Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.
La gioventù chinata sulle macchine
muore prima del suo tempo.La fabbrica cattura le loro lacrime
prima che abbiano la possibilità di cadere
Ho ingoiato il trambusto e l’indigenza
ingoiato ponti pedonali, vita coperta di ruggine.
Salari negati con vari pretesti
come l’amore, che i giovani operai seppelliscono
nel fondo dei cuori.
Senza il tempo per esprimersi,
il sentimento si sgretola in polvere.
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Fernanda Mazzoli, La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto
«Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita»:[1] con questa lapidaria sentenza, Paul Nizan iniziava il racconto della sua fuga dall’Europa del primo dopoguerra verso un vagheggiato ed immaginario paradiso orientale. Non so se Xu Lizhi conoscesse Nizan; probabilmente no, ma avrebbe quasi certamente sottoscritto la sua perentoria affermazione. Infatti, i suoi vent’anni si sono consumati in fretta nell’inferno della Foxconn, la più grande multinazionale al mondo di assemblaggio di componenti elettronici, il cui modello produttivo è caratterizzato, oltre che dall’elevato livello di sfruttamento, dall’incorporazione della vita privata dei dipendenti nello spazio lavorativo stesso, in una riuscita combinazione di taylorismo, fordismo e toyotismo. La protesta di Xu Lizhi contro un’esistenza divenuta insostenibile, divorata da un inesorabile meccanismo predatorio, ha preso il vicolo cieco del suicidio. A ventiquattro anni, la forza di continuare «la lotta incessante» lo ha abbandonato e ha scelto di rifugiarsi in un’oscurità senza ritorno.
Vorrei alzarmi più di chiunque altro
ma le mie gambe non mi reggeranno.
Il mio stomaco non reggerà,
tutte le ossa del mio corpo non collaboreranno.
Posso solo rimanere steso
In questa oscurità, inviando
un silenzioso segnale di pericolo, ancora e ancora
solo per sentire, ancora e ancora
l’eco della disperazione.[2]
Nessuno, apparentemente, ha risposto al segnale lanciato: non i compagni di lavoro, tesi allo spasimo come lui a reggere ritmi di lavoro intollerabili , privati del tempo minimo necessario per parlare e ascoltare, assorbiti nel ciclo ininterrotto fabbrica (12 ore al giorno in media) e dormitorio dove recuperare nel sonno le energie utili per riprendere la produzione, isolati gli uni dagli altri, secondo un rigido sistema di controllo che prevede che persone provenienti dalla stessa regione non possano lavorare alla stessa catena di montaggio; non il sindacato sostanzialmente assente, non le autorità cinesi che solo un’ondata di suicidi di operai registratasi tra 2010 e 2011 (Xu si è ucciso nel 2014) ha spinto a costituire un gruppo d’indagine per la soluzione dei casi.[3]
Né c’è da stupirsene, se si considera che la Foxconn ha potuto contare sul sostegno del governo cinese, interessato a rafforzare l’industrializzazione nelle regioni centrali e occidentali del Paese.
Prima di dichiararsi sconfitto, Xu Lizhi ha lottato e lo ha fatto scrivendo, strappando un irriducibile spazio di libertà a questo moderno Leviatano, i cui spiriti animali lasciati liberi di espandersi , hanno compresso nella gabbia d’acciaio del regime di fabbrica la sua vita e quella di oltre un milione di uomini, in Cina – dove la multinazionale nata a Taiwan dispone di ben 32 stabilimenti – o nel resto del mondo (ivi compresi alcuni Paesi dell’Europa Orientale) dove conta 200 succursali, le condizioni di lavoro all’interno delle quali sono scarsamente documentate.
Quel poco che sappiamo di Xu, lo dobbiamo a lui stesso, a quella manciata di poesie cui ha consegnato quel che gli restava di vita, e di forza, segnale di una luce tenue ed invincibile fiammella di resistenza dell’umano nell’inferno di un capitalismo selvaggio, dove i demoni deputati a straziare i dannati hanno preso il volto asettico ed anonimo della macchina i cui potenti ingranaggi richiedono senza soluzione di continuità l’offerta sacrificale di forze fresche e interscambiabili.
Sono i lavoratori stessi a percepirsi in questi termini. Nel corso di una ricerca condotta all’interno delle fabbriche della Foxconn da un gruppo di ricercatori e studenti cinesi, alla domanda «Come vedi il tuo ruolo nella fabbrica?», un’operaia ha sintetizzato magistralmente la condizione sua e dei compagni, affermando: «Veniamo usati come mangime per le macchine».[4] E Mangime per le macchine è il titolo che l’Istituto Onorato Damien ha scelto di dare a una raccolta di poesie di Xu Lizhi, tradotte dall’inglese da Annamaria Lavecchia.[5]
Questo sconosciuto poeta operaio, questo ragazzo schiacciato dalla cieca necessità genuflessa alle leggi indiscutibili del profitto, della produttività e della competizione, ci viene incontro attraverso la grande distanza che ci separa da lui – spazio geografico e spazio esistenziale – con la sua parola, sobria, precisa, affilata come la lama del suo dolore. E lo vediamo nello scorrere dei suoi giorni, così diversi dai nostri da costringerci a squarciare il velo invisibile steso sopra il nostro habitat quotidiano.
Ed è davanti a noi
Alla catena di montaggio rigido come il ferro,
le mani che volano
quanti giorni, quante notti.
È proprio così che mi sono addormentato in piedi?[6]
E lo vediamo ingoiare «una luna fatta d’acciaio» e
queste acque di scolo industriali,
queste carte di disoccupazione
la gioventù chinata sulle macchine
muore prima del suo tempo.
Ho ingoiato il trambusto e l’indigenza
ingoiato ponti pedonali, vita coperta di ruggine.[7]
Lui e i suoi compagni, minuscole rotelle nel gran meccanismo della produzione trasformata in destino individuale e collettivo,
hanno stomaci forgiati nel ferro
pieni di acido denso, solforico e nitrico.
La fabbrica cattura le loro lacrime
prima che abbiano la possibilità di cadere
[…]
la piallatrice scortica la pelle
e mentre lo fa li ricopre di uno strato d’alluminio.[8]
La sua voce, facendosi largo miracolosamente attraverso l’oscurità di una vita incerta, facilmente rimpiazzata alla catena di montaggio da un’altra altrettanto anonima, e di una morte prontamente derubricata dalla direzione aziendale alla voce «suicidio per crollo psicologico», rende agli oggetti che popolano con apparente naturalità il nostro universo quotidiano tutto il loro peso di lacrime e sangue, di sfruttamento scientificamente programmato e di vite negate, affinché computer, smartphone, tablet e consimili feticci della modernità possano imporsi alla scelta del consumatore con un prezzo concorrenziale nel variopinto e luccicante baraccone del libero mercato.
Perché i soldatini del grande esercito che si muove sotto le pacifiche bandiere del Consumo possano permettersi uno smartphone con il quale deliziare i conoscenti con le amene foto del loro ultimo viaggio, o del loro ultimo paio di scarpe, o dell’ultimo figlio e possano ricevere in cambio le stesse gratificanti immagini, occorre che «quotidianamente ogni operaio e ogni operaia nella linea di produzione esegua dai 18000 ai 20000 movimenti per turno di lavoro».[9]
La velocità innanzitutto, già inglobata nel nome dell’azienda: si tratta di produrre prese (connector) con la rapidità di una volpe (fox). Come dicono alcuni dei lavoratori intervistati alla Foxconn: «Dobbiamo essere più macchine delle macchine stesse». E ancora: «Gli estranei dicono spesso che noi saremmo delle macchine. Sbagliato, noi non siamo macchine. Dobbiamo essere più veloci delle macchine».[10]
«Persino la macchina ciondola il capo / officine sigillate ammassano acciaio ammalato»,[11] annota Xu dal fondo dell’inferno che non risparmia niente e nessuno, vittima della sua stessa hybris che si fonda su un gigantesco sforzo di autosuperamento, per vincere la corsa nella grande sfida del mercato globale. Dove «il dolore fa gli straordinari giorno e notte» e l’uomo è un prolungamento della macchina ai fini della sua migliore efficienza, i più si perdono, nello sfinimento, nella malattia, nel silenzio.
Xu, prima di arrendersi, affida a qualche foglietto la vita che non può fare a meno di scorrere in lui, anche nella sua stessa negazione.
Salari negati con vari pretesti
come l’amore, che i giovani operai seppelliscono
nel fondo dei cuori.
Senza il tempo per esprimersi,
il sentimento si sgretola in polvere.[12]
Lui, «addestrato ad essere docile», incapace di trovare il grido della rivolta e della denuncia, per non diventare cosa o materiale organico per le macchine, si aggrappa a una carta ingiallita e a un pennino.
La carta davanti ai miei occhi ingiallisce
con un pennino d’acciaio la incido di un nero irregolare pieno di parole
come officina, catena di montaggio,
macchina, libretto di lavoro, straordinari, salari …[13]
Ritrova se stesso solo al di fuori di questo spazio claustrofobico, nello squarcio dell’evocazione di un nonno mai conosciuto – se non attraverso i racconti dei vecchi del suo paese – nel quale egli sembra, a loro dire, rivivere.
Quasi provenissimo dallo stesso grembo
mio nonno ed io abbiamo in comune
l’espressione del viso, il temperamento, le passioni.[14]
Dietro il giovane operaio del distretto industriale del Guangdong, si disegnano una comunità di villaggio e una famiglia, con le sue storie che si intrecciano con la Storia.
Nell’autunno del 1943
I diavoli giapponesi ci invasero
e lo bruciarono vivo.
Aveva 23 anni,
quest’anno anche io compio 23 anni.
Xu Lizhi era un operaio migrante, uno dei tanti ragazzi[15] spinti da un’economia agraria poco redditizia ad abbandonare il villaggio d’origine per cercarsi un lavoro più promettente e finiti nell’ingranaggio della fabbrica-caserma e del dormitorio annesso.
Uno spazio di dieci metri quadri
ristretto e umido,
mai luce del sole tutto l’anno.
[…]
Ogni volta che apro la finestra o il cancello di vimini
somiglio a un uomo morto che lentamente
tenta di sollevare il coperchio di una bara. [16]
Il ragazzo, che la fabbrica globale non ha interamente assoggettato al suo angusto orizzonte, vorrebbe guardare ancora una volta l’oceano, scalare le montagne, toccare il cielo, riprendersi l’anima che ha perso. Sopraffatto dal sentimento della sua impotenza e della sua solitudine, volta le spalle a un mondo al quale non vuole adattarsi ,ma contro il quale non riesce a ribellarsi e «salta»[17], cogliendo con scarne parole, agghiaccianti proprio in virtù del loro tono pacato, il senso della sua vita mancata e della sua morte prematura.
Chiunque abbia sentito parlare di me
non si sorprenda del mio abbandono
tanto meno sospiri o soffra.
Come in punta di piedi sono arrivato così me ne andrò. [18]
Uno dei tanti che non ce l’ha fatta, una vita di scarto che non merita l’attenzione dei cantori della Cina «della Nuova Era», un numero da annoverare in qualche statistica relativa ai costi umani del «miracolo cinese». E Xu lo sapeva, aveva intravisto con lucido sguardo scorrere alla catena di montaggio le vite in serie degli operai, consumate dall’insignificanza e dall’irrilevanza, oltre che dallo spossamento.
In questa notte oscura di straordinario
cadendo in verticale,
tintinnando leggermente
una vite è caduta a terra.
Non attirerà l’attenzione di nessuno.
Proprio come l’ultima volta in cui
in una notte come questa qualcuno crollò a terra.[19]
Xu Lizhi, però, oltre ad assemblare, lucidare o saldare pezzi di metallo, maneggiava anche parole, torniva versi, incideva poesie nella sua stanza di dieci metri quadri ,
sotto la cupa luce giallognola, ridacchiando come un idiota
cammino avanti e indietro
canticchio, leggo, scrivo poesie.[20]
La celletta del dormitorio concessa allo schiavo dalla direzione per la necessaria riproduzione della forza-lavoro non ha pareti così spesse che non possa soffiarvi l’indomito spiritello della libertà. Uno spiritello in forma di parole che Xu ha lasciato dietro di sè, parole chiare come la coscienza che ebbe della sua condizione, elementari come il respiro che avrebbe voluto avere e gli fu negato, radicali come l’enormità di ciò che ha vissuto, pregne di una vita che cerca se stessa, capaci, finalmente, di fare della sua morte «in punta di piedi» un macigno che si può certo aggirare, ma non ignorare.
E questo macigno ci costringe a fermarci e a rigirarci tra le mani alcune pietruzze scheggiate, messesi di traverso sulla nostra strada: l’altra faccia del benessere e del progresso, la riduzione dell’uomo a «capitale umano» per la valorizzazione del capitale tout court – quello seduttivo della società dei consumi e quello selvaggio dell’accumulazione primaria –,[21] il rapporto distorto tra macchina e uomo nel quadro di un’economia basata sul profitto, l’incubo in agguato dietro l’esaltazione dello sviluppo delle forze produttive,[22] la reificazione dell’esistenza che minaccia l’homo oeconomicus. E il nucleo duro, irriducibile, sovrano della parola che si sottrae al potere, scava gallerie sotto l’edificio della menzogna, attraversa distanze che si pensavano incolmabili e diventa plurale, nel farsi comunità.
Un’altra vite si allenta un altro fratello, operaio migrante, se ne va
Tu muori al mio posto ed io, in vece tua, continuo a scrivere
Mentre lo faccio, stringo più forte le viti.[23]
Fernanda Mazzoli
Note
[1] P. Nizan, Aden Arabia, La Découverte/Poche, Paris, 2002.
[2] Il tragitto della mia vita è lungi ancora dall’essere compiuto, in Xu Lizhi, Mangime per le macchine, Ed. Istituto Onorato Damien, Catanzaro 2015.
[3] Tutte le informazioni relative alla Foxconn e alle condizioni di lavoro vigenti nelle sue fabbriche dislocate in Cina e non solo sono tratte da P. Ngai, L. Huilin, G. Yuhua, S. Yuan, Nella fabbrica globale. Vite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della Foxconn, Ombre corte, Verona 2015.
[4] Ivi, p. 40.
[5] Le poesie sono state rintracciate dalle curatrici del volumetto sul blog https:libcom.org/bolg/xulizhi-foxconn-sicide-poetry.
[6] Da Mi addormento proprio così, in piedi.
[7] Da Ho ingoiato una luna fatta d’acciaio.
[8] Da L’ultimo cimitero.
[9] P. Ngai, L. Huilin, G. Yuhua, S. Yuan, Nella fabbrica globale, op. cit., p. 49.
[10] Ivi, pp. 40, 135.
[11] Da L’ultimo cimitero.
[12] Ivi.
[13] Da Mi addormento, proprio così, in piedi.
[14] Da Una sorta di profezia.
[15] Le migrazioni interne nell’ultimo quarto di secolo registrano l’esodo dalle campagne verso i centri industriali di circa 250 milioni di persone, movimento che ha sostenuto il travolgente sviluppo economico cinese.
[16] Da Camera in affitto.
[17] I media definirono l’ondata di suicidi nei laboratori della multinazionale «serie di salti».
[18] Da Sul letto di morte.
[19] Da Una vite è caduta a terra.
[20] Da Camera in affitto.
[21] Molto opportunamente, Renata Marvaso, nell’introduzione a Mangime per le macchine, op. cit., p. 4, accosta la fabbrica globale della Foxconn alla città indusiale di Coketown, descritta da Dickens in Tempi difficili, non mancando di sottolineare, però, che nella prima lo sfruttamento della forza lavoro ha subito un’ulteriore accelerazione.
[22] È a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, che il Partito comunista cinese, guidato da Deng Xiao Ping, ha aperto la porta agli investimenti diretti stranieri e ha istituito le Zone economiche speciali, avallando l’utilizzo di metodi neo-tayloristici nelle fabbriche: taglio dei tempi, addestramento obbligatorio per eliminare «i movimenti inutili», divieto di parlare, mangiare e bere lungo le linee, introduzione di multe e cottimi; nel 1982, sono aboliti nei luoghi di alvoro, con emendamenti costituzionali, la libertà di parola, di opinione, di pubblicazione di manifesti e di sciopero. Contemporaneamente, si assiste a progressive differenziazioni salariali e alla verticalizzazione delle decisioni. Data dagli anni Novanta la massiccia privatizzazione di imprese statali, con relativi licenziamenti di milioni di lavoratori. La Foxconn è una delle aziende che ha maggiormente approfittato di questa intensa mobilitazione produttiva. Cfr. la prefazione di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto a Nella fabbrica globale, op. cit., pp. 12-13.
[23] Mangime per le macchine si conclude con questo componimento (Udendo al notizia del suicidio di Xu Lizhi) di Zhou Qizao, collega di lavoro alla Foxconn di Xu Lizhi, da cui abbiamo stralciato alcuni versi.
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