«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
351 Arianna Fermani, Daniele Guastini, Alberto Jori, Giulio A. Lucchetta, Maurizio Migliori, Angelo Tonelli, Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo. ISBN 978-88-7588-263-1, 2020, pp. 272, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [120]. A cura di Elena Bartolini, Andrea Ignazio Daddi, Alessandra Filannino Indelicato. Atti del Convegno di Studi «Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo», Università degli studi di Milano Bicocca, 27-28 Marzo 2019. Moderatori: Claudia Baracchi, Luca Grecchi.
352 Giancarlo Paciello, Piccola storia dell’Irlanda. ISBN 978-88-7588-270-9, 2020, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 12, Collana “Divergenze” [63]. In copertina: Arpa irlandese. Emblema della Society of United Irishmen.
354 David Ciolli, Le porte del silenzio. Il libro degli insegnamenti di Imdah. ISBN 978-88-7588-272-3, 2020, pp. 104, formato 105×155 mm., Euro 8 – Collana “lo spazio della vita” [4]. In copertina: Giovanna Incoronata Ghini, Selon que … (particolare), 2018
355 Salvatore A. Bravo, L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo. ISBN 978-88-7588-274-7, 2020, pp. 192, formato 170×240 mm., Euro 20 – Collana “Divergenze” [66]. In copertina: Hieronymus Bosch, Giardino delle delizie, trittico a olio su tavola, 1480-1490, particolare dell’Inferno, Museo del Prado di Madrid.
356 Fernanda Mazzoli, Di argini e strade. Un racconto di pianura. ISBN 978-88-7588-276-1, 2020, pp. 128, formato 130×200 mm., Euro 12. In copertina: Marc Chagall, La passeggiata, olio su tela, 1917-1918, Museo di San Pietroburgo.
342 Marino Gentile, Il problema della filosofia moderna. ISBN 978-88-7588-260-0, 2020, pp. 144, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [114]. In copertina: Maurits Cornelis Escher, Mano con sfera riflettente (Autoritratto nello specchio sferico), 1935.
343 Maurizio Migliori, Luca Grecchi, Tra teoria e prassi. Riflessioni su una corsa ad ostacoli. Introduzione di Carmelo Vigna. ISBN 978-88-7588-262-4, 2020, pp. 144, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [115]. In copertina: Paul Klee, Revolution des Viaducts (Rivoluzione del viadotto), 1937. Hamburger Kunsthalle, Amburgo.
344 Rodolfo Mondolfo, Alle origini della filosofia della cultura. Introduzione di Renato Treves. ISBN 978-88-7588-264-8, 2020, pp. 224, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [116]. In copertina: La Metopa di Atlante del Tempio di Zeus a Olimpia (460-450 a.C. circa). Olimpia, Museo Archeologico.
345 Salvatore A. Bravo, L’umanesimo integrale di Massimo Bontempelli. Filosofia Storia Pedagogia. ISBN 978-88-7588-176-4, 2020, pp. 128, formato 170×240 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [117]. In copertina: Paul Klee, Einst dem Grau der Nacht enttaucht … (Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte …), 1918, Berna, Kunstmuseum.
347 Diego Lanza, Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune. Prefazione di M. Stella: La storia incantata. Diego Lanza narratore e antropologo dello ‘stolto’. Postfazione di G. Ugolini: Del ridere e del conoscere: la stultitia secondo Diego Lanza. ISBN 978-88-7588-255-6, 2020, pp. 448, formato 140×210 mm., Euro 35 – Collana “Il giogo” [118]. In copertina: Anonimo, Il mondo sotto il berretto del matto, 1600 ca. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.
348 Daniele Orlandi, Scrivere il risentimento. Su Jean Améry. ISBN 978-88-7588-259-4, 2020, pp. 112, formato 130×200 mm., Euro 12. In copertina: Giuditta Tanese, Ritratto di Jean Améry, 2019.
349 Rodolfo Mondolfo, Moralisti greci. La coscienza morale da Omero a Epicuro. ISBN 978-88-7588-266-2, 2020, pp. 192, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [121]. In copertina: J.-L. David, La morte di Socrate (particolare), 1786-1787. New York, The Metropolitan Museum of Art.
350 Roberto Fumagalli, Carlo Michelstaedter. Filosofo, poeta e mistico. ISBN 978-88-7588-232-7, 2020, pp. 344, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [119]. In copertina: Carlo Michelstaedter, Autoritratto.
«Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta da un essere umano» (Apologia 38A5-6)
Quale folle ambizione può aver armato la mano che si è impegnata a scrivere questo libro? Nessuna illusoria ambizione, ma un desiderio, una constatazione, una necessità, una convinzione e una speranza. Il desiderio è quello di pagare il debito che ho, da tanto, nei confronti di Platone. È stata una presenza costante nella mia vita, da quando avevo sedici anni. Vorrei quindi contraccambiare, per quel poco che posso, dando un contributo alla lettura delle sue opere e alla comprensione del suo pensiero. La constatazione è che, a fronte della totalità degli scritti platonici, un confronto plurisecolare non ha prodotto nemmeno un plafond comune, un quadro unitario a partire dal quale intrecciare un dibattito, magari acceso. Ciò permetterebbe almeno di bloccare posizioni arbitrarie, presenti in questo ambito di studi in una quantità che non ha uguali nella storia della filosofia. Anche il tentativo della Scuola di Tubinga-Milano, cui appartengo, di indicare una via per superare alcuni blocchi ermeneutici, ha determinato ulteriori fraintendimenti che a fatica stiamo superando. La necessità conseguente è quella di mettere alla prova fino in fondo la portata di quello che è stato definito da Giovanni Reale un nuovo paradigma ermeneutico. […] La convinzione è che qualunque testo risulta inadeguato rispetto al problema millenario di capire Platone. Comunque, se uno è così folle da affrontare un tema del genere, è meglio essere coerenti, dando una forma e una dimensione folle ad una impresa folle. Tutto ciò vive perché è accompagnato da una speranza: che questo lavoro serva e che la fatica che ho affrontato con spirito di altri tempi aiuti alla migliore comprensione dei dialoghi. […] Questo testo, frutto di molti lavori analitici, costituisce uno sforzo di sintesi, una sorta di visione d‘insieme per introdurre al pensiero di Platone, che dovrebbe poi essere verificata in una serie di studi che affrontino, per piccoli blocchi, tutti i dialoghi di Platone. […] Questo libro […] si presta ad una duplice fruizione, quella della persona di cultura e quella dello studioso […]. L’ intelligenza di studiosi che discutono va apprezzata, ma non dovrebbe succedere di leggere pagine e pagine chiedendosi dov’è finito Platone, tanta è la distanza tra il testo greco e quello che si sta leggendo. Per questo non resisterò affatto alla tentazione di citare moltissimo Platone perché il testo va, a mio avviso, tenuto sempre in primo piano. […] Per le questioni di metodo, rinvio alla terza appendice. […] Non esiste, a mio avviso, un modo funzionale di esporre la filosofia dei dialoghi platonici, perché questa si presenta come una ragnatela di temi, legati tra loro da fili sottili e tuttavia folti. Troveremo la ragione teorica di questo nella dialettica di Platone, nel rapporto che lega l’intero alle singole parti e alla totalità delle parti. In sintesi, occorre esporre in successione ciò che in Platone è sì distinto ma non separato, anzi unito in modo tale come, forse, non è stato mai più possibile, dopo Aristotele. Così per il nostro filosofo si può sia affermare sia negare la presenza di un’etica, o di una politica, o di una ontologia e così via, perché tutti questi elementi ci sono – tanto da risultare fondamentali per il successivo sviluppo del pensiero filosofico – ma tra loro intrinsecamente intrecciati, come si impone in una concezione dialettica. […] Tuttavia, data la vastità e difficoltà del lavoro, occorre aiutare il lettore interessato in modo che possa trovare la forza di attraversare questo mare di parole (Parmenide 137 A). […] La prima questione che affronterò sarà quella di come scrive Platone. […] Per Platone, ogni comunicazione filosofica deve essere sottoposta a vincoli per ragioni educative e filosofiche, in quanto solo la conquista personale caratterizza la crescita filosofica. Si deve aiutare l’interlocutore a scoprire i problemi che il reale e il ragionamento ci pongono davanti e, quindi, le soluzioni che possono superare il blocco cui l’aporia ci condanna. Questi vincoli diventano cogenti nel caso della scrittura, per una serie di limiti che questo strumento ha. […] In sintesi: come vedremo, l’Autore allude ai contenuti filosofici e alle loro aporie per spingere il lettore a fare filosofia. Ciò implica che nei dialoghi ci sia molta filosofia, sia come problema, perché non si dà aporia senza una indagine filosofica, sia come proposta di soluzione, che però rinvia ad altre aporie, chiarite in un testo successivo, il quale ripete lo stesso procedimento. Ciò continua fino alle ultime opere, il che ci porta a dire che la soluzione finale è al di fuori dei dialoghi che Platone ha scritto. […] Questa filosofia costituiva un sistema. […] Anticipo in modo sintetico quello che a mio avviso emerge dai dialoghi: la ricerca platonica ha un andamento paradigmatico, o se si preferisce ermeneutico, nel senso che egli cerca un quadro interpretativo complessivo che consenta di risolvere le aporie che l’analisi ha evidenziato. Per questo propone Idee e Principi come necessari postulati. Ciò implica che si verifichino, discendendo, le conseguenze di queste premesse; è praticamente certo che, data la modificazione del quadro analitico, si scopriranno nuove difficoltà; da ciò una nuova ricerca, che corregge il paradigma, precisa i postulati, e così via. Tale procedimento – in un certo senso ovvio, perché il circolo ermeneutico, una volta attivato, non ha ragioni obiettive che lo blocchino – non ha nulla a che vedere con un atteggiamento scettico perché i punti fermi guadagnati, anche se sottoposti a continue verifiche, rimangono stabili, se non emergono ragioni forti che li mettono in crisi. Basta pensare al fatto che per Platone la filosofia è superiore alle matematiche: se fosse meno vera o meno stabile di quelle, la sua superiorità non sarebbe giustificata. […] Si deve affrontare – come sempre si dovrebbe – questo testo con molto spirito critico ma soprattutto senza prevenzioni. Nel dibattito si è cristallizzato un giudizio per cui si sa già quello che sostiene un autore che appartiene alla Scuola di Tubinga-Milano. Chi avrà la pazienza di leggere questo libro avrà la prova di quanto questo sbrigativo giudizio sia errato. Una scuola ha una unità di metodo e alcune scelte paradigmatiche comuni, cosa che non esclude affatto divergenze anche profonde. Il che è bene […]
Maurizio Migliori, Il Disordine ordinato. La filosofia dialettica di Platone, vol. I, Dialettica, metafisica e cosmologia, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 8-22.
Quarta di copertina
Questa ampia e innovativa ricostruzione della filosofia di Platone nasce da due convinzioni di fondo. La prima, di metodo, è che una chiave interpretativa trova la sua legittimità se riesce a integrare in un quadro non dogmatico, ma logico e unitario, i tanti pezzi del puzzle costituito dai testi platonici. La seconda, di contenuto, è che occorre prendere sul serio l’indicazione, più volte data da Platone, che un filosofo scrive nella forma del “gioco serio”, in modo da spingere il lettore, attraverso provocazioni e sollecitazioni, a pensare. Così il filosofo ateniese ha applicato alla scrittura la sensibilità maieutica di Socrate: scopo di un maestro è aiutare l’allievo a “fare filosofia”, non a impararla. Il risultato è una meravigliosa serie di dialoghi che manifestano in crescendo il “sistema” dell’autore come un filosofare in atto, attraverso materiali di riflessione e problemi tesi ad attivare il lettore e quasi a costringerlo a “cercare le risposte”. Quest’opera in due tomi, frutto di una lunga ricerca, scava in profondità i maggiori temi che Platone ha affidato ai dialoghi scritti. In questo senso il suo orizzonte è un “disordine ordinato”: cercare la logica di un sistema, senza accontentarsi di ridurre la filosofia di un genio, in presenza di tutti i suoi scritti e di una molteplicità di testimonianze indirette, a un “rebus avvolto in un mistero”.
Al centro di questa foto sta H.G. Gadamer; a sinistra H. Kramer e G. Reale; a destra Th. Szlezak e M. Migliori. La foto è stata fatta il 3 settembre 1996 a Tubinga, nell’intervallo di un incontro con Gadamer degli studiosi di Platone della Scuola di Tubinga e di quella di Milano. Immagine tratta dal volume: G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle “Dottrine non scitte”, Vita e Pensiero, 1977.
Al centro (fra G. Reale e H. Kramer) sta Th. A. Szlezak (i cui libri su Platone sono, come quelli di Kramer e di Gaiser, in Italia ben noti e molto diffusi). È il successore di K. Gaiser alla direzione del Piaton-Archiv. In piedi, alle spalle di Szlezak, sta M. Migliori (allievo di Reale e professore all’Università di Macerata, autore di alcuni dei più recenti e impegnativi lavori sui dialoghi dialettici di Platone). Questo gruppo rappresenta quella che Kramer chiama Scuola di Tubinga e Scuola di Milano. Questa fotografia è stata scattata a Tubinga, nel Platon-Archiv, il 30 aprile del 1994, a conclusione del convegno platonico in onore di H. Kramer, per festeggiare il suo sessantacinquesimo compleanno. Sul tavolo sta il dattiloscritto della traduzione di V. Cicero del volume di K. Gaiser, La dottrina non scritta di Plalone, con Presentazione di G. Reale e Introduzione di H. Kramer. Immagine tratta dal volume: G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle “Dottrine non scitte”, Vita e Pensiero, 1977.
Invito alla lettura
Pubblichiamo qui di seguito come invito alla lettura l’ultimo capitolo del libro «La bellezza della complessità», dal titolo: “Maurizio Migliori, Un paradigma ermeneutico per la storia della filosofia antica. L’approccio multifocale“. Si tratta di un PDF, e può essere letto a video, e/o scaricato e stampato (pp. 29). Per l’indice del volume cliccare qui: indice
Dedico questa raccolta alle allieve e agli allievi che ho incontrato nell’arco di cinquant’anni, nella scuola e nell’Università, e a tutti coloro che hanno avuto la pazienza di leggermi e di ascoltarmi, dando un ulteriore senso al mio lavoro di ricerca con l’amato Platone.
M. M.
Questa è l’affermazione che considero come la formula sintetica di quello che Platone pensa della realtà cosmica e del suo “disordinato ordine” (Maurizio Migliori, Uni-molteplicità del reale e dottrina dei Principi):
«Sarà quindi meglio affermare, come più volte abbiamo detto, che nell’universo c’è molto illimitato (ἄπειρόν) e sufficiente (ἱκανόν) limite, e, al di sopra di essi, una causa non da poco, la quale, ordinando e regolando gli anni, le stagioni e i mesi, può, a buon diritto, essere chiamata sapienza e intelligenza» (Platone, Filebo, 30 C 3-7).
Questo testo mette a disposizione del lettore importanti studi, alcuni proposti qui per la prima volta in italiano, altri ormai quasi introvabili. Migliori, studioso di Platone internazionalmente riconosciuto, svolge una trattazione che parte da Eraclito e, attraverso la sofistica, raggiunge il filosofo ateniese, che è oggetto di una serie di contributi di assoluto interesse. Molti dialoghi risultano scandagliati in modo approfondito, soprattutto il Fedro e tutti i dialoghi dialettici (Parmenide, Sofista, Politico e Filebo). In effetti, Migliori ha un particolare interesse per la dialettica, il che spiega gli studi su Eraclito e Gorgia. La dialettica è alla base della filosofia platonica, qui ricostruita in modo chiaro e profondo. Le tesi proposte, originali, ma mai svolte per il gusto della novità, manifestano una testarda fedeltà al testo. Lo prova la abbondanza di citazioni presenti in questi articoli, che costituiscono una delle ricchezze offerte al lettore interessato. Anche quando affronta un tema particolarmente dibattuto, come la scrittura filosofica di Platone, Migliori non si limita ad evidenziare l’importanza decisiva del “gioco protrettico” proposto nel Fedro, ma offre una serie di esempi testuali che mostrano nel concreto le tecniche utilizzate dal filosofo. Tra questi saggi non mancano trattazioni etiche e politiche, al cui interno l’Autore affronta anche tematiche rischiose, come l’analisi del libro X della Repubblica. Mentre vari studiosi vorrebbero quasi espungerlo, Migliori si impegna a mostrare le ragioni che lo rendono utile e necessario per completare questo grande dialogo. Ciò gli dà anche la possibilità di demolire una serie di diffusi luoghi comuni, ad esempio sulla condanna dell’arte, sulle Idee e sull’anima. Quest’ultimo tema è poi affrontato in un saggio, che evidenzia la differenza tra la concezione dell’anima, una delle più grandi “invenzioni” greche, e la visione biblica, centrata sulla resurrezione. Infine, Migliori fa una proposta ermeneutica e filosofica di fondo, che definisce “approccio multifocale”. Questo paradigma consente, da una parte di capire il pensiero classico che pratica normalmente questo tipo di lettura della realtà, dall’altra di avere una visione che rispetta le relazioni e la complessità del nostro mondo, senza cadere nelle trappole logiche e pratiche del relativismo.
Indice
Introduzione di Luca Grecchi
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Note sulla dialettica in Eraclito Premessa La presenza assente del logos Il contenuto del logos L’esito finale dell’eraclitismo
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Gorgia quale sofista di riferimento di Platone Il problema del rapporto tra Gorgia e Platone Un primo nesso tra Gorgia e Protagora Gorgia retore e sofista Il Gorgia Il Parmenide Il Teeteto e il Sofista Conclusioni
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La filosofia dei sofisti: un pensiero posteleatico Diversi possibili itinerari di ricerca Il quadro descrittivo del Sofista Il problema del non essere Il riferimento a Gorgia Il rapporto filosofico con Protagora Intreccio e differenze nell’uso dei due sofisti
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Come scrive Platone. Esempi di una scrittura a carattere “protrettico” Alcune premesse di metodo Un errore volontario Una maturità precoce? Il rinvio della trattazione del Bene Un esercizio infinito Una necessaria diffidenza L’architettonica di un dialogo Allusioni e inserimenti “estemporanei” Il (cauto) utilizzo di altri dialoghi L’utilità del metodo proposto
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La struttura polifonica del Fedro Una situazione paradossale Elementi introduttivi alla lettura del dialogo Un incontro particolare La struttura del dialogo Il motivo dominante: la tecnica di comunicazione orale e scritta e la responsabilità di colui che comunica Il centro tematico dell’opera: il vero tra filosofia e mania Il tema più importante: l’anima e il rapporto uomo-Dio Conclusioni
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L’unità della Repubblica come esempio di scrittura platonica: il libro X Prologo Alcune riflessioni di valore generale La fine del libro IX e il collegamento con il libro X La condanna dell’arte mimetica Primo punto Secondo punto Terzo punto Il problema delle Idee Le Idee dei manufatti Primo problema Secondo problema La divinità e la produzione delle Idee Il problema dell’anima La partizione dell’anima Immortalità dell’anima e sopravvivenza Il mito di Er Conclusione
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Dialettica e Teoria dei principi Nel Parmenide e nel Filebo di Platone Prologo Alle fonti della dialettica Dialettica e filosofia L’identità uno–molti Un sistema di postulati risolutivi Originarietà della dialettica La dialettica come metodo Natura del metodo dialettico L’indicazione metodica I passaggi metodici Una metodologia complessa La dialettica come filosofia Necessità della struttura polare. La negazione dell’Uno–Uno Due processi per una sola realtà La Polarità originaria Uno e Non Uno Limite e Illimitato Polivalenza funzionale dei Principi Limite, Uno e Bene La Misura La visione dialettica del reale Tutto è Misto Misto e Idee Essere e tempo, divenire e atemporalità. L’inutilità della dialettica dell’Essere senza Uno Il Divenire e l’Istante L’articolazione della dialettica platonica: Tutto e parte Un rapporto dialettico, ma non paritetico Conseguenze della dialettica intero–parte Dialettica e aporie delle Idee La dialettica platonica Una dialettica né binaria né trinaria Metodo dialettico e Principi primi
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Alcune riflessioni su misura e metretica (il Filebo tra Protagora e Leggi, passando per il Politico e il Parmenide) Prologo Una premessa di metodo. lo scritto platonico come “gioco” La trattazione metafisica del Filebo Prima parte del dialogo: Processo ontogonico e Causa Premessa: la realtà è uni-molteplice Le radici metafisiche di questa realtà uni-molteplice L’Apeiron Il Peras Il misto La causa Conseguenze e conferme sul piano cosmo-ontologico Ordine e disordine del Cosmo alla luce del Politico La causalità ideale alla luce del Parmenide Prime conclusioni Seconda parte del dialogo: il Bene e la Misura Premessa: la trattazione del Bene è necessaria
Alcune “anticipazioni” sul Bene
Le “allusioni” alla natura del Bene
Il segno del Bene-Misura
Le due trattazioni a confronto
La metretica
La metretica nelle prime opere
Le due metretiche del Politico
L’applicazione della “misura” nell’azione del politico
Un breve riferimento alle Leggi
La vita buona e misurata
Due tipi di uguaglianza L’importanza del modello trinario
Appendice I Le Idee sono composte da altre Idee Appendice II La trattazione di cause e concause Fedone Politico Timeo
Due brevi osservazioni finali
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Cura dell’anima. L’intreccio tra etica e politica in Platone La natura bivalente della politica L’intreccio tra etica e politica Il parallelo tra anima e polis Potere politico e dominio di sé Elementi di antropologia platonica L’anima Beni e virtù Due “Idee” di piacere Il Bene L’azione del politico Il ruolo ordinatore delle leggi Le responsabilità dei soggetti politici Centralità dell’impianto educativo Politica e retorica Il fine della politica: ordine e felicità Il Bene come fine Due modelli di vita a confronto Il piacere e i beni umani Virtù e felicità Un necessario approdo escatologico
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Polivalenza strutturale della filia in Platone La semanticità di filia nei dialoghi La funzione socio–politica dell’amicizia L’esempio dei conviti Due specifiche applicazioni Critone o dell’amicizia Il rinvio al Primo amico Una riflessione finale
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La domanda sull’immortalità e la resurrezione. Paradigma greco e paradigma biblico Prologo L’evoluzione del paradigma greco La tradizione orfica e il suo sviluppo filosofico Platone Una duplice valutazione Una riflessione razionale sull’anima Le prove dell’immortalità dell’anima Tripartizione dell’anima e sua sopravvivenza Anima e corpo in Aristotele Immortalità dell’anima ed etica Immortalità dell’anima ed opere essoteriche La concezione ebraica Una visione mitica Una visione unitaria dell’essere umano La condizione dopo la morte Lo stacco tra immortalità dell’anima e resurrezione Socrate e Cristo L’incontro nell’ellenismo e nel cristianesimo Filone di Alessandria Il primo cristianesimo Conclusioni
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Un paradigma ermeneutico per la storia della filosofia antica: l’approccio multifocale Una situazione straordinaria Il senso e le ragioni di una scelta diversa L’emergere del multifocal approach Il contributo della sofistica L’esperienza platonica L’elaborazione aristotelica Il valore attuale di questa visione dell’antico
In copertina: Vasilij Kandinskij, Verso l’alto (Empor), 1929, olio su cartone. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. L’energia del pensiero nella ricerca della bellezza si protende verso l’alto (empor). Le forme geometriche astratte disegnano il volto di profilo di una persona: il personaggio è sorretto – in un punto di equilibrio ideale – da un trapezio e da una lettera E (empor). L’occhio, lo sguardo, è rivolto verso un’altra grande E a destra, in alto.
ZENONE E PLATONE: DUE DIALETTICHE A CONFRONTO Da una realtà aporetica a una realtà unimolteplice
«L’uno è molti e infiniti e i molti sono uno». Filebo 15E3-4
In questo contributo si intende delineare un quadro comparativo della dialettica così come intesa da Zenone di Elea e poi inverata e, allo stesso tempo, superata da Platone. A questo fine ci muoveremo su tre fronti:
la delineazione dei tratti essenziali della dialettica di Zenone;
il giudizio platonico sulla dialettica di Zenone, ricavabile dall’incipit del Parmenide;
la presentazione della dialettica di Platone come superamento e inveramento di quella zenoniana.
Una premessa terminogica
Prima di entrare nel vivo del confronto tra Zenone e Platone è necessaria però una breve premessa, perché il termine dialettica ha assunto, nel corso della storia della filosofia, una pluralità di sensi e di accezioni che è bene distinguere. Essenzialmente incontriamo tre figure di dialettica:
intesa come filosofia, cioè come uno strumento che svela la natura di una realtà che è essa stessa dialettica, nella quale positivo e negativo convivono;
come dialogica, cioè come tecnica della discussione;
come tecnica di confutazione.
[…]
La concezione zenoniana della dialettica risulta conservata e innovata dalla dialettica platonica: risulta conservato infatti il processo di innalzamento, per cui dalla contraddizione delle conseguenze si traggono risultati che concernono le premesse (nel caso del paradosso della freccia abbiamo visto come la conclusione contraddittoria permette di invalidare la premessa), ma in un senso nuovo. L’analisi dialettica, svelando la complessità dei nessi che costituiscono il reale, ci costringe a cercare la chiave per capire la non contraddittorietà della struttura apparentemente aporetica e ci indica il cammino per superare la contraddizione tramite un trascendimento ontologico. Il fatto di risalire a una dimensione filosoficamente più alta, però, non dissolve l’aporia ma, lasciandola essere tale al suo livello, consente di inquadrarla in una visione coerente e vera del reale: un qualsiasi essere umano, in sé considerato, è realmente e irriducibilmente uno e molti.
Questo richiede una visione estremamente articolata del reale, una visione multifocale, e un metodo che sia, per sua natura, adeguato alla comprensione di una realtà uni-molteplice, ma implica anche la consapevolezza che è impossibile trovarsi di fronte a un modello unico di descrizione del reale: infatti nella dialettica platonica c’è la movenza dell’unificazione, della risalita ai principi (quindi della sintesi), ma c’è anche il senso dell’irriducibilità del reale: l’infinito è irriducibile e resta in perenne conflitto con il limite, come ci ricorda il Filebo:
«SOCRATE: Dunque, poiché le cose sono così ordinate, bisogna che cerchiamo di porre in ciascuna situazione sempre un ‘unica Idea per ogni cosa: infatti, noi ve la troveremo insita; se dunque l’abbiamo individuata, dobbiamo esaminare se dopo una ve ne siano due, se no tre o qualche altro numero, e, di nuovo, allo stesso modo per ciascuna di quelle, fino a che non si vede dell’uno posto all’inizio non solo che è uno, molti e infiniti, ma anche quanti è; l’Idea dell’ illimitato non bisogna attribuirla alla molteplicità, prima di averne individuato il numero totale, mediano tra l’infinito e l’uno, e solo allora lasciare che ciascuna unità di tutte le cose vada nell’illimitato» (16C7-E2).
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Sommario
Una premessa terminologica La dialettica din Zenone I molti simili e dissimili e il paradosso della freccia Il confronto tra Zenone e Platone: il Parmenide La dialettica platonica come superamento e invermento di quella di Zenone Il nesso tutto-parte I nessi tra le Idee: il Sofista Considerazioni conclusive
Un tuffo …
… tra alcuni dei libri di Lucia Palpacelli…
L’Eutidemo di Platone. Una commedia straordinariamente seria, Vita e Pensiero, 2009
L’analisi di Lucia Palpacelli affronta in modo nuovo il testo, rifiutando la tradizionale lettura ‘panironica’, che consente di aggirare le tante ‘stranezze’ del dialogo interpretandole come giochi ironici, in ultima istanza poco comprensibili. Al contrario, l’autrice mostra come il dialogo rifletta il pensiero platonico e si riveli un’opera molto significativa all’interno del corpus. L’Eutidemo diventa così un prototipo della ‘scrittura filosofica’ di Platone, che lancia una continua sfida al lettore, chiamato a intendere i problemi proposti e a sviluppare autonomamente le linee di soluzione offerte in forma allusiva.
Aristotele interprete di Platone. Anima e cosmo, Morcelliana, 2013
Il volume mette a confronto analiticamente le opere fisiche di Aristotele con i dialoghi platonici sulle stesse tematiche (in particolare con il Timeo), per ricostruire la complessa articolazione del concetto di physis, dal cosmo alla considerazione degli esseri viventi. La via critica seguita, e indicata dai testi stessi, permette di ricostruire un percorso che si configura sempre come bifronte: le innegabili e, in alcuni casi, fondamentali divergenze tra Aristotele e Platone si innestano su comuni tematiche e domande, per cui, lì dove si segna una distanza, si deve anche riconoscere un punto di accordo. Il rapporto tra Aristotele e Platone va delineandosi in queste pagine nella cifra distintiva di un movimento di vicinanza/lontananza, che rende possibile cogliere il senso e l’effettivo valore della critica aristotelica.
Aristotele, La generazione e la corruzione Testo greco a fronte, a cura di M. Migliori e L. Palpacelli, Bompiani, 2013
Il “De generatione et corruptione”, opera poco conosciuta e sottovalutata, svolge un ruolo importante nelle riflessioni fisiche di Aristotele. Lo Stagirita affronta e risolve le questioni concernenti i quattro tipi di mutamento, distinti secondo la categoria di riferimento: la generazione e corruzione secondo la sostanza, l’aumento-diminuzione secondo la quantità, l’alterazione secondo la qualità, la traslazione secondo il luogo. L’articolazione di tali temi si sviluppa in un ricco confronto con i filosofi del tempo, con la ripresa della centrale tematica delle cause fisiche e con espliciti riferimenti al Motore immobile trattato nella Metafisica. L’ampia introduzione di Maurizio Migliori, che affronta le questioni di fondo proposte in questo testo, è completata da un saggio bibliografico di Lucia Palpacelli che espone criticamente tutti gli studi apparsi nell’ultimo trentennio. La traduzione e il commentario di Migliori sono stati rivisti e arricchiti sulla base di un analogo aggiornamento bibliografico. Il lettore ha così a disposizione un testo completo, presentato in un’ottica unitaria e sorretto da una lettura critica aggiornata.
La natura intermedia di Eros. Pausania e Aristofane a confronto con Socrate, in: «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 3 – 2016, Vita e Pensiero, 2016
In this paper, speeches of Socrates, Pausanias and Aristophanes are analysed combining them together. This analysis is performed starting from the concept of intermediate (metaxuv) which allows us to construe Pausians’ speech as preparatory with respect to Socrates’ speech, and Aristophanes’ speech as its denial. Indeed, the concept of intermediate is applied to Eros 1) in embryo in Pausianas’ speech (which finally distinguishes two kinds of Eros) and 2) openly in Socrates’ speech. In this regard, the two speeches are connected and they show a progression 1) from a strictly practical and ethical-behavioural level (Pausanias’ speech) 2) to a theorical-metaphysical level based on Eros’ nature (Socrates’ speech). Aristophanes, on the other hand, defines Eros as a desire of total fusion, his view is corrected and downscaled by Socrates enforcing the concept of intermediate.
Claudia Baracchi, Enrico Berti, Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Luca Grecchi, Silvia Gullino, Alberto Jori, Giulio A. Lucchetta, Lucia Palpacelli, Luigi Ruggiu, Mario Vegetti, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta
Il presente volume è il terzo di una serie di collettanei aristotelici, cominciata nel 2016 con Sistema e sistematicità in Aristotele, e proseguita nel 2017 con Immanenza e trascendenza in Aristotele, tutti editi a mia cura presso questa casa editrice. A questi volumi hanno partecipato alcuni fra i maggiori studiosi italiani dello Stagirita, che desidero nuovamente ringraziare per la loro disponibilità e gentilezza, ma soprattutto per l’ennesimo dono che hanno voluto fare agli studi aristotelici. Il volume di quest’anno, Teoria e prassi in Aristotele, nasce con l’intento di esaminare alcune distanze, spesso rilevate dagli studiosi, fra la teoria e la prassi nel pensiero aristotelico. Il tema è stato analizzato, come di consueto, secondo una pluralità di punti di vista ed approcci. L’apertura del volume, come da tradizione, è stata anche stavolta un dialogo generale tra lo scrivente e Carmelo Vigna. A questo dialogo, sempre come da tradizione, ha fatto seguito un commento di Enrico Berti, caratterizzato da notazioni profonde ed essenziali. Di seguito, vi sono stati interventi assai puntuali inerenti soprattutto il piano etico (Marcello Zanatta), politico (Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Alberto Jori), teoretico (Claudia Baracchi, Mario Vegetti), economico (Silvia Gullino, Luigi Ruggiu), sociale (Giulio Lucchetta) e scientifico (Lucia Palpacelli). Il volume è già sufficientemente ampio, per cui mi posso limitare, in questa occasione, ad un ricordo speciale, quello dell’amico Mario Vegetti, che ci teneva molto ad essere presente con un saggio. Rammento con affetto la sua ironia sui «dialogoni metafisici» fra me e Vigna che aprono questi volumi. Per il 2019, l’intenzione è di iniziare una trilogia sul pensiero platonico, cominciando con un collettaneo sulle Leggi, un dialogo relativamente poco indagato, rispetto almeno alla Repubblica. Tutto questo, come sempre, si potrà attuare – oltre che mediante la collaborazione di ottimi studiosi, negli anni divenuti amici – grazie alla passione culturale di Carmine Fiorillo, fondatore e “reggitore” di Petite Plaisance, al quale anche stavolta esprimo la mia vicinanza e gratitudine.
Luca Grecchi
Lucia Palpacelli
La pluralità metodologica nel pensiero aristotelico:tra teoria e prassi
Le diverse prospettive possibili per conoscere la realtà Ogni scienza considera lo stesso oggetto da punti di vista diversi Ogni scienza ha i suoi principi La relazione tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto: in sé e per noi La coscienza del limite umano nella conoscenza Il rapporto tra lo statuto ontologico dell’oggetto e il livello epistemologico L’estrema varietà della prassi metodologica L’approccio dialettico Un problema terminologico Alcuni esempi della movenza dialettica La diversa articolazione della movenza “dal generale al particolare” Da ciò che è più chiaro per noi a ciò che è più chiaro per natura Il valore dell’esperienza e dei fatti L’acqua più fredda che umida: la necessità teorica vince sul dato empirico La scienza non sbaglia, ma lo scienziato sì Considerazioni conclusive
Opportunità e utilità di un approccio multifocale. Un contributo alla lotta contro il relativismo e contro la semplificazione che caratterizza l’orizzonte dell’attuale “cultura di massa”.
Questo testo tenta di chiarire e di articolare un quadro teorico che il gruppo di antichisti dell’Università di Macerata sta elaborando da molti anni, a partire da un terreno essenzialmente ermeneutico. Lo studio di Platone, affrontato sulla base della proposta avanzata dalla Scuola di Tubinga-Milano, ci ha portati a un atteggiamento di grande attenzione ai paradigmi e alle metodologie che i vari interpreti utilizzano, a volte del tutto inconsapevolmente; inoltre, la filosofia platonica ci ha permesso di cogliere l’importanza della dialettica, in particolare dei processi di unificazione e separazione, soprattutto in relazione alla coppia intero-parti. Questo studio pluridecennale ci ha portati a completare il percorso della suddetta scuola, evidenziando come le tante “contraddizioni” che le interpretazioni tradizionali trovano nei dialoghi siano solo l’espressione di una filosofia che riconosce la complessità del reale, che accetta i limiti della condizione conoscitiva umana e che, di conseguenza, ritiene che la verità possa essere raggiunta cogliendo 1. per quanto possibile 2. con un atteggiamento multifocale 3. il maggior numero possibile di aspetti diversi dell’oggetto. Abbiamo mostrato che la visione platonica del reale è “coerentemente multifocale”; pertanto, solo un ‘ermeneutica multifocale è in grado di dame una interpretazione corretta e non dipendente da qualche “intelligente” invenzione dell’ interprete. Questa interpretazione, che ci porta ora a parlare di una proposta di Tubinga-Milano-Macerata, è poi stata integrata da una seconda scoperta del tutto imprevista. Aristotele, accusato a sua volta di aver avuto una evoluzione radicale nel suo pensiero, sottoposto a un esame prolungato e approfondito ha manifestato il medesimo atteggiamento del maestro Platone. A questo punto, individuato un analogo comportamento anche in altri autori dell’antichità, il Multifocal approach ha cominciato ad apparirci come una chiave interpretativa di valore generale, in funzione antidogmatica e antirelativista. In quanto tale, può essere utilizzato anche nella attuale congiuntura storica, che vede il prevalere di atteggiamenti relativisti, spesso basati su una confusione tra la pervasività delle strutture relazionali e il relativismo, concetti che restano indistinti a causa di una scarsa attenzione alla concettualizzazione, rafforzata dai processi di semplificazione diffusi a livello di massa. […] Come ha evidenziato Kuhn nei suoi studi di storia del pensiero scientifico, l’assunzione di un paradigma è, nella sua fase iniziale, un gesto che si colloca a metà strada tra convinzione razionale e atto di fede, una sorta di scommessa sulla validità della scelta operata. Anche il presente tentativo di un approccio multifocale ha tali caratteristiche. Per questo occorre premettere una sorta di quadro d’insieme che, proponendo lo sfondo entro cui si svolge il ragionamento, consenta di articolare successive trattazioni più analitiche. Queste dovranno verificare nei vari ambiti quanto qui proponiamo su un piano “formale/astratto” con poche esemplificazioni di tipo “materiale/concreto” e, nello stesso tempo -primo esempio di “multifocalità” -dovranno modificare lo stesso quadro nella misura in cui forniscono nuovi dati e nuovi elementi che lo arricchiscono, e quindi lo cambiano. Il primo dato che occorre sempre ricordare, infatti, è che l’analisi della realtà modifica la realtà stessa, in quanto aggiunge un dato -l’analisi -che la realtà oggetto dell’analisi prima non possedeva. Per tentare di svolgere un percorso dobbiamo almeno delineare la nostra meta ideale. Non riteniamo possibile ipotizzare l’elaborazione di metodologie comuni (o addirittura uniche) per delineare una nuova “unità del sapere” o anche solo una più facile comunicazione tra le varie discipline. Fatte salve alcune somiglianze, non si vede come scienze radicalmente diverse (ad esempio sociologia e chimica) possano avere metodologie molto simili. Il nostro tentativo non mira a processi di unificazione, ma al contrario a una più consapevole diversificazione dentro un orizzonte comune. La nostra ambizione non è dunque quella di realizzare una qualche “rottura epocale”, ma quella di inserirci con la massima coerenza possibile in un processo che, pur minoritario, ci sembra già avviato e che è, ai nostri occhi, del tutto necessario. Il che non vuoi dire che si realizzerà. Con il senso del limite che dovrebbe sempre caratterizzarci speriamo solo di contribuire alla lotta contro il relativismo, dando un contributo utile contro la semplificazione che caratterizza l’orizzonte dell’attuale “cultura di massa”. Il termine che tradizionalmente designa questo orizzonte è Weltanschauung, “visione del mondo”. Questa è oggi segnata da una grave contraddizione. Da una parte abbiamo una realtà sempre più complessa, dall’altra una diffusa preoccupazione per questo dato, affrontato con strumenti inadeguati. Ciò determina effetti culturalmente, socialmente e personalmente ambigui, per non dire pericolosi, all’interno della tradizione culturale occidentale. Si tratta dunque di lavorare per l’affermazione di visioni del mondo che accettino la complessità e che consentano atteggiamenti, strutture educative, paradigmi sufficientemente articolati e capaci di farci comprendere il reale nei suoi molteplici e spesso diversissimi aspetti. Questo sforzo deve essere accompagnato da una accettazione dei limiti della natura umana, rifiutando la visione apocalittica/escatologica che ha tanto spesso caratterizzato la modernità. Limite vuoi dire ricordare che una visione è sempre parziale, che i risultati raggiunti sono validi “fino a prova contraria”, che siamo spesso di fronte a tante verità, tutte rigorosamente scritte con la “v” minuscola».
Maurizio Migliori,Opportunità e utilità di un approcciomultifocale, in «Humanitas», Rivista bimestrale di cultura, fondata nel 1946, Anno LXXV – N. 1-2 – Gennaio-Aprile 2020, pp. 3-38.
Sommario
Premessa Introduzione Alcune precisazioni
Parte prima L’universalità del divenire
Il reale è uni-molteplice Il nesso intero-parti Presenze dell’intero e modo d’essere delle parti Il gioco delle relazioni Separazioni e nessi Identico e diverso Polemos: la nostra realtà non è mai pacificata Realtà e determinazioni
Parte seconda Alcune riflessioni sulle forme della conoscenza
Sulla verità Su possibili eccessi dell’ermeneutica La “cosa”, il “dire” e il”detto” L’onnipresenza delle relazioni non implica l’approdo relativistico Riaffermare la presenza di molte verità e di approcci differenziati Sulle varie forme di multifocalità Multifocalità debole Multifocalità paradigmatica Multifocalità ermeneutica Il pensiero occidentale, “naturalmente” ostile alla visione multifocale
In copertina: Paul Klee, Revolution des Viaducts (Rivoluzione del viadotto), 1937. Hamburger Kunsthalle, Amburgo.
In uno dei disegni praparatori dell’opera Klee aveva indicato il titolo provvisorio: Le arcate dei ponti rompono le righe. Una rivoluzione dunque, un auspicio di profondo mutamento, alla radice, di sistemi fossilizzati. Gli archi si ribellano all’uniformità del viadotto e avanzano “rompendo le righe”, per superare ogni incatenamento teorico e artistico.
«Migliori e Grecchi sono due metafisici che si ispirano alla tradizione greca e la custodiscono con cura, anche se Migliori guarda soprattutto a Platone e Grecchi soprattutto ad Aristotele. Entrambi amano la verità e il bene». Carmelo Vigna
Questi i temi del dialogo
La genesi della filosofia / L’amore per Platone / “La filosofia si fa, non si impara” / Il Multifocal Approach / Possibili critiche al Multifocal Approach / Uomo: una natura razionale e morale? / Sul timore della definizione / Su ciò che non è stato ritrovato / Presocratici: una lettura multifocale? / Chi fu il “primo filosofo”? / Sulla definizione della filosofia e la differenza con le scienze / Socrate sofista? / Sulla filosofia ellenistica e post-ellenistica / I Greci cercavano per trovare risposte utili / Sul bene / Sulla verità: questione logico-fenomenologica o (anche) onto-assiologica? / Utopia e progettualità / Sul trascendente / La dolcezza come virtù filosofica / L’anticrematistica: filo conduttore delpensiero antico? / Stato dell’arte della filosofia antica in Italia / Oltre alla filosofia… / Su Platone Primo Ministro… / Sulla educazione dei giovani / Sulla morte
Maurizio Migliori si è laureato in filosofia (1967) presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e poi specializzato presso la stessa università (1969) sotto la guida di Giovanni Reale, con cui ha continuato a collaborare fino alla morte del Maestro (2014). Docente di Scuola secondaria superiore per oltre 20 anni (1968-1991), poi professore di Storia della filosofia antica presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Macerata per oltre 20 anni, prima come associato (1991-2001), poi come ordinario (2001-2015). In pensione, continua a svolgere attività didattica nella stessa Università. Autore di numerosissimi articoli su riviste italiane e straniere e di numerosi libri, tra cui la nuova edizione di Aristotele, La generazione e la corruzione, Bompiani, Milano 2013; Il disordine ordinato. La filosofia dialettica di Platone, 2 voll., Morcelliana, Brescia 2013. Con Petite Plaisance ha pubblicato La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni (2019, pp. 592).
Per tutti gli scritti di Maurizio Migliori, cliccare qui. (oppure: autore, M. Miglori)
Luca Grecchi, Luca Grecchi svolge attività di insegnamento e di ricerca presso le Cattedre di Storia della Filosofia e di Filosofia Morale della Università di Milano Bicocca. Ha pubblicato, nella collana Questioni di filosofia antica delle Edizioni Unicopli i libri Natura (2018) e Uomo (2019), e, per l’editore Morcelliana, Leggere i Presocratici (2020). È curatore dei volumi Sistema e sistematicità in Aristotele, Immanenza e trascendenza in Aristotele, Teoria e prassi in Aristotele (Petite Plaisance, rispettivamente 2016, 2017, 2018).
Al centro di questa foto sta H.G. Gadamer; a sinistra H. Kramer e G. Reale; a destra Th. Szlezak e M. Migliori. La foto è stata fatta il 3 settembre 1996 a Tubinga, nell’intervallo di un incontro con Gadamer degli studiosi di Platone della Scuola di Tubinga e di quella di Milano. Immagine tratta dal volume: G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle “Dottrine non scitte”, Vita e Pensiero, 1977.
Al centro (fra G. Reale e H. Kramer) sta Th. A. Szlezak (i cui libri su Platone sono, come quelli di Kramer e di Gaiser, in Italia ben noti e molto diffusi). È il successore di K. Gaiser alla direzione del Piaton-Archiv. In piedi, alle spalle di Szlezak, sta M. Migliori (allievo di Reale e professore all’Università di Macerata, autore di alcuni dei più recenti e impegnativi lavori sui dialoghi dialettici di Platone). Questo gruppo rappresenta quella che Kramer chiama Scuola di Tubinga e Scuola di Milano. Questa fotografia è stata scattata a Tubinga, nel Platon-Archiv, il 30 aprile del 1994, a conclusione del convegno platonico in onore di H. Kramer, per festeggiare il suo sessantacinquesimo compleanno. Sul tavolo sta il dattiloscritto della traduzione di V. Cicero del volume di K. Gaiser, La dottrina non scritta di Plalone, con Presentazione di G. Reale e Introduzione di H. Kramer. Immagine tratta dal volume: G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle “Dottrine non scitte”, Vita e Pensiero, 1977.
Invito alla lettura
Pubblichiamo qui di seguito come invito alla lettura l’ultimo capitolo del libro «La bellezza della complessità», dal titolo: “Maurizio Migliori, Un paradigma ermeneutico per la storia della filosofia antica. L’approccio multifocale“. Si tratta di un PDF, e può essere letto a video, e/o scaricato e stampato (pp. 29). Per l’indice del volume cliccare qui: indice
Dedico questa raccolta alle allieve e agli allievi che ho incontrato nell’arco di cinquant’anni, nella scuola e nell’Università, e a tutti coloro che hanno avuto la pazienza di leggermi e di ascoltarmi, dando un ulteriore senso al mio lavoro di ricerca con l’amato Platone.
M. M.
Questa è l’affermazione che considero come la formula sintetica di quello che Platone pensa della realtà cosmica e del suo “disordinato ordine” (Maurizio Migliori, Uni-molteplicità del reale e dottrina dei Principi):
«Sarà quindi meglio affermare, come più volte abbiamo detto, che nell’universo c’è molto illimitato (ἄπειρόν) e sufficiente (ἱκανόν) limite, e, al di sopra di essi, una causa non da poco, la quale, ordinando e regolando gli anni, le stagioni e i mesi, può, a buon diritto, essere chiamata sapienza e intelligenza» (Platone, Filebo, 30 C 3-7).
Questo testo mette a disposizione del lettore importanti studi, alcuni proposti qui per la prima volta in italiano, altri ormai quasi introvabili. Migliori, studioso di Platone internazionalmente riconosciuto, svolge una trattazione che parte da Eraclito e, attraverso la sofistica, raggiunge il filosofo ateniese, che è oggetto di una serie di contributi di assoluto interesse. Molti dialoghi risultano scandagliati in modo approfondito, soprattutto il Fedro e tutti i dialoghi dialettici (Parmenide, Sofista, Politico e Filebo). In effetti, Migliori ha un particolare interesse per la dialettica, il che spiega gli studi su Eraclito e Gorgia. La dialettica è alla base della filosofia platonica, qui ricostruita in modo chiaro e profondo. Le tesi proposte, originali, ma mai svolte per il gusto della novità, manifestano una testarda fedeltà al testo. Lo prova la abbondanza di citazioni presenti in questi articoli, che costituiscono una delle ricchezze offerte al lettore interessato. Anche quando affronta un tema particolarmente dibattuto, come la scrittura filosofica di Platone, Migliori non si limita ad evidenziare l’importanza decisiva del “gioco protrettico” proposto nel Fedro, ma offre una serie di esempi testuali che mostrano nel concreto le tecniche utilizzate dal filosofo. Tra questi saggi non mancano trattazioni etiche e politiche, al cui interno l’Autore affronta anche tematiche rischiose, come l’analisi del libro X della Repubblica. Mentre vari studiosi vorrebbero quasi espungerlo, Migliori si impegna a mostrare le ragioni che lo rendono utile e necessario per completare questo grande dialogo. Ciò gli dà anche la possibilità di demolire una serie di diffusi luoghi comuni, ad esempio sulla condanna dell’arte, sulle Idee e sull’anima. Quest’ultimo tema è poi affrontato in un saggio, che evidenzia la differenza tra la concezione dell’anima, una delle più grandi “invenzioni” greche, e la visione biblica, centrata sulla resurrezione. Infine, Migliori fa una proposta ermeneutica e filosofica di fondo, che definisce “approccio multifocale”. Questo paradigma consente, da una parte di capire il pensiero classico che pratica normalmente questo tipo di lettura della realtà, dall’altra di avere una visione che rispetta le relazioni e la complessità del nostro mondo, senza cadere nelle trappole logiche e pratiche del relativismo.
Indice
Introduzione di Luca Grecchi
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Note sulla dialettica in Eraclito Premessa La presenza assente del logos Il contenuto del logos L’esito finale dell’eraclitismo
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Gorgia quale sofista di riferimento di Platone Il problema del rapporto tra Gorgia e Platone Un primo nesso tra Gorgia e Protagora Gorgia retore e sofista Il Gorgia Il Parmenide Il Teeteto e il Sofista Conclusioni
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La filosofia dei sofisti: un pensiero posteleatico Diversi possibili itinerari di ricerca Il quadro descrittivo del Sofista Il problema del non essere Il riferimento a Gorgia Il rapporto filosofico con Protagora Intreccio e differenze nell’uso dei due sofisti
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Come scrive Platone. Esempi di una scrittura a carattere “protrettico” Alcune premesse di metodo Un errore volontario Una maturità precoce? Il rinvio della trattazione del Bene Un esercizio infinito Una necessaria diffidenza L’architettonica di un dialogo Allusioni e inserimenti “estemporanei” Il (cauto) utilizzo di altri dialoghi L’utilità del metodo proposto
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La struttura polifonica del Fedro Una situazione paradossale Elementi introduttivi alla lettura del dialogo Un incontro particolare La struttura del dialogo Il motivo dominante: la tecnica di comunicazione orale e scritta e la responsabilità di colui che comunica Il centro tematico dell’opera: il vero tra filosofia e mania Il tema più importante: l’anima e il rapporto uomo-Dio Conclusioni
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L’unità della Repubblica come esempio di scrittura platonica: il libro X Prologo Alcune riflessioni di valore generale La fine del libro IX e il collegamento con il libro X La condanna dell’arte mimetica Primo punto Secondo punto Terzo punto Il problema delle Idee Le Idee dei manufatti Primo problema Secondo problema La divinità e la produzione delle Idee Il problema dell’anima La partizione dell’anima Immortalità dell’anima e sopravvivenza Il mito di Er Conclusione
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Dialettica e Teoria dei principi Nel Parmenide e nel Filebo di Platone Prologo Alle fonti della dialettica Dialettica e filosofia L’identità uno–molti Un sistema di postulati risolutivi Originarietà della dialettica La dialettica come metodo Natura del metodo dialettico L’indicazione metodica I passaggi metodici Una metodologia complessa La dialettica come filosofia Necessità della struttura polare. La negazione dell’Uno–Uno Due processi per una sola realtà La Polarità originaria Uno e Non Uno Limite e Illimitato Polivalenza funzionale dei Principi Limite, Uno e Bene La Misura La visione dialettica del reale Tutto è Misto Misto e Idee Essere e tempo, divenire e atemporalità. L’inutilità della dialettica dell’Essere senza Uno Il Divenire e l’Istante L’articolazione della dialettica platonica: Tutto e parte Un rapporto dialettico, ma non paritetico Conseguenze della dialettica intero–parte Dialettica e aporie delle Idee La dialettica platonica Una dialettica né binaria né trinaria Metodo dialettico e Principi primi
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Alcune riflessioni su misura e metretica (il Filebo tra Protagora e Leggi, passando per il Politico e il Parmenide) Prologo Una premessa di metodo. lo scritto platonico come “gioco” La trattazione metafisica del Filebo Prima parte del dialogo: Processo ontogonico e Causa Premessa: la realtà è uni-molteplice Le radici metafisiche di questa realtà uni-molteplice L’Apeiron Il Peras Il misto La causa Conseguenze e conferme sul piano cosmo-ontologico Ordine e disordine del Cosmo alla luce del Politico La causalità ideale alla luce del Parmenide Prime conclusioni Seconda parte del dialogo: il Bene e la Misura Premessa: la trattazione del Bene è necessaria
Alcune “anticipazioni” sul Bene
Le “allusioni” alla natura del Bene
Il segno del Bene-Misura
Le due trattazioni a confronto
La metretica
La metretica nelle prime opere
Le due metretiche del Politico
L’applicazione della “misura” nell’azione del politico
Un breve riferimento alle Leggi
La vita buona e misurata
Due tipi di uguaglianza L’importanza del modello trinario
Appendice I Le Idee sono composte da altre Idee Appendice II La trattazione di cause e concause Fedone Politico Timeo
Due brevi osservazioni finali
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Cura dell’anima. L’intreccio tra etica e politica in Platone La natura bivalente della politica L’intreccio tra etica e politica Il parallelo tra anima e polis Potere politico e dominio di sé Elementi di antropologia platonica L’anima Beni e virtù Due “Idee” di piacere Il Bene L’azione del politico Il ruolo ordinatore delle leggi Le responsabilità dei soggetti politici Centralità dell’impianto educativo Politica e retorica Il fine della politica: ordine e felicità Il Bene come fine Due modelli di vita a confronto Il piacere e i beni umani Virtù e felicità Un necessario approdo escatologico
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Polivalenza strutturale della filia in Platone La semanticità di filia nei dialoghi La funzione socio–politica dell’amicizia L’esempio dei conviti Due specifiche applicazioni Critone o dell’amicizia Il rinvio al Primo amico Una riflessione finale
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La domanda sull’immortalità e la resurrezione. Paradigma greco e paradigma biblico Prologo L’evoluzione del paradigma greco La tradizione orfica e il suo sviluppo filosofico Platone Una duplice valutazione Una riflessione razionale sull’anima Le prove dell’immortalità dell’anima Tripartizione dell’anima e sua sopravvivenza Anima e corpo in Aristotele Immortalità dell’anima ed etica Immortalità dell’anima ed opere essoteriche La concezione ebraica Una visione mitica Una visione unitaria dell’essere umano La condizione dopo la morte Lo stacco tra immortalità dell’anima e resurrezione Socrate e Cristo L’incontro nell’ellenismo e nel cristianesimo Filone di Alessandria Il primo cristianesimo Conclusioni
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Un paradigma ermeneutico per la storia della filosofia antica: l’approccio multifocale Una situazione straordinaria Il senso e le ragioni di una scelta diversa L’emergere del multifocal approach Il contributo della sofistica L’esperienza platonica L’elaborazione aristotelica Il valore attuale di questa visione dell’antico
In copertina: Vasilij Kandinskij, Verso l’alto (Empor), 1929, olio su cartone. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. L’energia del pensiero nella ricerca della bellezza si protende verso l’alto (empor). Le forme geometriche astratte disegnano il volto di profilo di una persona: il personaggio è sorretto – in un punto di equilibrio ideale – da un trapezio e da una lettera E (empor). L’occhio, lo sguardo, è rivolto verso un’altra grande E a destra, in alto.
Da un lato Aristotele mantiene il concetto di dio che gli proviene dalla religione greca, cioè quello di vivente eterno e ottimo, ma dall'altro si serve di questo concetto per definire la natura del motore immobile, cioè del principio da cui dipende il movimento, e col movimento la vita e l'esistenza, di tutto ciò che è compreso nell'universo, vale a dire del principio supremo, trascendente e onnipotente, anche se non creatore. Pertanto può essere legittimo anche parlare di un Dio di Aristotele con l'iniziale maiuscola, purché si faccia riferimento alla nozione greca di dio e si tenga presente l'intera filosofia di Aristotele, la quale dimostra la necessità di un principio supremo e trascendente, dotato di caratteri personali, cioè di intelligenza e volontà, e dunque suscettibile di essere classificato nella specie degli dèi, ma al tempo stesso degno di meritare l'iniziale maiuscola, per il fatto di essere il principio supremo, il bene e il bello per eccellenza.
Il titolo di questo contributo mi è stato proposto da Maurizio Migliori e la mia prima reazione è stata di respingerlo, perché per Aristotele «dio» (theos) è un nome comune, cioè è il nome di una specie di esseri viventi, come «uomo» o «cavallo», perciò nella traduzione si dovrebbe scrivere con l’iniziale minuscola. Inoltre in Aristotele non c’è una nozione di Dio paragonabile a quella che sta alla base delle grandi religioni monoteistiche, e delle filosofie che da esse sono state ispirate, cioè quella nozione per cui c’è un solo Dio, creatore e signore del cielo e della terra. In questa concezione il nome «Dio» diventa quasi un nome proprio e, come tale, va scritto con l’iniziale maiuscola, indipendentemente dal fatto che colui che scrive sia o non sia credente. Alla fine però, dopo avere pensato a tutto quello che avrei potuto scrivere, ho deciso di conservare il titolo propostomi da Migliori, perché c’è un senso, come vedremo, in cui esso può risultare appropriato anche ad Aristotele. Prima di tutto desidero sgomberare il terreno da un’altra improprietà di linguaggio, che in parte dipende da un’interpretazione a mio avviso inaccettabile, cioè quella per cui si parla di una «teologia» di Aristotele, espressione che io stesso ho usato in varie circostanze e di cui ora, in un certo senso, mi pento. L’idea che ci sia una teologia di Aristotele è antica e deriva probabilmente dai commentatori antichi, probabilmente da Alessandro di Afrodisia, se non addirittura da Teofrasto. Essa ha dominato tutta l’antichità, il medioevo (sia arabo, sia bizantino, sia latino) e gran parte dell’esegesi moderna.
[…] Sostenendo che il motore immobile è causa efficiente naturalmente non intendo escludere che esso, e quindi «il dio», possa essere anche causa finale, ma ritengo che esso lo sia per l’uomo, non per il cielo. Ciò mi sembra risultare da un altro passo della stessa Etica Eudemea, dove Aristotele afferma, a proposito della parte cognitiva dell’anima, che
«il dio non la governa dando degli ordini, ma come ciò in vista di cui la saggezza (phronesis) ordina […], poiché quegli non ha bisogno di nulla. Perciò quella scelta e quell’acquisto dei beni naturali che produrrà più di tutto la conoscenza del divino (ten tou theou theorian), […] questa è la migliore e questo criterio è il più bello, mentre quella che per difetto o per eccesso impedisce di servire e di conoscere il dio (fon theon therapeuein kai theorein), questa è cattiva» (Ethica Eudemia, VIII, 3, 1249 b 13-21).
Il fine in vista del quale la saggezza ordina, in questo passo, è chiaramente indicato nella conoscenza del dio, e probabilmente anche nel culto pubblico di esso (therapeuein), come suggerisce Bodétis (R. Bodéus, Aristote et la théologie des vivants immortels, cit., pp. 269-270). Dunque in questo senso il dio è per l’uomo un fine. Ma ciò non conferisce all’etica di Aristotele un carattere teologico, come pretendeva Jaeger, perché il vero fine dell’uomo, in cui consiste la felicità, è in generale la conoscenza delle cause prime, tra le quali è compreso anche il motore immobile, e quindi il dio. Ciò è confermato dal passo dell’Etica Nicomachea parallelo a quello dell’Etica Eudemea appena citato:
«Ma neppure della sapienza (sophia) la saggezza è signora né della parte migliore dell’anima, come neppure della salute è signora la medicina, poiché questa non si serve di quella, ma guarda a come procurarla. La saggezza dunque ordina in vista di quella, ma non a quella. Inoltre sarebbe la stessa cosa se uno dicesse che la saggezza politica comanda sugli dèi, per il fatto che ordina intorno a tutte le cose che sono nella città» (Aristotele, Ethica Nicomachea, VI, 13, 1145 a 6-11).
La saggezza, dunque, ordina in vista della sapienza, la quale è il vero fine dell’uomo. Ma la sapienza è la conoscenza dei princìpi, cioè delle cause prime, fra le quali vi è anche il dio. Di conseguenza la saggezza dirige tutte le azioni dell’anima verso la conoscenza del dio, così come nella città la saggezza politica organizza tutte le cose, compreso il culto pubblico degli dèi. In questa concezione non vi è nulla di teologico: il vero fine dell’uomo, per Aristotele, resta la conoscenza in tutta la sua portata. Anche quando lo Stagirita afferma che l’uomo deve imitare gli dèi, la ragione di questa imitazione è soltanto il valore della conoscenza. Egli dice infatti:
«tutti suppongono che gli dèi vivano e siano in attività, poiché non possiamo supporre che essi dormano come Endimione. Ora, al vivente privo dell’azione morale e ancor più della produzione, che rimane se non la conoscenza (theoria)? Pertanto l’attività del dio, che si distingue per beatitudine, sarà di tipo conoscitivo (theoretike). E di conseguenza fra tutte le attività umane la più simile a questa sarà la più felice […]. Infatti per gli dèi la vita intera è beata, mentre per gli uomini lo è nella misura in cui sussiste una somiglianza con siffatta attività» (Ethica Nicomachea, X, 8, 1178 b 18-27).
Qui abbiamo ancora a che fare con la nozione di divinità accettata da tutti, ma essa è collocata nel quadro di un’etica tipicamente aristotelica, cioè finalizzata alla conoscenza dei princìpi e delle cause prime.
In conclusione, da un lato Aristotele mantiene il concetto di dio che gli proviene dalla religione greca, cioè quello di vivente eterno e ottimo, ma dall’altro si serve di questo concetto per definire la natura del motore immobile, cioè del principio da cui dipende il movimento, e col movimento la vita e l’esistenza, di tutto ciò che è compreso nell’universo,[1] vale a dire del principio supremo, trascendente e onnipotente, anche se non creatore. Pertanto può essere legittimo anche parlare di un Dio di Aristotele con l’iniziale maiuscola, purché si faccia riferimento alla nozione greca di dio e si tenga presente l’intera filosofia di Aristotele, la quale dimostra la necessità di un principio supremo e trascendente, dotato di caratteri personali, cioè di intelligenza e volontà, e dunque suscettibile di essere classificato nella specie degli dèi, ma al tempo stesso degno di meritare l’iniziale maiuscola, per il fatto di essere il principio supremo, il bene e il bello per eccellenza.
Enrico Berti, Il dio di Aristotele, in: Id., Nuovi studi aristotelici. V. Dialettica, fisica, antropologia, metafisica, Morcelliana, Brescia, 2020, pp. 250, 266-267.
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[1] Cfr. De caelo, I, 9, 279 a 28-30: «di là dipendono anche per le altre cose, per alcune in modo più preciso e per altre in modo più indiretto, l’essere e il vivere».
Enrico Berti, Professore emerito dell’Università di Padova, dove ha insegnato Storia della filosofia. È socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, membro della Pontificia Accademia delle scienze, presidente onorario dell’Institut International de Philosophie. Tra le sue numerose pubblicazioni: Introduzione alla metafisica (2017), la traduzione italiana della Metafisica di Aristotele (2017), Aristotelismo. Tradizioni di pensiero (2017), Tradurre la «Metafisica» di Aristotele (2017), Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni (2016), La ricerca della verità in filosofia (2014), In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica (20018), A partire dai filosofi antichi (con Luca Grecchi, 2009), Aristotele nel Novecento (2008), Incontri con la filosofia contemporanea (2006).
ISBN 978-88-7588-263-1, 2020, pp. 272, Euro 30 – Collana “Il giogo” [120]
A cura di Elena Bartolini, Andrea Ignazio Daddi, Alessandra Filannino Indelicato
Atti del Convegno di Studi «Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo», Università degli studi di Milano Bicocca, 27-28 Marzo 2019. Moderatori: Claudia Baracchi, Luca Grecchi
Questo volume, curato da Elena Bartolini, Andrea Ignazio Daddi, Alessandra Filannino Indelicato, raccoglie gli Atti del Convegno di Studi «Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo», promosso dall’Università degli studi di Milano Bicocca, Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, e dalla Associazione «Philo. Pratiche filosofiche», il 27-28 Marzo 2019. Moderatori: Claudia Baracchi, Luca Grecchi.
Si evidenziano i relatori e i temi trattati:
Daniele Guastini Inattualità e attualità della paideia poetica
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Angelo Tonelli «La Sapienza greca tra Oriente e Occidente. Dioniso, Eleusis, Parmenide, le Upanishad e il “Mongolo di Taranto”
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Alberto Jori Ippocrate ‘filosofo’: dal sapere ontologico alla scienza funzionale
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Arianna Fermani ”In ogni caso si deve filosofare”. Aristotele e l’attualità della filosofia
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Maurizio Migliori Platone. Amico di Socrate, l’uomo più giusto del suo tempo
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Giulio A. Lucchetta «Quale rischio corre Dione a Boristene? Un bilancio della cultura greca in età ellenistico-imperiale
Elena Bartolini – Andrea Ignazio Daddi – Alessandra Filannino Indelicato
Premessa
Il presente volume raccoglie gli interventi proposti nel corso del convegno Il futuro dell’antico, svoltosi il 27 e 28 Marzo 2019 presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca: due giornate di studio volte ad esplorare, nel passato, potenzialità e insegnamenti ancora da pensare, dunque contemporanei. Studiosi importanti si sono incontrati per offrire agli studenti e alla cittadinanza l’occasione di un incontro con il pensiero antico, troppo spesso trascurato, soprattutto nelle sue connessioni con il presente, nonché nei suoi slanci verso un futuro inesplorato. Dell’antico si sono così messe in luce la densa e ancora contemporanea vitalità, nonché le conseguenti suggestioni e implicazioni sul piano formativo, etico e politico. Coordinatori scientifici del convegno sono stati la Prof.ssa Claudia Baracchi e il Dott. Luca Grecchi, il cui precipuo interesse, insieme al comitato organizzativo rappresentato dagli stessi curatori degli atti (Dott.ssa Elena Bartolini, Dott. Andrea Ignazio Daddi e Dott.ssa Alessandra Filannino Indelicato), è da sempre quello di mantenere vivo e vitale il contributo sapienziale filosofico-antico nel suo nesso con l’analisi della vita quotidiana, in tutti i suoi molteplici aspetti. Come vedremo, l’antico risulta costantemente carico di “novità”, per cui i contributi qui presentati, pur differenti nell’impianto generale per contenuti e per approcci, hanno questo in comune: l’effervescente afflato, sentito con prioritaria urgenza, di vivere il contemporaneo non indifferenti all’amore per la saggezza che nell’antico trova origini e sviluppi ancora tutti da riscoprire e da esplorare. Quella che, allora, attraversa i vari testi come un filo rosso, potrebbe essere una sola grande domanda: quale futuro per l’antico?
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Il primo saggio è presentato da Daniele Guastini, che offre un’analisi della paideia poetica nei suoi aspetti di inattualità ed attualità. Con l’espressione “paideia poetica” egli intende riferirsi ad una formazione dell’essere umano declinata attraverso gli elementi caratterizzanti dell’epos, delle arti visive, della pittura, della scultura e dell’architettura secondo i canoni dell’antichità classica. Fin da subito l’autore ci avverte di evitare di sovrapporre o equiparare paideia poetica ed educazione estetica, considerando quest’ultima secondo i criteri imposti dal neoclassicismo. Guastini evidenzia che la maggiore distanza tra queste due prospettive si riscontra, più che nella mancanza di centralità dell’arte nel contesto contemporaneo, nel tipo di esperienza che si ha rispetto agli oggetti indicati dalla teoria estetica come “opere d’arte”. Il momento cruciale in cui si avvera la divergenza tra queste due diverse possibilità esperienziali sarebbe da trovare nella proposta estetica di Hegel, convinto sostenitore della storicità del concetto di arte e del necessario superamento di questa da parte di religione e filosofia, e in quella di Kant, secondo cui l’arte viene a identificarsi con la creatività del genio. È con Kant che si sancisce l’inutilità pratica dell’esperienza estetica e dell’arte in genere, così come la contenuta delimitazione gnoseologica a cui questa può aspirare. Oltre ad esporre le dinamiche di tale divergenza, Guastini ne approfondisce i motivi storico-filosofici, ripercorrendo le vie teoriche che ne hanno permesso lo sviluppo. Infine, nella terza e ultima parte del suo scritto, egli ci fornisce spiegazione circa le ragioni che portavano i greci a considerare la paideia poetica propedeutica non solo alla formazione ma soprattutto al sapere, intravedendone risvolti propositivi per la contemporaneità.
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Con incisività, il saggio di Angelo Tonelli, dal titolo quanto mai esaustivo, conduce il lettore verso l’immediata e provocatoria comprensione del debito contratto da una inesistente – al singolare – “grecità”, nei confronti del tutt’altro-che-occidentale. Grecità bastarda, meticcia, spuria, mostrata nella sua irriducibilità non soltanto al logos che facendo parola già tradisce il mondo, ma anche al duale e al dicotomico. “Grecità” ereditata e rifratta dalle complessità dello sciamanesimo iperboreo mongolico-siberiano e trace, ma anche egiziano, iranico, persiano; riverberata nell’occulto di antichissimi echi di un Oriente taoista e upanishadico e, ancora, in radicale fusione con le inattingibili origini del pensiero. E dunque, la nascita della filosofia, pure nella forma logico-razionale contemporanea, è chiamata a cum-prehendere la vita come pratica quotidiana contemplativa e partecipativa di sat, l’intero-verità, del cosmo-cuore, dell’immanentismo-panico. Dioniso, Eleusi e Parmenide sono tra le più nitide testimonianze di questo immenso movimento di radicamento nel panorama straniero, slancio altro e invito a rieducare lo sguardo all’antico e a riconsiderare il circolo di trasmissione-ricezione del passato. Sicuramente Tonelli ha il coraggio di mostrare il futuro incerto, assieme alla violenta brutalità e all’ostilità perpetrata da un contemporaneo ladro, dimentico – più che altro per brame di potere o per necessità storico-politiche – della forza trasformativa dell’intuito (nòos) e della necessità di una vita nel segno di quest’ultimo praticata. Per quanto oggettificato, strumentalizzato, peraltro morente – un resto, insomma, una scoria non meglio individuata del soma psichico-cosmico – nòos ci attraversa e ci compone, in quanto organo di connessione umano-divino, e ancora ci interroga sul rapporto tra essere e apparire, illuminando la via sapienziale che è occidentale e orientale insieme. E tutto questo soggiace a null’altra legge se non a quella che è protetta dal non dicibile, difesa dal silenzio di un’umanità in cammino nella direzione dello sprofondamento oscuro e totalizzante del tò eón, che è anche rinascita verso un futuro dove sia possibile ereditarsi nella propria interezza s-confinata e con-fusa di mondi, tutti quelli che ci compongono.
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Alberto Jori analizza l’epistemologia ippocratica, prima testimone e promotrice del passaggio fondamentale, e rivoluzionario su più livelli – culturale prima di tutto -, tra il modello essenzialista (o ontologico-strutturale) e il modello funzionale (o storico-evolutivo). Il primo, in linea con la mitopoiesi e dominato dalla ricerca delle archai operata soprattutto dalla prima filosofia naturalista, utilizza il metodo genetico come una forma riduzionistica del concetto di storicità – forma caratterizzata da linearità, staticità, reversibilità e perenne ripetizione degli eventi e dunque implicante una temporalità intesa nella sua astoricità o antistoricità. Il secondo invece, prevalente nel Corpus Hippocraticum e sviluppatosi inizialmente in stretta opposizione al primo, si impone con il postulato metodologico secondo cui l’uomo è prima di tutto produttore e prodotto storico e culturale, differenziandosi dalle bestie per la produzione dei suoi propri strumenti. Questo modello, che presenta per Jori echi marxisti, non soltanto ruota attorno all’asse temporale diacronico, attribuendo alla storicità il compito di investire integralmente il piano ontologico ed epistemologico, rendendoli perfettamente sintonizzati, ma vuole anche “garantire la condizione di possibilità dell’itinerario storico-culturale che traccia, nel segno del progresso”. Per questo motivo, la iatrikè va salvaguardata da possibili sconfinamenti disciplinari – come per esempio la scienza medica della nutrizione e dell’alimentazione va differenziata dalla cucina, che pure veniva considerata una proto-medicina – e va ribadito fortemente il primato di quella su qualsiasi scienza, anche della natura. In conclusione, Jori mostra come sia proprio nel passaggio dalla vana investigazione archeologica delle essenze all’indagine strutturale delle relazioni – passaggio testimoniato anche da Platone, che nel Fedro supporterà questo nuovo modello – che si gioca la vera grande provocazione di Ippocrate, provocazione che viene lasciata ai posteri in forma di eredità da riscoprire e che non allontana il medico dalla via sapienziale ma, al contrario, ne riconferma il talento di grande filosofo.
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Arianna Fermani conduce il lettore alla ri-scoperta del versante prettamente pedagogico-formativo del filosofare aristotelico, troppo spesso ignorato, sottolineando come la dimensione della paideia sia, per lo Stagirita, un elemento cruciale ai fini della piena “fioritura dell’umano”. Se, infatti, più in generale, la filosofia greca si pone, sin dalle origini, come una “teoria generale dell’educa zione”, è in particolare con Aristotele che formazione ed etica finiscono col fondersi inscindibilmente. Esaminando soprattutto gli scritti etici e politici, allora, la studiosa tratteggia i due diversi scenari che questo rapporto costitutivo assume nel pensiero del filosofo: l’educazione è, da un lato, la “precondizione dell’etica” e in quanto tale ha nell’acquisizione della virtù – cui la stessa prepara attraverso la relazione tra il soggetto in crescita e la figura del maestro e la conseguente imitazione di un modello – il suo esito; d’altro canto, essa al contempo coincide con l’etica quale continua “attività dell’anima secondo virtù”, che sola è “garante di pienezza e felicità” per l’individuo ormai adulto. Questo attento riesame delle posizioni etico-pedagogiche aristoteliche, quindi, ci mostra come già il filosofo avesse inaugurato la prospettiva, oggi diffusa, dell’educazione permanente e ci consente di cogliere l’attualità, tutta inattuale, di un messaggio che ammonisce la contemporaneità a non recidere troppo sbrigativamente i legami tra pratiche formative e ricerca della vita buona. Una particolare attenzione viene, inoltre, attribuita al ruolo che Aristotele riserva alle passioni e al desiderio nell’ambito dello stesso processo educativo attestando, in tal modo, una misurata consapevolezza del coinvolgimento di tutto lo psichismo nell’attività di formazione dell’umano che precede di molto le elaborazioni freudiane. Infine Fermani rileva, con Aristotele, la costitutiva ambivalenza dell’apprendere e dell’educare che molto spesso si danno più come necessaria “correzione dolorosa” che come piacevole esperienza ludica, per quanto lo Stagirita, nuovamente precorrendo i tempi, inviti ad adottare pratiche formative attente a non snaturare le diverse specificità soggettive o, come diremmo oggi, individualizzate.
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Maurizio Migliori si sofferma sulla relazione amicale che intercorre tra Platone e Socrate, “l’uomo più giusto del suo tempo”, portandola ad esempio della filosofia platonica nel suo insieme. Il passaggio su cui l’autore si sofferma è tratto dalla Lettera VII, in cui si fa riferimento anche al processo che ha visto coinvolto Socrate. La figura di Socrate, tuttavia, non viene mai definita con gli stessi termini lusinghieri negli altri testi platonici; anzi, la presenza e la caratterizzazione di Socrate trovano spazio nei dialoghi solo alla luce del “gioco” dialettico cui Platone invita il lettore – un gioco in cui via via la figura socratica va scomparendo. Migliori evidenzia come, in un certo senso, i primi dialoghi platonici siano da considerarsi una genuina derivazione rispetto all’indagine socratica, preminentemente incentrata sul «che cos’è (tì êsti)»: in tali testi, Platone si concentra sulla differenza che intercorre tra l’incertezza propria del mondo diveniente e l’ordine stabile delle idee. Altro è il Socrate del Simposio che, dopo esser stato maestro di Agatone, apprende da Diotima quale sia la vera natura di Eros e quale l’ascesa verso il vero sapere, in un intreccio altalenante di sapienza ed ignoranza. L’autore si sofferma poi sia sul Fedro che sul Fedone, esempi del filosofare giocoso che permettono a Platone di manifestare quelli che lui ritiene essere i limiti della filosofia socratica. In questo modo viene accentuato l’aspetto di ricerca insito nel sapere filosofico, ma viene anche accennato il rimando al mondo altro delle idee. L’amicizia tra i due, perfetto emblema dei rapporti in cui si declina la philia greca, non significa completa sovrapposizione di pensiero, ma coesione nella ricerca, accettando i rischi che questa richiede.
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Il volume si chiude con il contributo di Giulio A. Lucchetta che ci porta sulle tracce di Dione di Prusa, di ritorno dalla lontana Boristene, e offre una reinterpretazione della sua Orazione XXXVI. Se il retore, celebre per abilità e moderazione, narra le difficoltà con cui si è scontrato una volta giunto all’estremità dell’ecumene, e ammette il fallimento della sua strategia comunicativa presso un uditorio apparentemente fuori dal tempo, è per denunciare i limiti del logos ellenistico che, ormai “abusato e rinsecchito” da una “razionalità astratta e inconcludente”, può ben poco di fronte al riemergere di quanto, di una grecità arcaica ancora in dialogo con l’Oriente, sembrava andato perduto: di fronte all’irrompere del numinoso e dell’immaginifico, di fronte all’esperienza del thaumàzein, il dire scientifico-razionale cede il passo al silenzio oppure di metafore atte a ornare il logos”. E il mito può osare l’altrimenti indicibile. L’incontro tra Dione e la comunità boristenita, fieramente greca dai tratti ancora omerici e al contempo profondamente influenzata dalle popolazioni barbariche che la circondano, è, allora, l’esito di un viaggio che il sofista compie tanto nello spazio quanto nel tempo e il suo racconto, lungi dall’essere un mero argomento di interesse storiografico, costituisce per noi, oggi, un monito a restare aperti all’Alterità: a quella che ci circonda e a quella che ci in-forma, ci abita, dice della nostra provenienza non meno che del nostro destino.
Il convegno si è rivelato una preziosa occasione di condivisione e confronto, un vitale momento di dialogo costruttivo all’interno della comunità filosofica. Nel rendervi testimonianza, dando spazio alla pluralità di voci coinvolte così come alla diversità di approcci, questo testo vuole essere un invito a guardare l’antico con occhi nuovi, disincantati, scevri da giudizi precostituiti, per immergersi nel non ancora pensato che lì trova la sua inesauribile sorgente.
Ripubblico nel presente volume i miei articoli su Dialettica, Fisica, Antropologia e Metafisica di Aristotele, usciti dopo i primi due volumi dei miei Nuovi studi Aristotelici, che trattavano degli stessi temi, ma risalgono ormai a quasi vent’anni fa. A questo volume, che viene cosÌ a essere il V dell’intera serie, ne seguirà un VI, contenente gli articoli su Etica e politica, Poetica, Fortuna di Aristotele, Attualità di Aristotele, usciti anch’essi nell’ultimo ventennio.
Che dire di fronte a una simile quantità da carta, anche senza considerare i volumi monografici e le traduzioni? Il primo a esserne sbigottito sono io stesso. L’unica spiegazione che riesco a danni è la lunghezza ormai ragguardevole della mia vita. Sono 65 anni che scrivo! Alla lunghezza della vita si accompagnano però anche una grande passione per la filosofia e varie sollecitazioni da parte di colleghi, organizzatori di convegni, e case editrici, che continuano a chiedenni di scrivere e di pubblicare.
È utile tutto questo lavoro? Secondo alcuni, sÌ, perché pennette di ritrovare scritti altrimenti introvabili, sparsi nelle più svariate parti del mondo. Ovviamente questo interessa soltanto gli studiosi. È per loro, infatti, che ho scritto, come risulta dalle innumerevoli note in cui vengono citati, a testimonianza di un dibattito interno a una comunità scientifica, che continua a svilupparsi. Sembra tuttavia che anche altri si interessino al contenuto di questi volumi, come risulta dal fatto che l’intera serie è in corso di traduzione in lingua portoghese nel lontano Brasile (sono già usciti i primi tre volumi).
Ma in tutto questo ci sono anche degli inconvenienti, di cui mi rammarico e mi scuso con i lettori. Il primo sono alcune ripetizioni, che però considero inevitabili in scritti destinati alle occasioni più diverse. Il secondo inconveniente sono alcuni cambiamenti di opinione, da parte mia, sugli stessi argomenti trattati in precedenza, cambiamenti che pertanto rendono obsoleti alcuni miei scritti (non però quelli usciti nella serie dei Nuovi studi aristotelici). Quest’ultimo inconveniente è dovuto alla superficialità che avevo specialmente da giovane, la quale spesso mi ha indotto a seguire le interpretazioni tradizionali, senza accertarmi a sufficienza della loro tenuta.
Esso però è anche rivelatore di una profonda verità. I testi di Aristotele, anche riletti e rimeditati per anni e anni, anzi per decenni e decenni, in un certo senso risultano sempre nuovi, nel senso che svelano sempre nuove possibilità di interpretazione. Ebbene, questo è ciò che fa di Aristotele un “classico”, un grande classico, ricco di risorse inesauribili, che ciascuno può attingere in parte. Forse è per questo che le sue opere continuano a essere lette e discusse onllai da 2400 anni, e non abbiamo ancora finito di farlo.
Non ho parole per ringraziare la casa editrice Morcelliana, che si è sobbarcata il lavoro che il volume comporta, senza preoccupazioni di mercato o di altro genere. Se qualche ricordo dei miei studi resterà, sarà soprattutto merito suo.
Enrico Berti
Padova, febbraio 2020
Sommario
Prefazione
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PARTE PRIMA Dialettica
CAPITOLO PRIMO Socrate e la scienza dei contrari secondo Aristotele.
CAPITOLO SECONDO Phainomena ed endoxa in Aristotele.
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PARTE SECONDA Fisica
CAPITOLO PRIMO Primato della fisica?
CAPITOLO SECONDO La materia come soggetto in Aristotele e nei suoi epigoni moderni 1. Premessa, 49 – 2. Aristotele, 51 – 2.1. Il soggetto nelle Categorie, 51 – 2.2. Il soggetto e la materia nella Fisica e nella Metafisica, 54 – 3. I moderni critici di Hegel, 60 – 3.1. Feuerbach, 60 -3 .2. Marx, 66 – 3.3. Kierkegaard, 71
CAPITOLO TERZO Ýλη nei testi aristotelici 1Premessa, 79 – 2. Il quadro delineato da Bonilz, 80 – 3. Lo studio di Happ e la letteratura degli ultimi quarant’anni. 86 – 4. Conclusione, 90
CAPITOLO QUARTO Il luogo dei corpi secondo Aristotele. 1. Premessa, 93 – 2. 2. !I luogo nelle Categorie, 95 – 3. Esiste il luogo e che cos’è? (Phys. IV 1),97 – 4. Il luogo non è materia: la critica a Platone (PJrys. IV 2), 100 – 5. I diversi significati dell’«essere in» e l’aporia di Zenone (Phys. IV 3), \02 – 6. 1\ luogo è il primo limite immobile del contenente (Phys. IV 4), \03 – 7. L’universo e i luoghi propri degli elementi (Phys. IV 5), 106 – 8. I movimenti degli elementi e la «potenza» dei luoghi (De caelo), 107 – 9. Osservazioni conclusive. III
CAPITOLO QUINTO La cause du mouvemenl dans les etres vivants .
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PARTE TERZA Antropologia
CAPITOLO PRIMO L‘origine dell ‘anima intellettiva secondo Aristotele 1. L’interpretazione tradizionale del De generatione animalium, 133 – 2. Difficoltà suscitate dalla lettura del De anima e della Metafisica, 149- 3. Tentativo di rilettura del De genera/ione animalium, 155
CAPITOLO SECONDO Un problema di Aristotele. La donna 1. Uguaglianza e differenza tra uomo e donna. 167 – 2. Il ruolo diverso svolto nella generazione, 170 – 3. Il problema delle somiglianze, 173
CAPITOLO TERZO Mente e anima. Due entità?
CAPITOLO QUARTO L’intelletto attivo. Una modesta proposta.
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PARTE QUARTA Metafisica
CAPITOLO PRlMO Differenza tra la concezione platonica e la concezione aristotelica dell ‘essere 1. La concezione platonica dell’essere e la sua fortuna, 207 – 2. La critica di Aristotele alla concezione platonica dell’essere, 211 – 3. La concezione aristotelica dell’essere e le sue interpretazioni, 216
CAPITOLO SECONDO Il verbo “essere” in Aristotele. 1. De interpretatione 3, 16b 19-25,221 – 2. Metaph. – 7, 227
CAPITOLO TERZO Aristotele, Metaph. lota 1-2. Univocità o multivocità dell’uno? 1. Il problema, 235 – 2. L’uno come unità di misura, 237 – 3. L’uno come predicato trascendentale, 241 – 4. Conclusione, 244
CAPITOLO QUARTO Il dio di Aristotele. 1. C’è una «teologia» in Aristotele?, 249 – 2. Il libro Lambda della Metafisica non contiene una teologia, ma una teoria dei princìpi, 255 – 3. Il primo motore immobile è veramente un dio e di conseguenza è personale, 259
CAPITOLO QUINTO La métaphysique d’Aristote. 1. L’image actuelle de la métaphysique d’Aristote, 269 – 2. La métaphysique d’Aristote n’est pas une ontologie, 271 – 3. La métaphysique d’ Aristote n’est pas une théologie, 275
CAPITOLO SESTO Y a-t-il une théologie d’Aristote? 1. «Théologie» ou «science théologique»?, 281 – 2. Le Iivre Lambda de la Métaphysique n’est pas une théologie, mais une théorie des principes, 286 – 3. Le premier moteur immobile est vraiment un dieu et par conséquent il est personnel, 290
CAPITOLO SETTIMO Ontologia in Aristotele?
CAPITOLO OTTAVO Ancora sulla causalità del motore immobile 1. Introduzione, 309 – 2. Il dibattito negli anni 1997-2007, 310 – 3. Una nuova interpretazione di Metaph. XII 7, 1072a26-b4, 320 – 4. Il motore immobile è causa finale dell’uomo? 326 – 5. Conclusione, 331
CAPITOLO NONO Les passages dits “théologiques” du livre Gamma de la Métaphysique d’Aristote 1. Premier passage: réponse à Anaxagoras et à Démocrite, 337 – 2. Deuxième passage: réponse à Héraclite et à Cratyle, 341 – 3. Troisième passage: réponse aux affirmations unilatérales, 344 – 4. Conclusion, 348
CAPITOLO DECIMO La dunamis chez le jeune Aristote . 1. Introduction, 351 – 2. Les premiers rragments du Protreptique, 353 – 3. Les fragments des autres ceuvres perdues, 355 – 4. Le fragment 14 Ross du Prolreplique, 357 – 5. Les parti es les plus anciennes des traités conservés, 361
CAPITOLO UNDICESIMO Aristotle, Metaph. B 3: aporiai VI and VII. Is it the genera that should be taken as elements and principles? Introduction, 369 -I. Aporia VI, 370 – 1. The formulation ofthe aporia, 370- 2. The “thesis”: the principles-elements are not the genera, but the constituent parts of bodies, 372 – 3. The antithesis: the principles-elements are the “genera”, 377 – 4. Conclusion, 382 – Il. Aporia VII, 385 – I. The formulation of the aporia, 385 – 2. The “thesis”: the principles-elements are the supreme “genera”, 386 – 3. Arislolle’s argument against the thesis: Being and One are not “genera”, 386 – 4. Xenocrates’ arguments against the thesis: the principles are the lowest species, 393 – 5. The “antithesis”: the principles-elements are the lowest species, 398 – 6. Conclusion, 399
CAPITOLO DODICESIMO La critica di Aristotele alla scienza universale in Metaph. A 9
1. Il problema, 40 I – 2. Qual è la scienza universale oggetto della critica?, 403 – 3.1. Prima obiezione: non è possibile trovare gli elementi degli enti senza distinguere i molti sensi in cui questi si dicono, 404 – 3.2. Seconda obiezione: non è possibile apprendere una scienza di tutte le cose, che non presupponga nessuna conoscenza precedente, 407 – 3.3. Terza obiezione: non è possibile che la scienza più importante sia innata, 409 – 3.4. Quarta obiezione: come potremmo riconoscere gli elementi di tutte le cose?, 411 – 3.5. Quinta obiezione: non è possibile conoscere le cose sensibili se non per mezzo dei sensi, 412 – 4. Conclusione: la scienza universale ammessa da Aristotele, 413
CAPITOLO TREDICESIMO
Il rapporto tra causa motrice e causa finale nella Metafisica di Aristotele 1. Il problema, 419 – 2. La distinzione tra causa motrice e causa finale nei libri introduttivi (A-E), 419 – 3. La coincidenza tra causa motrice, formale e finale nei libri centrali (Z-0), 427 – 4. Il rapporto tra causa motrice e causa finale nei libri conclusivi (A-N), 432
CAPITOLO QUATTORDICESIMO La finalità del motore immobile di Aristotele tra Metafisica Λ 7 e Λ 1O 1. Lambda 7, 445 – 2. Lambda 10,449 – 3. Appendice, 454
CAPITOLO QUINDICESIMO La genesi della dottrina aristotelica dei princìpi 1. Premessa, 459 – 2. La critica alla dottrina dei due principi-elementi, 461 – 3. La dottrina dei tre princìpi-elementi, 465 – 4. La dottrina delle quattro cause, 469 – 5. Molteplicità dei princìpi e unità dell’essere, 472
CAPITOLO SEDICESIMO Continua il dibattito sulla causalità del motore immobile
CAPITOLO DICIASSETTESIMO The Program of the Metaphysics Lambda (chapter 1)
CAPITOLO DICIOTTESIMO Il duplice bene supremo di Aristotele
1. Il bene come fine ne li’ Etica Nicomachea, 509 – 2. Il bene come principio in Metaph. N, 512 – 3. Il bene come “il dio” in Metaph. A, 517 – 4. La distinzione tra i due beni neII’ Etica Eudemea e in altri scritti, 523 – 5. Un problema epistemologico, 528 – 6. Il rapporto tra i due beni supremi. 532
CAPITOLO DICIANNOVESIMO Socrate, Platon et l ‘Académie 1. Socrate, 537 – 2. Platon: la méthode et les Idées, 538 – 3. Platon: les Idées-nombres et leurs principes, 540 – 4. Platon: l‘ame, le bien, la cité, 542 – 5. L’Académie: Speusippe et Xénocrate, 545
CAPITOLO VENTESIMO Argomenti aristotelici contro l’esistenza di un Essere per essenza 1.L’argomento degli Analitici posteriori, 549 – 2. L’argomento del trattato sulle aporie (Metaph. 1Il), 551 – 3. L’argomento del libro Alpha elal/on, 556 – 4. Conclusione, 561
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INDlCI
Indice dei nomi antichi e medievali.
Indice dei nomi moderni
Nota ai testi
Altri libri di Enrico Berti nel catalogo Morcelliana:
Nuovi studi aristotelici l – Epistemologia, logica e dialettica
Nuovi studi aristotelici” – Fisica, antropologia e metafisica
Nuovi studi aristotelici !II – Filosofia pratica
Nuovi studi aristotelici /V!I – L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo
e Rinascimento
Nuovi studi aristotelici IV!2 – L ‘influenza di Aristotele. Età moderna e contemporanea
Tradurre la Metafisica di Aristotele
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni
Studi aristotelici. Nuova edizione riveduta e ampliata
nel catalogo Scholé:
Aristotele
Invito alla filosofia
Anche chi non è platonico, come chi scrive qui, deve tuttavia riconoscere che il platonismo, pur interpretato nella maniera più cruda, meno accomodante, meno simpatica, cioè come affermazione che il vero mondo è un «altro mondo», ha il grande merito di mostrare, appunto, che ci può essere dell’altro, che c’è un’altra possibilità, che dunque la giustizia è possibile. Questo è un messaggio che, forse, lascia indifferente chi in qualche modo se la spassa, ma non può lasciare indifferente chi soffre, lotta e spera. Non si tratta, con buona pace di Nietzsche, di nichilismo, né passivo né attivo, né, con altrettanta pace di Heidegger, di oblìo dell’essere, ma di autentico impegno, filosofico, etico e politico.
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È possibile riconoscere l’attualità di Platone anche senza essere platonici? La domanda ha un senso, perché il mondo è ancora pieno di platonici, anzi lo è sempre stato, non solo tra i filosofi spiritualisti di ispirazione cristiana – meno tra gli ebrei e musulmani –, ma anche tra i “laici” (basti pensare ai neoplatonici). Questo è un fatto innegabile, sebbene alcuni aspetti del pensiero platonico sembrino francamente inaccettabili: la convinzione che il vero mondo non è quello in cui viviamo, ma un altro; l’assoluta indipendenza dell’anima dal corpo; la necessità che il governo politico sia in mano ai filosofi; l’abolizione della famiglia e della proprietà. Malgrado tutto ciò, anche chi non è platonico deve riconoscere che Platone è ancora attuale, non solo perché ha influenzato l’intera storia della filosofia, al punto che questa è stata considerata una serie di note al suo pensiero, e pare che ancora oggi sia il filosofo più citato di tutti, come sostiene chi si diverte con questo genere di calcoli, ma soprattutto perché ha determinato alcune svolte, dalle quali non si è più tornati indietro.
Indicare in che consiste l’attualità di Platone, però, non è facile, soprattutto perché non è facile stabilire esattamente qual è stato il suo pensiero. Non mi riferisco alla vexata quaestio – ormai, mi sembra, un po’ passata di moda – se il vero Platone sia quello dei dialoghi o quello delle «dottrine non scritte». Mi riferisco a un problema che nasce proprio dalla lettura dei dialoghi e del quale gli studiosi stanno prendendo coscienza in maniera sempre più acuta: dove sta il pensiero di Platone? In ciò che dice il Socrate della maggior parte dei dialoghi, o in ciò che dice, ad esempio, Parmenide nel dialogo omonimo, lo Straniero di Elea nel SoflSta, Timeo nel Timeo, insomma gli altri personaggi dei dialoghi? Questa relativa indeterminatezza sembra conferire al pensiero di Platone un fascino anche maggiore, perché non lo si può mai inchiodare su una posizione determinata, come ha tentato di fare per primo Aristotele, per poterlo meglio criticare.
Una prima svolta prodotta da Platone nella storia della filosofia è quella che Socrate chiama, nel Fedone, la «seconda navigazione». Il personaggio di Socrate, che qui è considerato portavoce di Platone, dopo avere raccontato che da giovane cercava di conoscere le cose con i sensi seguendo in ciò l’esempio di filosofi a lui precedenti come Anassagora – chiamati poi per questo «presocratici» –, afferma che a un certo punto gli parve necessario «rifugiarsi nei logoi e cercare in essi la verità degli enti». Che cosa sono questi logoi? Discorsi? Concetti? Idee? Ogni interpretazione è possibile. Ma certamente essi non sono più la realtà sensibile. Lo sono tra quelli che credono nella separatezza delle Idee platoniche – come Aristotele, ma anche come il «platonico» Cherniss –, tuttavia mi rendo conto che senza passare per le Idee, sia pure separate, non si sarebbe mai giunti al concetto astratto, e quindi alla dialettica, alla scienza, alla filosofia. Da allora, infatti, non si è più tornati indietro, fuorché in qualche filosofia rozza e primitiva che non merita nemmeno questo nome.
Un’altra svolta è stata la concezione del principio supremo non come Dio, o l’Essere, o l’Uno, ma anzitutto come il Bene. Ciò ha comportato tutta una serie di conseguenze a cascata. La filosofia non è più stata vista come pura conoscenza, metafisica astratta, ma come nuovo modo di vivere, come vera e propria conversione alla ricerca della giustizia, della virtù, del bene appunto, per se stessi e per gli altri: filosofia teoretica e insieme pratica, metafisica e insieme etica, ma anche politica, anzi soprattutto politica. È nata così la domanda «che cos’è la giustizia», per rispondere alla quale Platone nel suo capolavoro, la Repubblica, spiega addirittura come è fatta l’anima umana, mostrando quanto essa sia complessa, conflittuale, e come deve essere fatta la città, cioè la società politica, per essere “giusta”. Al di là degli aspetti paradossali di questa dottrina, di cui Platone stesso era perfettamente consapevole e che tuttavia hanno rivelato quale può essere l’efficacia anche storica dell’utopia, tutta la faccenda del governo dei filosofi e dell’abolizione della proprietà ha un significato profondo, imperituro. Essa significa che i governanti non devono avere interessi privati, per potersi dedicare interamente alla ricerca del bene comune. E che non devono essere solo onesti, ma anche intelligenti, cioè devono sapere qual è il vero bene e come lo si realizza. Anche gli aspetti secondari, se vogliamo chiamarli così, della Repubblica, hanno una loro grandezza, che permane immutata. Pensiamo alla grandiosa descrizione dei pericoli che corre la democrazia, quando nessuno obbedisce più ad alcuna legge, nessuno riconosce più alcuna autorità, e chi ne approfitta è solo il tiranno, che sta sempre in agguato e sa più di tutti persuadere, adulare, eccitare, sobillare, ingannare il demos. Ma pensiamo anche alla scandalosa condanna che Platone pronuncia dell’arte, della poesia in particolare, di Omero soprattutto, da lui considerato il più grande di tutti i poeti. Questa condanna dimostra che nessuno, meglio di Platone, ha capito la potenza straordinaria dell’arte e della poesia, la sua irresistibile capacità di incantare, la sua origine quasi divina, e per questo egli l’ha tanto temuta.
Allo stesso modo nessuno meglio di Platone, malgrado il suo rifugiarsi nei logoi, ha capito la potenza immane dell’eros che – come si legge nel Simposio – prima di sublimarsi nell’amore per la bellezza in sé e la bontà in sé, è amore per i bei corpi, desiderio di generare, e può diventare anche follia, tragica – ma in qualche misura anche demoniaca, che bisognerebbe tradurre con “soprannaturale”. Platone ha scandagliato per primo le profondità dell’anima umana, descrivendone i lati più oscuri, le voglie più ancestrali, ma al tempo stesso ha sentenziato che l’uomo è essenzialmente la sua anima e che questa deve cercare di liberarsi il più presto possibile del corpo, per essere felice tutta raccolta in sé stessa e assorta nella contemplazione delle Idee. Per Platone il bene, il vero Bene, non è «fragile», come ha sostenuto a proposito di Aristotele Martha Nussbaum, perché la filosofia è autosufficiente.
Nietzsche, seguito da Heidegger, ha visto nel platonismo l’emblema della metafisica intesa come nichilismo passivo, negazione della vita, evasione dalla realtà, e ha coinvolto nella sua condanna di questo platonismo anche il cristianesimo, da lui considerato una sorta di «platonismo per il popolo». Ma Nietzsche ha sempre ha avuto una grande ammirazione per Platone (come del resto per Gèsù Cristo), da lui intensamente studiato sin dalla giovinezza, mentre ha scritto invece parole crudeli all’indirizzo del povero Socrate. Anche chi non è platonico, come chi scrive qui, deve tuttavia riconoscere che il platonismo, pur interpretato nella maniera più cruda, meno accomodante, meno simpatica, cioè come affermazione che il vero mondo è un «altro mondo», ha il grande merito di mostrare, appunto, che ci può essere dell’altro, che c’è un’altra possibilità, che dunque la giustizia è possibile. Questo è un messaggio che, forse, lascia indifferente chi in qualche modo se la spassa, ma non può lasciare indifferente chi soffre, lotta e spera. Non si tratta, con buona pace di Nietzsche, di nichilismo, né passivo né attivo, né, con altrettanta pace di Heidegger, di oblìo dell’essere, ma di autentico impegno, filosofico, etico e politico.
Enrico Berti,Platone l’antiplatonico, articolo pubblicato in: “Il Sole-24 ore”, Domenicale del 30 dicembre 2006, p. 31.
Enrico Berti
Pensare con la propria testa?
Lezione tenuta nel Corso di Metodologia dell’insegnamento filosofico dell’Università di Padova il 31 maggio 2004. Il testo è stato pubblicato nel 2006 in: Enrico Berti, Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia, 2006, pp. 281-294, cui si rimanda.
La filosofia deve essere insegnata a tutti da un lato per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa” in generale (non di fare filosofia con la propria testa), e dall’altro anche perché essa fa parte della cultura generale. Come potrebbe, infatti, essere considerata colta una persona che non sapesse nulla di Platone o di Kant? Nell’università invece, dove la filosofia viene insegnata a coloro che l’hanno scelta come professione e intendono dedicarsi professionalmente ad essa per tutta la vita, si può anche dire che l’insegnamento ha lo scopo di far imparare a filosofare, ma filosofare non significa costruire ciascuno un proprio sistema filosofico, bensì fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro, ed a questo scopo è necessario conoscere bene la storia della filosofia, e soprattutto leggere le opere dei grandi filosofi.
Il titolo di questa conversazione riprende quello di un articolo di Franca D’Agostini, pubblicato nella rivista “Intersezioni” dell’agosto 2003,[1] aggiungendovi soltanto il punto interrogativo (di cui vedremo la ragione). Franca D’Agostini è la nota e intelligente autrice del fortunato libro Analitici e continentali (Milano 1997), che ha divulgato anche in Italia una contrapposizione del tutto impropria, perché costruita con due categorie tra loro eterogenee, una di tipo metodologico e l’altra di tipo geografico, ma tuttavia utile per classificare la maggior parte dei filosofi contemporanei. Tale contrapposizione è stata infatti coniata, non a caso, da un filosofo analitico, Kevin Mulligan, che l’ha lanciata, se non erro, nel Time’s Literary Supplement, contrapponendo per mezzo di essa i filosofi analitici a tutto il testo del mondo, e ha dato luogo a vari dibattiti, di cui in Italia è rimasto famoso quello sviluppato nel supplemento domenicale del “Sole-24 ore” del 1998. In quest’ultimo è intervenuto anche un altro filosofo analitico, Michael Dummett, con una perfetta illustrazione delle caratteristiche dei due tipi di filosofi, ovvero dei due stili, o modi, di fare filosofia.
Lo stesso Mulligan, in un recente saggio su John Searle, rivendica alla filosofia analitica il rifiuto del principio di autorità e il diritto a “pensare con la propria testa”, accusando i “continentali” di pensare con la testa dei filosofi del passato.[2] Egli così riprende la nota tesi di Kant, il quale nella Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, non solo indicò “il motto dell’illuminismo” nella nota esortazione “abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto!”, ma usò come equivalente a questa proprio l’espressione “pensare con la propria testa”. Dopo avere infatti osservato che pensare può essere faticoso, perché “io ho un libro che ragiona per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che per me decide quale debba essere la mia dieta, ecc., e quindi non ho bisogno di badare a me stesso. Purché solo possa pagare, non è necessario ch’io pensi; altri si assumeranno per me questa noiosa incombenza”, Kant aggiunge che tuttavia “si troveranno sempre […] delle persone che pensano con la propria testa, e che, scrollatesi di dosso il giogo della minorità, diffonderanno il sentimento d’un apprezzamento razionale del valore di ogni uomo e della sua vocazione a pensare da sé”.[3]
Kant, come è noto, faceva di questo concetto il nucleo della sua dottrina sul metodo dell’insegnamento della filosofia, secondo la quale non si deve insegnare la filosofia, ma si deve insegnare a filosofare. Già nello scritto “precritico” Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766 egli sostiene infatti che in generale “uno studente non deve imparare pensieri (Gedanken), ma deve imparare a pensare (denken)”. E, per quanto riguarda in particolare la filosofia, egli precisa: “il giovane licenziato crede che imparerà filosofia, ma questo è impossibile, perché ora deve imparare a filosofare (philosophiren)”.[4] Mentre, infatti, altre scienze, quali ad esempio la geometria, esistono già in una forma sistematica, sulla quale tutti convengono, per esempio gli Elementi di Euclide, ciò non accade assolutamente per la filosofia. “Per imparare la filosofia – scrive Kant – bisognerebbe, anzitutto, che ce ne fosse realmente una. Bisognerebbe poter mostrare un libro e dire: vedete, qui è la sapienza e la conoscenza sicura; imparate ad intenderlo e a capirlo, poi costruiteci su, e sarete filosofi. Finché non mi si mostrerà un tal libro di filosofia […], mi si permetta di dire che si abusa della capacità delle persone”. Per questo, conclude Kant, “il metodo peculiare dell’insegnamento della filosofia è zetetico, come lo chiamavano alcuni antichi (da zetein), cioè indagativo, e diventa in vari punti dommatico, cioè determinato, solo per la ragione alquanto esercitata”.[5]
La stessa posizione Kant mantiene nella Critica della ragion pura, dove scrive: “Tra tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia (salvo storicamente); ma, per ciò che concerne la ragione, tutt’al più si può imparare a filosofare”. E più avanti: “Non si può imparare alcuna filosofia; perché dove è essa, chi l’ha in possesso, e dove essa può conoscersi? Si può imparare soltanto a filosofare, cioè ad esercitare il talento della ragione nell’applicazione dei suoi principi generali a certi tentativi che ci sono, ma sempre con la riserva del diritto della ragione di cercare questi principi stessi alle loro sorgenti e di confermarli o rifiutarli”.[6] Qui sono interessanti la riserva circa la storia e l’accenno alle sorgenti, su cui ritorneremo, ma non c’è dubbio che viene ribadita la tesi già espressa nella Notizia, la quale rimarrà una tesi classica nel dibattito sull’insegnamento della filosofia.
Alla tesi di Kant si ispira esplicitamente l’insegnamento della filosofia nelle scuole francesi, cioè nelle scuole del Paese che, insieme con l’Italia, è certamente quello in cui la filosofia occupa lo spazio maggiore nella formazione dei giovani, collocandosi all’interno del liceo. È noto, infatti, che in Francia si insegna filosofia al liceo, anche se, a differenza che in Italia, solo nell’ultimo anno; ma in quest’anno la filosofia è sicuramente l’insegnamento più importante, che in certi indirizzi raggiunge anche le nove ore alla settimana, per cui l’ultimo anno del liceo è chiamato anche classe de philosophie. Ebbene, nei documenti ufficiali diffusi dal Ministère de l’Education nationale, si è sempre dichiarato che lo scopo dell’insegnamento della filosofia è di insegnare ai giovani à faire de la philosophie (in francese non esiste il verbo “filosofare”). A questo proposito un recente Manifesto per l’insegnamento della filosofia in Francia parla della “dottrina ufficiosa” che ispira l’insegnamento della filosofia in Francia da più di un secolo e che si compendia nelle seguenti affermazioni: “L’insegnamento della filosofia è un insegnamento filosofico. La sua prima finalità non è che l’allievo sappia che cosa dice Platone o Cartesio, ma che apprenda a fare una riflessione filosofica con i propri mezzi e sviluppi così il suo spirito critico e la sua autonomia di giudizio”.[7] Anzi per molti anni negli ambienti scolastici francesi si è criticato il metodo italiano dell’insegnamento della filosofia, perché esso si limita esclusivamente alla storia della filosofia e non insegna minimamente a “fare della filosofia”.
Ma torniamo all’esortazione kantiana a “pensare con la propria testa”. Su di essa non si può non essere d’accordo: non solo l’insegnamento della filosofia, ma l’intera educazione deve formare a pensare con la propria testa, se con questa espressione si intende l’esercizio del senso critico, lo spirito di osservazione personale, il rifiuto dei pregiudizi, la disponibilità al confronto con gli altri, e tutte le capacità di questo genere. Ma siamo sicuri che questo sia l’unico significato della suddetta espressione? A proposito di essa fa alcune interessanti considerazioni Franca D’Agostini nell’articolo sopra citato. Anzitutto ella precisa che, con tale esortazione, Kant non intendeva affermare il primato delle proprie idee e il disprezzo delle idee altrui, poiché in una lettera a Herder del maggio 1768 egli scrisse: “quanto a me, non mi afferro saldamente ad alcunché e con profonda imparzialità combatto tanto le mie opinioni quanto quelle altrui”.[8] Ma poi la stessa D’Agostini osserva molto acutamente: “il problema di fondo, nel tema del ‘pensare con la propria testa’, è che se c’è una testa, per così dire, essa difficilmente è propria o interamente propria”.[9]
Qui emerge tutta la consapevolezza critica, propria dei filosofi “continentali”, degli innumerevoli condizionamenti a cui ciascuno di noi è sottoposto: l’ambiente sociale in cui si è nati, l’educazione che si è ricevuta, la propria storia, la propria cultura, le tendenze, le aspettative, le speranze, ma anche i pregiudizi, le idiosincrasie e, soprattutto oggi, l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, della pubblicità, della moda. Una volta, al tempo di Kant, bisognava guardarsi dal principio di autorità, perché qualche autorità c’era. Oggi non si sono più autorità, quindi non c’è più alcun pericolo di essere vittime di tale principio, ma quanto più lo si rifiuta, tanto più si è vittima di altri condizionamenti. Anche i filosofi, che dovrebbero essere gli spiriti più critici, sono terribilmente vittime delle mode. Non parlo solo di abbigliamento, è evidente, anche se l’accettazione immediata e passiva della moda nell’abbigliamento è già un segno che dovrebbe suscitare qualche sospetto. Parlo delle mode culturali, intellettuali, filosofiche, quelle per cui “dopo il tale (che può essere Kant, o Marx, o Nietzsche, o Freud, o Heidegger, o Quine) non è più possibile dire che”, oppure “oggi è ormai assodato che”, o “la tal epoca è ormai finita”, per cui bisogna necessariamente essere “post” qualche cosa, “post-metafisici”, “post-cristiani”, “post-moderni”, ecc.
Ciò fu visto con grande chiarezza, come ricorda D’Agostini, da Hegel, al quale si deve un’altra tesi, non meno classica di quella di Kant, anche se non più illuministica, da far valere nel dibattito sull’insegnamento della filosofia. Hegel, nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, dichiara: “La smania di pensare con la propria testa sta in ciò, che ognuno metta fuori una sciocchezza più grossa di un’altra”[10]. L’uso dell’espressione “pensare con la propria testa” può dare l’impressione che Hegel intenda polemizzare proprio con Kant, ma ciò non è vero, perché, come giustamente nota D’Agostini, la polemica è rivolta invece contro i filosofi romantici, cioè Eschenmayer e Jacobi. “Quest’oratoria profetica e scevra di concetto – scrive a proposito di essi Hegel – proclama dal tripode questo e quello circa l’essenza assoluta, ed esige che ognuno debba trovare immediatamente tutto questo nel proprio cuore. Il conoscer l’essenza assoluta diventa affare di cuore; è una folla d’inspirati a parlare, e ciascuno di essi dice un monologo, e capisce veramente l’altro solo nella stretta di mani e nel silenzio del sentimento. Quel che essi dicono, sono per lo più cose banali, se si prendon così come sono dette; il sentimento, l’atteggiamento, la pienezza del cuore son essi che debbono dare forza al discorso, – per sé non dicono nulla. Essi cercano di superarsi l’un l’altro con le trovate della fantasia, con la poesia nostalgica”. Certo, si tratta di un modo molto particolare di intendere il “pensare con la propria testa”, ma esso non è raro nemmeno tra i filosofi di oggi – non tra gli analitici, va detto, bensì proprio tra i continentali – che spesso hanno l’aria di ispirati, o di iniziati, che hanno scoperto da soli la verità e si decidono a rivelarla al volgo, evitando qualsiasi argomentazione e lasciandosi andare, nel migliore dei casi, a una serie di asserzioni del tutto ingiustificate, quando non oscure o addirittura incomprensibili.
“Per il filosofare – continua Hegel – non c’è speranza, l’onore è perduto; infatti esso presuppone un fondo comune di pensieri e di principi, esige che si proceda scientificamente o per lo meno esige opinioni. Ma ora tutto è stato riposto nella particolare soggettività; ognuno è diventato altezzoso e sprezzante verso gli altri. A questo si ricongiunge la rappresentazione del pensare con la propria testa, come se ci potesse esser pensiero che non sia tale”.[11] Evidentemente l’esortazione kantiana a “pensare con la propria testa” aveva avuto successo, anche troppo, ed era stata distorta in un diritto ad esaltare la propria soggettività, la propria creatività, infischiandosi del “fondo comune di pensieri e di principi”. Le opinioni, che secondo Hegel il filosofare esige, sono quelle che devono essere messe in discussione, quelle che Kant voleva combattere, sia le proprie che le altrui, ma in un dibattito comune, in una dialogo con gli altri, il quale non sia il monologo di un ispirato, bensì la discussione di chi argomenta, di chi confuta o anche di chi dimostra.
È interessante, a questo proposito, richiamare anche le idee di Hegel sull’insegnamento della filosofia. Egli fu, come è noto, per alcuni anni rettore, cioè preside, del ginnasio di Norimberga (1808-1816), e questi furono gli anni in cui scrisse la Scienza della logica (1812-1816), cioè quelli in cui giunse ad elaborare in forma compiuta il suo sistema. Nel 1812 fu richiesto dal Regio consigliere scolastico superiore per la Baviera (una specie di ministro dell’istruzione), Immanuel Niethammer, di un parere riservato sull’insegnamento della filosofia del ginnasio. In questo parere Hegel scrisse, tra l’altro: “In generale, si distingue il sistema filosofico, con le sue scienze particolari, dal filosofare vero e proprio. Secondo la moda moderna, specialmente della pedagogia, non si deve tanto venire istruiti nel contenuto della filosofia quanto imparare a filosofare senza contenuto; ciò vuol dire, pressappoco: si deve viaggiare, viaggiare sempre, senza conoscere le città, i fiumi, i paesi, gli uomini, ecc.”.[12] Evidentemente la tesi di Kant aveva avuto successo anche in Baviera, specialmente tra i pedagogisti, anche allora nemici dei contenuti ed amici soprattutto dei metodi (nihil sub sole novum).
A questa tesi (dei pedagogisti bavaresi, più che di Kant) Hegel risponde con tre argomenti. “In primo luogo, nel conoscere una città, nel giungere poi ad un fiume, ad un’altra città, e così via, si impara senz’altro, in tal modo, a viaggiare, e non s’impara soltanto, ma si viaggia effettivamente. Così quando si viene a conoscenza del contenuto della filosofia, non si impara soltanto il filosofare, ma si filosofa anche già effettivamente”.[13] Evidentemente per Hegel, a differenza che per Kant, la filosofia da qualche parte esiste già ed è costituita, come vedremo tra poco, da un lato dal sistema delle scienze filosofiche, quello che lo stesso Hegel si accingeva ad esporre nella sua Enciclopedia, e dall’altro dalla storia della filosofia, la cui conoscenza, secondo Hegel, è già un modo per filosofare.
“In secondo luogo – continua Hegel – la filosofia comprende i più alti pensieri razionali intorno agli oggetti essenziali, comprende l’universale e il vero dei medesimi: è di grande importanza acquisire familiarità con questo contenuto, e accogliere nella propria testa questi pensieri. Il procedimento triste, meramente formale, il perenne cercare e vagare, senza contenuto, l’asistematico sofisticare e speculare, hanno come conseguenza la vacuità e la mancanza di pensieri in testa, il fatto che non si sappia nulla. La dottrina del diritto, la morale, la religione costituiscono un campo dotato di un importante contenuto; anche la logica è una scienza ricca di contenuto: quella oggettiva (Kant: trascendentale) comprende i pensieri fondamentali di essere, essenza, forza, sostanza, causa, ecc.; l’altra i concetti, i giudizi, i sillogismi, ecc., determinazioni fondamentali altrettanto importanti; la psicologia comprende il sentimento, l’intuizione, ecc.; l’enciclopedia filosofica, infine, in generale questo campo nella sua interezza”. Il riferimento al “pensare con la propria testa” continua ad essere presente, ma viene inteso come un “accogliere nella propria testa questi pensieri”, e non in polemica con Kant, il quale anzi viene citato come autore della logica oggettiva. Si noti inoltre come Hegel non proponga quale contenuto della filosofia soltanto il proprio sistema, ma anche le discipline filosofiche tradizionali, di origine addirittura aristotelica.
Una riflessione merita anche, a mio avviso, la polemica contro “il perenne cercare e vagare”, oggi tanto di moda in nome della problematicità, della criticità, dell’apertura. La filosofia deve certamente cercare, lo dice il suo stesso nome, e il suo metodo non può essere che quello “zetetico”, come diceva Kant. Questi lo chiamava anche “metodo scettico”, ma aggiungeva subito: “Esso è da distinguere del tutto dallo scetticismo, principio di una inscienza secondo arte e scienza, che spianta le fondamenta d’ogni cognizione, per non lasciarle, possibilmente, in nessuna parte alcuna certezza e sicurezza. Giacché il metodo scettico mira alla certezza”.[14] Un cercare fine a se stesso è solo ipocrisia, perché chi cerca sinceramente, cerca per trovare, non per cercare. Chi cerca solo per cercare, non cerca, ma finge di cercare, perché non gli importa assolutamente nulla di ciò che cerca. Anche il mio maestro, Marino Gentile, diceva che la filosofia è “un domandare tutto che è tutto domandare”, ma con ciò intendeva dire che essa non contiene alcuna risposta già data, cioè presupposta, non che essa non aspira ad alcuna risposta. Anzi, a questo proposito paragonava il domandare alla potenza, ed affermava con Aristotele che più della potenza conta l’atto, e che una potenza incapace di passare all’atto non vale nulla.
Infine, ecco il terzo argomento di Hegel: “In terzo luogo, il procedere nella conoscenza di una filosofia ricca di contenuto non è altro che l’apprendere. La filosofia deve essere insegnata e appresa, al pari di ogni altra scienza. L’infelice prurito di insegnare a pensare da sé (Selbstdenken) ed a produrre autonomamente ha messo in ombra questa verità; come se, quando io imparo che cosa sia la sostanza, la causa o qualsiasi altra cosa, non pensassi io stesso, non producessi io stesso nel mio pensiero queste determinazioni, ma queste venissero invece gettate in esso come pietre”. In queste parole, forse discutibili nell’equiparazione della filosofia a tutte le altre scienze, io leggo la preoccupazione di salvaguardare il carattere professionale della filosofia, e quindi anche del suo insegnamento. Non ci si improvvisa filosofi, la filosofia non è un’attività spontanea, immediata, dilettantesca, ma è anche una professione, un sapere, che richiede una competenza, professionalità. E non è detto che questa competenza serva solo per fare filosofia: nella Facoltà di Medicina dell’Università di Padova, ad esempio, si ritiene utile da qualche anno impartire agli studenti di medicina, che non faranno mai i filosofi, alcune lezioni di filosofia: non di “filosofia della medicina”, ma di filosofia pura e semplice, in cui si spieghino, nella fattispecie, le nozioni di causa, effetto, fine, ecc.
Hegel continua la sua perorazione con un esempio che farà discutere: “Come se, quando ho imparato bene il teorema di Pitagora e le sue dimostrazioni, non fossi io stesso a conoscere questo teorema e a dimostrarne la verità; nella misura in cui lo studio filosofico è in sé e per sé un’attività autonoma (Selbsttun, un fare da sé), esso è un apprendere; l’apprendere una scienza già esistente, formata”. Questa sembra essere proprio una risposta a Kant, il quale osservava che la filosofia non esiste come una scienza già bell’e fatta, che si possa apprendere da un libro, e vedeva in questo la sua differenza dalla matematica, in cui rientra appunto il teorema di Pitagora. E non si può dargli torto, se per scienza si s’intende una scienza come la matematica. Ma non è alla matematica che pensa Hegel, malgrado il suo esempio. Egli infatti aggiunge: “Questa è un patrimonio costituito da un contenuto acquisito, elaborato, formato: questo bene ereditario disponibile dev’essere acquistato dall’individuo, ossia, venire appreso. L’insegnante lo possiede: egli lo pensa dapprincipio, e dopo di lui lo ripensano gli allievi. Le scienze filosofiche contengono dei propri oggetti, pensieri universali, veri; esse sono il prodotto risultante dal lavoro dei geni pensanti di tutti i tempi; questi pensieri veri superano ciò che un giovane non istruito produce col proprio pensiero di quanto quella massa di lavoro geniale supera la fatica di questo giovane”. Dunque è nel “prodotto risultante dal lavoro dei geni pensanti di tutti i tempi”, cioè nella storia della filosofia, che va ricercata la filosofia: in questo, come abbiamo visto, anche Kant era d’accordo, quando, dopo avere affermato che “tra tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia”, precisava “salvo storicamente”.
Certo, la storia della filosofia che contiene in sé la filosofia non è quella che lo stesso Hegel ha definito “la filastrocca di opinioni”, da Talete a giorni nostri, che ci raccontano i (cattivi) manuali o le storie della filosofia di impostazione dossografica. Queste non possono che produrre, nei giovani, il più completo disorientamento, e quindi lo scetticismo. La storia della filosofia che contiene in sé la filosofia è costituita dalle opere dei grandi filosofi, dalle quali anche i giovani che frequentano il liceo possono attingere qualche briciola di filosofia, leggendone qualche pagina, come leggono qualche pagina della grande poesia o della grande letteratura. In tal modo essi possono, almeno una volta nella vita, fare esperienza di che cosa significa affrontare un problema di senso, o di verità, in modo razionale, cioè senza fare ricorso ad una tradizione familiare, o ad una fede religiosa, o ad un’ideologia politica, ma con argomentazioni, con discussioni a favore e contro, con domande, risposte e confutazioni.
Ma vediamo anche che cosa pensava Hegel a proposito dell’insegnamento della filosofia nell’università. Sempre da Norimberga, nell’agosto del 1816, quando ormai stava per essere chiamato alla cattedra di filosofia dell’università di Heidelberg (ma già aveva insegnato, come Privat-dozent, all’università di Jena), Hegel scrisse al Regio consigliere, questa volta del governo di Prussia, Friedrich von Raumer, una lettera sull’insegnamento della filosofia nell’università, nella quale esordisce così: “Comincio subito come in generale si potrebbe cominciare questo discorso, poiché può apparire una cosa molto semplice, con l’osservazione che per l’insegnamento della filosofia dovrebbe valere soltanto quello che vale per l’insegnamento delle altre scienze”.[15] Per capire il senso di queste parole bisogna aver vissuto la situazione del professore di filosofia nell’università, continuamente tenuto a dover giustificare, presso i suoi colleghi delle facoltà scientifiche, la sua presenza, il suo diritto al riconoscimento di una dignità scientifica, e quindi a spazi adeguati, finanziamenti adeguati, posti di collaboratore adeguati. Se tutto ciò è invece incerto, o in discussione, è per colpa di quanti presentano la filosofia non come un sapere, ma come un “pensare con la propria testa”. Per fare questo, infatti, che bisogno c’è di spazi, di fondi, di posti? Basta avere una testa.
Forse anche al tempo di Hegel c’erano filosofi che giustificavano i sospetti dei propri colleghi scienziati, poiché nella citata lettera egli scrive: “Abbiamo visto dare una maggiore ampiezza alle idee generali con l’aiuto della fantasia, che mescolava alto e basso, vicino e lontano in un modo brillante ed oscuro (sottolineatura mia), spesso con profondità ed altrettanto spesso con superficialità assoluta, ed inoltre utilizzava quelle regioni della natura e dello spirito che sono per se stesse oscure ed arbitrarie. Un cammino opposto, diretto anch’esso ad una maggiore estensione, è quello critico e scettico, che ha nel materiale esistente una materia nella quale esso procede ma che d’altronde vanifica, traendone dispiacere e risultati negativi, fonti di noia. Se questo cammino serve pure in qualche modo ad esercitare l’acume, mentre il mezzo della fantasia vorrebbe invece sortire l’effetto di svegliare un effimero fermento dello spirito – ciò che si chiama anche edificazione – e di accendere di per sé nei pochi l’idea universale, nessuna di queste maniere fa tuttavia ciò che va fatto, e che è lo studio della scienza ”.[16]
L’insegnamento della filosofia nell’università (non stiamo più parlando del ginnasio o del liceo) dunque non deve né edificare, né semplicemente esercitare l’acume: altre discipline possono svolgere questo compito, forse meglio della stessa filosofia. Quanto al “modo brillante ed oscuro” con cui alcuni insegnano filosofia nell’università, Hegel coglie perfettamente la disonestà di questo atteggiamento, che per fare effetto si sottrae ad ogni possibilità di controllo, ed approfitta dell’inferiorità culturale degli studenti per épater. Piero Martinetti diceva, come è noto, che la chiarezza è l’onestà del filosofo, perché permette a tutti di valutare “con la propria testa” se ciò che il filosofo dice risponde a verità, o è minimamente convincente. Quando invece un filosofo è oscuro, chi può valutare ciò che egli afferma? La chiarezza è l’analogo, per il filosofo, di ciò che è il teatro anatomico per l’anatomista: in esso tutti possono constatare con i propri occhi, a distanza ravvicinata, se ciò che il docente afferma corrisponde a ciò che si vede.
Ma nell’università c’è un altro rischio che Hegel chiaramente denuncia, quello per cui ciascun professore vuole avere e insegnare il suo proprio sistema. “È diventato un pregiudizio – scrive Hegel sempre nella lettera a von Raumer – , e non solo nello studio filosofico, ma anche nella pedagogia – e in questa ancor più grave – che il pensare indipendente (Selbstdenken) debba essere esercitato e sviluppato, in primo luogo, nel senso che esso non dipenda dall’elemento materiale e, in secondo luogo, come se l’imparare fosse opposto al pensare indipendente […]. Secondo un errore comune, sembra che su un pensiero il sigillo dell’indipendentemente pensato (des Selbstgedachten) sia impresso solo quando esso si scosti dai pensieri degli altri uomini […]. In altre parole, è nata da qui la smania per cui ciascuno vuole avere un suo proprio sistema, e per cui un’idea è considerata tanto più originale ed eccellente quanto più è insulsa e folle, poiché essendo tale essa mostra al massimo la propria originalità e diversità dai pensieri degli altri”.[17]
L’errore a cui Hegel allude è quello di credere che “pensare con la propria testa” voglia dire avere un proprio sistema filosofico, necessariamente diverso da quelli già pensati da altri, e che il valore principale in filosofia non sia la verità, ma l’originalità. Naturalmente l’ammonizione a non cadere in questo errore vale sia per i docenti che per gli studenti. Ai docenti bisognerebbe inoltre ricordare quanto ebbe a scrivere Max Weber nella sua famosa conferenza su La scienza come professione, cioè che “la cattedra non è per i profeti e i demagoghi. Al profeta e al demagogo è stato detto: ‘Esci per le strade e parla pubblicamente’. Parla, cioè, dov’è possibile la critica. Nell’aula, ove si sta seduti di faccia a i propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e reputo una mancanza del senso di responsabilità approfittare di questa circostanza – per cui gli studenti sono obbligati dal programma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessuno può intervenire a controbatterlo – per inculcare negli ascoltatori le proprie opinioni, invece di recar loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie conoscenze e le proprie esperienze scientifiche”. E più oltre: “L’insegnante universitario deve desiderare e proporsi di giovare con le sue conoscenze e i suoi metodi”.[18]
Contro l’originalità a tutti i costi, che spesso si trasforma in oscurità e incapacità di comunicare, Hegel osserva: “La filosofia ottiene la possibilità di essere appresa, per mezzo della sua determinatezza, con tanto maggiore precisione quanto più essa diventa, in tal modo soltanto, comunicabile e capace di divenire un bene comune. Come essa, da una parte, vuole essere oggetto di uno studio particolare, e non è già per natura un bene comune per il solo fatto che ogni uomo in generale è dotato di ragione, così la sua universale comunicabilità le toglie anche l’apparenza – che, tra le altre, essa ha avuto negli ultimi tempi – di essere un’idiosincrasia di alcune menti trascendentali”.[19] Da un lato, insomma, non si deve credere che ogni uomo sia filosofo per il solo fatto di possedere la ragione, perché la filosofia, come abbiamo visto, è un sapere ed esige una precisa competenza, una professionalità; dall’altro lato, essa è un sapere comunicabile, non riservato soltanto a pochi iniziati, o a menti dotate di un quoziente intellettuale eccezionale, ma deve essere resa accessibile a tutti, tramite – ovviamente – un adeguato lavoro di studio e di apprendimento.
Infine contro la concezione della filosofia come edificazione Hegel scrive: “Come scienza propedeutica la filosofia ha in particolare da provvedere all’educazione (Bildung) e all’esercizio formale del pensiero; essa può far ciò solo per mezzo di un completo allontanamento dal fantastico, per mezzo della determinatezza dei concetti e di un procedimento conseguente e metodico; essa deve poter procurare quell’esercizio in una misura superiore alla matematica poiché non ha, come questa, un contenuto sensibile. Ho menzionato prima l’edificazione che spesso ci si attende dalla filosofia; a mio parere, anche quando viene presentata alla gioventù essa non deve mai essere edificante. Ma deve soddisfare ad un bisogno affine […]; compito della filosofia dev’essere giustificare ciò che ha valore per la conoscenza, coglierlo e comprenderlo in pensieri determinati e quindi proteggerlo da oscure deviazioni”[20].
Ebbene, l’unica conoscenza filosofica su cui esista l’accordo universale tra i filosofi è la conoscenza della storia della filosofia. Perciò anche in Francia, recentemente, si è messa in discussione la “dottrina ufficiosa”, cioè tradizionale, secondo la quale bisogna insegnare a fare della filosofia, come risulta dal già citato Manifesto. Tale discussione ha portato a proporre tutta una serie di nuovi “cantieri”, ovvero criteri, per l’insegnamento della filosofia. Tra i primi ce n’è subito uno che recita: “Riconoscere che l’imparare a filosofare implica un apprendimento e che insegnare la filosofia è un mestiere”[21]. Rimane dunque lo scopo della “dottrina ufficiosa”, ma si riconosce che, per attingerlo, è necessario apprendere prima qualche cosa, cioè un insieme di conoscenze. Di conseguenza l’insegnante di filosofia – si sta parlando del liceo – prima di essere un filosofo, deve essere un professionista che sa trasmettere tale insieme di conoscenze. Infatti il “cantiere” continua dicendo: “Non è privo di controindicazioni identificare puramente e semplicemente il professore di filosofia con un filosofo. Chi fa il filosofo davanti ai suoi allievi non dà loro una formazione, perché li tratta come i discepoli che non saranno mai”.
Un altro “cantiere” del nuovo manifesto recita: “Riconoscere che la filosofia non serve soltanto a filosofare”, e spiega: “ L’insegnamento della filosofia non potrebbe giustificare la posizione che occupa oggi – e ancor meno la sua presenza nei corsi scolastici e universitari – se non potesse mostrare la sua utilità nella formazione intellettuale e culturale di tutti gli allievi”.[22] E un altro ancora recita: “Formarsi alla filosofia significa apprendere a pensare attraverso l’appropriazione di conoscenze filosofiche e non-filosofiche. Si è usato ed abusato della formula kantiana secondo cui non si può apprendere la filosofia ma solo a filosofare”, e spiega: “Per esempio, se il corso di filosofia è organizzato per problemi, questi non possono in modo serio essere affrontati dagli allievi se non attraverso la conoscenza delle principali opzioni filosofiche da cui derivano e attraverso la padronanza progressiva delle distinzioni concettuali che consentono di dar loro un senso. Queste opzioni e queste distinzioni non hanno niente di naturale o di spontaneo. È nella storia della filosofia che esse sono state prodotte ed è solamente lì che possono essere ritrovate. Non si può sfuggire alla domanda: che cosa gli allievi che si accostano al filosofare devono conoscere della storia della filosofia?”.[23]
Nel leggere queste parole si ha l’impressione di trovarsi davanti ad una vera e propria ritrattazione di tutte le critiche che da parte francese sono state rivolte alla scuola italiana ed alla preminenza in essa data all’insegnamento della storia della filosofia. Certo, il metodo “italiano” di insegnare filosofia nei licei non è esente da critiche, specialmente a causa delle deformazioni che i programmi originari della riforma Gentile hanno subito ad opera dei decreti De Vecchi, della conseguente introduzione dei manuali di storia della filosofia e della progressiva sostituzione della lettura dei classici con la “filastrocca di opinioni” menzionata sopra. Contro queste deformazioni ha inteso andare la relazione della Commissione Brocca, quando ha indicato nella lettura dei testi il momento fondamentale e caratterizzante dell’insegnamento della filosofia, dove per “testi” ovviamente si intendono – purtroppo c’è bisogno di precisarlo – le opere dei filosofi, possibilmente dei “grandi” filosofi.
Qualcuno obietterà che non sta scritto da nessuna parte quali sono i “grandi” filosofi e che la loro identificazione dipende dal tipo di filosofia che si professa. Ciò non è vero: come in letteratura esistono i “grandi” poeti, e a scuola si fanno leggere questi, così in filosofia esistono i “grandi” filosofi, cioè i classici, quelli che ritornano continuamente, quelli di cui non si può fare a meno. La loro esistenza si tocca con mano proprio quando si insegna la filosofia contemporanea. Per esempio all’università la maggior parte degli studenti vogliono occuparsi di filosofi contemporanei. Heidegger, naturalmente, è uno di quelli che vanno per la maggiore. Ma quando gli studenti ne prendono in mano le opere, si accorgono che Heidegger non fa che parlare di Platone e di Aristotele, di Kant e di Hegel (per non dire dei presocratici e di Nietzsche), e che non si capisce nulla di Heidegger se non si conoscono questi altri filosofi. Per questo la Commissione Brocca aveva indicato come autori obbligatori Platone, Aristotele, Kant e Hegel, scatenando una ridda di proteste, specialmente da parte dei filosofi analitici, i quali rivendicavano l’importanza degli inglesi (Locke, Hume, Mill). Ebbene, aggiungiamo pure qualche inglese, per far contenti gli analitici, e qualche francese (Descartes, Pascal), per far contenti i francesi (ma allora anche Vico), e qualche santo (Agostino, Tommaso), per far contenti i cattolici. In ogni caso, restiamo ben lontani dalla “filastrocca di opinioni” del manuale.
Non mi addentro nel problema di come leggere i classici, su cui esiste tutta una letteratura. L’importante è anzitutto capirli, realizzando quella che Gadamer chiamava la “fusione di orizzonti”, e poi discuterli, cioè metterli in questione e, se necessario, criticarli. Mentre sulla prima operazione concordo con gli ermeneutici, che oggi sono la maggioranza dei “continentali”, sulla seconda concordo con gli “analitici”, che discutono con i classici come si fossero nostri contemporanei. Le due operazioni sono entrambe necessarie e si riassumono in quell’attività che Aristotele per primo, credo, definì con un verbo che è rarissimo incontrare nella letteratura greca, cioè sumphilosophein, “confilosofare”, fare filosofia insieme. Facendo rientrare anche l’amicizia (philia) tra gli ingredienti che costituiscono la felicità, Aristotele concluse infatti la sua grande trattazione di questa virtù (due interi libri dell’Etica Nicomachea) dichiarando che, per gli amici, cioè per le persone che si vogliono bene, la cosa più desiderabile è fare insieme le cose in cui ciascuno maggiormente identifica il proprio essere, ossia ciò per cui desidera vivere: per i bevitori bere insieme, per i giocatori giocare insieme, per i patiti di ginnastica o per i cacciatori fare ginnastica insieme o andare a caccia insieme, per i filosofi fare filosofia insieme[24]. E chi, per un filosofo, può essere più amico dei grandi filosofi? Quindi facciamo filosofia insieme a Platone o ad Aristotele, a Kant o a Hegel, a Hume, a Wittgentsein o a Heidegger, leggendo e discutendo insieme le loro opere.
Non si tratta, dunque, di apprendere la filosofia da un unico libro che la contenga tutta già bell’e fatta, come temeva Kant: la filosofia non è la geometria (per questo l’esempio del teorema di Pitagora, portato da Hegel, non è il più calzante), cioè non è un discorso dotato di propri principi, a partire dai quali si possano dimostrare dei teoremi. La filosofia, come diceva Hegel, non ha il vantaggio di poter presupporre il proprio oggetto e il proprio metodo, cioè non ha principi. Essa mette in questione tutto, è un “domandare tutto che è tutto domandare”, ma tuttavia non è stata inventata né oggi né ieri, né ciascuno può inventarla da sé. Essa esiste già da tempo e va quindi cercata. Ma bisogna cercarla là dove essa si può trovare, cioè nelle opere dei grandi filosofi, e bisogna imparare a filosofare insieme con loro, cioè partecipando alla loro ricerca. Anche questo è un metodo “zetetico”, come quello voluto da Kant.
Se posso tentare di riassumere l’intero discorso in poche parole, distinguerei ancora una volta l’insegnamento della filosofia nel liceo dall’insegnamento della filosofia nell’università. Nel liceo la filosofia viene insegnata a tutti, anzi molti di noi auspicano che venga insegnata anche negli ex istituti tecnici, in modo che tutti i ragazzi italiani possano fare esperienza, almeno una volta nella vita, di che cosa significa affrontare un problema di senso in modo razionale. Ma dove la filosofia viene insegnata a tutti, non si può pretendere che tutti diventino filosofi. Quindi la filosofia deve essere insegnata a tutti da un lato per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa” in generale (non di fare filosofia con la propria testa), e dall’altro anche perché essa fa parte della cultura generale. Come potrebbe, infatti, essere considerata colta una persona che non sapesse nulla di Platone o di Kant? Nell’università invece, dove la filosofia viene insegnata a coloro che l’hanno scelta come professione e intendono dedicarsi professionalmente ad essa per tutta la vita, si può anche dire che l’insegnamento ha lo scopo di far imparare a filosofare, ma filosofare non significa costruire ciascuno un proprio sistema filosofico, bensì fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro, ed a questo scopo è necessario conoscere bene la storia della filosofia, e soprattutto leggere le opere dei grandi filosofi.
Enrico Berti
[1] F. D’Agostini, Pensare con la propria testa. Un problema metafilosofico e le sue implicazioni filosofiche, “Intersezioni”, 23, 2003, pp. 271-290.
[2] K. Mulligan, Searle, Derrida and the Ends of Phenomenology, in B. Smith (ed.), The Cambridge Companion to Searle, Cambridge 2003.
[3] I. Kant, Scritti sul criticismo, Roma-Bari 1991, pp. 5-6.
[4] E. Kant, Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766, in Vega Scalera, L’insegnamento della filosofia dall’unità alla riforma Gentile, Firenze 1990, doc. 9, sez. 52.
[6] E. Kant, Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, riveduta da V. Mathieu, Bari 1959, pp. 649-650.
[7] Cf. ACIREPH (Association pour la création des Instituts de Recherche sur l’Enseignement de la Philosophie), Manifesto per l’insegnamento della filosofia in Francia, per un possibile confronto con l’Italia, trad. di M. Trombino, in S. Martini (a cura), Per un laboratorio di didattica della filosofia, Roma 2004, pp. 89-114, spec. p. 101.
[8] I. Kant, Epistolario kantiano,Genova 1990, p. 54.
[12] G. W. F. Hegel, La scuola e l’educazione. Discorsi e relazioni (Norimberga 1808-1816), a cura di L. Sichirollo e A. Burgio, Milano 1985, p. 105 (corsivi nel testo).
Sembrava che la scienza moderna avesse confutato Aristotele per sempre. In realtà, oggi le sue idee sono tornate in auge in tanti modi: come l’irreversibilità del tempo di I. Prigogine, l’unità mente-corpo o il continuo matematico in R. Thom. Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni.
La fortuna di Aristotele nella storia della cultura si è sviluppata a periodi alterni rispetto alla fortuna di Platone. Mentre Platone fu amato soprattutto nella tarda antichità, dai filosofi cristiani e dai neoplatonici, e poi dagli umanisti del Rinascimento, Aristotele fu riscoperto dai musulmani nel Medioevo e, per influenza di questi, dai filosofi cristiani della Scolastica, che lo chiamarono «il Filosofo» per antonomasia o, con Dante, «il maestro di color che sanno». Il califfo al-Mamun, regnante a Baghdad nel IX secolo, dichiarò addirittura di aver visto Aristotele in sogno e di averlo sentito proclamare la verità fondamentale dell’Islam, cioè che c’è un solo Dio. I più grandi filosofi musulmani, come l’arabo al-Kindi, il turco al-Farabi, il persiano Ibn Sina (Avicenna) e l’andaluso Ibn Rushd (Averroè), furono tutti aristotelici. Altrettanto si può dire di filosofi cristiani come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, ma anche di Giovanni Duns Scoto e di Guglielmo di Occam. Indubbiamente musulmani e cristiani – ma anche ebrei come Mosè Maimonide – videro nel pensiero di Aristotele, interpretato attraverso il neoplatonismo, il sostegno più solido, cioè più “scientifico”, alle rispettive teologie. Così Aristotele divenne, senza sua colpa, il filosofo dei teologi. Nel Rinascimento gli umanisti riscoprirono Platone, di cui rifondarono a Firenze l’Accademia, ma Aristotele rimase nelle università, in tutte le università europee, di cui costituì il fondamento filosofico. Se Lutero insultò Aristotele, da lui visto come il filosofo della Scolastica, il suo allievo e continuatore Melantone ne fece il maestro delle università protestanti dell’intera Germania. La nascita della scienza moderna, con Galilei e Descartes, determinò nel Seicento l’eclissi della fisica e della cosmologia aristoteliche, ma la logica aristotelica continuò a dominare l’insegnamento universitario almeno fino a Kant, il quale dichiarò – anche se a torto – che dopo Aristotele la logica generale, cioè formale, non aveva fatto alcun progresso. Anche la metafisica di Aristotele riscosse nell’Ottocento l’ammirazione di Hegel, che vide in essa la vera logica della filosofia aristotelica, ma fu sfruttata anche dai critici di Hegel, cioè Feuerbach, Marx e Kierkegaard, che trovarono in essa gli argomenti con cui criticare Hegel. Non parliamo poi di Brentano, che insegnò Aristotele a Husserl, a Meinong, a Twardowski, a Freud e, da postumo, a Heidegger. Nell’Ottocento ebbe una breve eclissi l’etica di Aristotele, temporaneamente soppiantata dall’etica di Kant e poi dall’utilitarismo e dalle scienze umane (antropologia, psicologia, sociologia). Ma quando, a metà del Novecento, ci si rese conto dell’incapacità delle scienze umane di dare giudizi di valore e quindi di orientare la prassi, venne riscoperta l’etica aristotelica, anzi la «filosofia pratica» di Aristotele, intesa come forma di razionalità non scientifica e tuttavia autentica, capace di orientare la prassi. Di qui la valorizzazione della “saggezza” a opera di Gadamer e della sua scuola, delle virtù in generale da parte di McIntyre e dei comunitaristi, della nozione di eudaimonia come piena realizzazione delle capacità umane da parte di Martha Nussbaum e persino di un economista come Amartya Sen. Ma con la filosofia pratica di Aristotele è stata riscoperta anche la sua filosofia politica, che indica nella naturalità della polis la possibilità di un superamento dello Stato moderno ormai manifestamente in declino per la perdita dell’autosufficienza. Un’utilizzazione della politica aristotelica nella direzione di una società politica multinazionale si trova nel cosiddetto «gruppo di Chicago», formato dal cattolico J. Maritain, dal protestante R.M. Hutchins, dall’ebreo M.J. Adler e da altri, autori nel 1951 di un progetto di costituzione mondiale. La metafisica di Aristotele; oltre a rimanere alla base del tomismo, sia pure addomesticata secondo le esigenze della fede cattolica, continua a ispirare, con la sua dottrina delle categorie, della polisemia dell’essere, del cosiddetto focal meaning, gran parte della filosofia analitica anglo-americana, a cominciare dalla Scuola di Oxford. Ma ciò che è più sorprendente è la ripresa di alcuni aspetti della fisica aristotelica, quali la teoria del continuo a opera del matematico R. Thom e la teoria della irreversibilità del tempo a opera di Ilya Prigogine. Sempre in tema di scienza, la biologia di Aristotele non ha mai conosciuto alcuna eclissi, suscitando l’ammirazione di C. Darwin nell’Ottocento e di Max Delbrück, di Ernest Mayr, di François Jacob nel Novecento. E, sempre in tema di scienza, la psicologia di Aristotele, cioè la sua concezione dell’anima non come realtà a sé, ma come capacità del corpo di vivere e di funzionare a diversi livelli, è stata vista da molti come la soluzione più convincente del cosiddetto Mind-BodyProblem, per esempio da Hilary Putnam, che ha intitolato la prima parte del suo Words and Life (1994) «Aristotele dopo Wittgenstein».
Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni Di fronte a questa massiccia presenza nella filosofia contemporanea fanno sorridere le accuse, rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni, di avere concepito la metafisica come «onto-teologia», di avere dimenticato l’Essere e simili amenità. Del resto, uno dei più intelligenti filosofi post-moderni, Gianni Vattimo, malgrado le sue origini heideggeriane, nella sua autobiografia (Non Essere Dio, 2006) dichiara: «L’Essere non è altro che questo: il senso della parola “essere” nella storia della nostra lingua e nell’uso che ne facciamo» (pag. 133). Esattamente come sosteneva Aristotele.
Enrico Berti, La rinascita di Aristotele, pubblicato in «Il Sole-24 Ore», 10 dicembre 2006, p. 41.
Aristotele non era un teologo
Aristotele è senza dubbio il filosofo antico più utilizzato dai teologi cristiani e musulmani come base filosofica per la loro visione monoteistica della realtà. I cristiani dapprima privilegiarono Platone e il neoplatonismo – si veda il caso notissimo di Agostino –, ma poi, al seguito dei musulmani, che avevano fatto di Aristotele una specie di secondo Maometto, ne fecero anch’essi “il Filosofo” per eccellenza (per esempio Tommaso d’Aquino) e «il maestro di color che sanno» (Dante). È noto che, secondo una tradizione araba, Aristotele sarebbe apparso in sogno al califfo al-Mamun e gli avrebbe detto: «Il tuo dovere è dichiarare l’unicità di Dio», cioè precisamente la verità fondamentale dell’Islam. I musulmani videro infatti nel primo motore immobile, di cui Aristotele dimostra la necessità nel libro XII della Metafisica, l’unico Dio, creatore e signore del cielo e della terra, e quindi interpretarono questo libro come una specie di teologia, seguendo del resto in questo i commentatori greci tardo-antichi. A dire il vero essi dovettero trovare un po’ scarse le indicazioni teologiche fornite da Aristotele nel libro in questione, perché pensarono di confezionare un’opera intitolata Teologia di Aristotele, desumendone il contenuto dalle opere ben più ricche, in questo senso, di Plotino. E i cristiani furono tratti in inganno da questo falso, confermandosi nell’idea che Aristotele fosse il creatore della teologia naturale, o razionale. Dante, da sommo poeta qual era, riuscì a presentare il Motore immobile, che «muove in quanto amato», come «l’Amor che move il sole e l’altre stelle». Naturalmente le differenze tra il primo motore immobile di Aristotele e il Dio della Bibbia, concordemente adorato da cristiani e musulmani, erano sotto gli occhi di tutti: ma esse divennero un pretesto per attaccare Aristotele, accusato di avere professato un concetto di Dio troppo astratto, meccanico, impersonale, egoista (il mio professore di filosofia antica, Carlo Diano, parlava con scherno del Dio di Aristotele «che si guarda la pancia»). In tale opera di denigrazione si scatenò una nobile gara fra cristiani e musulmani, che toccò i suoi vertici in campo musulmano col teologo al-Gazali, nemico dei filosofi aristotelizzanti, e in campo cristiano con Lutero, noto per avere ricoperto il povero Aristotele degli insulti più feroci (ma già Petrarca si era lasciato un po’ andare). Ancora oggi i musulmani e i cristiani integralisti non possono soffrire il “Motore immoto” di Aristotele, dichiarando che tale espressione fa pensare a un autocarro in panne e opponendogli, con Pascal, «il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo». Solo da pochi anni studiosi benemeriti hanno ristabilito la verità storica, mostrando che Aristotele non voleva affatto essere un teologo, che per lui la “teologia” non era una disciplina filosofica, ma l’insieme dei miti sugli dèi narrati dai poeti, e che gli dèi per lui erano semplicemente dei «viventi immortali e felici», i quali si distinguono dagli uomini perché questi sono, al contrario, mortali e infelici. Esemplare è stato in questo senso il libro di Richard Bodéüs, Aristote et la théologie des vivants immortels (Montréal 1992). A risultati analoghi sono giunti i contributi pubblicati nel volume della rivista «Humanitas» (4/2005) sotto il titolo Dio e il divino nella filosofia greca, a cura di Maurizio Migliori e Arianna Fermani, ma soprattutto il bel libro di Barbara Botter, Dio e Divino in Aristotele, uscito nella collana “Intemalional Aristotle Studies”, diretta da Carlo Natali (Academia Verlag 2005). Quest’ultimo dimostra infatti con argomenti convincenti che in Aristotele e nei filosofi “pagani” in generale il termine “dio” è usato non come nome proprio, e nemmeno prevalentemente come sostantivo, bensì come attributo, o predicato, avente la funzione di indicare un grado di eccellenza in una scala ordinata di enti. Esso pertanto può essere attribuito agli dèi della religione tradizionale, ma anche agli astri, al mondo stesso nel suo insieme, all’intelletto umano, e anche al primo motore immobile. Ma in nessun caso dovrebbe essere scritto con l’iniziale maiuscola e senza articolo, come se fosse un nome proprio, bensì sempre con la minuscola e l’articolo, cioè “il dio”, come diciamo “l’uomo” o “il cavallo”. Ovviamente in un contesto monoteistico si scriverà “Dio” senza articolo. Se questa regola venisse seguita più in generale, si eviterebbe l’uso fastidioso di scrivere la parola con la maiuscola o la minuscola per mostrare che si crede o non si crede in Dio. Una conferma a queste ricerche viene anche dalla pubblicazione, per la prima volta in traduzione italiana, di un’opera nota solo agli specialisti, le Divisioni, tramandate come opera di Aristotele da alcuni manoscritti e, in versione un po’ diversa, da Diogene Laerzio, a cura di Cristina Rossitto, che ne ha fornito anche un’ampia introduzione e un accurato commento (Bompiani 2005). Quest’opera è emblematica dell’uso che la tarda antichità fece di Aristotele. È molto probabile, infatti, che essa risalga, nel suo nucleo fondamentale, proprio ad Aristotele, come hanno sostenuto anche W.D. Ross e O. Gigon, anzi all’Aristotele giovane, ancora membro dell’Accademia platonica, come ipotizza Rossitto. Ma non c’è dubbio che vi hanno messo le mani anche altri autori, cristiani o comunque teisti, come risulta inequivocabilmente da alcuni passi. In essa si parla infatti degli dèi come di viventi immortali, a cui sono dovuti onori e pratiche di culto e ai quali appartengono beni specifici, quali l’eternità, e beni comuni anche agli uomini, quali l’eccellenza e la bellezza, ma non altri beni puramente umani quali la temperanza, il coraggio e la giustizia. In un passo di essa, tuttavia, come esempio di viventi immortali vengono citati non gli dèi, bensì gli angeli, specie in tale veste del tutto sconosciuta ad Aristotele, ma ben nota ai seguaci della Bibbia, che non potevano ammettere l’esistenza di una molteplicità di dèi.
Enrico Berti, Nuovi studi dimostrano che Aristotele non era un teologo, pubblicato in: Domenicale de Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2006, p. 16.
Migliori e A. Fermani (a cura di), «Dio e il divino nella filosofla greca», “Humanitas”, LX (2005), n. 4. pp. 658-920.
B. Botter, «Dio e Divino in Aristotele», Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, pp. 306.
Aristotele ed altri autori, «Divisioni», a cura di C. Rossitto, Bompiani, Milano 2005, pp. 526.
«Platone – […] la ricchezza non ha nulla a che fare col bene della città. Mi sembra di avere portato argomenti abbastanza chiari a questo proposito nella Repubblica» (p. 20).
«Aristotele – Le elargizioni di denaro fatte per sedurre la moltitudine sono l’uso peggiore che si può fare della ricchezza. Esse producono infatti nei cittadini un piacere di breve durata e non portano alcun contributo permanente al bene comune […]» (p. 25).
«Aristotele – […] la sazietà, come dice il proverbio, genera prepotenza, mentre la mancanza di cultura, accompagnata da molti mezzi, genera stoltezza. In effetti, per coloro che sono di poco valore nelle cose che riguardano l’anima, né la ricchezza, né la forza, né la bellezza sono dei beni […]» (p. 55).
«Aristotele – Bisogna poi precisare che l’avarizia non consiste solo nello spendere troppo poco, ma anche nel desiderare troppo il denaro, nell’anteporre la ricchezza a qualunque altra cosa, nell’impegnare tutta la propria vita nell’unica attività del far soldi. Intesa in questo senso, l’avarizia, o meglio l’avidità di denaro, è oggi il vizio forse più diffuso» (p. 61).
«Aristotele – […] I bisogni umani, per natura, sono limitati, come risulta dal fatto che uno non può mangiare più di tanto, […] eccetera. Ora, l’arte di procurarsi i beni necessari a soddisfare questi bisogni è un’arte secondo natura, cioè giusta, buona, morale. Se invece uno vuole procurarsi una quantità di beni illimitata, va contro la stessa natura dell’uomo, e la sua arte sarà un’arte contro natura, cioè ingiusta, immorale. Teofrasto – Ma come è nata, Aristotele, quest’arte contro natura e immorale che chiamiamo crematistica? Aristotele – Essa è nata da un fatto del tutto naturale, cioè lo scambio dei beni. Poiché non tutti sono in grado di fare tutto, come spiega bene Platone nella Repubblica, gli uomini che abitano la città si distribuiscono i compiti, e l’uno fa il contadino, l’altro fa il calzolaio, il terzo fa il sarto, e così via. Ciascuno di questi produce un bene, o un servizio, in misura superiore a quella di cui ha bisogno per la sua famiglia, mentre non produce altri beni di cui pure ha bisogno. Nasce così la necessità di scambiarsi le merci: chi produce un certo bene in eccesso, ne dà una parte a chi non lo produce ma ne ha bisogno, per avere in cambio da lui ciò di cui ha bisogno lui e che l’altro produce in eccesso. Questo fa sì che ogni bene prodotto abbia, per così dire, due valori, un valore d’uso, che è quello per cui viene usato, e un valore di scambio, che è quello per cui viene scambiato. Un tale scambio è del tutto naturale, quindi è giusto e morale. Teofrasto – E come accade che da questo scambio naturale e giusto nasca la crematistica contro natura e immorale? Aristotele – Per comprenderlo, bisogna fare attenzione al mezzo di cui gli uomini si servono per facilitare lo scambio, cioè il denaro, la moneta. Questa infatti è un oggetto equivalente a qualunque possibile merce, perciò può essere usata al posto di qualsiasi merce, quando la merce non sia disponibile. Supponiamo che io abbia bisogno di un paio di scarpe, il cui valore è pari a quello di un sacco di grano, mentre il fabbricante di scarpe ha bisogno del grano. In luogo di questo io darò al fabbricante di scarpe una quantità di denaro pari al valore delle scarpe, e anche del sacco di grano, col quale egli potrà procurarsi il grano da chi lo produce. Questo è l’uso naturale, e quindi giusto, del denaro. Se io, invece, non ho bisogno di scarpe, ma le acquisto ugualmente pagando una certa quantità di denaro, allo scopo di rivenderle in cambio di una quantità di denaro maggiore, allora il fine dello scambio non sarà più quello di soddisfare un mio bisogno, ma sarà semplicemente quello di procurarmi una quantità maggiore di denaro. In questo caso lo scambio non sarà più naturale, ma sarà contro natura. La crematistica nasce quando, in luogo di scambiare merce con denaro, per ottenere altra merce, si scambia denaro con merce per ottenere altro denaro. Io mi sono spiegato con un esempio molto banale. Ma se tu moltiplichi questo tipo di scambi in quantità smisurata, vedi che nasce un’attività ugualmente smisurata, consistente nel cercare di procurarsi denaro all’infinito. In questo modo la ricchezza, costituita dal denaro, non è più il mezzo necessario a soddisfare i bisogni propri o della propria famiglia, ma diventa essa il fine, e questo è innaturale, quindi ingiusto e immorale. La cosa è ancora più evidente nella pratica dell’usura, dove non si scambia denaro con merce, ma denaro con denaro, cioè si presta denaro in una certa quantità per ottenerne, dopo qualche tempo, altro denaro in quantità maggiore. In tal caso il denaro serve a produrre altro denaro e quindi l’usura diventa l’emblema della crematistica smisurata» (pp. 64-67).
«Aristotele – […] Vorrei una città che conservi al suo interno […] l’uguaglianza tra i suoi cittadini, la libertà di discutere e decidere tutti insieme sulle cose da farsi, la divisione dei poteri, la giustizia, l’aspirazione alla pace. Una città […] in cui la preoccupazione più importante dei cittadini non sia quella di procurarsi le ricchezze, ma quella di vivere bene, cioè di essere felici, realizzando tutte le proprie capacità, non solo fisiche, ma anche spirituali, per mezzo dell’educazione, dell’arte, della scienza, della filosofia». Platone – È proprio bello questo che tu dici, Aristotele! Speriamo che un giorno si avveri. Vedo però che anche tu ti abbandoni alle utopie, come hai rimproverato me di fare. In realtà un po’ di utopismo è sempre necessario, altrimenti ci si rassegna alla realtà esistente e non si cerca più di migliorarla» (pp. 89-89).
***
Enrico Berti, Aristotele. Ebulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Falsi Originali [Collana diretta di Giovanni Casertano], Guida Editori, Napoli 20129.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
ISBN 978-88-7588-241-9, 2019, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [109]. In copertina: Statua in bronzo di Aristotele, ingresso della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, Germania. In quarta di copertina: Paul Klee, Die Zeit, 1933.
Questo volume raccoglie alcuni fra i principali studi di Enrico Berti su Martin Heidegger. Il filosofo tedesco è stato infatti una presenza costante negli studi composti in questi decenni dallo studioso padovano, sovente in rapporto al pensiero di Aristotele. Con il suo consueto approccio “classico”, in questi saggi Berti non si limita a descrivere, ma valuta, ossia prende posizione, anche critica, nei confronti di colui che pure definisce come il maggiore pensatore del XX secolo.
Indice
Introduzione
Il nichilismo dell’Occidente secondo Nietzsche, Heidegger e Severino
L’influenza di Heidegger sulla «riabilitazione della filosofia pratica» Gadamer, o della «phronesis» Ritter, ovvero dell’«ethos» Hannah Arendt, o della «praxis»
Heideggers Auseinandersetzung mit dem
Platonisch-Aristotelischen Wahrheitsverständnis Aristoteles Platon Abschluß
Heidegger and the Platonic Concept of Truth
Le passioni tra Heidegger e Aristotele Appendice
Heidegger e il libro Epsilon della Metafisica di Aristotele Prologo Prime citazioni di Aristotele (Friburgo, 1921-1923) Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): l’essere come verità Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): essere ed ente Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo (1929): di nuovo l’essere come vero Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo: la metafisica come «ontologia» Conclusione
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Qui di seguito sono riportati i riferimenti bibliografici relativi ai saggi raccolti nel presente volume.
I In tema di dialettica
Come argomentano gli ermeneutici? “Filosofia ‘91”, a cura di G. Vattimo, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 13-32. La complessità della ragione “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 154, gennaio-aprile 1995, pp. 27-40. Logo e dialogo “Studia Patavina”, 42, 1995, pp. 31-42. La dialettica antica come modello di ragionevolezza “Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica”, 7, 2002, pp. 17-28. Il principio di non contraddizione: storia e significato P. Bria e F. Oneroso (a cura), Bilogica e sogno. Sviluppi matteblanchiani sul pensiero onirico, Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 22-32.
II In tema di metafisica
Per una metafisica problematica e dialettica “Acta philosophica”, 1, 1992, pp. 176-190 (anche in “Per la filosofia”, 9, 1992, pp. 3-15). La via “dinamico-noologica” alla trascendenza divina in S. Biolo (a cura), Trascendenza divina. Itinerari filosofici, Contributi al XLVIII Convegno del Centro di Studi Filosofici di Gallarate, aprile 1993, Torino, Rosenberg & Sellier, 1995, pp. 57-71. La prospettiva metafisica tra analitici ed ermeneutici “Seconda navigazione – Annuario di filosofia 2000”, Milano, Mondadori, 2000, pp. 45-62. Quale metafisica per il terzo millennio? in Proceedings of the Metaphysics for the Third Millennium Conference (Rome, September 5-8, 2000), Editorial de la Universidad Tecnica Particular de Loja (Equador), 2001, vol. I, pp. 29-44. Una metafisica (espistemologicamente) “debole” “Annuario Filosofico”, 16, 2000, Milano, Mursia, 2001, pp. 27-41. Metafisica debole? in Quale metafisica?, “Hermeneutica”, n. s., 2005, pp. 39-52. Dialogo su Aristotele in A. Petterlini, G. Brianese, G. Goggi (a cura), Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. 75-90.
III In tema di filosofia pratica Sostanza e individuazione in AA. VV., La tecnica, la vita, i dilemmi dell’azione (“Seconda navigazione – Annuario di filosofia 1998”), Milano, Mondadori, 1998, pp. 143-160. Dal personalismo all’identità personale in A. Bottani e N. Vassallo (a cura), Identità personale. Un dibattito aperto, Napoli, Loffredo, 2001, pp. 65-78). Persona, scienza e tecnica in G. Galeazzi e B. M. Ventura (a cura), Filosofia e scienza nella società tecnologica, Milano, F. Angeli , 2004, pp. 171-183. L’idea di bene comune tra “destra” e “sinistra” in E. Berti e S. Veca, La politica e l’amicizia, Roma, Edizioni Lavoro, 1998, pp 35-62. Prudenza in “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. 159, settembre-dicembre 1966, pp. 15-24. Attualità dei diritti umani “Ars Interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 6, 2001, pp. 79-91. Pratiche filosofiche e filosofia pratica “Ars interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 10, 2005, pp. 313-328.
IV Appendice Autoritratto “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 176, maggio-agosto 2002, pp. 9-12. Pensare con la propria testa? “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 192, maggio agosto 2004, pp. 76-88. Aristotele nel Novecento “Scuola e Cultura”, 3, 2005, pp. 22-27
Luca Grecchi
Il pensiero filosofico di Enrico Berti
Petite Plaisance, 2013
ISBN 978-88-7588-110-8, 2013, pp. 240, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [51].
In questo libro è sintetizzata l’opera filosofica di uno dei maggiori pensatori italiani contemporanei, Enrico Berti. Teorizzatore della metafisica classica, studioso di Aristotele, storico della filosofia, Berti ha proposto, in oltre 50 anni di attività culturale ed accademica, soluzioni di grande originalità e valore non solo su temi filosofici, ma anche su temi etici, politici, educativi. La monografia, impreziosita da un saggio finale dello stesso Berti, si pone come una prima introduzione complessiva al suo pensiero.
Indice
Presentazione di Carmelo Vigna
Introduzione
I. Biografia II. L’interpretazione degli antichi e di Aristotele III. La storia della filosofia IV. L’etica e la filosofia pratica V. La politica VI. L’approccio classico alla educazione VII. Religione VIII. La metafisica IX. La critica
Postfazione Enrico Berti A proposito della critica
Principali pubblicazioni di Enrico Berti Volumi Curatele Principali articoli
La filosofia del primo Aristotele (Univ. di Padova. Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia, vol. XXXVIII), 1962.
La filosofia del primo Aristotele, Cedam, 1962.
Il “De re publica” di Cicerone e il pensiero politico classico, Padova, Cedam, 1963.
L’unità del sapere in Aristotele, Cedam, 1965.
Studi aristotelici, Japadre, 1975.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Cedam, 1977
Profilo di Aristotele, Studium, 1979.
I percorsi della filosofia, vol. I. Il pensiero antico e medioevale (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
I percorsi della filosofia. Il pensiero moderno e contemporaneo (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
Profilo di Aristotele, Nuova Universale Studium, 1985.
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’Epos, 1987.
Il pensiero d’Occidente. Pagine e testimonianze (con Sergio Moravi), Le Monnier, 1987.
Le vie della ragione, il Mulino, 1987.
Le ragioni di Aristotele, Laterza, 1989.
Storia della filosofia. Antichità e medioevo, Laterza, 1991.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 1992.
Persona e personalismo (con Georges Cottier e Giannino Piana), Gregoriana Editrice, 1992.
Etica, cultura e partecipazione politica (con Alberto Monticone), AVE, 1993
Il volume riflette l’esigenza di un approfondimento dei rapporti che intercorrono tra etica, cultura e partecipazione politica. Nel volume si delineano alcuni caratteri fondamentali della nostra vita civile: il sistema democratico, la concezione personalista e solidaristica quale fondamento della convivenza civile e dell’organizzazione sociale e politica del nostro Paese, la possibilità per le culture di ispirazione cristiana e per il movimento cattolico di dare un proprio contributo all’evoluzione della vita sociale e politica. L’impegno dell’Azione Cattolica resta quello per la formazione di un laicato adulto nella fede, capace di servizio e testimonianza in ogni ambito della propria vita ma anche quello di promuovere quotidianamente una cultura radicata nei valori del Regno e nei principi della centralità della persona umana e del bene comune.
Introduzione alla metafisica, Utet-Libreria, 1993.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Edizioni Diabasis, 1993.
Aristotele, Il libro primo della «Metafisica» (a cura di E. Berti e C. Rossiitto), Laterza, 1995.
Aristotele, Laterza, 1997.
Rifacendosi in particolare ad un’analisi diretta della Politica e dell’Etica Nicomachea, i cui testi sono ampiamente antologizzati, e confrontandosi con il dibattito critico più recente, Berti illustra tutti i temi fondamentali del pensiero politico aristotelico, come ad es. il concetto di polis, o la vagheggiata «città felice». Né manca un’analisi in parallelo con le teorie di Platone. A differenza di altri studi pubblicati in Italia sul pensiero politico di Aristotele, che hanno un carattere parziale o un’impronta ideologica, il saggio introduttivo di Berti si distingue anche per la capacità di stabilire un dialogo continuo tra esso e il pensiero politico moderno e soprattutto contemporaneo.
Aristóteles no século XX, trad. D. Davi Macedo, São Paulo, Brasil, Edi. Loyola, 1997.
La filosofia del “primo” Aristotele, Vita e Pensiero, 1997.
As razões de Aristóteles, Ed. Loyola, 1998.
Esta obra configura uma intervenção autorizada no atual debate sobre o pensamento débil e a crise da razão, por sua capacidade de relacionar aos temas da filosofia contemporânea a aguda análise de um momento culminante na história da filosofia: o pensamento de Aristóteles.
La politica e l’amicizia (con Salvatore Veca), Edizioni Lavoro, 1998.
La politica e l’amicizia sembrano essere distanti l’una dall’altra: mentre la politica si orienta verso una condivisione più ampia possibile, l’amicizia evoca prospettive più intime, private, e dunque escludenti. Enrico Berti e Salvatore Veca intendono guidare, da angolature differenti, una riflessione sulla possibilità di un incontro fra politica e amicizia.
Novos estudos aristotélicosI – Epistemologia, lógica e dialética, 1999.
Nesta obra, encontram-se ensaios sobre a contradição, a dialética e a argumentação na obra do Estagirita, além de estudos sobre a dialética em Zenão, em Górgias e em Platão, com o objetivo de evidenciar a contribuição que deram à formação do pensamento de Aristóteles.
La navicella della metafisica. Dibattito sul nichilismo e la “Terza navigazione” (con altri), Armando editore, 2000.
Marino Gentile nella filosofia del Novecento, EDS, 2003.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima. Con saggi integrativi, Bompiani, 2004.
Quest’opera, pubblicata originariamente nel 1977, è uno dei più importanti lavori di Berti. Essa si può considerare sia uno studio introduttivo ad Aristotele, di cui si passano in rassegna la vita, le opere, l’ambiente accademico e l’insegnamento, ma anche e soprattutto un saggio teoretico sulle costanti del pensiero metafisico: le idee, le categorie, i princìpi primi, le quattro cause, l’essere e il divenire. Il volume è arricchito da una serie di saggi dell’autore che completano il quadro della “filosofia prima” di Aristotele.
Aristotele. Eubulo o della richezza. Dialogo perduto contro i governanti ricchi, Guida, 2004.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Filosofia pratica, Guida, 2004.
L’espressione “filosofia pratica” compare per la prima volta in Aristotele e in contrapposizione a quella teoretica: mentre quest’ultima ha per fine la verità ossia la conoscenza di come e di perché le cose stanno in un certo modo, la filosofia pratica ha per fine l’opera, cioè mira a conoscere e a rendere possibile un certo tipo di azione, in particolare l’azione buona e quindi tende a rendere migliore colui che agisce. Quindi il fine, lo scopo della filosofia pratica è il tentativo di raggiungere la perfezione dell’uomo stesso.
Nuovi studi aristotelici, vol. 1: Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, 2004.
Il volume è il primo di un’opera che raccoglierà in quattro volumi l’insieme degli scritti di uno fra i maggiori specialisti della logica e della dialettica di Aristotele.
Aristotele. Il primo libro della «Metafisica» (con C. Rossitto), Laterza, 2005.
Nuovi studi aristotelici. 2 – Fisica, antropologia e metafisica, Morcelliana, 2005.
Il secondo volume degli studi aristotelici, dedicato a metafisica, fisica e antropologia, scritto dal maggior specialista italiano di Aristotele. Un libro che è una vera e propria introduzione alla “Metafisica” di Aristotele. L’Autore insegna storia della filosofia all’Università di Padova.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Diabasis, 2005.
Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, 2006.
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2006.
Aristotele e l’ontologia(con Bruno centrone e Paolo Fait), Alboversorio, 2007.
Le tesi di Aristotele rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di ontologia. Da lui, infatti, derivano gran parte dei termini ancora oggi utilizzati e dei problemi su cui non si è mai smesso di discutere. Questo libro permette, al lettore interessato, di avvicinarsi ad alcune prospettive contemporanee sull’argomento espresse da alcuni dei maggiori studiosi italiani.
Introduzione alla metafisica, Utet università, 2007.
Storia della filosofia. Dalla’antichità ad oggi. Con materiali per il docente. Ediz. compatta. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Franco Volpi), Laterza, 2007.
Antologia di filosofia. Dall’antichità ad oggi. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Cristina Rossitto e Franco Volpi), Laterza, 2008.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 2008.
La filosofia di Aristotele è un caso forse unico, nella storia, di “sistema aperto”, cioè di filosofia che è un vero sistema, dotato di una grande differenziazione interna, ma anche di una certa unità; ed è anche un sistema aperto, suscettibile di continue integrazioni, anzi di molteplici usi, data la sua grande versatilità, attestata da una fortuna tra le più longeve che mai si siano date e da una presenza massiccia nella stessa filosofia del Novecento. A essa si possono attingere concetti, categorie, distinzioni, dottrine, adoperabili per gli usi più svariati, nelle più diverse direzioni, sia filosofiche che scientifiche, sia teoretiche, cioè logico-metafisiche, che pratiche, cioè etico-politiche, per non parlare degli usi a fini poetici e retorici. Ma questi concetti, distinzioni, dottrine funzionano, cioè rispondono allo scopo per cui vengono impiegati, solo se sono utilizzati nel rispetto del loro significato originario. Si tratta di una coerenza non rigida, ma elastica, di una logica non monolitica, ma articolata e duttile, Dall’esistenzialismo di Heidegger alla filosofia pratica di Gadamer, dalla “nuova retorica” di Perelman e Toulmin alla nuova scienza di Prigogine e Jacob, alla nuova epistemologia di Kuhn e Feyerabend, Enrico Berti ritrova le tracce dell’inesauribile forza del pensiero aristotelico.
Dialectique, physique et métaphysique. Études sur Aristote, Éditions Peeters, 2008.
This volume contains around twenty articles, many of them already published elsewhere, but translated into French for the first time. They all deal with the dialectics, the physics and the metaphysics of Aristotle.
Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia (a cura di), Utet, 2008.
In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, 2008.
La meraviglia è consapevolezza della propria ignoranza e desiderio di sottrarvisi, cioè di apprendere, di conoscere, dI sapere. Ecco perché proprio la meraviglia, secondo Aristotele, è l’origine della filosofia, ovvero della ricerca disinteressata di sapere. Stato d’animo raro e prezioso, la meraviglia è la sola espressione della vera libertà. Enrico Berti rilegge il pensiero dei grandi filosofi della classicità e costruisce un percorso attraverso le domande senza tempo che la filosofia occidentale ha continuato a porsi, formulate per la prima volta dai Greci.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 3 Filosofia pratica, Morcelliana, 2008.
Il presente volume, terzo della serie dei Nuovi studi aristotelici, raccoglie gli scritti concernenti la “filosofia pratica” di Aristotele, contenuta nelle due Etiche autentiche (Nicomachea e Eudemea), e la filosofia politica, contenuta nella Politica. Come è noto, per Aristotele queste ultime due discipline sono parti di un’unica scienza, da lui chiamata più volte “scienza politica” e, almeno una volta, “filosofia pratica”. Perciò non ho diviso il volume in sezioni, come invece ho fatto nei volumi precedenti. Ho scelto, come sottotitolo dell’intera raccolta, “filosofia pratica”, perché questa espressione è diventata attuale dopo la cosiddetta “riabilitazione (o rinascita) della filosofia pratica”, movimento sviluppatosi nel corso degli anni Settanta del Novecento e ancora non del tutto esaurito.(dalla Prefazione)
Ser y tiempo en Aristótele, Editorial Biblios, 2008.
Enrico Berti, uno de los más reconocidos especialistas de Aristóteles, introduce este libro con una reseña de la presencia de Aristóteles en la Contemporánea. Luego desarrolla una exposición clara y profunda de la postura aristotélica, que va desde el tiempo cósmico de la Física hasta el tiempo humano de la Poética y la Ética. En el recorrido que realiza también visita la Metafísica, pero también obras menos transitadas, como De la memoria y la reminiscencia. Además, confronta la postura de Aristóteles con uno de los trabajos más determinantes de la Contemporánea: Ser y tiempo de Martin Heidegger.
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2008.
La Metafisica è l’opera più famosa di Aristotele. Si tratta degli appunti che Aristotele preparava per le sue lezioni all’interno del Peripato. Lo Stagirita pone qui i problemi fondamentali sull’essere e sul perché del divenire ricercandone le cause e i principi primi.
En el principio era la maravilla. Las grandes preguntas de la filosofía antigua, traducción de Helena Aguilà, Madrid, Editorial Gredos, 2009.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4\1. L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo e Rinascimento, Morcelliana, 2009.
Il libro vuole essere un contributo allo studio della cosiddetta tradizione aristotelica, dell’influenza esercitata da Aristotele sull’intera storia della cultura “occidentale” (termine nel quale va compresa anche la cultura islamica). Tale influenza è stata sia di tipo positivo, nel senso che le dottrine di Aristotele sono state accolte, interpretate e trasformate dai filosofi posteriori, sia di tipo negativo, nel senso che esse sono state oggetto di critiche e spesso di dure polemiche, ma anche in questo caso hanno condizionato le filosofie posteriori. Del primo tipo è l’influenza esercitata da Aristotele sugli aristotelici: su Teofrasto, Aspasio, Alessandro di Afrodisia, Porfirio, i filosofi arabi ed ebrei, Tommaso d’Aquino, Marsilio da Padova, Giacomo Zabarella, William Harvey. Del secondo tipo è invece l’influenza esercitata da Aristotele sui suoi “avversari”: l’epicureo Filodemo di Gadara, Plotino, Bonaventura da Bagnoregio, Niccolò Cusano, Galileo Galilei. Un caso particolare è costituito dal rapporto tra la filosofia di Aristotele e il primo cristianesimo, emblematicamente rappresentato dal discorso di san Paolo agli Ateniesi, dove l’influenza di Aristotele è ravvisabile nel contributo da lui dato alla formazione di quel concetto di “Dio dei filosofi” che Paolo ripropone consapevolmente agli Ateniesi, ma al fine di integrarlo e superarlo nella rivelazione cristiana.
A partire dai filosofi antichi(con Luca Grecchi), Il Prato, 2010.
I problemi filosofici esaminati vengono presentati nella forma di una discussione avvincente che rievoca l’andamento dei dialoghi platonici, in cui la verità emerge dal movimento del discorso che, nel suo correre incessantemente da un interlocutore all’altro, si fa «dia-logo» nel senso più alto. Del resto, i temi trattati dai due autori sono tra i più importanti tra quelli su cui si è andata formando la civiltà occidentale: il valore veritativo della filosofia, il rapporto tra fede e sapere, la morale, l’educazione, il ruolo dell’uomo, la libertà, la politica, la morte, l’ontologia, la metafisica, la critica, e moltissimi altri ancora. Ad accomunare, nel libro, questi temi così vasti ed eterogenei è il punto di partenza da cui ciascuno di essi viene sviluppato: il mondo dell’antica filosofia greca, concepita sia da Berti sia da Grecchi come fonte originaria delle «domande fondamentali» dell’uomo occidentale e come tentativo di elaborazione di alcune grandiose soluzioni che continuano a esercitare un fascino intramontabile. La filosofia greca fa da sfondo anche alle considerazioni svolte da Berti e da Grecchi intorno al pensiero di Kant, di Hegel e di Marx. A partire, appunto, dai «filosofi antichi», i due studiosi ripercorrono in maniera dialogica, anche attraverso la cinquantennale esperienza accademica di Enrico Berti, i nodi maggiori della tradizione filosofica e le problematiche fondamentali del nostro presente.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4/2. L’influenza di Aristotele. L’età moderna e contemporanea, Morcelliana, 2010.
l secondo tomo del volume dedicato all’influenza di Aristotele comprende saggi relativi all’età moderna e all’età contemporanea. Per l’età moderna è evidente la persistenza della filosofia pratica di Aristotele, la quale, dopo essersi eclissata nell’antichità ellenistica e nella tarda antichità, ed essere stata riscoperta nel medioevo, sia musulmano che ebraico e cristiano, sopravvive nel Seicento e nel Settecento, soprattutto in Germania.Per quanto riguarda l’Ottocento i saggi riguardano la critica di Hegel al principio di non contraddizione, e l’influenza di Aristotele sui critici di Hegel: Feuerbach, Trendelenburg, Marx e Kierkegaard. Per la Germania è anche massiccia l’influenza di Aristotele su Brentano e, attraverso di lui, su tutti i suoi discepoli, da Husserl a Meinong, a Twardowski, a Freud. Interessante è anche il rapporto intrattenuto con Aristotele da Paul Natorp, che ebbe ad influenzare, insieme con la dissertazione di Brentano, Martin Heidegger.I capitoli dedicati all’età contemporanea illustrano la presenza di Aristotele in Heidegger e nella filosofia analitica inglese, ovvero nell’analisi del linguaggio ordinario condotta da J. Austin, G. Ryle, P. Strawson, D. Wiggins e altri. Indi illustrano la cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica, prima in Germania, ad opera di filosofi come H.-G. Gadamer e J. Ritter, e poi negli USA, ad opera di A. MacIntyre, H. Jonas, Martha C. Nussbaum.
Profilo di Aristotele, Studium, 2010.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2010.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Invito alla filosofia, La Scuola, 2011.
Un libro per chiunque voglia accostarsi ad un sapere che parte dal sentimento della meraviglia per arrivare ad esercitare un uso consapevole della ragione. Un invito per chiunque sia alla ricerca di motivazioni (esistenziali, religiose, etiche, scientifiche, politiche) e voglia porre domande per scoprire la verità partendo da opinioni consolidate. Perché la filosofia, nel suo stesso modo di procedere dialettico-confutatorio, esalta l’essenza umana che si fonda sul ragionamento.
Preguntas de la filosofía antigüa, Tapa blanda, 2001.
Muchas de las grandes preguntas que la filosofía occidental ha seguido planteándose las formularon por primera vez los griegos. No todas, claro está. Por ejemplo, los griegos no se preguntaron cuáles eran, a priori, las condiciones del conocimiento, o qué leyes rigen la historia, o cómo indagar en el subconsciente del hombre y otras cosas por el estilo. Pero las preguntas que plantearon, a excepción de unas pocas (por ejemplo: ¿quiénes son los dioses?), son las mismas con las que se ha seguido enfrentando la filosofía occidental a lo largo de los siglos. Enrico Berti recorre el pensamiento de los grandes filósofos clásicos y traza un sorprendente itinerario a través de las preguntas sin tiempo que la filosofía occidental ha seguido planteándose y que los griegos formularon por primera vez: ¿Qué es el hombre? ¿Qué es la felicidad? ¿Quiénes son los dioses? ¿Cuál es nuestro destino?
Profilo di Aristotele, Studium, 2012.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Studi aristotelici. Nuova edizione riveduta e corretta, Morcelliana, 2012.
Il dovere di introdurre, e con ciò di giustificare nella sua unità, la presente raccolta mi fornisce l’occasione più opportuna per riflettere sulle ricerche da me compiute in questi anni e anche per risalire alle origini del mio interesse per Aristotele, allo scopo di determinarne il più esattamente possibile il senso e l’orientamento generale. Uno dei fili conduttori dei miei lavori è la persuasione del valore classico, cioè perenne, e quindi anche attuale di certe istanze del pensiero aristotelico. Si tratta di una valutazione di ordine teoretico, o filosofico, che oggi, a causa dell’imperante storicismo e del conseguente relativismo, può sembrare, nel migliore dei casi, ingenua. Tuttavia è una persuasione a cui tengo particolarmente; non ho difficoltà infatti a confessare che, se non la possedessi, non riuscirei a dare alcun senso al lavoro fatto. Le ragioni del valore classico della metafisica antica si trovano nel rilevamento, da parte di Aristotele, di un’inadeguatezza tra il sistema platonico e il problema da cui ogni filosofo deve prendere le mosse, cioè la problematicità integrale e assoluta. Questa problematicità si esprime in un “domandare tutto”, che è insieme un “tutto domandare”, in una domanda che investe la totalità del reale e, per il fatto di escludere ogni precedente certezza, è integralmente domanda; e si identifica con la stessa esperienza intesa come conoscenza di tutto e insieme domanda della ragione di tutto.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2012.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Aristotele e la democrazia, in C. Rossitto, A. Coppola, F. Biasutti (a cura), Aristotele e la storia, Padova, CLEUP, 2013.
Aristotele, La Scuola, 2013.
«Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità e, più di tutte, amano la sensazione della vista. In effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose». Metafisica, libro I.
The Classical Notion of Person and Its Criticism by Modern Philosophy, in B. Babich and D. Ginev (eds.), The Multidimensionality of Hermeneutic Phenomenology, Heidelberg-New York-Dordrecht-London, Springer, 2013.
La phronêsis nella filosofia antica, in A. Fidora, A. Niederberger, M. Scattola (eds.), Phronêsis – prudentia – Klugheit. Das Wissen der Kluge in Mittelalter, Renaissance und Neuzeit, Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales, Porto, 2013.
Mente e anima: due entità?, in G. Erle (a cura), Il limite e l’infinito. Studi in onore di Antonio Moretto, Bologna, Archetipolibri, 2013.
La ricerca filosofica di Antonio Moretto segna una tappa fondamentale e innovativa all’interno della letteratura scientifica a proposito del rapporto tra filosofia e matematica. Questo vale in primo luogo, ma non solo, per una rinnovata comprensione della filosofia classica tedesca che rendeva necessario mostrare la rilevanza della conoscenza congiunta della storia e della teoria della matematica in autori come Kant e Hegel. Questi studi, assieme a quelli che egli ha dedicato a Descartes, Leibniz, Wolff, mostrano come i concetti matematici di finito e infinito racchiudano, nelle loro esigenze tecniche, un’urgenza profondamente umana, quella di dare senso, “mensurare” nell’accezione più ampia del termine. Sotto questo profilo, il passaggio per le scienze esatte nelle ricerche di Moretto non è affatto astratto, ma costituisce il necessario cammino verso quella che Kant avrebbe chiamato “la porta stretta”, varcata la quale meglio si comprendono anche le altre parti del sistema della filosofia, così come proprio Moretto ha dimostrato dedicandosi a discutere altresì questioni di etica, di filosofia della medicina, psicologia della percezione e, perché no?, della poesia di Albrecht von Haller. Coerentemente con questo percorso di ricerca, gli autori degli scritti che costituiscono questo volume si sono impegnati a mostrare la ricchezza di significati e valenze che i concetti di limite e di infinito possono assumere all’interno delle scienze filosofiche.
Una metafisica (epistemologicamente) «debole», n G. Riconda e C. Ciancio (a cura), Filosofi italiani contemporanei, Mursia, 2013.
Il volume presenta i risultati di un ciclo di seminari tenuti all’Università di Padova nel 2011 e 2012, all’interno del Progetto di Ateneo Filosofia e storia nel pensiero politico di Aristotele. Il tema generale è il ruolo della storia nel pensiero aristotelico, secondo le più ampie accezioni del termine. Innanzitutto che uso fa Aristotele dei dati storici, come e a qual fine li utilizza e qual è per lui il valore epistemologico della storia? Storia significa anche storiografia, cioè resoconto scritto dei fatti: possiamo capire il rapporto fra il filosofo e gli storici e tra la storiografia e la politica? I contributi qui raccolti aggiungono materia a queste riflessioni raccogliendo e confrontando punti di vista di storici dell’antichità e di storici della filosofia.
Aristotele, in U. Eco (a cura), L’Antichità, 5. Grecia, Filosofia, EM Publishers srl., 2014.
Neste volume, o leitor terá a oportunidade de conhecer o pensamento de Aristóteles, um dos maiores nomes da Filosofia na Antiguidade. A visão aristotélica é apresentada de modo sintetizado, por meio da análise das obras de Aristóteles, dos conceitos-chave de sua filosofia e seus desdobramentos na sociedade atual.
Il bene di chi? Bene pubblico e bene privato nella storia, Marietti, 2014.
Un affresco dell’intrecciarsi di bene pubblico e bene privato nella storia della civiltà occidentale. Enrico Berti fa comprendere le complesse radici culturali della situazione attuale e apre domande cruciali, da un lato sul destino e la sopravvivenza dello Stato e dall’altro sul fine dell’uomo e sulle condizioni di possibilità della vita sociale. Il libro è arricchito da un dialogo sul tema tra l’autore e i partecipanti alla “Lectio Magistralis” tenuta nel corso di una delle sessioni del 2013 della Winter School, centro di studi sociali, culturali e politici. Prefazione di Giovanni Maddalena.
Il luogo dei corpi secondo Aristotele, in Lessico Intellettuale Europeo, Locus-spatium. XIV Colloquio Internazionale, a cura di D. Giovannozzi e M. Veneziani, Olschki, 2014
La ricerca della verità in filosofia, Studium, 2014.
La verità è oggi temuta come una forma di violenza, specialmente da parte dei filosofi post-moderni. Questo timore spesso è dovuto a una concezione ideologica della verità come valore assoluto da imporre a tutti, mentre esso è del tutto ingiustificato rispetto alla concezione classica della verità, non riducibile alla teoria della verità come corrispondenza. In base alla teoria classica si danno diversi tipi di verità, verità di fatto e verità di ragione, verità storiche e verità scientifiche, verità di fede e verità poetiche: alcune facili da scoprire, altre implicanti complesse e faticose ricerche. In filosofia la ricerca della verità avviene in modi diversi, secondo il tipo di filosofia che si pratica, che può essere trascendentale, dialettico, fenomenologico, analitico-linguistico, ermeneutico, dialogico-confutativo. Un caso di ricerca della verità in filosofia è costituito dalla metafisica, intesa non nel senso tradizionale di ontologia o teologia razionale, bensì come metafisica problematica e dialettica, epistemologicamente debole ma logicamente forte. Esiste anche una verità pratica, che riguarda non la legge morale, ma il desiderio della felicità intesa come pieno sviluppo della persona umana, nel singolo individuo e nella polis.
Prologo a L. E. Varela, Filosofía práctica y prudencia. Lo universal y lo particular en la ética de Aristóteles, Editorial Biblos, 2014.
El trabajo se sostiene en un conocimiento completo y perfecto de toda la obra de Aristóteles concerniente a la ética, no sólo a la Ética nicomaquea y a la Ética eudemia, sino también a la Gran Ética y al Protréptico. Los textos de estas obras son analizadas de manera precisa y rigurosa, y el análisis de ellos es siempre acompañado por una discusión de las interpretaciones suministradas por la literatura crítica, con la cual Varela está constantemente en diálogo. De ello resulta una contribución de gran claridad, equilibrio, riqueza de información y de profundización, que lo hace extremadamente útil para una relectura y una valoración nueva, plenamente satisfactoria, de la ética aristotélica.
Luis Enrique Varela. Doctor en Filosofía (Universidad del Salvador). Es actualmente profesor de Ética y de Metafísica en la Universidad Nacional de Mar del Plata. Asimismo, dicta Historia de la Filosofía Antigua en la carrera del Doctorado en Filosofía, y Ética dentro de la enseñanza de grado en la Universidad Nacional de Lanús. Dirige proyectos de investigación en temas de filosofía práctica y de metafísica tanto en la UNMDP como en la UNLA. También se desempeña como profesor de Historia de la Filosofía Antigua y del Seminario de Filosofía Práctica I en la carrera de filosofía de la Universidad de Ciencias Empresariales y Sociales (UCES). Además dicta materias de filosofía en la carrera de Filosofía del Instituto Superior del Profesorado “Joaquín V. González”.Como director del Círculo de Actualización en Filosofía de la Fundación Descartes, organizó junto con Germán García el “Encuentro Internacional Descartes 400” (1996) y “Lacan y la cultura filosófica” (2001).Es autor de numerosos
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today?, in C. Baracchi (ed.), The Bloomsbury Companion to Aristotle, Bloomsbury, 2014.
Aristotle is one of the most crucial figures in the history of Western thought, and his name and ideas continue to be invoked in a wide range of contemporary philosophical discussions. The Bloomsbury Companion to Aristotle brings together leading scholars from across the world and from a variety of philosophical traditions to survey the recent research on Aristotle’s thought and its contributions to the full spectrum of philosophical enquiry, from logic to the natural sciences and psychology, from metaphysics to ethics, politics, and aesthetics. Further essays address aspects of the transmission, preservation, and elaboration of Aristotle’s thought in subsequent phases of the history of philosophy (from the Judeo-Arabic reception to debates in Europe and North America), and look forward to potential future directions for the study of his thought. In addition, The Bloomsbury Companion to Aristotle includes an extensive range of essential reference tools offering assistance to researchers working in the field, including a chronology of recent research, a glossary of key Aristotelian terms with Latin concordances and textual references, and a guide to further reading.
List of Contributors \ Acknowledgments \ Corpus Aristotelicum \ “Introduction: Paths of Inquiry” Claudia Baracchi \ Part I: Questions \ 1. Logos \ Saying What One Sees, Letting See What One Says: Aristotle’s Rhetoric and the Rhetoric of the Sophists Barbara Cassin \ Aristotelian Definition: On the Discovery of Archai Russell Winslow \ 2. Phusis \ Aristotle on Sensible Objects: Natural Things and Body Helen Lang \ On Aristotle’s Formula: Physics IV. 11, 14 Rémi Brague \ 3. Psuchê \ Phantasia in De Anima Eric Sanday \ Mind in Body in Aristotle Erick Raphael Jiménez \ The Hermeneutic Slumber: Aristotle’s Reflections on Sleep Marcia Sá Cavalcante Schuback \ 4. Philosophia Prôtê \ First Philosophy Alejandro Vigo \ First Philosophy and the History of Being in Aristotle’s Metaphysics Spyridon Rangos \ 5. Êthos \ Aristotle on Human Nature and the Foundations of Ethics, with an “Addendum” Martha C. Nussbaum \ The Visibility of Goodness Pavlos Kontos \ To Kakon Pollachôs Legetai: The Poly-vocity of the Notion of Evil in Aristotelian Ethics Arianna Fermani \ 6. Polis \ Education: The Ethico-Political Energeia Michael Weinman \ 7. Poiêsis \ Toward the Sublime Calculus of Aristotle’s Poetics Kalliopi Nikolopoulou \ Part II: Disseminations \ Aristotle on the Natural Dwelling of Intellect Idit Dobbs-Weinstein \ The Peripatetic Method: Walking with Woodbridge, Thinking with Aristotle Christopher Long \ What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today? Enrico Berti \ Would Aristotle Be a Communitarian? Pierre Aubenque \ Glossary (Erick Raphael Jiménez) \ Chronology of Recent Research (Benjamin J. Grazzini) \ Bibliography (Erick Raphael Jiménez) \ Resources (Benjamin J. Grazzini and Erick Raphael Jiménez) \ Sources of Translated/Reprinted Essays \ General Index
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Morcelliana, 2015.
“Contraddizione” e “dialettica” sono due delle categorie costitutive della filosofia, fin dalla sua nascita nella Grecia del V secolo. Nei capitoli che sono idealmente una storia del pensiero occidentale – il lettore trova la chiara e puntuale ricostruzione dei tanti significati assunti da “contraddizione”, “non contraddizione”, “dialettica” tra Parmenide, Eraclito, Socrate, Platone e Aristotele, tra Kant e Hegel, tra Marx, Popper e la logica contemporanea. Sono categorie in cui è in gioco non solo il rigore della ragione: nella possibilità o no di superare il principio di non contraddizione è in questione la cosa stessa del pensiero. Considerando che lo stesso principio di non contraddizione si dice in più modi. Temi cui Enrico Berti ha dedicato più di cinquant’anni di studi, e che trovano qui un compendio.
È bene definire il bene?, Orthotes, 2015.
Il punto di partenza assunto nel saggio è la definibilità del bene, una volta che ci si occupi di esso non in quanto assoluto e irraggiungibile, ma piuttosto vedendolo come bene umano, praticabile e realizzabile. Come tale, esso è l’oggetto delle aspirazioni umane e concretamente indicato nei diritti fondamentali, nelle varie libertà e nei diritti politici, che documenti ufficiali hanno ormai sancito. Da Aristotele fino alla sua ripresa da parte di Martha Nussbaum, la felicità, per quanto fragile, si sostanzia proprio di questi beni, che possono essere presentati come vere e proprie “capacità”. Completa il testo un intervento di Berti sull’Etica nicomachea di Aristotele, da cui emerge il carattere pratico di una filosofia che punti a definire che cos’è il bene, ossia aristotelicamente la felicità, per l’uomo.
Aristotelismo, il Mulino, 2017.
A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l’esposizione dei loro temi portanti e delle figure in cui si sono concretati.
Un manuale in cui i maggiori studiosi di Aristotele analizzano e descrivono in modo sistematico e completo il pensiero del filosofo, attraverso le singole opere, seguendo un metodo rigorosamente storico, senza interpretazioni ideologiche o di parte.
Introduzione alla metafisica, seconda edizione, UTET, 2017.
La nuova edizione dell’Introduzione alla metafisica di Enrico Berti ripropone la concezione originale della metafisica che l’Autore va presentando da anni, la quale ha suscitato l’interesse degli studiosi di filosofia, come dimostrano le traduzioni dell’opera in altre lingue. Essa contiene alcune correzioni rispetto all’edizione precedente, dovute a ulteriori studi, e soprattutto è corredata da cinque appendici, costituite da altrettanti articoli sul tema, pubblicati dall’Autore negli anni più recenti. L’opera comprende una parte storica, che illustra le diverse forme di metafisica elaborate nella filosofia occidentale, e una parte teoretica, che difende le ragioni di un certo tipo di metafisica, caratterizzata come «metafisica dell’esperienza», sviluppando gli spunti forniti in questa direzione dalla «scuola padovana» facente capo a Marino Gentile. Nel complesso si tratta di una delle rare proposte italiane di una filosofia autenticamente metafisica, in linea con la grande tradizione della «metafisica classica» di ispirazione aristotelica, ma al tempo stesso essenzializzata e aggiornata in modo da tenere conto delle critiche e delle esigenze del pensiero contemporaneo. Il rifiorire di interesse per la metafisica, manifestatosi soprattutto nell’ambito della filosofia analitica, conferma l’attualità dell’opera.
Tradurre la “Metafisica” di Aristotele, Morcelliana, 2017.
«Essendomi recentemente cimentato con l’arduo compito di tradurre la Metafisica di Aristotele, il libro forse più difficile dell’intera storia della filosofia, mi sono imbattuto in una serie di problemi, alcuni dei quali previsti e altri invece imprevisti, che hanno reso l’impresa, oltre che ardua, anche affascinante». Affrontando problemi inerenti alla trasmissione del testo, alla traduzione e alla interpretazione, Berti mostra – contro una lettura teologizzante, di origine neoplatonica – il tratto problematico della filosofia aristotelica: la metafisica non è né teologia, né ontologia, ma scienza delle cause prime.
Aristotele Eubulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Guida, 2019.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Storia della Metafisica (a cura di), Morcelliana, 2019.
Sulla base del presupposto unanimemente riconosciuto che la metafisica, quale che sia il suo valore, ha avuto una storia, il volume individua i momenti salienti di quest’ultima in alcuni grandi filosofie correnti di pensiero: Platone, Aristotele, il platonismo antico, la metafisica arabo-islamica, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Suárez, Cartesio, Kant, Hegel, Rosmini, Heidegger, il neotomismo, la filosofia analitica. Ne risulta una storia equilibrata, ricca e coinvolgente, forse unica nel suo genere, di indubbio interesse per chiunque si occupi di filosofia.
Anche chi non è platonico, come chi scrive qui, deve tuttavia riconoscere che il platonismo, pur interpretato nella maniera più cruda, meno accomodante, meno simpatica, cioè come affermazione che il vero mondo è un «altro mondo», ha il grande merito di mostrare, appunto, che ci può essere dell’altro, che c’è un’altra possibilità, che dunque la giustizia è possibile. Questo è un messaggio che, forse, lascia indifferente chi in qualche modo se la spassa, ma non può lasciare indifferente chi soffre, lotta e spera. Non si tratta, con buona pace di Nietzsche, di nichilismo, né passivo né attivo, né, con altrettanta pace di Heidegger, di oblìo dell’essere, ma di autentico impegno, filosofico, etico e politico.
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È possibile riconoscere l’attualità di Platone anche senza essere platonici? La domanda ha un senso, perché il mondo è ancora pieno di platonici, anzi lo è sempre stato, non solo tra i filosofi spiritualisti di ispirazione cristiana – meno tra gli ebrei e musulmani –, ma anche tra i “laici” (basti pensare ai neoplatonici). Questo è un fatto innegabile, sebbene alcuni aspetti del pensiero platonico sembrino francamente inaccettabili: la convinzione che il vero mondo non è quello in cui viviamo, ma un altro; l’assoluta indipendenza dell’anima dal corpo; la necessità che il governo politico sia in mano ai filosofi; l’abolizione della famiglia e della proprietà. Malgrado tutto ciò, anche chi non è platonico deve riconoscere che Platone è ancora attuale, non solo perché ha influenzato l’intera storia della filosofia, al punto che questa è stata considerata una serie di note al suo pensiero, e pare che ancora oggi sia il filosofo più citato di tutti, come sostiene chi si diverte con questo genere di calcoli, ma soprattutto perché ha determinato alcune svolte, dalle quali non si è più tornati indietro.
Indicare in che consiste l’attualità di Platone, però, non è facile, soprattutto perché non è facile stabilire esattamente qual è stato il suo pensiero. Non mi riferisco alla vexata quaestio – ormai, mi sembra, un po’ passata di moda – se il vero Platone sia quello dei dialoghi o quello delle «dottrine non scritte». Mi riferisco a un problema che nasce proprio dalla lettura dei dialoghi e del quale gli studiosi stanno prendendo coscienza in maniera sempre più acuta: dove sta il pensiero di Platone? In ciò che dice il Socrate della maggior parte dei dialoghi, o in ciò che dice, ad esempio, Parmenide nel dialogo omonimo, lo Straniero di Elea nel SoflSta, Timeo nel Timeo, insomma gli altri personaggi dei dialoghi? Questa relativa indeterminatezza sembra conferire al pensiero di Platone un fascino anche maggiore, perché non lo si può mai inchiodare su una posizione determinata, come ha tentato di fare per primo Aristotele, per poterlo meglio criticare.
Una prima svolta prodotta da Platone nella storia della filosofia è quella che Socrate chiama, nel Fedone, la «seconda navigazione». Il personaggio di Socrate, che qui è considerato portavoce di Platone, dopo avere raccontato che da giovane cercava di conoscere le cose con i sensi seguendo in ciò l’esempio di filosofi a lui precedenti come Anassagora – chiamati poi per questo «presocratici» –, afferma che a un certo punto gli parve necessario «rifugiarsi nei logoi e cercare in essi la verità degli enti». Che cosa sono questi logoi? Discorsi? Concetti? Idee? Ogni interpretazione è possibile. Ma certamente essi non sono più la realtà sensibile. Lo sono tra quelli che credono nella separatezza delle Idee platoniche – come Aristotele, ma anche come il «platonico» Cherniss –, tuttavia mi rendo conto che senza passare per le Idee, sia pure separate, non si sarebbe mai giunti al concetto astratto, e quindi alla dialettica, alla scienza, alla filosofia. Da allora, infatti, non si è più tornati indietro, fuorché in qualche filosofia rozza e primitiva che non merita nemmeno questo nome.
Un’altra svolta è stata la concezione del principio supremo non come Dio, o l’Essere, o l’Uno, ma anzitutto come il Bene. Ciò ha comportato tutta una serie di conseguenze a cascata. La filosofia non è più stata vista come pura conoscenza, metafisica astratta, ma come nuovo modo di vivere, come vera e propria conversione alla ricerca della giustizia, della virtù, del bene appunto, per se stessi e per gli altri: filosofia teoretica e insieme pratica, metafisica e insieme etica, ma anche politica, anzi soprattutto politica. È nata così la domanda «che cos’è la giustizia», per rispondere alla quale Platone nel suo capolavoro, la Repubblica, spiega addirittura come è fatta l’anima umana, mostrando quanto essa sia complessa, conflittuale, e come deve essere fatta la città, cioè la società politica, per essere “giusta”. Al di là degli aspetti paradossali di questa dottrina, di cui Platone stesso era perfettamente consapevole e che tuttavia hanno rivelato quale può essere l’efficacia anche storica dell’utopia, tutta la faccenda del governo dei filosofi e dell’abolizione della proprietà ha un significato profondo, imperituro. Essa significa che i governanti non devono avere interessi privati, per potersi dedicare interamente alla ricerca del bene comune. E che non devono essere solo onesti, ma anche intelligenti, cioè devono sapere qual è il vero bene e come lo si realizza. Anche gli aspetti secondari, se vogliamo chiamarli così, della Repubblica, hanno una loro grandezza, che permane immutata. Pensiamo alla grandiosa descrizione dei pericoli che corre la democrazia, quando nessuno obbedisce più ad alcuna legge, nessuno riconosce più alcuna autorità, e chi ne approfitta è solo il tiranno, che sta sempre in agguato e sa più di tutti persuadere, adulare, eccitare, sobillare, ingannare il demos. Ma pensiamo anche alla scandalosa condanna che Platone pronuncia dell’arte, della poesia in particolare, di Omero soprattutto, da lui considerato il più grande di tutti i poeti. Questa condanna dimostra che nessuno, meglio di Platone, ha capito la potenza straordinaria dell’arte e della poesia, la sua irresistibile capacità di incantare, la sua origine quasi divina, e per questo egli l’ha tanto temuta.
Allo stesso modo nessuno meglio di Platone, malgrado il suo rifugiarsi nei logoi, ha capito la potenza immane dell’eros che – come si legge nel Simposio – prima di sublimarsi nell’amore per la bellezza in sé e la bontà in sé, è amore per i bei corpi, desiderio di generare, e può diventare anche follia, tragica – ma in qualche misura anche demoniaca, che bisognerebbe tradurre con “soprannaturale”. Platone ha scandagliato per primo le profondità dell’anima umana, descrivendone i lati più oscuri, le voglie più ancestrali, ma al tempo stesso ha sentenziato che l’uomo è essenzialmente la sua anima e che questa deve cercare di liberarsi il più presto possibile del corpo, per essere felice tutta raccolta in sé stessa e assorta nella contemplazione delle Idee. Per Platone il bene, il vero Bene, non è «fragile», come ha sostenuto a proposito di Aristotele Martha Nussbaum, perché la filosofia è autosufficiente.
Nietzsche, seguito da Heidegger, ha visto nel platonismo l’emblema della metafisica intesa come nichilismo passivo, negazione della vita, evasione dalla realtà, e ha coinvolto nella sua condanna di questo platonismo anche il cristianesimo, da lui considerato una sorta di «platonismo per il popolo». Ma Nietzsche ha sempre ha avuto una grande ammirazione per Platone (come del resto per Gèsù Cristo), da lui intensamente studiato sin dalla giovinezza, mentre ha scritto invece parole crudeli all’indirizzo del povero Socrate. Anche chi non è platonico, come chi scrive qui, deve tuttavia riconoscere che il platonismo, pur interpretato nella maniera più cruda, meno accomodante, meno simpatica, cioè come affermazione che il vero mondo è un «altro mondo», ha il grande merito di mostrare, appunto, che ci può essere dell’altro, che c’è un’altra possibilità, che dunque la giustizia è possibile. Questo è un messaggio che, forse, lascia indifferente chi in qualche modo se la spassa, ma non può lasciare indifferente chi soffre, lotta e spera. Non si tratta, con buona pace di Nietzsche, di nichilismo, né passivo né attivo, né, con altrettanta pace di Heidegger, di oblìo dell’essere, ma di autentico impegno, filosofico, etico e politico.
Enrico Berti,Platone l’antiplatonico, articolo pubblicato in: “Il Sole-24 ore”, Domenicale del 30 dicembre 2006, p. 31.
Enrico Berti
Pensare con la propria testa?
Lezione tenuta nel Corso di Metodologia dell’insegnamento filosofico dell’Università di Padova il 31 maggio 2004. Il testo è stato pubblicato nel 2006 in: Enrico Berti, Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia, 2006, pp. 281-294, cui si rimanda.
La filosofia deve essere insegnata a tutti da un lato per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa” in generale (non di fare filosofia con la propria testa), e dall’altro anche perché essa fa parte della cultura generale. Come potrebbe, infatti, essere considerata colta una persona che non sapesse nulla di Platone o di Kant? Nell’università invece, dove la filosofia viene insegnata a coloro che l’hanno scelta come professione e intendono dedicarsi professionalmente ad essa per tutta la vita, si può anche dire che l’insegnamento ha lo scopo di far imparare a filosofare, ma filosofare non significa costruire ciascuno un proprio sistema filosofico, bensì fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro, ed a questo scopo è necessario conoscere bene la storia della filosofia, e soprattutto leggere le opere dei grandi filosofi.
Il titolo di questa conversazione riprende quello di un articolo di Franca D’Agostini, pubblicato nella rivista “Intersezioni” dell’agosto 2003,[1] aggiungendovi soltanto il punto interrogativo (di cui vedremo la ragione). Franca D’Agostini è la nota e intelligente autrice del fortunato libro Analitici e continentali (Milano 1997), che ha divulgato anche in Italia una contrapposizione del tutto impropria, perché costruita con due categorie tra loro eterogenee, una di tipo metodologico e l’altra di tipo geografico, ma tuttavia utile per classificare la maggior parte dei filosofi contemporanei. Tale contrapposizione è stata infatti coniata, non a caso, da un filosofo analitico, Kevin Mulligan, che l’ha lanciata, se non erro, nel Time’s Literary Supplement, contrapponendo per mezzo di essa i filosofi analitici a tutto il testo del mondo, e ha dato luogo a vari dibattiti, di cui in Italia è rimasto famoso quello sviluppato nel supplemento domenicale del “Sole-24 ore” del 1998. In quest’ultimo è intervenuto anche un altro filosofo analitico, Michael Dummett, con una perfetta illustrazione delle caratteristiche dei due tipi di filosofi, ovvero dei due stili, o modi, di fare filosofia.
Lo stesso Mulligan, in un recente saggio su John Searle, rivendica alla filosofia analitica il rifiuto del principio di autorità e il diritto a “pensare con la propria testa”, accusando i “continentali” di pensare con la testa dei filosofi del passato.[2] Egli così riprende la nota tesi di Kant, il quale nella Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, non solo indicò “il motto dell’illuminismo” nella nota esortazione “abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto!”, ma usò come equivalente a questa proprio l’espressione “pensare con la propria testa”. Dopo avere infatti osservato che pensare può essere faticoso, perché “io ho un libro che ragiona per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che per me decide quale debba essere la mia dieta, ecc., e quindi non ho bisogno di badare a me stesso. Purché solo possa pagare, non è necessario ch’io pensi; altri si assumeranno per me questa noiosa incombenza”, Kant aggiunge che tuttavia “si troveranno sempre […] delle persone che pensano con la propria testa, e che, scrollatesi di dosso il giogo della minorità, diffonderanno il sentimento d’un apprezzamento razionale del valore di ogni uomo e della sua vocazione a pensare da sé”.[3]
Kant, come è noto, faceva di questo concetto il nucleo della sua dottrina sul metodo dell’insegnamento della filosofia, secondo la quale non si deve insegnare la filosofia, ma si deve insegnare a filosofare. Già nello scritto “precritico” Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766 egli sostiene infatti che in generale “uno studente non deve imparare pensieri (Gedanken), ma deve imparare a pensare (denken)”. E, per quanto riguarda in particolare la filosofia, egli precisa: “il giovane licenziato crede che imparerà filosofia, ma questo è impossibile, perché ora deve imparare a filosofare (philosophiren)”.[4] Mentre, infatti, altre scienze, quali ad esempio la geometria, esistono già in una forma sistematica, sulla quale tutti convengono, per esempio gli Elementi di Euclide, ciò non accade assolutamente per la filosofia. “Per imparare la filosofia – scrive Kant – bisognerebbe, anzitutto, che ce ne fosse realmente una. Bisognerebbe poter mostrare un libro e dire: vedete, qui è la sapienza e la conoscenza sicura; imparate ad intenderlo e a capirlo, poi costruiteci su, e sarete filosofi. Finché non mi si mostrerà un tal libro di filosofia […], mi si permetta di dire che si abusa della capacità delle persone”. Per questo, conclude Kant, “il metodo peculiare dell’insegnamento della filosofia è zetetico, come lo chiamavano alcuni antichi (da zetein), cioè indagativo, e diventa in vari punti dommatico, cioè determinato, solo per la ragione alquanto esercitata”.[5]
La stessa posizione Kant mantiene nella Critica della ragion pura, dove scrive: “Tra tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia (salvo storicamente); ma, per ciò che concerne la ragione, tutt’al più si può imparare a filosofare”. E più avanti: “Non si può imparare alcuna filosofia; perché dove è essa, chi l’ha in possesso, e dove essa può conoscersi? Si può imparare soltanto a filosofare, cioè ad esercitare il talento della ragione nell’applicazione dei suoi principi generali a certi tentativi che ci sono, ma sempre con la riserva del diritto della ragione di cercare questi principi stessi alle loro sorgenti e di confermarli o rifiutarli”.[6] Qui sono interessanti la riserva circa la storia e l’accenno alle sorgenti, su cui ritorneremo, ma non c’è dubbio che viene ribadita la tesi già espressa nella Notizia, la quale rimarrà una tesi classica nel dibattito sull’insegnamento della filosofia.
Alla tesi di Kant si ispira esplicitamente l’insegnamento della filosofia nelle scuole francesi, cioè nelle scuole del Paese che, insieme con l’Italia, è certamente quello in cui la filosofia occupa lo spazio maggiore nella formazione dei giovani, collocandosi all’interno del liceo. È noto, infatti, che in Francia si insegna filosofia al liceo, anche se, a differenza che in Italia, solo nell’ultimo anno; ma in quest’anno la filosofia è sicuramente l’insegnamento più importante, che in certi indirizzi raggiunge anche le nove ore alla settimana, per cui l’ultimo anno del liceo è chiamato anche classe de philosophie. Ebbene, nei documenti ufficiali diffusi dal Ministère de l’Education nationale, si è sempre dichiarato che lo scopo dell’insegnamento della filosofia è di insegnare ai giovani à faire de la philosophie (in francese non esiste il verbo “filosofare”). A questo proposito un recente Manifesto per l’insegnamento della filosofia in Francia parla della “dottrina ufficiosa” che ispira l’insegnamento della filosofia in Francia da più di un secolo e che si compendia nelle seguenti affermazioni: “L’insegnamento della filosofia è un insegnamento filosofico. La sua prima finalità non è che l’allievo sappia che cosa dice Platone o Cartesio, ma che apprenda a fare una riflessione filosofica con i propri mezzi e sviluppi così il suo spirito critico e la sua autonomia di giudizio”.[7] Anzi per molti anni negli ambienti scolastici francesi si è criticato il metodo italiano dell’insegnamento della filosofia, perché esso si limita esclusivamente alla storia della filosofia e non insegna minimamente a “fare della filosofia”.
Ma torniamo all’esortazione kantiana a “pensare con la propria testa”. Su di essa non si può non essere d’accordo: non solo l’insegnamento della filosofia, ma l’intera educazione deve formare a pensare con la propria testa, se con questa espressione si intende l’esercizio del senso critico, lo spirito di osservazione personale, il rifiuto dei pregiudizi, la disponibilità al confronto con gli altri, e tutte le capacità di questo genere. Ma siamo sicuri che questo sia l’unico significato della suddetta espressione? A proposito di essa fa alcune interessanti considerazioni Franca D’Agostini nell’articolo sopra citato. Anzitutto ella precisa che, con tale esortazione, Kant non intendeva affermare il primato delle proprie idee e il disprezzo delle idee altrui, poiché in una lettera a Herder del maggio 1768 egli scrisse: “quanto a me, non mi afferro saldamente ad alcunché e con profonda imparzialità combatto tanto le mie opinioni quanto quelle altrui”.[8] Ma poi la stessa D’Agostini osserva molto acutamente: “il problema di fondo, nel tema del ‘pensare con la propria testa’, è che se c’è una testa, per così dire, essa difficilmente è propria o interamente propria”.[9]
Qui emerge tutta la consapevolezza critica, propria dei filosofi “continentali”, degli innumerevoli condizionamenti a cui ciascuno di noi è sottoposto: l’ambiente sociale in cui si è nati, l’educazione che si è ricevuta, la propria storia, la propria cultura, le tendenze, le aspettative, le speranze, ma anche i pregiudizi, le idiosincrasie e, soprattutto oggi, l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, della pubblicità, della moda. Una volta, al tempo di Kant, bisognava guardarsi dal principio di autorità, perché qualche autorità c’era. Oggi non si sono più autorità, quindi non c’è più alcun pericolo di essere vittime di tale principio, ma quanto più lo si rifiuta, tanto più si è vittima di altri condizionamenti. Anche i filosofi, che dovrebbero essere gli spiriti più critici, sono terribilmente vittime delle mode. Non parlo solo di abbigliamento, è evidente, anche se l’accettazione immediata e passiva della moda nell’abbigliamento è già un segno che dovrebbe suscitare qualche sospetto. Parlo delle mode culturali, intellettuali, filosofiche, quelle per cui “dopo il tale (che può essere Kant, o Marx, o Nietzsche, o Freud, o Heidegger, o Quine) non è più possibile dire che”, oppure “oggi è ormai assodato che”, o “la tal epoca è ormai finita”, per cui bisogna necessariamente essere “post” qualche cosa, “post-metafisici”, “post-cristiani”, “post-moderni”, ecc.
Ciò fu visto con grande chiarezza, come ricorda D’Agostini, da Hegel, al quale si deve un’altra tesi, non meno classica di quella di Kant, anche se non più illuministica, da far valere nel dibattito sull’insegnamento della filosofia. Hegel, nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, dichiara: “La smania di pensare con la propria testa sta in ciò, che ognuno metta fuori una sciocchezza più grossa di un’altra”[10]. L’uso dell’espressione “pensare con la propria testa” può dare l’impressione che Hegel intenda polemizzare proprio con Kant, ma ciò non è vero, perché, come giustamente nota D’Agostini, la polemica è rivolta invece contro i filosofi romantici, cioè Eschenmayer e Jacobi. “Quest’oratoria profetica e scevra di concetto – scrive a proposito di essi Hegel – proclama dal tripode questo e quello circa l’essenza assoluta, ed esige che ognuno debba trovare immediatamente tutto questo nel proprio cuore. Il conoscer l’essenza assoluta diventa affare di cuore; è una folla d’inspirati a parlare, e ciascuno di essi dice un monologo, e capisce veramente l’altro solo nella stretta di mani e nel silenzio del sentimento. Quel che essi dicono, sono per lo più cose banali, se si prendon così come sono dette; il sentimento, l’atteggiamento, la pienezza del cuore son essi che debbono dare forza al discorso, – per sé non dicono nulla. Essi cercano di superarsi l’un l’altro con le trovate della fantasia, con la poesia nostalgica”. Certo, si tratta di un modo molto particolare di intendere il “pensare con la propria testa”, ma esso non è raro nemmeno tra i filosofi di oggi – non tra gli analitici, va detto, bensì proprio tra i continentali – che spesso hanno l’aria di ispirati, o di iniziati, che hanno scoperto da soli la verità e si decidono a rivelarla al volgo, evitando qualsiasi argomentazione e lasciandosi andare, nel migliore dei casi, a una serie di asserzioni del tutto ingiustificate, quando non oscure o addirittura incomprensibili.
“Per il filosofare – continua Hegel – non c’è speranza, l’onore è perduto; infatti esso presuppone un fondo comune di pensieri e di principi, esige che si proceda scientificamente o per lo meno esige opinioni. Ma ora tutto è stato riposto nella particolare soggettività; ognuno è diventato altezzoso e sprezzante verso gli altri. A questo si ricongiunge la rappresentazione del pensare con la propria testa, come se ci potesse esser pensiero che non sia tale”.[11] Evidentemente l’esortazione kantiana a “pensare con la propria testa” aveva avuto successo, anche troppo, ed era stata distorta in un diritto ad esaltare la propria soggettività, la propria creatività, infischiandosi del “fondo comune di pensieri e di principi”. Le opinioni, che secondo Hegel il filosofare esige, sono quelle che devono essere messe in discussione, quelle che Kant voleva combattere, sia le proprie che le altrui, ma in un dibattito comune, in una dialogo con gli altri, il quale non sia il monologo di un ispirato, bensì la discussione di chi argomenta, di chi confuta o anche di chi dimostra.
È interessante, a questo proposito, richiamare anche le idee di Hegel sull’insegnamento della filosofia. Egli fu, come è noto, per alcuni anni rettore, cioè preside, del ginnasio di Norimberga (1808-1816), e questi furono gli anni in cui scrisse la Scienza della logica (1812-1816), cioè quelli in cui giunse ad elaborare in forma compiuta il suo sistema. Nel 1812 fu richiesto dal Regio consigliere scolastico superiore per la Baviera (una specie di ministro dell’istruzione), Immanuel Niethammer, di un parere riservato sull’insegnamento della filosofia del ginnasio. In questo parere Hegel scrisse, tra l’altro: “In generale, si distingue il sistema filosofico, con le sue scienze particolari, dal filosofare vero e proprio. Secondo la moda moderna, specialmente della pedagogia, non si deve tanto venire istruiti nel contenuto della filosofia quanto imparare a filosofare senza contenuto; ciò vuol dire, pressappoco: si deve viaggiare, viaggiare sempre, senza conoscere le città, i fiumi, i paesi, gli uomini, ecc.”.[12] Evidentemente la tesi di Kant aveva avuto successo anche in Baviera, specialmente tra i pedagogisti, anche allora nemici dei contenuti ed amici soprattutto dei metodi (nihil sub sole novum).
A questa tesi (dei pedagogisti bavaresi, più che di Kant) Hegel risponde con tre argomenti. “In primo luogo, nel conoscere una città, nel giungere poi ad un fiume, ad un’altra città, e così via, si impara senz’altro, in tal modo, a viaggiare, e non s’impara soltanto, ma si viaggia effettivamente. Così quando si viene a conoscenza del contenuto della filosofia, non si impara soltanto il filosofare, ma si filosofa anche già effettivamente”.[13] Evidentemente per Hegel, a differenza che per Kant, la filosofia da qualche parte esiste già ed è costituita, come vedremo tra poco, da un lato dal sistema delle scienze filosofiche, quello che lo stesso Hegel si accingeva ad esporre nella sua Enciclopedia, e dall’altro dalla storia della filosofia, la cui conoscenza, secondo Hegel, è già un modo per filosofare.
“In secondo luogo – continua Hegel – la filosofia comprende i più alti pensieri razionali intorno agli oggetti essenziali, comprende l’universale e il vero dei medesimi: è di grande importanza acquisire familiarità con questo contenuto, e accogliere nella propria testa questi pensieri. Il procedimento triste, meramente formale, il perenne cercare e vagare, senza contenuto, l’asistematico sofisticare e speculare, hanno come conseguenza la vacuità e la mancanza di pensieri in testa, il fatto che non si sappia nulla. La dottrina del diritto, la morale, la religione costituiscono un campo dotato di un importante contenuto; anche la logica è una scienza ricca di contenuto: quella oggettiva (Kant: trascendentale) comprende i pensieri fondamentali di essere, essenza, forza, sostanza, causa, ecc.; l’altra i concetti, i giudizi, i sillogismi, ecc., determinazioni fondamentali altrettanto importanti; la psicologia comprende il sentimento, l’intuizione, ecc.; l’enciclopedia filosofica, infine, in generale questo campo nella sua interezza”. Il riferimento al “pensare con la propria testa” continua ad essere presente, ma viene inteso come un “accogliere nella propria testa questi pensieri”, e non in polemica con Kant, il quale anzi viene citato come autore della logica oggettiva. Si noti inoltre come Hegel non proponga quale contenuto della filosofia soltanto il proprio sistema, ma anche le discipline filosofiche tradizionali, di origine addirittura aristotelica.
Una riflessione merita anche, a mio avviso, la polemica contro “il perenne cercare e vagare”, oggi tanto di moda in nome della problematicità, della criticità, dell’apertura. La filosofia deve certamente cercare, lo dice il suo stesso nome, e il suo metodo non può essere che quello “zetetico”, come diceva Kant. Questi lo chiamava anche “metodo scettico”, ma aggiungeva subito: “Esso è da distinguere del tutto dallo scetticismo, principio di una inscienza secondo arte e scienza, che spianta le fondamenta d’ogni cognizione, per non lasciarle, possibilmente, in nessuna parte alcuna certezza e sicurezza. Giacché il metodo scettico mira alla certezza”.[14] Un cercare fine a se stesso è solo ipocrisia, perché chi cerca sinceramente, cerca per trovare, non per cercare. Chi cerca solo per cercare, non cerca, ma finge di cercare, perché non gli importa assolutamente nulla di ciò che cerca. Anche il mio maestro, Marino Gentile, diceva che la filosofia è “un domandare tutto che è tutto domandare”, ma con ciò intendeva dire che essa non contiene alcuna risposta già data, cioè presupposta, non che essa non aspira ad alcuna risposta. Anzi, a questo proposito paragonava il domandare alla potenza, ed affermava con Aristotele che più della potenza conta l’atto, e che una potenza incapace di passare all’atto non vale nulla.
Infine, ecco il terzo argomento di Hegel: “In terzo luogo, il procedere nella conoscenza di una filosofia ricca di contenuto non è altro che l’apprendere. La filosofia deve essere insegnata e appresa, al pari di ogni altra scienza. L’infelice prurito di insegnare a pensare da sé (Selbstdenken) ed a produrre autonomamente ha messo in ombra questa verità; come se, quando io imparo che cosa sia la sostanza, la causa o qualsiasi altra cosa, non pensassi io stesso, non producessi io stesso nel mio pensiero queste determinazioni, ma queste venissero invece gettate in esso come pietre”. In queste parole, forse discutibili nell’equiparazione della filosofia a tutte le altre scienze, io leggo la preoccupazione di salvaguardare il carattere professionale della filosofia, e quindi anche del suo insegnamento. Non ci si improvvisa filosofi, la filosofia non è un’attività spontanea, immediata, dilettantesca, ma è anche una professione, un sapere, che richiede una competenza, professionalità. E non è detto che questa competenza serva solo per fare filosofia: nella Facoltà di Medicina dell’Università di Padova, ad esempio, si ritiene utile da qualche anno impartire agli studenti di medicina, che non faranno mai i filosofi, alcune lezioni di filosofia: non di “filosofia della medicina”, ma di filosofia pura e semplice, in cui si spieghino, nella fattispecie, le nozioni di causa, effetto, fine, ecc.
Hegel continua la sua perorazione con un esempio che farà discutere: “Come se, quando ho imparato bene il teorema di Pitagora e le sue dimostrazioni, non fossi io stesso a conoscere questo teorema e a dimostrarne la verità; nella misura in cui lo studio filosofico è in sé e per sé un’attività autonoma (Selbsttun, un fare da sé), esso è un apprendere; l’apprendere una scienza già esistente, formata”. Questa sembra essere proprio una risposta a Kant, il quale osservava che la filosofia non esiste come una scienza già bell’e fatta, che si possa apprendere da un libro, e vedeva in questo la sua differenza dalla matematica, in cui rientra appunto il teorema di Pitagora. E non si può dargli torto, se per scienza si s’intende una scienza come la matematica. Ma non è alla matematica che pensa Hegel, malgrado il suo esempio. Egli infatti aggiunge: “Questa è un patrimonio costituito da un contenuto acquisito, elaborato, formato: questo bene ereditario disponibile dev’essere acquistato dall’individuo, ossia, venire appreso. L’insegnante lo possiede: egli lo pensa dapprincipio, e dopo di lui lo ripensano gli allievi. Le scienze filosofiche contengono dei propri oggetti, pensieri universali, veri; esse sono il prodotto risultante dal lavoro dei geni pensanti di tutti i tempi; questi pensieri veri superano ciò che un giovane non istruito produce col proprio pensiero di quanto quella massa di lavoro geniale supera la fatica di questo giovane”. Dunque è nel “prodotto risultante dal lavoro dei geni pensanti di tutti i tempi”, cioè nella storia della filosofia, che va ricercata la filosofia: in questo, come abbiamo visto, anche Kant era d’accordo, quando, dopo avere affermato che “tra tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia”, precisava “salvo storicamente”.
Certo, la storia della filosofia che contiene in sé la filosofia non è quella che lo stesso Hegel ha definito “la filastrocca di opinioni”, da Talete a giorni nostri, che ci raccontano i (cattivi) manuali o le storie della filosofia di impostazione dossografica. Queste non possono che produrre, nei giovani, il più completo disorientamento, e quindi lo scetticismo. La storia della filosofia che contiene in sé la filosofia è costituita dalle opere dei grandi filosofi, dalle quali anche i giovani che frequentano il liceo possono attingere qualche briciola di filosofia, leggendone qualche pagina, come leggono qualche pagina della grande poesia o della grande letteratura. In tal modo essi possono, almeno una volta nella vita, fare esperienza di che cosa significa affrontare un problema di senso, o di verità, in modo razionale, cioè senza fare ricorso ad una tradizione familiare, o ad una fede religiosa, o ad un’ideologia politica, ma con argomentazioni, con discussioni a favore e contro, con domande, risposte e confutazioni.
Ma vediamo anche che cosa pensava Hegel a proposito dell’insegnamento della filosofia nell’università. Sempre da Norimberga, nell’agosto del 1816, quando ormai stava per essere chiamato alla cattedra di filosofia dell’università di Heidelberg (ma già aveva insegnato, come Privat-dozent, all’università di Jena), Hegel scrisse al Regio consigliere, questa volta del governo di Prussia, Friedrich von Raumer, una lettera sull’insegnamento della filosofia nell’università, nella quale esordisce così: “Comincio subito come in generale si potrebbe cominciare questo discorso, poiché può apparire una cosa molto semplice, con l’osservazione che per l’insegnamento della filosofia dovrebbe valere soltanto quello che vale per l’insegnamento delle altre scienze”.[15] Per capire il senso di queste parole bisogna aver vissuto la situazione del professore di filosofia nell’università, continuamente tenuto a dover giustificare, presso i suoi colleghi delle facoltà scientifiche, la sua presenza, il suo diritto al riconoscimento di una dignità scientifica, e quindi a spazi adeguati, finanziamenti adeguati, posti di collaboratore adeguati. Se tutto ciò è invece incerto, o in discussione, è per colpa di quanti presentano la filosofia non come un sapere, ma come un “pensare con la propria testa”. Per fare questo, infatti, che bisogno c’è di spazi, di fondi, di posti? Basta avere una testa.
Forse anche al tempo di Hegel c’erano filosofi che giustificavano i sospetti dei propri colleghi scienziati, poiché nella citata lettera egli scrive: “Abbiamo visto dare una maggiore ampiezza alle idee generali con l’aiuto della fantasia, che mescolava alto e basso, vicino e lontano in un modo brillante ed oscuro (sottolineatura mia), spesso con profondità ed altrettanto spesso con superficialità assoluta, ed inoltre utilizzava quelle regioni della natura e dello spirito che sono per se stesse oscure ed arbitrarie. Un cammino opposto, diretto anch’esso ad una maggiore estensione, è quello critico e scettico, che ha nel materiale esistente una materia nella quale esso procede ma che d’altronde vanifica, traendone dispiacere e risultati negativi, fonti di noia. Se questo cammino serve pure in qualche modo ad esercitare l’acume, mentre il mezzo della fantasia vorrebbe invece sortire l’effetto di svegliare un effimero fermento dello spirito – ciò che si chiama anche edificazione – e di accendere di per sé nei pochi l’idea universale, nessuna di queste maniere fa tuttavia ciò che va fatto, e che è lo studio della scienza ”.[16]
L’insegnamento della filosofia nell’università (non stiamo più parlando del ginnasio o del liceo) dunque non deve né edificare, né semplicemente esercitare l’acume: altre discipline possono svolgere questo compito, forse meglio della stessa filosofia. Quanto al “modo brillante ed oscuro” con cui alcuni insegnano filosofia nell’università, Hegel coglie perfettamente la disonestà di questo atteggiamento, che per fare effetto si sottrae ad ogni possibilità di controllo, ed approfitta dell’inferiorità culturale degli studenti per épater. Piero Martinetti diceva, come è noto, che la chiarezza è l’onestà del filosofo, perché permette a tutti di valutare “con la propria testa” se ciò che il filosofo dice risponde a verità, o è minimamente convincente. Quando invece un filosofo è oscuro, chi può valutare ciò che egli afferma? La chiarezza è l’analogo, per il filosofo, di ciò che è il teatro anatomico per l’anatomista: in esso tutti possono constatare con i propri occhi, a distanza ravvicinata, se ciò che il docente afferma corrisponde a ciò che si vede.
Ma nell’università c’è un altro rischio che Hegel chiaramente denuncia, quello per cui ciascun professore vuole avere e insegnare il suo proprio sistema. “È diventato un pregiudizio – scrive Hegel sempre nella lettera a von Raumer – , e non solo nello studio filosofico, ma anche nella pedagogia – e in questa ancor più grave – che il pensare indipendente (Selbstdenken) debba essere esercitato e sviluppato, in primo luogo, nel senso che esso non dipenda dall’elemento materiale e, in secondo luogo, come se l’imparare fosse opposto al pensare indipendente […]. Secondo un errore comune, sembra che su un pensiero il sigillo dell’indipendentemente pensato (des Selbstgedachten) sia impresso solo quando esso si scosti dai pensieri degli altri uomini […]. In altre parole, è nata da qui la smania per cui ciascuno vuole avere un suo proprio sistema, e per cui un’idea è considerata tanto più originale ed eccellente quanto più è insulsa e folle, poiché essendo tale essa mostra al massimo la propria originalità e diversità dai pensieri degli altri”.[17]
L’errore a cui Hegel allude è quello di credere che “pensare con la propria testa” voglia dire avere un proprio sistema filosofico, necessariamente diverso da quelli già pensati da altri, e che il valore principale in filosofia non sia la verità, ma l’originalità. Naturalmente l’ammonizione a non cadere in questo errore vale sia per i docenti che per gli studenti. Ai docenti bisognerebbe inoltre ricordare quanto ebbe a scrivere Max Weber nella sua famosa conferenza su La scienza come professione, cioè che “la cattedra non è per i profeti e i demagoghi. Al profeta e al demagogo è stato detto: ‘Esci per le strade e parla pubblicamente’. Parla, cioè, dov’è possibile la critica. Nell’aula, ove si sta seduti di faccia a i propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e reputo una mancanza del senso di responsabilità approfittare di questa circostanza – per cui gli studenti sono obbligati dal programma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessuno può intervenire a controbatterlo – per inculcare negli ascoltatori le proprie opinioni, invece di recar loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie conoscenze e le proprie esperienze scientifiche”. E più oltre: “L’insegnante universitario deve desiderare e proporsi di giovare con le sue conoscenze e i suoi metodi”.[18]
Contro l’originalità a tutti i costi, che spesso si trasforma in oscurità e incapacità di comunicare, Hegel osserva: “La filosofia ottiene la possibilità di essere appresa, per mezzo della sua determinatezza, con tanto maggiore precisione quanto più essa diventa, in tal modo soltanto, comunicabile e capace di divenire un bene comune. Come essa, da una parte, vuole essere oggetto di uno studio particolare, e non è già per natura un bene comune per il solo fatto che ogni uomo in generale è dotato di ragione, così la sua universale comunicabilità le toglie anche l’apparenza – che, tra le altre, essa ha avuto negli ultimi tempi – di essere un’idiosincrasia di alcune menti trascendentali”.[19] Da un lato, insomma, non si deve credere che ogni uomo sia filosofo per il solo fatto di possedere la ragione, perché la filosofia, come abbiamo visto, è un sapere ed esige una precisa competenza, una professionalità; dall’altro lato, essa è un sapere comunicabile, non riservato soltanto a pochi iniziati, o a menti dotate di un quoziente intellettuale eccezionale, ma deve essere resa accessibile a tutti, tramite – ovviamente – un adeguato lavoro di studio e di apprendimento.
Infine contro la concezione della filosofia come edificazione Hegel scrive: “Come scienza propedeutica la filosofia ha in particolare da provvedere all’educazione (Bildung) e all’esercizio formale del pensiero; essa può far ciò solo per mezzo di un completo allontanamento dal fantastico, per mezzo della determinatezza dei concetti e di un procedimento conseguente e metodico; essa deve poter procurare quell’esercizio in una misura superiore alla matematica poiché non ha, come questa, un contenuto sensibile. Ho menzionato prima l’edificazione che spesso ci si attende dalla filosofia; a mio parere, anche quando viene presentata alla gioventù essa non deve mai essere edificante. Ma deve soddisfare ad un bisogno affine […]; compito della filosofia dev’essere giustificare ciò che ha valore per la conoscenza, coglierlo e comprenderlo in pensieri determinati e quindi proteggerlo da oscure deviazioni”[20].
Ebbene, l’unica conoscenza filosofica su cui esista l’accordo universale tra i filosofi è la conoscenza della storia della filosofia. Perciò anche in Francia, recentemente, si è messa in discussione la “dottrina ufficiosa”, cioè tradizionale, secondo la quale bisogna insegnare a fare della filosofia, come risulta dal già citato Manifesto. Tale discussione ha portato a proporre tutta una serie di nuovi “cantieri”, ovvero criteri, per l’insegnamento della filosofia. Tra i primi ce n’è subito uno che recita: “Riconoscere che l’imparare a filosofare implica un apprendimento e che insegnare la filosofia è un mestiere”[21]. Rimane dunque lo scopo della “dottrina ufficiosa”, ma si riconosce che, per attingerlo, è necessario apprendere prima qualche cosa, cioè un insieme di conoscenze. Di conseguenza l’insegnante di filosofia – si sta parlando del liceo – prima di essere un filosofo, deve essere un professionista che sa trasmettere tale insieme di conoscenze. Infatti il “cantiere” continua dicendo: “Non è privo di controindicazioni identificare puramente e semplicemente il professore di filosofia con un filosofo. Chi fa il filosofo davanti ai suoi allievi non dà loro una formazione, perché li tratta come i discepoli che non saranno mai”.
Un altro “cantiere” del nuovo manifesto recita: “Riconoscere che la filosofia non serve soltanto a filosofare”, e spiega: “ L’insegnamento della filosofia non potrebbe giustificare la posizione che occupa oggi – e ancor meno la sua presenza nei corsi scolastici e universitari – se non potesse mostrare la sua utilità nella formazione intellettuale e culturale di tutti gli allievi”.[22] E un altro ancora recita: “Formarsi alla filosofia significa apprendere a pensare attraverso l’appropriazione di conoscenze filosofiche e non-filosofiche. Si è usato ed abusato della formula kantiana secondo cui non si può apprendere la filosofia ma solo a filosofare”, e spiega: “Per esempio, se il corso di filosofia è organizzato per problemi, questi non possono in modo serio essere affrontati dagli allievi se non attraverso la conoscenza delle principali opzioni filosofiche da cui derivano e attraverso la padronanza progressiva delle distinzioni concettuali che consentono di dar loro un senso. Queste opzioni e queste distinzioni non hanno niente di naturale o di spontaneo. È nella storia della filosofia che esse sono state prodotte ed è solamente lì che possono essere ritrovate. Non si può sfuggire alla domanda: che cosa gli allievi che si accostano al filosofare devono conoscere della storia della filosofia?”.[23]
Nel leggere queste parole si ha l’impressione di trovarsi davanti ad una vera e propria ritrattazione di tutte le critiche che da parte francese sono state rivolte alla scuola italiana ed alla preminenza in essa data all’insegnamento della storia della filosofia. Certo, il metodo “italiano” di insegnare filosofia nei licei non è esente da critiche, specialmente a causa delle deformazioni che i programmi originari della riforma Gentile hanno subito ad opera dei decreti De Vecchi, della conseguente introduzione dei manuali di storia della filosofia e della progressiva sostituzione della lettura dei classici con la “filastrocca di opinioni” menzionata sopra. Contro queste deformazioni ha inteso andare la relazione della Commissione Brocca, quando ha indicato nella lettura dei testi il momento fondamentale e caratterizzante dell’insegnamento della filosofia, dove per “testi” ovviamente si intendono – purtroppo c’è bisogno di precisarlo – le opere dei filosofi, possibilmente dei “grandi” filosofi.
Qualcuno obietterà che non sta scritto da nessuna parte quali sono i “grandi” filosofi e che la loro identificazione dipende dal tipo di filosofia che si professa. Ciò non è vero: come in letteratura esistono i “grandi” poeti, e a scuola si fanno leggere questi, così in filosofia esistono i “grandi” filosofi, cioè i classici, quelli che ritornano continuamente, quelli di cui non si può fare a meno. La loro esistenza si tocca con mano proprio quando si insegna la filosofia contemporanea. Per esempio all’università la maggior parte degli studenti vogliono occuparsi di filosofi contemporanei. Heidegger, naturalmente, è uno di quelli che vanno per la maggiore. Ma quando gli studenti ne prendono in mano le opere, si accorgono che Heidegger non fa che parlare di Platone e di Aristotele, di Kant e di Hegel (per non dire dei presocratici e di Nietzsche), e che non si capisce nulla di Heidegger se non si conoscono questi altri filosofi. Per questo la Commissione Brocca aveva indicato come autori obbligatori Platone, Aristotele, Kant e Hegel, scatenando una ridda di proteste, specialmente da parte dei filosofi analitici, i quali rivendicavano l’importanza degli inglesi (Locke, Hume, Mill). Ebbene, aggiungiamo pure qualche inglese, per far contenti gli analitici, e qualche francese (Descartes, Pascal), per far contenti i francesi (ma allora anche Vico), e qualche santo (Agostino, Tommaso), per far contenti i cattolici. In ogni caso, restiamo ben lontani dalla “filastrocca di opinioni” del manuale.
Non mi addentro nel problema di come leggere i classici, su cui esiste tutta una letteratura. L’importante è anzitutto capirli, realizzando quella che Gadamer chiamava la “fusione di orizzonti”, e poi discuterli, cioè metterli in questione e, se necessario, criticarli. Mentre sulla prima operazione concordo con gli ermeneutici, che oggi sono la maggioranza dei “continentali”, sulla seconda concordo con gli “analitici”, che discutono con i classici come si fossero nostri contemporanei. Le due operazioni sono entrambe necessarie e si riassumono in quell’attività che Aristotele per primo, credo, definì con un verbo che è rarissimo incontrare nella letteratura greca, cioè sumphilosophein, “confilosofare”, fare filosofia insieme. Facendo rientrare anche l’amicizia (philia) tra gli ingredienti che costituiscono la felicità, Aristotele concluse infatti la sua grande trattazione di questa virtù (due interi libri dell’Etica Nicomachea) dichiarando che, per gli amici, cioè per le persone che si vogliono bene, la cosa più desiderabile è fare insieme le cose in cui ciascuno maggiormente identifica il proprio essere, ossia ciò per cui desidera vivere: per i bevitori bere insieme, per i giocatori giocare insieme, per i patiti di ginnastica o per i cacciatori fare ginnastica insieme o andare a caccia insieme, per i filosofi fare filosofia insieme[24]. E chi, per un filosofo, può essere più amico dei grandi filosofi? Quindi facciamo filosofia insieme a Platone o ad Aristotele, a Kant o a Hegel, a Hume, a Wittgentsein o a Heidegger, leggendo e discutendo insieme le loro opere.
Non si tratta, dunque, di apprendere la filosofia da un unico libro che la contenga tutta già bell’e fatta, come temeva Kant: la filosofia non è la geometria (per questo l’esempio del teorema di Pitagora, portato da Hegel, non è il più calzante), cioè non è un discorso dotato di propri principi, a partire dai quali si possano dimostrare dei teoremi. La filosofia, come diceva Hegel, non ha il vantaggio di poter presupporre il proprio oggetto e il proprio metodo, cioè non ha principi. Essa mette in questione tutto, è un “domandare tutto che è tutto domandare”, ma tuttavia non è stata inventata né oggi né ieri, né ciascuno può inventarla da sé. Essa esiste già da tempo e va quindi cercata. Ma bisogna cercarla là dove essa si può trovare, cioè nelle opere dei grandi filosofi, e bisogna imparare a filosofare insieme con loro, cioè partecipando alla loro ricerca. Anche questo è un metodo “zetetico”, come quello voluto da Kant.
Se posso tentare di riassumere l’intero discorso in poche parole, distinguerei ancora una volta l’insegnamento della filosofia nel liceo dall’insegnamento della filosofia nell’università. Nel liceo la filosofia viene insegnata a tutti, anzi molti di noi auspicano che venga insegnata anche negli ex istituti tecnici, in modo che tutti i ragazzi italiani possano fare esperienza, almeno una volta nella vita, di che cosa significa affrontare un problema di senso in modo razionale. Ma dove la filosofia viene insegnata a tutti, non si può pretendere che tutti diventino filosofi. Quindi la filosofia deve essere insegnata a tutti da un lato per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa” in generale (non di fare filosofia con la propria testa), e dall’altro anche perché essa fa parte della cultura generale. Come potrebbe, infatti, essere considerata colta una persona che non sapesse nulla di Platone o di Kant? Nell’università invece, dove la filosofia viene insegnata a coloro che l’hanno scelta come professione e intendono dedicarsi professionalmente ad essa per tutta la vita, si può anche dire che l’insegnamento ha lo scopo di far imparare a filosofare, ma filosofare non significa costruire ciascuno un proprio sistema filosofico, bensì fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro, ed a questo scopo è necessario conoscere bene la storia della filosofia, e soprattutto leggere le opere dei grandi filosofi.
Enrico Berti
[1] F. D’Agostini, Pensare con la propria testa. Un problema metafilosofico e le sue implicazioni filosofiche, “Intersezioni”, 23, 2003, pp. 271-290.
[2] K. Mulligan, Searle, Derrida and the Ends of Phenomenology, in B. Smith (ed.), The Cambridge Companion to Searle, Cambridge 2003.
[3] I. Kant, Scritti sul criticismo, Roma-Bari 1991, pp. 5-6.
[4] E. Kant, Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766, in Vega Scalera, L’insegnamento della filosofia dall’unità alla riforma Gentile, Firenze 1990, doc. 9, sez. 52.
[6] E. Kant, Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, riveduta da V. Mathieu, Bari 1959, pp. 649-650.
[7] Cf. ACIREPH (Association pour la création des Instituts de Recherche sur l’Enseignement de la Philosophie), Manifesto per l’insegnamento della filosofia in Francia, per un possibile confronto con l’Italia, trad. di M. Trombino, in S. Martini (a cura), Per un laboratorio di didattica della filosofia, Roma 2004, pp. 89-114, spec. p. 101.
[8] I. Kant, Epistolario kantiano,Genova 1990, p. 54.
[12] G. W. F. Hegel, La scuola e l’educazione. Discorsi e relazioni (Norimberga 1808-1816), a cura di L. Sichirollo e A. Burgio, Milano 1985, p. 105 (corsivi nel testo).
Sembrava che la scienza moderna avesse confutato Aristotele per sempre. In realtà, oggi le sue idee sono tornate in auge in tanti modi: come l’irreversibilità del tempo di I. Prigogine, l’unità mente-corpo o il continuo matematico in R. Thom. Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni.
La fortuna di Aristotele nella storia della cultura si è sviluppata a periodi alterni rispetto alla fortuna di Platone. Mentre Platone fu amato soprattutto nella tarda antichità, dai filosofi cristiani e dai neoplatonici, e poi dagli umanisti del Rinascimento, Aristotele fu riscoperto dai musulmani nel Medioevo e, per influenza di questi, dai filosofi cristiani della Scolastica, che lo chiamarono «il Filosofo» per antonomasia o, con Dante, «il maestro di color che sanno». Il califfo al-Mamun, regnante a Baghdad nel IX secolo, dichiarò addirittura di aver visto Aristotele in sogno e di averlo sentito proclamare la verità fondamentale dell’Islam, cioè che c’è un solo Dio. I più grandi filosofi musulmani, come l’arabo al-Kindi, il turco al-Farabi, il persiano Ibn Sina (Avicenna) e l’andaluso Ibn Rushd (Averroè), furono tutti aristotelici. Altrettanto si può dire di filosofi cristiani come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, ma anche di Giovanni Duns Scoto e di Guglielmo di Occam. Indubbiamente musulmani e cristiani – ma anche ebrei come Mosè Maimonide – videro nel pensiero di Aristotele, interpretato attraverso il neoplatonismo, il sostegno più solido, cioè più “scientifico”, alle rispettive teologie. Così Aristotele divenne, senza sua colpa, il filosofo dei teologi. Nel Rinascimento gli umanisti riscoprirono Platone, di cui rifondarono a Firenze l’Accademia, ma Aristotele rimase nelle università, in tutte le università europee, di cui costituì il fondamento filosofico. Se Lutero insultò Aristotele, da lui visto come il filosofo della Scolastica, il suo allievo e continuatore Melantone ne fece il maestro delle università protestanti dell’intera Germania. La nascita della scienza moderna, con Galilei e Descartes, determinò nel Seicento l’eclissi della fisica e della cosmologia aristoteliche, ma la logica aristotelica continuò a dominare l’insegnamento universitario almeno fino a Kant, il quale dichiarò – anche se a torto – che dopo Aristotele la logica generale, cioè formale, non aveva fatto alcun progresso. Anche la metafisica di Aristotele riscosse nell’Ottocento l’ammirazione di Hegel, che vide in essa la vera logica della filosofia aristotelica, ma fu sfruttata anche dai critici di Hegel, cioè Feuerbach, Marx e Kierkegaard, che trovarono in essa gli argomenti con cui criticare Hegel. Non parliamo poi di Brentano, che insegnò Aristotele a Husserl, a Meinong, a Twardowski, a Freud e, da postumo, a Heidegger. Nell’Ottocento ebbe una breve eclissi l’etica di Aristotele, temporaneamente soppiantata dall’etica di Kant e poi dall’utilitarismo e dalle scienze umane (antropologia, psicologia, sociologia). Ma quando, a metà del Novecento, ci si rese conto dell’incapacità delle scienze umane di dare giudizi di valore e quindi di orientare la prassi, venne riscoperta l’etica aristotelica, anzi la «filosofia pratica» di Aristotele, intesa come forma di razionalità non scientifica e tuttavia autentica, capace di orientare la prassi. Di qui la valorizzazione della “saggezza” a opera di Gadamer e della sua scuola, delle virtù in generale da parte di McIntyre e dei comunitaristi, della nozione di eudaimonia come piena realizzazione delle capacità umane da parte di Martha Nussbaum e persino di un economista come Amartya Sen. Ma con la filosofia pratica di Aristotele è stata riscoperta anche la sua filosofia politica, che indica nella naturalità della polis la possibilità di un superamento dello Stato moderno ormai manifestamente in declino per la perdita dell’autosufficienza. Un’utilizzazione della politica aristotelica nella direzione di una società politica multinazionale si trova nel cosiddetto «gruppo di Chicago», formato dal cattolico J. Maritain, dal protestante R.M. Hutchins, dall’ebreo M.J. Adler e da altri, autori nel 1951 di un progetto di costituzione mondiale. La metafisica di Aristotele; oltre a rimanere alla base del tomismo, sia pure addomesticata secondo le esigenze della fede cattolica, continua a ispirare, con la sua dottrina delle categorie, della polisemia dell’essere, del cosiddetto focal meaning, gran parte della filosofia analitica anglo-americana, a cominciare dalla Scuola di Oxford. Ma ciò che è più sorprendente è la ripresa di alcuni aspetti della fisica aristotelica, quali la teoria del continuo a opera del matematico R. Thom e la teoria della irreversibilità del tempo a opera di Ilya Prigogine. Sempre in tema di scienza, la biologia di Aristotele non ha mai conosciuto alcuna eclissi, suscitando l’ammirazione di C. Darwin nell’Ottocento e di Max Delbrück, di Ernest Mayr, di François Jacob nel Novecento. E, sempre in tema di scienza, la psicologia di Aristotele, cioè la sua concezione dell’anima non come realtà a sé, ma come capacità del corpo di vivere e di funzionare a diversi livelli, è stata vista da molti come la soluzione più convincente del cosiddetto Mind-BodyProblem, per esempio da Hilary Putnam, che ha intitolato la prima parte del suo Words and Life (1994) «Aristotele dopo Wittgenstein».
Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni Di fronte a questa massiccia presenza nella filosofia contemporanea fanno sorridere le accuse, rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni, di avere concepito la metafisica come «onto-teologia», di avere dimenticato l’Essere e simili amenità. Del resto, uno dei più intelligenti filosofi post-moderni, Gianni Vattimo, malgrado le sue origini heideggeriane, nella sua autobiografia (Non Essere Dio, 2006) dichiara: «L’Essere non è altro che questo: il senso della parola “essere” nella storia della nostra lingua e nell’uso che ne facciamo» (pag. 133). Esattamente come sosteneva Aristotele.
Enrico Berti, La rinascita di Aristotele, pubblicato in «Il Sole-24 Ore», 10 dicembre 2006, p. 41.
Aristotele non era un teologo
Aristotele è senza dubbio il filosofo antico più utilizzato dai teologi cristiani e musulmani come base filosofica per la loro visione monoteistica della realtà. I cristiani dapprima privilegiarono Platone e il neoplatonismo – si veda il caso notissimo di Agostino –, ma poi, al seguito dei musulmani, che avevano fatto di Aristotele una specie di secondo Maometto, ne fecero anch’essi “il Filosofo” per eccellenza (per esempio Tommaso d’Aquino) e «il maestro di color che sanno» (Dante). È noto che, secondo una tradizione araba, Aristotele sarebbe apparso in sogno al califfo al-Mamun e gli avrebbe detto: «Il tuo dovere è dichiarare l’unicità di Dio», cioè precisamente la verità fondamentale dell’Islam. I musulmani videro infatti nel primo motore immobile, di cui Aristotele dimostra la necessità nel libro XII della Metafisica, l’unico Dio, creatore e signore del cielo e della terra, e quindi interpretarono questo libro come una specie di teologia, seguendo del resto in questo i commentatori greci tardo-antichi. A dire il vero essi dovettero trovare un po’ scarse le indicazioni teologiche fornite da Aristotele nel libro in questione, perché pensarono di confezionare un’opera intitolata Teologia di Aristotele, desumendone il contenuto dalle opere ben più ricche, in questo senso, di Plotino. E i cristiani furono tratti in inganno da questo falso, confermandosi nell’idea che Aristotele fosse il creatore della teologia naturale, o razionale. Dante, da sommo poeta qual era, riuscì a presentare il Motore immobile, che «muove in quanto amato», come «l’Amor che move il sole e l’altre stelle». Naturalmente le differenze tra il primo motore immobile di Aristotele e il Dio della Bibbia, concordemente adorato da cristiani e musulmani, erano sotto gli occhi di tutti: ma esse divennero un pretesto per attaccare Aristotele, accusato di avere professato un concetto di Dio troppo astratto, meccanico, impersonale, egoista (il mio professore di filosofia antica, Carlo Diano, parlava con scherno del Dio di Aristotele «che si guarda la pancia»). In tale opera di denigrazione si scatenò una nobile gara fra cristiani e musulmani, che toccò i suoi vertici in campo musulmano col teologo al-Gazali, nemico dei filosofi aristotelizzanti, e in campo cristiano con Lutero, noto per avere ricoperto il povero Aristotele degli insulti più feroci (ma già Petrarca si era lasciato un po’ andare). Ancora oggi i musulmani e i cristiani integralisti non possono soffrire il “Motore immoto” di Aristotele, dichiarando che tale espressione fa pensare a un autocarro in panne e opponendogli, con Pascal, «il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo». Solo da pochi anni studiosi benemeriti hanno ristabilito la verità storica, mostrando che Aristotele non voleva affatto essere un teologo, che per lui la “teologia” non era una disciplina filosofica, ma l’insieme dei miti sugli dèi narrati dai poeti, e che gli dèi per lui erano semplicemente dei «viventi immortali e felici», i quali si distinguono dagli uomini perché questi sono, al contrario, mortali e infelici. Esemplare è stato in questo senso il libro di Richard Bodéüs, Aristote et la théologie des vivants immortels (Montréal 1992). A risultati analoghi sono giunti i contributi pubblicati nel volume della rivista «Humanitas» (4/2005) sotto il titolo Dio e il divino nella filosofia greca, a cura di Maurizio Migliori e Arianna Fermani, ma soprattutto il bel libro di Barbara Botter, Dio e Divino in Aristotele, uscito nella collana “Intemalional Aristotle Studies”, diretta da Carlo Natali (Academia Verlag 2005). Quest’ultimo dimostra infatti con argomenti convincenti che in Aristotele e nei filosofi “pagani” in generale il termine “dio” è usato non come nome proprio, e nemmeno prevalentemente come sostantivo, bensì come attributo, o predicato, avente la funzione di indicare un grado di eccellenza in una scala ordinata di enti. Esso pertanto può essere attribuito agli dèi della religione tradizionale, ma anche agli astri, al mondo stesso nel suo insieme, all’intelletto umano, e anche al primo motore immobile. Ma in nessun caso dovrebbe essere scritto con l’iniziale maiuscola e senza articolo, come se fosse un nome proprio, bensì sempre con la minuscola e l’articolo, cioè “il dio”, come diciamo “l’uomo” o “il cavallo”. Ovviamente in un contesto monoteistico si scriverà “Dio” senza articolo. Se questa regola venisse seguita più in generale, si eviterebbe l’uso fastidioso di scrivere la parola con la maiuscola o la minuscola per mostrare che si crede o non si crede in Dio. Una conferma a queste ricerche viene anche dalla pubblicazione, per la prima volta in traduzione italiana, di un’opera nota solo agli specialisti, le Divisioni, tramandate come opera di Aristotele da alcuni manoscritti e, in versione un po’ diversa, da Diogene Laerzio, a cura di Cristina Rossitto, che ne ha fornito anche un’ampia introduzione e un accurato commento (Bompiani 2005). Quest’opera è emblematica dell’uso che la tarda antichità fece di Aristotele. È molto probabile, infatti, che essa risalga, nel suo nucleo fondamentale, proprio ad Aristotele, come hanno sostenuto anche W.D. Ross e O. Gigon, anzi all’Aristotele giovane, ancora membro dell’Accademia platonica, come ipotizza Rossitto. Ma non c’è dubbio che vi hanno messo le mani anche altri autori, cristiani o comunque teisti, come risulta inequivocabilmente da alcuni passi. In essa si parla infatti degli dèi come di viventi immortali, a cui sono dovuti onori e pratiche di culto e ai quali appartengono beni specifici, quali l’eternità, e beni comuni anche agli uomini, quali l’eccellenza e la bellezza, ma non altri beni puramente umani quali la temperanza, il coraggio e la giustizia. In un passo di essa, tuttavia, come esempio di viventi immortali vengono citati non gli dèi, bensì gli angeli, specie in tale veste del tutto sconosciuta ad Aristotele, ma ben nota ai seguaci della Bibbia, che non potevano ammettere l’esistenza di una molteplicità di dèi.
Enrico Berti, Nuovi studi dimostrano che Aristotele non era un teologo, pubblicato in: Domenicale de Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2006, p. 16.
Migliori e A. Fermani (a cura di), «Dio e il divino nella filosofla greca», “Humanitas”, LX (2005), n. 4. pp. 658-920.
B. Botter, «Dio e Divino in Aristotele», Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, pp. 306.
Aristotele ed altri autori, «Divisioni», a cura di C. Rossitto, Bompiani, Milano 2005, pp. 526.
«Platone – […] la ricchezza non ha nulla a che fare col bene della città. Mi sembra di avere portato argomenti abbastanza chiari a questo proposito nella Repubblica» (p. 20).
«Aristotele – Le elargizioni di denaro fatte per sedurre la moltitudine sono l’uso peggiore che si può fare della ricchezza. Esse producono infatti nei cittadini un piacere di breve durata e non portano alcun contributo permanente al bene comune […]» (p. 25).
«Aristotele – […] la sazietà, come dice il proverbio, genera prepotenza, mentre la mancanza di cultura, accompagnata da molti mezzi, genera stoltezza. In effetti, per coloro che sono di poco valore nelle cose che riguardano l’anima, né la ricchezza, né la forza, né la bellezza sono dei beni […]» (p. 55).
«Aristotele – Bisogna poi precisare che l’avarizia non consiste solo nello spendere troppo poco, ma anche nel desiderare troppo il denaro, nell’anteporre la ricchezza a qualunque altra cosa, nell’impegnare tutta la propria vita nell’unica attività del far soldi. Intesa in questo senso, l’avarizia, o meglio l’avidità di denaro, è oggi il vizio forse più diffuso» (p. 61).
«Aristotele – […] I bisogni umani, per natura, sono limitati, come risulta dal fatto che uno non può mangiare più di tanto, […] eccetera. Ora, l’arte di procurarsi i beni necessari a soddisfare questi bisogni è un’arte secondo natura, cioè giusta, buona, morale. Se invece uno vuole procurarsi una quantità di beni illimitata, va contro la stessa natura dell’uomo, e la sua arte sarà un’arte contro natura, cioè ingiusta, immorale. Teofrasto – Ma come è nata, Aristotele, quest’arte contro natura e immorale che chiamiamo crematistica? Aristotele – Essa è nata da un fatto del tutto naturale, cioè lo scambio dei beni. Poiché non tutti sono in grado di fare tutto, come spiega bene Platone nella Repubblica, gli uomini che abitano la città si distribuiscono i compiti, e l’uno fa il contadino, l’altro fa il calzolaio, il terzo fa il sarto, e così via. Ciascuno di questi produce un bene, o un servizio, in misura superiore a quella di cui ha bisogno per la sua famiglia, mentre non produce altri beni di cui pure ha bisogno. Nasce così la necessità di scambiarsi le merci: chi produce un certo bene in eccesso, ne dà una parte a chi non lo produce ma ne ha bisogno, per avere in cambio da lui ciò di cui ha bisogno lui e che l’altro produce in eccesso. Questo fa sì che ogni bene prodotto abbia, per così dire, due valori, un valore d’uso, che è quello per cui viene usato, e un valore di scambio, che è quello per cui viene scambiato. Un tale scambio è del tutto naturale, quindi è giusto e morale. Teofrasto – E come accade che da questo scambio naturale e giusto nasca la crematistica contro natura e immorale? Aristotele – Per comprenderlo, bisogna fare attenzione al mezzo di cui gli uomini si servono per facilitare lo scambio, cioè il denaro, la moneta. Questa infatti è un oggetto equivalente a qualunque possibile merce, perciò può essere usata al posto di qualsiasi merce, quando la merce non sia disponibile. Supponiamo che io abbia bisogno di un paio di scarpe, il cui valore è pari a quello di un sacco di grano, mentre il fabbricante di scarpe ha bisogno del grano. In luogo di questo io darò al fabbricante di scarpe una quantità di denaro pari al valore delle scarpe, e anche del sacco di grano, col quale egli potrà procurarsi il grano da chi lo produce. Questo è l’uso naturale, e quindi giusto, del denaro. Se io, invece, non ho bisogno di scarpe, ma le acquisto ugualmente pagando una certa quantità di denaro, allo scopo di rivenderle in cambio di una quantità di denaro maggiore, allora il fine dello scambio non sarà più quello di soddisfare un mio bisogno, ma sarà semplicemente quello di procurarmi una quantità maggiore di denaro. In questo caso lo scambio non sarà più naturale, ma sarà contro natura. La crematistica nasce quando, in luogo di scambiare merce con denaro, per ottenere altra merce, si scambia denaro con merce per ottenere altro denaro. Io mi sono spiegato con un esempio molto banale. Ma se tu moltiplichi questo tipo di scambi in quantità smisurata, vedi che nasce un’attività ugualmente smisurata, consistente nel cercare di procurarsi denaro all’infinito. In questo modo la ricchezza, costituita dal denaro, non è più il mezzo necessario a soddisfare i bisogni propri o della propria famiglia, ma diventa essa il fine, e questo è innaturale, quindi ingiusto e immorale. La cosa è ancora più evidente nella pratica dell’usura, dove non si scambia denaro con merce, ma denaro con denaro, cioè si presta denaro in una certa quantità per ottenerne, dopo qualche tempo, altro denaro in quantità maggiore. In tal caso il denaro serve a produrre altro denaro e quindi l’usura diventa l’emblema della crematistica smisurata» (pp. 64-67).
«Aristotele – […] Vorrei una città che conservi al suo interno […] l’uguaglianza tra i suoi cittadini, la libertà di discutere e decidere tutti insieme sulle cose da farsi, la divisione dei poteri, la giustizia, l’aspirazione alla pace. Una città […] in cui la preoccupazione più importante dei cittadini non sia quella di procurarsi le ricchezze, ma quella di vivere bene, cioè di essere felici, realizzando tutte le proprie capacità, non solo fisiche, ma anche spirituali, per mezzo dell’educazione, dell’arte, della scienza, della filosofia». Platone – È proprio bello questo che tu dici, Aristotele! Speriamo che un giorno si avveri. Vedo però che anche tu ti abbandoni alle utopie, come hai rimproverato me di fare. In realtà un po’ di utopismo è sempre necessario, altrimenti ci si rassegna alla realtà esistente e non si cerca più di migliorarla» (pp. 89-89).
***
Enrico Berti, Aristotele. Ebulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Falsi Originali [Collana diretta di Giovanni Casertano], Guida Editori, Napoli 20129.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
ISBN 978-88-7588-241-9, 2019, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [109]. In copertina: Statua in bronzo di Aristotele, ingresso della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, Germania. In quarta di copertina: Paul Klee, Die Zeit, 1933.
Questo volume raccoglie alcuni fra i principali studi di Enrico Berti su Martin Heidegger. Il filosofo tedesco è stato infatti una presenza costante negli studi composti in questi decenni dallo studioso padovano, sovente in rapporto al pensiero di Aristotele. Con il suo consueto approccio “classico”, in questi saggi Berti non si limita a descrivere, ma valuta, ossia prende posizione, anche critica, nei confronti di colui che pure definisce come il maggiore pensatore del XX secolo.
Indice
Introduzione
Il nichilismo dell’Occidente secondo Nietzsche, Heidegger e Severino
L’influenza di Heidegger sulla «riabilitazione della filosofia pratica» Gadamer, o della «phronesis» Ritter, ovvero dell’«ethos» Hannah Arendt, o della «praxis»
Heideggers Auseinandersetzung mit dem
Platonisch-Aristotelischen Wahrheitsverständnis Aristoteles Platon Abschluß
Heidegger and the Platonic Concept of Truth
Le passioni tra Heidegger e Aristotele Appendice
Heidegger e il libro Epsilon della Metafisica di Aristotele Prologo Prime citazioni di Aristotele (Friburgo, 1921-1923) Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): l’essere come verità Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): essere ed ente Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo (1929): di nuovo l’essere come vero Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo: la metafisica come «ontologia» Conclusione
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Qui di seguito sono riportati i riferimenti bibliografici relativi ai saggi raccolti nel presente volume.
I In tema di dialettica
Come argomentano gli ermeneutici? “Filosofia ‘91”, a cura di G. Vattimo, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 13-32. La complessità della ragione “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 154, gennaio-aprile 1995, pp. 27-40. Logo e dialogo “Studia Patavina”, 42, 1995, pp. 31-42. La dialettica antica come modello di ragionevolezza “Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica”, 7, 2002, pp. 17-28. Il principio di non contraddizione: storia e significato P. Bria e F. Oneroso (a cura), Bilogica e sogno. Sviluppi matteblanchiani sul pensiero onirico, Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 22-32.
II In tema di metafisica
Per una metafisica problematica e dialettica “Acta philosophica”, 1, 1992, pp. 176-190 (anche in “Per la filosofia”, 9, 1992, pp. 3-15). La via “dinamico-noologica” alla trascendenza divina in S. Biolo (a cura), Trascendenza divina. Itinerari filosofici, Contributi al XLVIII Convegno del Centro di Studi Filosofici di Gallarate, aprile 1993, Torino, Rosenberg & Sellier, 1995, pp. 57-71. La prospettiva metafisica tra analitici ed ermeneutici “Seconda navigazione – Annuario di filosofia 2000”, Milano, Mondadori, 2000, pp. 45-62. Quale metafisica per il terzo millennio? in Proceedings of the Metaphysics for the Third Millennium Conference (Rome, September 5-8, 2000), Editorial de la Universidad Tecnica Particular de Loja (Equador), 2001, vol. I, pp. 29-44. Una metafisica (espistemologicamente) “debole” “Annuario Filosofico”, 16, 2000, Milano, Mursia, 2001, pp. 27-41. Metafisica debole? in Quale metafisica?, “Hermeneutica”, n. s., 2005, pp. 39-52. Dialogo su Aristotele in A. Petterlini, G. Brianese, G. Goggi (a cura), Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. 75-90.
III In tema di filosofia pratica Sostanza e individuazione in AA. VV., La tecnica, la vita, i dilemmi dell’azione (“Seconda navigazione – Annuario di filosofia 1998”), Milano, Mondadori, 1998, pp. 143-160. Dal personalismo all’identità personale in A. Bottani e N. Vassallo (a cura), Identità personale. Un dibattito aperto, Napoli, Loffredo, 2001, pp. 65-78). Persona, scienza e tecnica in G. Galeazzi e B. M. Ventura (a cura), Filosofia e scienza nella società tecnologica, Milano, F. Angeli , 2004, pp. 171-183. L’idea di bene comune tra “destra” e “sinistra” in E. Berti e S. Veca, La politica e l’amicizia, Roma, Edizioni Lavoro, 1998, pp 35-62. Prudenza in “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. 159, settembre-dicembre 1966, pp. 15-24. Attualità dei diritti umani “Ars Interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 6, 2001, pp. 79-91. Pratiche filosofiche e filosofia pratica “Ars interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 10, 2005, pp. 313-328.
IV Appendice Autoritratto “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 176, maggio-agosto 2002, pp. 9-12. Pensare con la propria testa? “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 192, maggio agosto 2004, pp. 76-88. Aristotele nel Novecento “Scuola e Cultura”, 3, 2005, pp. 22-27
Luca Grecchi
Il pensiero filosofico di Enrico Berti
Petite Plaisance, 2013
ISBN 978-88-7588-110-8, 2013, pp. 240, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [51].
In questo libro è sintetizzata l’opera filosofica di uno dei maggiori pensatori italiani contemporanei, Enrico Berti. Teorizzatore della metafisica classica, studioso di Aristotele, storico della filosofia, Berti ha proposto, in oltre 50 anni di attività culturale ed accademica, soluzioni di grande originalità e valore non solo su temi filosofici, ma anche su temi etici, politici, educativi. La monografia, impreziosita da un saggio finale dello stesso Berti, si pone come una prima introduzione complessiva al suo pensiero.
Indice
Presentazione di Carmelo Vigna
Introduzione
I. Biografia II. L’interpretazione degli antichi e di Aristotele III. La storia della filosofia IV. L’etica e la filosofia pratica V. La politica VI. L’approccio classico alla educazione VII. Religione VIII. La metafisica IX. La critica
Postfazione Enrico Berti A proposito della critica
Principali pubblicazioni di Enrico Berti Volumi Curatele Principali articoli
La filosofia del primo Aristotele (Univ. di Padova. Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia, vol. XXXVIII), 1962.
La filosofia del primo Aristotele, Cedam, 1962.
Il “De re publica” di Cicerone e il pensiero politico classico, Padova, Cedam, 1963.
L’unità del sapere in Aristotele, Cedam, 1965.
Studi aristotelici, Japadre, 1975.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Cedam, 1977
Profilo di Aristotele, Studium, 1979.
I percorsi della filosofia, vol. I. Il pensiero antico e medioevale (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
I percorsi della filosofia. Il pensiero moderno e contemporaneo (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
Profilo di Aristotele, Nuova Universale Studium, 1985.
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’Epos, 1987.
Il pensiero d’Occidente. Pagine e testimonianze (con Sergio Moravi), Le Monnier, 1987.
Le vie della ragione, il Mulino, 1987.
Le ragioni di Aristotele, Laterza, 1989.
Storia della filosofia. Antichità e medioevo, Laterza, 1991.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 1992.
Persona e personalismo (con Georges Cottier e Giannino Piana), Gregoriana Editrice, 1992.
Etica, cultura e partecipazione politica (con Alberto Monticone), AVE, 1993
Il volume riflette l’esigenza di un approfondimento dei rapporti che intercorrono tra etica, cultura e partecipazione politica. Nel volume si delineano alcuni caratteri fondamentali della nostra vita civile: il sistema democratico, la concezione personalista e solidaristica quale fondamento della convivenza civile e dell’organizzazione sociale e politica del nostro Paese, la possibilità per le culture di ispirazione cristiana e per il movimento cattolico di dare un proprio contributo all’evoluzione della vita sociale e politica. L’impegno dell’Azione Cattolica resta quello per la formazione di un laicato adulto nella fede, capace di servizio e testimonianza in ogni ambito della propria vita ma anche quello di promuovere quotidianamente una cultura radicata nei valori del Regno e nei principi della centralità della persona umana e del bene comune.
Introduzione alla metafisica, Utet-Libreria, 1993.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Edizioni Diabasis, 1993.
Aristotele, Il libro primo della «Metafisica» (a cura di E. Berti e C. Rossiitto), Laterza, 1995.
Aristotele, Laterza, 1997.
Rifacendosi in particolare ad un’analisi diretta della Politica e dell’Etica Nicomachea, i cui testi sono ampiamente antologizzati, e confrontandosi con il dibattito critico più recente, Berti illustra tutti i temi fondamentali del pensiero politico aristotelico, come ad es. il concetto di polis, o la vagheggiata «città felice». Né manca un’analisi in parallelo con le teorie di Platone. A differenza di altri studi pubblicati in Italia sul pensiero politico di Aristotele, che hanno un carattere parziale o un’impronta ideologica, il saggio introduttivo di Berti si distingue anche per la capacità di stabilire un dialogo continuo tra esso e il pensiero politico moderno e soprattutto contemporaneo.
Aristóteles no século XX, trad. D. Davi Macedo, São Paulo, Brasil, Edi. Loyola, 1997.
La filosofia del “primo” Aristotele, Vita e Pensiero, 1997.
As razões de Aristóteles, Ed. Loyola, 1998.
Esta obra configura uma intervenção autorizada no atual debate sobre o pensamento débil e a crise da razão, por sua capacidade de relacionar aos temas da filosofia contemporânea a aguda análise de um momento culminante na história da filosofia: o pensamento de Aristóteles.
La politica e l’amicizia (con Salvatore Veca), Edizioni Lavoro, 1998.
La politica e l’amicizia sembrano essere distanti l’una dall’altra: mentre la politica si orienta verso una condivisione più ampia possibile, l’amicizia evoca prospettive più intime, private, e dunque escludenti. Enrico Berti e Salvatore Veca intendono guidare, da angolature differenti, una riflessione sulla possibilità di un incontro fra politica e amicizia.
Novos estudos aristotélicosI – Epistemologia, lógica e dialética, 1999.
Nesta obra, encontram-se ensaios sobre a contradição, a dialética e a argumentação na obra do Estagirita, além de estudos sobre a dialética em Zenão, em Górgias e em Platão, com o objetivo de evidenciar a contribuição que deram à formação do pensamento de Aristóteles.
La navicella della metafisica. Dibattito sul nichilismo e la “Terza navigazione” (con altri), Armando editore, 2000.
Marino Gentile nella filosofia del Novecento, EDS, 2003.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima. Con saggi integrativi, Bompiani, 2004.
Quest’opera, pubblicata originariamente nel 1977, è uno dei più importanti lavori di Berti. Essa si può considerare sia uno studio introduttivo ad Aristotele, di cui si passano in rassegna la vita, le opere, l’ambiente accademico e l’insegnamento, ma anche e soprattutto un saggio teoretico sulle costanti del pensiero metafisico: le idee, le categorie, i princìpi primi, le quattro cause, l’essere e il divenire. Il volume è arricchito da una serie di saggi dell’autore che completano il quadro della “filosofia prima” di Aristotele.
Aristotele. Eubulo o della richezza. Dialogo perduto contro i governanti ricchi, Guida, 2004.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Filosofia pratica, Guida, 2004.
L’espressione “filosofia pratica” compare per la prima volta in Aristotele e in contrapposizione a quella teoretica: mentre quest’ultima ha per fine la verità ossia la conoscenza di come e di perché le cose stanno in un certo modo, la filosofia pratica ha per fine l’opera, cioè mira a conoscere e a rendere possibile un certo tipo di azione, in particolare l’azione buona e quindi tende a rendere migliore colui che agisce. Quindi il fine, lo scopo della filosofia pratica è il tentativo di raggiungere la perfezione dell’uomo stesso.
Nuovi studi aristotelici, vol. 1: Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, 2004.
Il volume è il primo di un’opera che raccoglierà in quattro volumi l’insieme degli scritti di uno fra i maggiori specialisti della logica e della dialettica di Aristotele.
Aristotele. Il primo libro della «Metafisica» (con C. Rossitto), Laterza, 2005.
Nuovi studi aristotelici. 2 – Fisica, antropologia e metafisica, Morcelliana, 2005.
Il secondo volume degli studi aristotelici, dedicato a metafisica, fisica e antropologia, scritto dal maggior specialista italiano di Aristotele. Un libro che è una vera e propria introduzione alla “Metafisica” di Aristotele. L’Autore insegna storia della filosofia all’Università di Padova.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Diabasis, 2005.
Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, 2006.
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2006.
Aristotele e l’ontologia(con Bruno centrone e Paolo Fait), Alboversorio, 2007.
Le tesi di Aristotele rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di ontologia. Da lui, infatti, derivano gran parte dei termini ancora oggi utilizzati e dei problemi su cui non si è mai smesso di discutere. Questo libro permette, al lettore interessato, di avvicinarsi ad alcune prospettive contemporanee sull’argomento espresse da alcuni dei maggiori studiosi italiani.
Introduzione alla metafisica, Utet università, 2007.
Storia della filosofia. Dalla’antichità ad oggi. Con materiali per il docente. Ediz. compatta. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Franco Volpi), Laterza, 2007.
Antologia di filosofia. Dall’antichità ad oggi. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Cristina Rossitto e Franco Volpi), Laterza, 2008.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 2008.
La filosofia di Aristotele è un caso forse unico, nella storia, di “sistema aperto”, cioè di filosofia che è un vero sistema, dotato di una grande differenziazione interna, ma anche di una certa unità; ed è anche un sistema aperto, suscettibile di continue integrazioni, anzi di molteplici usi, data la sua grande versatilità, attestata da una fortuna tra le più longeve che mai si siano date e da una presenza massiccia nella stessa filosofia del Novecento. A essa si possono attingere concetti, categorie, distinzioni, dottrine, adoperabili per gli usi più svariati, nelle più diverse direzioni, sia filosofiche che scientifiche, sia teoretiche, cioè logico-metafisiche, che pratiche, cioè etico-politiche, per non parlare degli usi a fini poetici e retorici. Ma questi concetti, distinzioni, dottrine funzionano, cioè rispondono allo scopo per cui vengono impiegati, solo se sono utilizzati nel rispetto del loro significato originario. Si tratta di una coerenza non rigida, ma elastica, di una logica non monolitica, ma articolata e duttile, Dall’esistenzialismo di Heidegger alla filosofia pratica di Gadamer, dalla “nuova retorica” di Perelman e Toulmin alla nuova scienza di Prigogine e Jacob, alla nuova epistemologia di Kuhn e Feyerabend, Enrico Berti ritrova le tracce dell’inesauribile forza del pensiero aristotelico.
Dialectique, physique et métaphysique. Études sur Aristote, Éditions Peeters, 2008.
This volume contains around twenty articles, many of them already published elsewhere, but translated into French for the first time. They all deal with the dialectics, the physics and the metaphysics of Aristotle.
Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia (a cura di), Utet, 2008.
In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, 2008.
La meraviglia è consapevolezza della propria ignoranza e desiderio di sottrarvisi, cioè di apprendere, di conoscere, dI sapere. Ecco perché proprio la meraviglia, secondo Aristotele, è l’origine della filosofia, ovvero della ricerca disinteressata di sapere. Stato d’animo raro e prezioso, la meraviglia è la sola espressione della vera libertà. Enrico Berti rilegge il pensiero dei grandi filosofi della classicità e costruisce un percorso attraverso le domande senza tempo che la filosofia occidentale ha continuato a porsi, formulate per la prima volta dai Greci.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 3 Filosofia pratica, Morcelliana, 2008.
Il presente volume, terzo della serie dei Nuovi studi aristotelici, raccoglie gli scritti concernenti la “filosofia pratica” di Aristotele, contenuta nelle due Etiche autentiche (Nicomachea e Eudemea), e la filosofia politica, contenuta nella Politica. Come è noto, per Aristotele queste ultime due discipline sono parti di un’unica scienza, da lui chiamata più volte “scienza politica” e, almeno una volta, “filosofia pratica”. Perciò non ho diviso il volume in sezioni, come invece ho fatto nei volumi precedenti. Ho scelto, come sottotitolo dell’intera raccolta, “filosofia pratica”, perché questa espressione è diventata attuale dopo la cosiddetta “riabilitazione (o rinascita) della filosofia pratica”, movimento sviluppatosi nel corso degli anni Settanta del Novecento e ancora non del tutto esaurito.(dalla Prefazione)
Ser y tiempo en Aristótele, Editorial Biblios, 2008.
Enrico Berti, uno de los más reconocidos especialistas de Aristóteles, introduce este libro con una reseña de la presencia de Aristóteles en la Contemporánea. Luego desarrolla una exposición clara y profunda de la postura aristotélica, que va desde el tiempo cósmico de la Física hasta el tiempo humano de la Poética y la Ética. En el recorrido que realiza también visita la Metafísica, pero también obras menos transitadas, como De la memoria y la reminiscencia. Además, confronta la postura de Aristóteles con uno de los trabajos más determinantes de la Contemporánea: Ser y tiempo de Martin Heidegger.
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2008.
La Metafisica è l’opera più famosa di Aristotele. Si tratta degli appunti che Aristotele preparava per le sue lezioni all’interno del Peripato. Lo Stagirita pone qui i problemi fondamentali sull’essere e sul perché del divenire ricercandone le cause e i principi primi.
En el principio era la maravilla. Las grandes preguntas de la filosofía antigua, traducción de Helena Aguilà, Madrid, Editorial Gredos, 2009.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4\1. L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo e Rinascimento, Morcelliana, 2009.
Il libro vuole essere un contributo allo studio della cosiddetta tradizione aristotelica, dell’influenza esercitata da Aristotele sull’intera storia della cultura “occidentale” (termine nel quale va compresa anche la cultura islamica). Tale influenza è stata sia di tipo positivo, nel senso che le dottrine di Aristotele sono state accolte, interpretate e trasformate dai filosofi posteriori, sia di tipo negativo, nel senso che esse sono state oggetto di critiche e spesso di dure polemiche, ma anche in questo caso hanno condizionato le filosofie posteriori. Del primo tipo è l’influenza esercitata da Aristotele sugli aristotelici: su Teofrasto, Aspasio, Alessandro di Afrodisia, Porfirio, i filosofi arabi ed ebrei, Tommaso d’Aquino, Marsilio da Padova, Giacomo Zabarella, William Harvey. Del secondo tipo è invece l’influenza esercitata da Aristotele sui suoi “avversari”: l’epicureo Filodemo di Gadara, Plotino, Bonaventura da Bagnoregio, Niccolò Cusano, Galileo Galilei. Un caso particolare è costituito dal rapporto tra la filosofia di Aristotele e il primo cristianesimo, emblematicamente rappresentato dal discorso di san Paolo agli Ateniesi, dove l’influenza di Aristotele è ravvisabile nel contributo da lui dato alla formazione di quel concetto di “Dio dei filosofi” che Paolo ripropone consapevolmente agli Ateniesi, ma al fine di integrarlo e superarlo nella rivelazione cristiana.
A partire dai filosofi antichi(con Luca Grecchi), Il Prato, 2010.
I problemi filosofici esaminati vengono presentati nella forma di una discussione avvincente che rievoca l’andamento dei dialoghi platonici, in cui la verità emerge dal movimento del discorso che, nel suo correre incessantemente da un interlocutore all’altro, si fa «dia-logo» nel senso più alto. Del resto, i temi trattati dai due autori sono tra i più importanti tra quelli su cui si è andata formando la civiltà occidentale: il valore veritativo della filosofia, il rapporto tra fede e sapere, la morale, l’educazione, il ruolo dell’uomo, la libertà, la politica, la morte, l’ontologia, la metafisica, la critica, e moltissimi altri ancora. Ad accomunare, nel libro, questi temi così vasti ed eterogenei è il punto di partenza da cui ciascuno di essi viene sviluppato: il mondo dell’antica filosofia greca, concepita sia da Berti sia da Grecchi come fonte originaria delle «domande fondamentali» dell’uomo occidentale e come tentativo di elaborazione di alcune grandiose soluzioni che continuano a esercitare un fascino intramontabile. La filosofia greca fa da sfondo anche alle considerazioni svolte da Berti e da Grecchi intorno al pensiero di Kant, di Hegel e di Marx. A partire, appunto, dai «filosofi antichi», i due studiosi ripercorrono in maniera dialogica, anche attraverso la cinquantennale esperienza accademica di Enrico Berti, i nodi maggiori della tradizione filosofica e le problematiche fondamentali del nostro presente.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4/2. L’influenza di Aristotele. L’età moderna e contemporanea, Morcelliana, 2010.
l secondo tomo del volume dedicato all’influenza di Aristotele comprende saggi relativi all’età moderna e all’età contemporanea. Per l’età moderna è evidente la persistenza della filosofia pratica di Aristotele, la quale, dopo essersi eclissata nell’antichità ellenistica e nella tarda antichità, ed essere stata riscoperta nel medioevo, sia musulmano che ebraico e cristiano, sopravvive nel Seicento e nel Settecento, soprattutto in Germania.Per quanto riguarda l’Ottocento i saggi riguardano la critica di Hegel al principio di non contraddizione, e l’influenza di Aristotele sui critici di Hegel: Feuerbach, Trendelenburg, Marx e Kierkegaard. Per la Germania è anche massiccia l’influenza di Aristotele su Brentano e, attraverso di lui, su tutti i suoi discepoli, da Husserl a Meinong, a Twardowski, a Freud. Interessante è anche il rapporto intrattenuto con Aristotele da Paul Natorp, che ebbe ad influenzare, insieme con la dissertazione di Brentano, Martin Heidegger.I capitoli dedicati all’età contemporanea illustrano la presenza di Aristotele in Heidegger e nella filosofia analitica inglese, ovvero nell’analisi del linguaggio ordinario condotta da J. Austin, G. Ryle, P. Strawson, D. Wiggins e altri. Indi illustrano la cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica, prima in Germania, ad opera di filosofi come H.-G. Gadamer e J. Ritter, e poi negli USA, ad opera di A. MacIntyre, H. Jonas, Martha C. Nussbaum.
Profilo di Aristotele, Studium, 2010.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2010.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Invito alla filosofia, La Scuola, 2011.
Un libro per chiunque voglia accostarsi ad un sapere che parte dal sentimento della meraviglia per arrivare ad esercitare un uso consapevole della ragione. Un invito per chiunque sia alla ricerca di motivazioni (esistenziali, religiose, etiche, scientifiche, politiche) e voglia porre domande per scoprire la verità partendo da opinioni consolidate. Perché la filosofia, nel suo stesso modo di procedere dialettico-confutatorio, esalta l’essenza umana che si fonda sul ragionamento.
Preguntas de la filosofía antigüa, Tapa blanda, 2001.
Muchas de las grandes preguntas que la filosofía occidental ha seguido planteándose las formularon por primera vez los griegos. No todas, claro está. Por ejemplo, los griegos no se preguntaron cuáles eran, a priori, las condiciones del conocimiento, o qué leyes rigen la historia, o cómo indagar en el subconsciente del hombre y otras cosas por el estilo. Pero las preguntas que plantearon, a excepción de unas pocas (por ejemplo: ¿quiénes son los dioses?), son las mismas con las que se ha seguido enfrentando la filosofía occidental a lo largo de los siglos. Enrico Berti recorre el pensamiento de los grandes filósofos clásicos y traza un sorprendente itinerario a través de las preguntas sin tiempo que la filosofía occidental ha seguido planteándose y que los griegos formularon por primera vez: ¿Qué es el hombre? ¿Qué es la felicidad? ¿Quiénes son los dioses? ¿Cuál es nuestro destino?
Profilo di Aristotele, Studium, 2012.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Studi aristotelici. Nuova edizione riveduta e corretta, Morcelliana, 2012.
Il dovere di introdurre, e con ciò di giustificare nella sua unità, la presente raccolta mi fornisce l’occasione più opportuna per riflettere sulle ricerche da me compiute in questi anni e anche per risalire alle origini del mio interesse per Aristotele, allo scopo di determinarne il più esattamente possibile il senso e l’orientamento generale. Uno dei fili conduttori dei miei lavori è la persuasione del valore classico, cioè perenne, e quindi anche attuale di certe istanze del pensiero aristotelico. Si tratta di una valutazione di ordine teoretico, o filosofico, che oggi, a causa dell’imperante storicismo e del conseguente relativismo, può sembrare, nel migliore dei casi, ingenua. Tuttavia è una persuasione a cui tengo particolarmente; non ho difficoltà infatti a confessare che, se non la possedessi, non riuscirei a dare alcun senso al lavoro fatto. Le ragioni del valore classico della metafisica antica si trovano nel rilevamento, da parte di Aristotele, di un’inadeguatezza tra il sistema platonico e il problema da cui ogni filosofo deve prendere le mosse, cioè la problematicità integrale e assoluta. Questa problematicità si esprime in un “domandare tutto”, che è insieme un “tutto domandare”, in una domanda che investe la totalità del reale e, per il fatto di escludere ogni precedente certezza, è integralmente domanda; e si identifica con la stessa esperienza intesa come conoscenza di tutto e insieme domanda della ragione di tutto.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2012.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Aristotele e la democrazia, in C. Rossitto, A. Coppola, F. Biasutti (a cura), Aristotele e la storia, Padova, CLEUP, 2013.
Aristotele, La Scuola, 2013.
«Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità e, più di tutte, amano la sensazione della vista. In effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose». Metafisica, libro I.
The Classical Notion of Person and Its Criticism by Modern Philosophy, in B. Babich and D. Ginev (eds.), The Multidimensionality of Hermeneutic Phenomenology, Heidelberg-New York-Dordrecht-London, Springer, 2013.
La phronêsis nella filosofia antica, in A. Fidora, A. Niederberger, M. Scattola (eds.), Phronêsis – prudentia – Klugheit. Das Wissen der Kluge in Mittelalter, Renaissance und Neuzeit, Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales, Porto, 2013.
Mente e anima: due entità?, in G. Erle (a cura), Il limite e l’infinito. Studi in onore di Antonio Moretto, Bologna, Archetipolibri, 2013.
La ricerca filosofica di Antonio Moretto segna una tappa fondamentale e innovativa all’interno della letteratura scientifica a proposito del rapporto tra filosofia e matematica. Questo vale in primo luogo, ma non solo, per una rinnovata comprensione della filosofia classica tedesca che rendeva necessario mostrare la rilevanza della conoscenza congiunta della storia e della teoria della matematica in autori come Kant e Hegel. Questi studi, assieme a quelli che egli ha dedicato a Descartes, Leibniz, Wolff, mostrano come i concetti matematici di finito e infinito racchiudano, nelle loro esigenze tecniche, un’urgenza profondamente umana, quella di dare senso, “mensurare” nell’accezione più ampia del termine. Sotto questo profilo, il passaggio per le scienze esatte nelle ricerche di Moretto non è affatto astratto, ma costituisce il necessario cammino verso quella che Kant avrebbe chiamato “la porta stretta”, varcata la quale meglio si comprendono anche le altre parti del sistema della filosofia, così come proprio Moretto ha dimostrato dedicandosi a discutere altresì questioni di etica, di filosofia della medicina, psicologia della percezione e, perché no?, della poesia di Albrecht von Haller. Coerentemente con questo percorso di ricerca, gli autori degli scritti che costituiscono questo volume si sono impegnati a mostrare la ricchezza di significati e valenze che i concetti di limite e di infinito possono assumere all’interno delle scienze filosofiche.
Una metafisica (epistemologicamente) «debole», n G. Riconda e C. Ciancio (a cura), Filosofi italiani contemporanei, Mursia, 2013.
Il volume presenta i risultati di un ciclo di seminari tenuti all’Università di Padova nel 2011 e 2012, all’interno del Progetto di Ateneo Filosofia e storia nel pensiero politico di Aristotele. Il tema generale è il ruolo della storia nel pensiero aristotelico, secondo le più ampie accezioni del termine. Innanzitutto che uso fa Aristotele dei dati storici, come e a qual fine li utilizza e qual è per lui il valore epistemologico della storia? Storia significa anche storiografia, cioè resoconto scritto dei fatti: possiamo capire il rapporto fra il filosofo e gli storici e tra la storiografia e la politica? I contributi qui raccolti aggiungono materia a queste riflessioni raccogliendo e confrontando punti di vista di storici dell’antichità e di storici della filosofia.
Aristotele, in U. Eco (a cura), L’Antichità, 5. Grecia, Filosofia, EM Publishers srl., 2014.
Neste volume, o leitor terá a oportunidade de conhecer o pensamento de Aristóteles, um dos maiores nomes da Filosofia na Antiguidade. A visão aristotélica é apresentada de modo sintetizado, por meio da análise das obras de Aristóteles, dos conceitos-chave de sua filosofia e seus desdobramentos na sociedade atual.
Il bene di chi? Bene pubblico e bene privato nella storia, Marietti, 2014.
Un affresco dell’intrecciarsi di bene pubblico e bene privato nella storia della civiltà occidentale. Enrico Berti fa comprendere le complesse radici culturali della situazione attuale e apre domande cruciali, da un lato sul destino e la sopravvivenza dello Stato e dall’altro sul fine dell’uomo e sulle condizioni di possibilità della vita sociale. Il libro è arricchito da un dialogo sul tema tra l’autore e i partecipanti alla “Lectio Magistralis” tenuta nel corso di una delle sessioni del 2013 della Winter School, centro di studi sociali, culturali e politici. Prefazione di Giovanni Maddalena.
Il luogo dei corpi secondo Aristotele, in Lessico Intellettuale Europeo, Locus-spatium. XIV Colloquio Internazionale, a cura di D. Giovannozzi e M. Veneziani, Olschki, 2014
La ricerca della verità in filosofia, Studium, 2014.
La verità è oggi temuta come una forma di violenza, specialmente da parte dei filosofi post-moderni. Questo timore spesso è dovuto a una concezione ideologica della verità come valore assoluto da imporre a tutti, mentre esso è del tutto ingiustificato rispetto alla concezione classica della verità, non riducibile alla teoria della verità come corrispondenza. In base alla teoria classica si danno diversi tipi di verità, verità di fatto e verità di ragione, verità storiche e verità scientifiche, verità di fede e verità poetiche: alcune facili da scoprire, altre implicanti complesse e faticose ricerche. In filosofia la ricerca della verità avviene in modi diversi, secondo il tipo di filosofia che si pratica, che può essere trascendentale, dialettico, fenomenologico, analitico-linguistico, ermeneutico, dialogico-confutativo. Un caso di ricerca della verità in filosofia è costituito dalla metafisica, intesa non nel senso tradizionale di ontologia o teologia razionale, bensì come metafisica problematica e dialettica, epistemologicamente debole ma logicamente forte. Esiste anche una verità pratica, che riguarda non la legge morale, ma il desiderio della felicità intesa come pieno sviluppo della persona umana, nel singolo individuo e nella polis.
Prologo a L. E. Varela, Filosofía práctica y prudencia. Lo universal y lo particular en la ética de Aristóteles, Editorial Biblos, 2014.
El trabajo se sostiene en un conocimiento completo y perfecto de toda la obra de Aristóteles concerniente a la ética, no sólo a la Ética nicomaquea y a la Ética eudemia, sino también a la Gran Ética y al Protréptico. Los textos de estas obras son analizadas de manera precisa y rigurosa, y el análisis de ellos es siempre acompañado por una discusión de las interpretaciones suministradas por la literatura crítica, con la cual Varela está constantemente en diálogo. De ello resulta una contribución de gran claridad, equilibrio, riqueza de información y de profundización, que lo hace extremadamente útil para una relectura y una valoración nueva, plenamente satisfactoria, de la ética aristotélica.
Luis Enrique Varela. Doctor en Filosofía (Universidad del Salvador). Es actualmente profesor de Ética y de Metafísica en la Universidad Nacional de Mar del Plata. Asimismo, dicta Historia de la Filosofía Antigua en la carrera del Doctorado en Filosofía, y Ética dentro de la enseñanza de grado en la Universidad Nacional de Lanús. Dirige proyectos de investigación en temas de filosofía práctica y de metafísica tanto en la UNMDP como en la UNLA. También se desempeña como profesor de Historia de la Filosofía Antigua y del Seminario de Filosofía Práctica I en la carrera de filosofía de la Universidad de Ciencias Empresariales y Sociales (UCES). Además dicta materias de filosofía en la carrera de Filosofía del Instituto Superior del Profesorado “Joaquín V. González”.Como director del Círculo de Actualización en Filosofía de la Fundación Descartes, organizó junto con Germán García el “Encuentro Internacional Descartes 400” (1996) y “Lacan y la cultura filosófica” (2001).Es autor de numerosos
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today?, in C. Baracchi (ed.), The Bloomsbury Companion to Aristotle, Bloomsbury, 2014.
Aristotle is one of the most crucial figures in the history of Western thought, and his name and ideas continue to be invoked in a wide range of contemporary philosophical discussions. The Bloomsbury Companion to Aristotle brings together leading scholars from across the world and from a variety of philosophical traditions to survey the recent research on Aristotle’s thought and its contributions to the full spectrum of philosophical enquiry, from logic to the natural sciences and psychology, from metaphysics to ethics, politics, and aesthetics. Further essays address aspects of the transmission, preservation, and elaboration of Aristotle’s thought in subsequent phases of the history of philosophy (from the Judeo-Arabic reception to debates in Europe and North America), and look forward to potential future directions for the study of his thought. In addition, The Bloomsbury Companion to Aristotle includes an extensive range of essential reference tools offering assistance to researchers working in the field, including a chronology of recent research, a glossary of key Aristotelian terms with Latin concordances and textual references, and a guide to further reading.
List of Contributors \ Acknowledgments \ Corpus Aristotelicum \ “Introduction: Paths of Inquiry” Claudia Baracchi \ Part I: Questions \ 1. Logos \ Saying What One Sees, Letting See What One Says: Aristotle’s Rhetoric and the Rhetoric of the Sophists Barbara Cassin \ Aristotelian Definition: On the Discovery of Archai Russell Winslow \ 2. Phusis \ Aristotle on Sensible Objects: Natural Things and Body Helen Lang \ On Aristotle’s Formula: Physics IV. 11, 14 Rémi Brague \ 3. Psuchê \ Phantasia in De Anima Eric Sanday \ Mind in Body in Aristotle Erick Raphael Jiménez \ The Hermeneutic Slumber: Aristotle’s Reflections on Sleep Marcia Sá Cavalcante Schuback \ 4. Philosophia Prôtê \ First Philosophy Alejandro Vigo \ First Philosophy and the History of Being in Aristotle’s Metaphysics Spyridon Rangos \ 5. Êthos \ Aristotle on Human Nature and the Foundations of Ethics, with an “Addendum” Martha C. Nussbaum \ The Visibility of Goodness Pavlos Kontos \ To Kakon Pollachôs Legetai: The Poly-vocity of the Notion of Evil in Aristotelian Ethics Arianna Fermani \ 6. Polis \ Education: The Ethico-Political Energeia Michael Weinman \ 7. Poiêsis \ Toward the Sublime Calculus of Aristotle’s Poetics Kalliopi Nikolopoulou \ Part II: Disseminations \ Aristotle on the Natural Dwelling of Intellect Idit Dobbs-Weinstein \ The Peripatetic Method: Walking with Woodbridge, Thinking with Aristotle Christopher Long \ What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today? Enrico Berti \ Would Aristotle Be a Communitarian? Pierre Aubenque \ Glossary (Erick Raphael Jiménez) \ Chronology of Recent Research (Benjamin J. Grazzini) \ Bibliography (Erick Raphael Jiménez) \ Resources (Benjamin J. Grazzini and Erick Raphael Jiménez) \ Sources of Translated/Reprinted Essays \ General Index
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Morcelliana, 2015.
“Contraddizione” e “dialettica” sono due delle categorie costitutive della filosofia, fin dalla sua nascita nella Grecia del V secolo. Nei capitoli che sono idealmente una storia del pensiero occidentale – il lettore trova la chiara e puntuale ricostruzione dei tanti significati assunti da “contraddizione”, “non contraddizione”, “dialettica” tra Parmenide, Eraclito, Socrate, Platone e Aristotele, tra Kant e Hegel, tra Marx, Popper e la logica contemporanea. Sono categorie in cui è in gioco non solo il rigore della ragione: nella possibilità o no di superare il principio di non contraddizione è in questione la cosa stessa del pensiero. Considerando che lo stesso principio di non contraddizione si dice in più modi. Temi cui Enrico Berti ha dedicato più di cinquant’anni di studi, e che trovano qui un compendio.
È bene definire il bene?, Orthotes, 2015.
Il punto di partenza assunto nel saggio è la definibilità del bene, una volta che ci si occupi di esso non in quanto assoluto e irraggiungibile, ma piuttosto vedendolo come bene umano, praticabile e realizzabile. Come tale, esso è l’oggetto delle aspirazioni umane e concretamente indicato nei diritti fondamentali, nelle varie libertà e nei diritti politici, che documenti ufficiali hanno ormai sancito. Da Aristotele fino alla sua ripresa da parte di Martha Nussbaum, la felicità, per quanto fragile, si sostanzia proprio di questi beni, che possono essere presentati come vere e proprie “capacità”. Completa il testo un intervento di Berti sull’Etica nicomachea di Aristotele, da cui emerge il carattere pratico di una filosofia che punti a definire che cos’è il bene, ossia aristotelicamente la felicità, per l’uomo.
Aristotelismo, il Mulino, 2017.
A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l’esposizione dei loro temi portanti e delle figure in cui si sono concretati.
Un manuale in cui i maggiori studiosi di Aristotele analizzano e descrivono in modo sistematico e completo il pensiero del filosofo, attraverso le singole opere, seguendo un metodo rigorosamente storico, senza interpretazioni ideologiche o di parte.
Introduzione alla metafisica, seconda edizione, UTET, 2017.
La nuova edizione dell’Introduzione alla metafisica di Enrico Berti ripropone la concezione originale della metafisica che l’Autore va presentando da anni, la quale ha suscitato l’interesse degli studiosi di filosofia, come dimostrano le traduzioni dell’opera in altre lingue. Essa contiene alcune correzioni rispetto all’edizione precedente, dovute a ulteriori studi, e soprattutto è corredata da cinque appendici, costituite da altrettanti articoli sul tema, pubblicati dall’Autore negli anni più recenti. L’opera comprende una parte storica, che illustra le diverse forme di metafisica elaborate nella filosofia occidentale, e una parte teoretica, che difende le ragioni di un certo tipo di metafisica, caratterizzata come «metafisica dell’esperienza», sviluppando gli spunti forniti in questa direzione dalla «scuola padovana» facente capo a Marino Gentile. Nel complesso si tratta di una delle rare proposte italiane di una filosofia autenticamente metafisica, in linea con la grande tradizione della «metafisica classica» di ispirazione aristotelica, ma al tempo stesso essenzializzata e aggiornata in modo da tenere conto delle critiche e delle esigenze del pensiero contemporaneo. Il rifiorire di interesse per la metafisica, manifestatosi soprattutto nell’ambito della filosofia analitica, conferma l’attualità dell’opera.
Tradurre la “Metafisica” di Aristotele, Morcelliana, 2017.
«Essendomi recentemente cimentato con l’arduo compito di tradurre la Metafisica di Aristotele, il libro forse più difficile dell’intera storia della filosofia, mi sono imbattuto in una serie di problemi, alcuni dei quali previsti e altri invece imprevisti, che hanno reso l’impresa, oltre che ardua, anche affascinante». Affrontando problemi inerenti alla trasmissione del testo, alla traduzione e alla interpretazione, Berti mostra – contro una lettura teologizzante, di origine neoplatonica – il tratto problematico della filosofia aristotelica: la metafisica non è né teologia, né ontologia, ma scienza delle cause prime.
Aristotele Eubulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Guida, 2019.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Storia della Metafisica (a cura di), Morcelliana, 2019.
Sulla base del presupposto unanimemente riconosciuto che la metafisica, quale che sia il suo valore, ha avuto una storia, il volume individua i momenti salienti di quest’ultima in alcuni grandi filosofie correnti di pensiero: Platone, Aristotele, il platonismo antico, la metafisica arabo-islamica, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Suárez, Cartesio, Kant, Hegel, Rosmini, Heidegger, il neotomismo, la filosofia analitica. Ne risulta una storia equilibrata, ricca e coinvolgente, forse unica nel suo genere, di indubbio interesse per chiunque si occupi di filosofia.
In copertina: Paul Klee, Revolution des Viaducts (Rivoluzione del viadotto), 1937. Hamburger Kunsthalle, Amburgo.
In uno dei disegni praparatori dell’opera Klee aveva indicato il titolo provvisorio: Le arcate dei ponti rompono le righe. Una rivoluzione dunque, un auspicio di profondo mutamento, alla radice, di sistemi fossilizzati. Gli archi si ribellano all’uniformità del viadotto e avanzano “rompendo le righe”, per superare ogni incatenamento teorico e artistico.
«Migliori e Grecchi sono due metafisici che si ispirano alla tradizione greca e la custodiscono con cura, anche se Migliori guarda soprattutto a Platone e Grecchi soprattutto ad Aristotele. Entrambi amano la verità e il bene». Carmelo Vigna
Questi i temi del dialogo
La genesi della filosofia / L’amore per Platone / “La filosofia si fa, non si impara” / Il Multifocal Approach / Possibili critiche al Multifocal Approach / Uomo: una natura razionale e morale? / Sul timore della definizione / Su ciò che non è stato ritrovato / Presocratici: una lettura multifocale? / Chi fu il “primo filosofo”? / Sulla definizione della filosofia e la differenza con le scienze / Socrate sofista? / Sulla filosofia ellenistica e post-ellenistica / I Greci cercavano per trovare risposte utili / Sul bene / Sulla verità: questione logico-fenomenologica o (anche) onto-assiologica? / Utopia e progettualità / Sul trascendente / La dolcezza come virtù filosofica / L’anticrematistica: filo conduttore delpensiero antico? / Stato dell’arte della filosofia antica in Italia / Oltre alla filosofia… / Su Platone Primo Ministro… / Sulla educazione dei giovani / Sulla morte
Maurizio Migliori si è laureato in filosofia (1967) presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e poi specializzato presso la stessa università (1969) sotto la guida di Giovanni Reale, con cui ha continuato a collaborare fino alla morte del Maestro (2014). Docente di Scuola secondaria superiore per oltre 20 anni (1968-1991), poi professore di Storia della filosofia antica presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Macerata per oltre 20 anni, prima come associato (1991-2001), poi come ordinario (2001-2015). In pensione, continua a svolgere attività didattica nella stessa Università. Autore di numerosissimi articoli su riviste italiane e straniere e di numerosi libri, tra cui la nuova edizione di Aristotele, La generazione e la corruzione, Bompiani, Milano 2013; Il disordine ordinato. La filosofia dialettica di Platone, 2 voll., Morcelliana, Brescia 2013. Con Petite Plaisance ha pubblicato La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni (2019, pp. 592).
Per tutti gli scritti di Maurizio Migliori, cliccare qui. (oppure: autore, M. Miglori)
Luca Grecchi, Luca Grecchi svolge attività di insegnamento e di ricerca presso le Cattedre di Storia della Filosofia e di Filosofia Morale della Università di Milano Bicocca. Ha pubblicato, nella collana Questioni di filosofia antica delle Edizioni Unicopli i libri Natura (2018) e Uomo (2019), e, per l’editore Morcelliana, Leggere i Presocratici (2020). È curatore dei volumi Sistema e sistematicità in Aristotele, Immanenza e trascendenza in Aristotele, Teoria e prassi in Aristotele (Petite Plaisance, rispettivamente 2016, 2017, 2018).
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