meno effimere e si incidono nei corpi oltre che nella mente. E anche la risata dei comici deve emozionare, se ne può misurare l’efficacia sulla capacità degli attori, specialmente del primo attore su cui si regge la commedia antica, e dei Cori di trascinare il pubblico a ridere di ciò che teme, delle istituzioni e dei potenti ridotti, con le parole e con i gesti, al livello del basso materiale corporeo. Ai dispositivi dell’emozione comica, alla gestualità e al plurilinguismo, Lanza ha dedicato alcune sorprendenti pagine di Lo stolto (Einaudi 1997) e le riflessioni ultime sintetizzate nel saggio introduttivo e nelle note di commento alla sua traduzione degli Acarnesi (Carocci, Roma 2012), una lezione sul comico antico e non solo che va molto al di là di questa specifica commedia.
Questo saggio è già stato pubblicato su «Dionysus ex machina», IX (2018).
Anna Beltrametti
Anna Beltrametti, Per onorare la memoria di Diego Lanza e di Mario Vegetti
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Vite parallele di due uomini,
più complementari
di quanto non fossero simili tra loro,
che ancora giovani hanno insegnato ai più giovani
a confrontarsi, a dialogare,
a mettersi reciprocamente in discussione
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Il 7 marzo scorso Diego Lanza, Professore Emerito dell’Ateneo Pavese e Socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei, si è spento nella sua Milano. A Milano Lanza era nato il 7 gennaio 1937 e lì aveva vissuto, dividendosi tra la città dell’origine e della famiglia e Pavia, città della sua Università, della sua formazione, da alunno del Collegio Ghislieri e scolaro di Adelmo Barigazzi, e del suo magistero lungo oltre quarant’anni. Non è facile scegliere che cosa ricordare di Lanza da parte mia che sono cresciuta nella sua scuola, apprezzandone fin dal primo momento gli stimoli e avvertendo, ora, con piena consapevolezza l’onore e il peso di insegnare da quella cattedra.
Non posso che incominciare ricordando, insieme con Diego Lanza, Mario Vegetti, l’altro nome di quella scuola pavese, l’altra anima di una stagione indimenticabile per chi l’ha vissuta, tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, e di una ricerca allora molto coraggiosa, innovativa e fondativa. Nato a Milano il 4 gennaio del 1937, pochi giorni prima di Diego Lanza, Mario Vegetti se ne è andato l’11 marzo del 2018, pochi giorni dopo l’amico e il collega che aveva salutato platonicamente – eu prattomen, Diego – sulle pagine del Corriere della Sera. Le vite parallele dei due uomini, più complementari di quanto fossero simili tra loro, che ancora giovani hanno insegnato ai più giovani a confrontarsi, a dialogare, a mettersi reciprocamente in discussione per arrivare a discutere i temi e i metodi della ricerca da una prospettiva più ampia e non sempre condivisa fin dal primo momento, sorprendono ancora di più se le ripensiamo ora, dopo la loro morte ravvicinata, nella mancanza che continua ad accomunarli e obbliga a parlare di entrambi.
Incomincio dunque ricordando un momento saliente e decisivo della collaborazione di Lanza e Vegetti, che ricopriva la cattedra di Storia della filosofia antica, e i seminari che approdarono alla pubblicazione della prima e più estesa versione dell’Ideologia della Città, in «Quaderni di Storia» 2 (1975) e successivamente, nel 1977, ai due piccoli volumi collettivi editi da Liguori, L’ideologia della città e Aristotele e la crisi della politica.
Quei contributi e il lavoro da cui erano scaturiti cambiarono il modo di guardare la polis e di leggere le fonti: la città greca passava da oggetto di ammirazione classicistica a oggetto storiografico, si imponeva come realtà inquieta e metamorfica; le fonti erano indagate come rappresentazioni più o meno tendenziose e talvolta concorrenti invece che come resoconti o descrizioni neutrali dei fatti e delle istituzioni. Anche i paradigmi interpretativi venivano posti in causa: in anni di marxismo ortodosso e meccanicamente, anche anacronisticamente, applicato alle testimonianze antiche, Lanza e Vegetti praticavano un marxismo critico e uno strutturalismo moderato, fortemente temperato dall’attenzione per la storia.
Così l’interesse e l’amicizia per i maggiori esponenti della scuola di Parigi – J.P. Vernant, P. Vidal-Naquet, M. Detienne, N. Loraux – che sulla scia di I. Meyerson avevano ricostruito le linee portanti della mentalità condivisa dei Greci antichi, erano stati il punto di partenza per discutere la nozione di mentalità attraverso quella più dinamica e conflittuale di ideologia.
Dopo la laurea con Adelmo Barigazzi nel 1959 e la specializzazione al Maximilianeum di Monaco di Baviera, Diego Lanza era tornato a Pavia da assistente e poi da assistente incaricato. Dal 1968, inseguito al trasferimento di Barigazzi a Firenze, Lanza aveva insegnato prima Letteratura greca, quindi, in seguito alla chiamata sulla cattedra pavese di Giovanni Tarditi, negli anni 1970-1974, Storia della lingua greca, e di nuovo Letteratura. Portava nella sua ricerca e nel suo insegnamento tracce chiare del maestro Barigazzi che nel 1951 aveva introdotto a Pavia la filologia di scuola fiorentina, praticandola e insegnandola per ben diciassette anni. Per comprendere la svolta segnata da Barigazzi, non si deve dimenticare che la cattedra di Letteratura greca di Pavia era stata per almeno un ventennio il più combattivo centro italiano degli “antitedescanti”, negli anni 1915-1918 del magistero di Giuseppe Fraccaroli e quindi negli anni 1918-1935 di Ettore Romagnoli, né che era stata poi, per circa un quindicennio, vacante, affidata per incarichi pro tempore e quindi coperta con la chiamata dell’insigne latinista, latinista non grecista, Enrica Malcovati. Sotto la guida di Barigazzi, Lanza aveva pubblicato i primi saggi sulla tragedia euripidea e si era affermato, con l’edizione critica dell’Anassagora, nel 1966.
Una prova, questa, di tecnica filologica e, al contempo, il segno di una profonda attenzione per il pensiero filosofico che in seguito lo avrebbe condotto, nel 1971, ad Aristotele, ai primi studi sulla Politica e sulla Costituzione degli Ateniesi, quindi alla traduzione e al commento delle Opere biologiche in collaborazione con Mario Vegetti.
Nei primi anni Ottanta, con l’istituzione del corso di Storia del teatro e della Drammaturgia antica destinato anche agli studenti non classicisti, Lanza tornò sistematicamente al teatro, tragico e comico, con la passione che gli veniva non solo dalla filologia, ma anche dalla famiglia: suo padre, Giuseppe Lanza, era stato drammaturgo e critico teatrale e nel primo dopoguerra aveva preso a portare con sé il figlio ancora bambino agli spettacoli e ai dibattiti milanesi.
In seguito e in conseguenza di questa ripresa, nel 1987, dunque nella piena maturità, Lanza arrivò a far convergere gli interessi filosofici e quelli teatrali nell’edizione della Poetica di Aristotele, un testo di cui si possono discutere alcune scelte particolari, ma che nell’impianto complessivo segna la storia degli studi, con il ridimensionamento della catarsi e la separazione di Aristotele dall’aristotelismo, di maniera che ne è seguita un’edizione che resta un riferimento per gli studiosi.
Dieci anni dopo, nel 1997, con la raccolta di saggi in La disciplina dell’emozione, Lanza manteneva viva l’attenzione per la drammaturgia e, nel 2000, sosteneva la fondazione del CRIMTA (Centro di Ricerca Interdipartimentale Multimediale sul Teatro Antico) presso l’allora Dipartimento di Scienze dell’Antichità. Nel teatro attico e nei dialoghi platonici, Lanza aveva riconosciuto i luoghi privilegiati del tiranno, dunque del potere e delle sue degenerazioni, e dello stolto, come dire della verità aurea occultata nella bruttezza e nella ingenuità apparente del Sileno-Socrate.
Le due figure danno il titolo a due libri noti di Lanza, Il tiranno e il suo pubblico del 1977 e Lo stolto del 1997, e possono essere considerate chiavi di volta del suo lavoro sempre a doppio taglio, di studioso delle culture antiche, di quella greca in particolare, e degli interpreti più illustri di quelle culture, dunque di storia della filologia.
E in qualità di filologo e di storico della filologia, Lanza condiresse o fu consulente delle maggiori opere collettive tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo secolo: insieme con Giuseppe Cambiano e Luciano Canfora, fu condirettore di Lo Spazio letterario della Grecia antica (Roma, Salerno Editore 1991-1996) e collaborò con Salvatore Settis nell’ideazione e nella realizzazione di I Greci (Torino, Einaudi 1996-2002).
Uomo difficile, ma intellettuale appassionato, Lanza ha coltivato i temi in cui credeva fino alla fine. Lo testimoniano gli ultimi libri, La filologia dopo la guerra. Nuove prospettive, curato insieme con Gherardo Ugolini e pubblicato presso Carocci nel 2016 e Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento a oggi, ancora edito da Carocci alla fine del 2017, un testo molto personale, in cui si possono intraleggere i lasciti più significativi della sua scrittura e del suo insegnamento, la testimonianza di un mestiere che deve necessariamente avvalersi di tecniche filologiche precise, ma che deve altrettanto necessariamente motivarsi di curiosità filosofica e di impegno politico per restituire correttamente il pensiero degli antichi e rimetterlo, senza forzature né imposture, nel circolo vivo del pensiero contemporaneo.
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Intervento letto il 16 giugno 2018 all’Assemblea
della Consulta Universitaria del Greco
Massimo Stella
Diego Lanza (7-1-1937 / 7-3-2018) e Mario Vegetti (4-1-1937 / 11-3-2018)
Massimo Stella, Per onorare la memoria
di Diego Lanza e di Mario Vegetti
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La riedizione, apparsa per Bompiani nel novembre scorso, delle Opere biologiche di Aristotele tradotte, commentate, introdotte da Diego Lanza e Mario Vegetti e pubblicate da UTET nel 1971 (2° ed. nel 1996), per la collana “I classici della scienza” allora diretta da Ludovico Geymonat, offre l’occasione di ricordare alla comunità dei lettori italiani (che già conoscono l’opera, che ancora non la conoscono, studiosi o cultori del mondo antico) l’importanza di questo imponente lavoro nel panorama bibliografico internazionale dell’antichistica e, più in generale, della storia del pensiero occidentale. Lavoro “imponente” si diceva, lavoro fondamentale nella storia degli studi filologici, epistemologici, filosofici, quanto di rottura: è lo snodo cruciale tra anni Sessanta e anni Settanta, e per un certo tipo di intellettuale marxista, autenticamente radicale e libertario, come lo furono convintamente durante tutta la loro attività Diego Lanza e Mario Vegetti, la tradizione umanistica, insieme al suo storicismo di matrice idealistica e al suo culto delle belles lettres rimodellato wilamowitzianamente da edificio scientifico dei realia, non poteva più convivere (per molti classicisti continuava e continua, invece, a farlo) con quella Kulturkritik che deriva la sua origine specifica dall’economia politica (prima ancora che dalla filosofia politica) di Marx.
Lanza e Vegetti non erano certo figure disponibili al compromesso tra conformismo accademico e esercizio del pensiero. Ora come allora, dunque, non si può capire assolutamente nulla della ricerca di Lanza e di Vegetti intorno alle opere biologiche di Aristotele se non si parte da tale premessa, soprattutto perché proprio essa è la ragione strutturale e immediata dell’innovatività scientifica unanimamente riconosciuta dagli aristotelisti all’opera dei due studiosi. Ed è un’innovatività ancora oggi fiammante giustamente per quella sua impostazione marxista, della quale vorrei ricordare qui di seguito i punti essenziali. Innanzitutto, Lanza e Vegetti guardano ad Aristotele (come sempre, in generale, guardavano all’Antico) a partire dalla Modernità: non si tratta di un posizionamento storico (o tantomeno attualizzante) bensì analitico, nel tentativo di tracciare i limiti linguistici e discorsivi (entrambi condividevano l’archeologia foucaultiana) dell’osservazione e della riflessione di Aristotele sull’animale, sul funzionamento delle sue parti e della sua struttura – fermo restando il fatto che, sia chiaro, l’unico tratto di discontinuità tra l’animale e l’uomo è la sophia.
Il costante riferimento alla biologia, alla fisiologia e alla zoologia moderne, tra Harvey e Linneo, tra Cuvier, Lamark e Darwin, è dunque essenziale ai due curatori per definire lo stile di razionalità (non dunque il “razionalismo”) aristotelico nelle sue caratteristiche intrinseche insieme al linguaggio che gli corrisponde. Ne risulta che la biologia di Aristotele è un sapere antropologico, calato nella memoria collettiva, e tuttavia dislocato dalla teoria e dal teorico sull’ulteriore livello dell’argomentazione. Ciò significa riconoscere alla biologia di Aristotele lo statuto di pensiero scientifico, nel quadro, però, di una prospettiva completamente differente da quella positivista ed evoluzionista, sostenuta, ad esempio, da Jaeger. Piuttosto e alternativamente, la biologia aristotelica, nella lettura di Lanza e di Vegetti, ci restituisce il lato fenomenologico della scienza, cioè il movimento teoretico-linguistico interno ad un sapere dell’esperienza che, tutt’al contrario e in modo decisamente retrogrado, l’umanesimo storicista considera risolto nella verifica. A questo proposito, Lanza e Vegetti sottolineano che la linea di demarcazione spesso tracciata tra scienza moderna e scienza artistotelica dagli odierni epistemologi sul filo della speculazione finalistica è una forzatura dovuta al peso della tradizione medievale, perché la dottrina biologica di Aristotele non si fonda tanto sulla causalità finale, quanto piuttosto sulle modalità causali.
La vita stessa, secondo Aristotele, non è altro se non una particolare forma o struttura assunta dalla materia. E si tratta di un elemento particolarmente importante da sottolinare, in questa sede, soprattutto per spirito di servizio ai lettori, perché il titolo editoriale della riedizione Bompiani è: “Aristotele. La vita” (formula che scarta dal denotativo titolo UTET della 1° e della 2° edizione: “Opere biologiche”). Lanza e Vegetti sono molto chiari nel merito: la scienza biologica di Aristotele non si pone, infatti, il problema della “vita”, nell’accezione “vitalistica” del termine, l’anima stessa essendo semplicemente la struttura funzionale del corpo. E d’altra parte, per Lanza e per Vegetti, la conciliazione tra l’Aristotele biologo e l’Aristotele metafisico è un atto di pura falsificazione. Piuttosto, c’è uno psichismo tutto biofisiologico del corpo animale legato alle funzioni della percezione e della memoria: ed è Lanza in particolare a studiare da vicino, nelle sue note di commento e nelle introduzioni alle opere psicologiche, i processi di acquisizione conoscitiva (dall’esterno verso l’interno del corpo) e quelli che, invece, si originano in un impulso (dall’interno del corpo verso la realtà esterna), veri e propri dinamismi psicomotori in cui è possibile riconoscere un interessante anticipazione del concetto ben più recente di “stimolo nervoso”. C’è poi l’altra importante intuizione aristotelica intorno al legame tra l’attività psicomotoria e l’immaginazione: vista dalla parte della macchina corporea, l’immaginazione non è il gioco del “fantasticare”, bensì il prodotto dell’incontro e dell’intreccio tra esperienza somatica e rielaborazione emotiva di quella stessa esperienza. Ne è un chiaro esempio il funzionamento del ricordo, descritto da Aristotele nel De memoria come il vorticare di una forma in un fluido, posto che l’equilibrio dei fluidi (e soprattutto del sangue) è il perno della fisiologia aristotelica. Possiamo davvero dire, dunque, che, nell’intero panorama del mondo antico, è proprio Aristotele a scopire il corpo nella sua natura strutturalmente mista di biologico e di pulsionale, aprendo, di fatto, problemi che soltanto, per un verso, le ricerche di Piaget (la sua psicogenesi della conoscenza, i suoi studi sulla costruzione dell’intelligenza e sulla capacità mimetica umana), e, per l’altro, la psicoanalisi pre-freudiana e freudiana avrebbero esplorato fecondamente a cavallo tra XIX e XX secolo (sia detto incidentalmente: se l’attuale trend neuroscientifico degli studi letterari ritornasse all’Aristotele “psicologo” ci guadagnerebbe in apertura).
Questa riedizione Bompiani (ARISTOTELE. LA VITA. Ricerche sugli animali, Le parti degli animali, La locomozione degli animali, La riproduzione degli animali, Parva naturalia, Il moto degli animali, con un aggiornamento bibliografico a cura di Giuseppe Girgenti e una bibliografia degli scritti di Diego Lanza e Mario Vegetti, pp. 2363, 60 euro), ha il merito di rendere nuovamente e materialmente disponibile in libreria per il grande pubblico le Opere biologiche apparse per UTET nel 1971, tenendo così viva la testimonianza di un lavoro che rappresenta, al di là del suo altissimo apporto specifico agli studi aristotelici, un esemplare saggio di metodologia marxista senza obbedienze diplomatiche o fideistiche a nessun accademismo culturale e politico.
Credo che oggi – in questi nostri tempi di “caduta delle ideologie” e, per fatale conseguenza, di studi “alla moda” i cui i risultati sono sempre più spesso oggettistica di mercato e poco più che rassegne bibliografiche aggiornate all’ultima segnalazione google – sia importante ribadirlo: un’opera scientifica che resti fondamentale e duratura non è mai costruita primariamente sull’informazione e sul rispecchiamento delle tendenze en vogue, e nemmeno sulla pur nobilissima erudizione, ma su esatte scelte di pensiero che posizionino lucidamente lo sguardo critico a distanza strategica dalla struttura dei fatti e dei fenomeni analizzati.
[Saggio già pubblicato su Alias, il manifesto, 3-2-2019, p. 7].
Massimo Stella
Massimo Stella, Per onorare la memoria di Diego Lanza e di Mario Vegetti
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Tempo senza tempo: così si intitola il libro di Diego Lanza dedicato all’indagine teorica sul mito dal Settecento ad oggi (Carocci, settembre 2017). E’ un titolo che va in profondità: perché il “tempo senza tempo” è quello non di ciò che è accaduto, e nemmeno di ciò che immaginiamo, ma di ciò che abbiamo appreso.
Zakhòr, “Ricorda!”: ecco la dimensione del mito.
Questo libro, che in ordine di tempo è il suo ultimo, dice molto del modo di studiare di Diego Lanza e del suo modo di comunicare con il lettore o, per chi ricorda le sue lezioni e le sue conferenze, con l’ascoltatore: chi lo apre vi ritroverà il mestiere di filologo classico vissuto in senso convintamente antistoricistico e in opposizione all’umanesimo letterario e letterato, proprio perché svolto, quel mestiere, come esercizio di coscienza e di critica storico-materiali; vi ritroverà l’attenzione parallela per il mondo moderno e per il mondo antico, per la poesia e la scrittura dell’uno e dell’altro, come per le credenze e le pratiche religiose degli Antichi, depositate nell’epica, nel teatro, nelle opere dei filosofi e degli storici, e per l’esegesi vetero e neotestamentaria, vista dalla parte del Cristianesimo riformato, con spirito strutturalmente antidottrinario; ritroverà la conoscenza e l’interesse per le letterature e la filosofia europee, e l’interesse peculiare per quelle tedesca e francese, non solo e non tanto per professione intellettuale, ma per fiducia in quell’Internazionalismo politico e culturale che ha costruito l’identità dell’Intellettuale comunista nella nostra Europa, dal Manifesto del Quarantotto al Dopoguerra; e infine l’uso di uno stile e di una prosa sorvegliati, misurati, costituzionalmente antiretorici, che incidono con la precisione concettuale, mai con l’erudizione accademica, emozionando con gli strumenti, e l’intrinseca ironia, del pensatore, mai con l’effetto di parola: gli stimoli d’inquietudine che dalla scrittura delle sue opere provengono sino a noi, risalgono sempre dal sottofondo e dalla consistenza dei problemi affrontati.
Libri di problemi, appunto, sono quelli di Lanza, per lettori che vogliono incontrare domande decisive sul mondo antico nei suoi rapporti e legami con la Modernità. La disciplina dell’emozione (il Saggiatore, 1997) [una nuova edizione è in corso di stampa presso Petite Plaisance, Pistoia] ci mette di fronte a un interrogativo fondamentale: che posizione prendere, come spettatori, di fronte a una tragedia? e dunque: qual è il gioco cui una drammaturgia tragica espone il suo pubblico?
«La paziente ricostruzione delle condizioni operative ed espressive del teatro di venticinque secoli fa non vuol dunque assolutamente rivendicare uno sterile diritto dei filologi sulla tragedia greca, di fronte al necessario, fecondo riappropriamento della gente di teatro. […]Penso che proprio tentare di indicare i tratti espressivi e simbolici operanti sul pubblico di allora può permettere di interrogarsi più chiaramente su quali siano oggi le forme di espressione e di simbolicità più idonee a ricreare l’antica emozione, a interrogare il testo come uomini d’oggi (p.11)».
Il teatro tragico degli antichi acquista senso per Lanza quando lo si consideri nella sua specifica natura di oggetto drammaturgico, cioè, in altre parole, come dato d’esperienza: ma, allora, in che modo recuperare quell’esperienza? in che modo riattivarla (soprattutto se si tratta di venticinque secoli fa)? e come e quanto importa questo lungo lasso di tempo?
La filologia e l’antropologia sono senza dubbio uno strumento irrinunciabile a tal fine, ma non bastano: è fondamentale conoscere anche il mestiere del teatro (oltre che la sua storia) fino ad oggi… Ecco in che senso la filologia e l’antropologia di Lanza sono una filologia e un’antropologia di problemi. Stesso approccio strutturale alla commedia, di Aristofane, innanzitutto. Ma con un’apertura ulteriore, nel caso della commedia aristofanea: la questione, cioè, della critica intellettuale alla Ragione, dove, per “Ragione” non si intende solo la Raison, ma le molte e frastagliate forme della ragione discorsiva, filosofica, storico-politica, economica, da Aristotele al razionalismo classico francese (fino almeno) a Kant.
Quando, infatti, decide di scrivere un libro sul comico antico, Lanza non pubblica un’opera su Aristofane e sulla commedia greca, ma Lo stolto. Si Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune (Einaudi, 1997), un lavoro complesso, di prospettive culturali e storiche assai vaste, densamente intessuto di citazioni testuali e altrettanto annotato, soprattutto insolito – “trasgressivo”, appunto, come già annuncia la parola “trasgressori” del sottotitolo. E la trasgressione fondamentale che si compie in questo libro è la transizione dalla lingua dello stolto (il buffone) protagonista della scena aristofanea, e dai suoi mondi paradossali, assurdi, stralunati, al Socrate di Platone, proprio quel Socrate comunemente considerato “padre della filosofia” o più sottilmente, ma altrettanto generalmente, preso come maschera del filosofo platonico (se non di Platone stesso).
Ciò che interessa, invece, a Lanza è, nel segno dello Stolto e di Socrate, il legame tra il riso e il pensiero, nel momento in cui il pensiero si trova nudo di fronte al ridicolo, al lazzo, all’assurdo, all’insensato, al pazzesco, e allora si scopre che quella stoltezza pensa Noi, in modo imprevedibilmente diverso da come noi penseremmo, secondo ragione, noi stessi. C’è qui una sovversione senza compromessi, perché capace di intaccare i dispositivi immunitari del sapere e dei saperi, del potere e dei poteri, sovversione messa a fuoco per illuminare una trasformazione che riguarda da vicino la nostra società postdemocratica e postmoderna: una società di sudditi dominati e omologati dal dispositivo retorico della flessibilità e del pluralismo, «segnata dall’irrevocabile scomparsa di ogni efficace stultitia (p. 244)» e condannata a un’idiozia comune (la cosiddetta “fine delle ideologie”).
E non è certo una posa, questa, di Lanza: viene, e non contraddittoriamente, ma conseguentemente, da uno dei maggiori esperti e studiosi, nazionali e internazionali, della razionalità aristotelica, per un verso, e della razionalità politica classica, per l’altro: viene da un editore della Poetica (Rizzoli, 1987) e delle Opere biologiche (con Mario Vegetti, Utet, 1971), da un profondo conoscitore di quei libri che oggi impropriamente continuamo a chiamare Retorica, Fisica, Metafisica; e viene, poi, dall’autore dell’Ideologia della città (1975, con Mario Vegetti).
Alcuni libri
di
Diego Lanza
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Contiene il saggio: Alla ricerca del tragico.
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Clitennestra si presenta al pubblico con la spada levata, ancora sporca del sangue di Agamennone; Edipo mostra agli spettatori le orbite vuote dopo essersi accecato; Agave agita trionfalmente la testa mozzata del figlio. Per tutta la durata del quinto secolo i tragediografi non risparmiarono al loro pubblico le emozioni più intense. Ma perché oggi, dopo 2500 anni, queste emozioni puntualmente si rinnovano, perché ne avvertiamo ancora la necessità? Che senso possono avere per noi quelle antiche storie di dèi ed eroi? Questo libro ricostruisce con vivacità le circostanze storiche e le regole istituzionali della tragedia greca, conducendoci a considerarne la funzione sociale e a penetrare nel suo ricco patrimonio simbolico. È uno strumento soprattutto per intendere la polifonia del dettato tragico, il susseguirsi dei diversi ritmi drammatici, l’uso degli attori e del coro, in una parola il complesso funzionamento della macchina teatrale di cui i tragici greci furono maestri a tutto il teatro europeo.
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Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune, Einaudi, 1997
Lanza sviluppa la sua ricerca delle diverse figurazioni della “stultitia” recuperandole in Aristofane e in Platone, in Andersen e Collodi, Cervantes e Woody Allen e sottolineando come sia lo stolto che la stoltezza non costituiscono né un elemento chiaramente definibile una volta per tutte, né una figura semplicemente ripetitiva. La “stultitia” è infatti un’incognita a cui di volta in volta viene attribuito ciò che disturba il senso comune, ciò che in quel momento è considerato ridicolo, ripugnante o riprovevole. Così la figura dello stolto è mutevole, essa cambia infatti con il trasformarsi dello stesso senso comune e della razionalità che la definiscono: Socrate, Pinocchio, Till Eulenspiegel, Calandrino, Zelig, sono esempi in questo senso.
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Aristofane, Acarnesi, Introd. traduz. e commento di Diego Lanza, Carocci, Roma 2012.
Acarnesi, la prima commedia del giovane Aristofane giunta fino a noi, vede Atene impegnata nel quinto anno di guerra contro Sparta. Dal miraggio della pace, che appare ancora remota, muove la vicenda rappresentata: la tregua che il protagonista riesce a concludere privatamente con il nemico e i benefici che ne conseguono. La commedia mostra già tutta la maestria compositiva e linguistica del grande comico. La traduzione che accompagna il testo rispecchia efficacemente la vivacità della scrittura aristofanea, con il variare dei ritmi, i continui scarti stilistici, i giochi allusivi e manipolatori della lingua. L’introduzione e un agile commento accompagnano il lettore alla scoperta della complessa partitura drammaturgica che si rivela a un’attenta considerazione del testo.
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Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Otto e Novecento, Carocci, 2013.
I maggiori studiosi del mondo classico degli ultimi due secoli hanno sempre avuto occhi e orecchi attenti al rapporto tra la loro disciplina e la società in cui vivevano. Il libro ripercorre le esperienze di alcuni grandi maestri dell’antichistica: Friedrich August Wolf tra Goethe e Schelling, Wilamowitz e Nietzsche di fronte all’affermarsi dell’impero prussiano, Werner Jaeger e Bruno Snell nell’Europa lacerata dall’avvento del nazismo, Jean-Pierre Vernant tra marxismo e strutturalismo, fino al filologo immaginato da Thomas Mann come suo alter ego nel Doctor Faustus, nella ricorrente memoria dell’intransigenza di Lutero e della compiacente tolleranza di Erasmo da Rotterdam. Il lettore è così condotto, fuori di ogni tecnicismo ma sempre nel merito della disciplina, fino al più recente classicismo invocato come fulcro di una pretesa identità occidentale.
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Con G. Ugolini, Carocci, 2016.
Il volume traccia un profilo storico della filologia classica negli ultimi due secoli e mezzo, da quando cioè si è venuta definendo come disciplina autonoma, focalizzando l’attenzione sugli snodi teorici e metodologici attraverso cui si è sviluppata, sulle figure degli studiosi più significativi, sulle discussioni e le polemiche che ne hanno segnato il procedere, sui nessi con lo sfondo istituzionale e il contesto storico in cui ha operato. Il percorso diacronico è scandito in tre parti. Nella prima si parte dal modello della filologia anglosassone di Richard Bentley per arrivare all’istituzionalizzazione della disciplina nel mondo accademico tedesco (Heyne e soprattutto Wolf) e nella realtà scolastica (Wilhelm von Humboldt). Nella seconda si analizzano i contributi teorici e le principali dispute metodologiche che hanno avuto come protagonisti, tra gli altri, Lachmann, Hermann, Boeckh, Nietzsche e Wilamowitz. La terza e ultima parte è dedicata alla ridefinizione degli studi classici in Germania (Jaeger) e in Italia (Pasquali), all’apporto della papirologia, alle nuove immagini dell’antichità venute a delinearsi nelle opere di scrittori, narratori, registi e traduttori del nostro tempo, e infine ai personaggi più significativi degli ultimi decenni: Snell, Dodds, Vernant, Gentili, Loraux.
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Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento a oggi, Carocci, 2017.
Che cos’è un mito? La sua definizione dipende dal contenuto, dalla struttura narrativa o dalla funzione sociale che assolve? Con questo tema si sono confrontate eminenti figure di studiosi di diversa origine e differenti interessi: Heyne, Nietzsche, Propp, Mann, Lévi-Strauss, Pavese, solo per citarne alcuni. Le loro riflessioni hanno mostrato che i racconti che definiamo miti hanno costituito o continuano a costituire un’espressione particolarmente significativa dell’immaginario di una società, di cui compendiano fedi religiose, credenze comuni, paradigmi di comportamento. Rievocando i termini essenziali di questo bisecolare dibattito, l’autore ne evidenzia i rapporti con il più vasto processo di trasformazione intellettuale della società europea.
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Con Mario Vegetti.
Alcune sue teorie furono confutate solo nel Settecento, altre ancora dopo. La biologia di Aristotele (Stagira 383/4 a.C. – Calcide 322 a.C.) è studio scientifico di tutti i viventi, espressa attraverso trattati e trattatelli costituiti da appunti, dispense, opere interne alle aule del Liceo, non di prima mano del maestro. D’altra parte in tale veste ci sono giunte quasi tutte le opere aristoteliche, ben poco abbiamo di quelle rifinite, lineari, rivolte al pubblico esterno alla scuola. Dai trattati sui viventi dobbiamo aspettarci dunque un linguaggio a tratti aspro, ripetitivo, non sempre coerente, che molto fa rimpiangere l’assenza della voce di Aristotele che glossava, aggiungeva, spiegava. Siamo inoltre di fronte a due enormi novità: prima, non esisteva una scienza dei viventi, inoltre prima di Aristotele nessuna scienza era espressa in testi che non mescolassero diverse discipline, senza escludere la teologia e il sacro. Qui invece troviamo le “Ricerche sugli animali”, che descrivono quasi seicento specie diverse di animali direttamente osservati, classificati nelle “Parti degli animali” con la distinzione fondamentale tra ovipari e vivipari, nonché per esempio l’attribuzione di balene e delfini ai mammiferi, per il loro respirare tramite polmoni e non tramite branchie. La “Riproduzione degli animali” descrive la riproduzione sessuale, intesa come l’infusione attiva della forma da parte del maschio nella materialità della femmina. A brevi opere sulla percezione, la memoria, il sonno, i sogni, la lunghezza della vita e la respirazione segue il trattatello sul Moto degli animali, movimento che viene ricondotto alla forza di un assoluto primo immobile, necessario a ogni forma di mobilità.
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«aut aut» n. 184. Nuove antichità (Vernant, Lanza, Sircana, Casagrande, Vecchio, Ferrari).
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Rossella Saetta Cottone, Philippe Rousseau,
Diego Lanza, lecteur des œuvres de l’Antiquité, OpenEdition Books