«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
L’uomo crea il suo destino dall’interno di sé. È quel che scrivevo mercoledì mattina, all’alba: poi ho avuto qualche turbamento di fronte a questa temeraria dichiarazione, perciò ne ho cercate le prove dentro di me. E improvvisamente tutto mi è parso così cristallino. Certo, ogni uomo crea il proprio destino dall’interno di sé. Le situazioni in cui possiamo trovarci in questo mondo non sono poi così tante: si è sposi, si è padri, si è mogli, si è madri, si è in prigione o guardie della prigione, questo non fa molta differenza, siamo circondati dalle stesse mura. E così via, poi va rielaborato. Ma ciò che determina il destino è come l’uomo si pone interiormente di fronte agli eventi della vita. Così è la vita. Non conosciamo la vita di qualcuno, se ne conosciamo solo gli elementi esteriori. Gli elementi esteriori, ahimè, non variano così tanto da una vita all’altra. Per conoscere la vita di qualcuno, bisogna conoscerne i sogni, gli stati d’animo, sapere quale rapporto ha con la moglie, con la morte, con le delusioni, con la malattia.
Etty Hillesum, Il gelsomino e la pozzanghera, Le Lettere, Firenze 2018,
L’uomo moderno, liberato dalle costrizioni della società pre-individualistica, che al tempo stesso gli dava sicurezza e lo limitava, non ha raggiunto la libertà in senso positivo di realizzazione del proprio essere […] Pur avendogli portato indipendenza e razionalità, la libertà lo ha reso isolato e, pertanto, ansioso e impotente. Questo isolamento è intollerabile e l’alternativa che gli si presenta è la seguente: o sfuggire dal peso di questa libertà verso nuove dipendenze e sottomissioni, o progredire verso la piena realizzazione della libertà positiva che si fonda sull’unicità e sull’individualità dell’uomo […] la comprensione dei motivi della fuga totalitaria dalla libertà è premessa ad ogni azione che miri alla vittoria sulle forze totalitarie.
Erich Fromm, Fuga dalla libertà, Mondadori, Milano 2020.
«Tutti i possibili, ossia tutto ciò che esprime l’essenza o realtà possibile, tendono con egual diritto all’esistenza, in proporzione alla quantità di essenza o di realtà cioè al grado di perfezione che implicano: la perfezione, infatti, non è altro che la quantità dell’essenza. Da ciò si comprende, nel modo più evidente, come fra le infinite combinazioni di possibili e di serie possibili, esiste quella che porta all’esistenza la massima quantità di essenza o di possibilità».
G. W. von Leibniz, Sull’origine radicale delle cose, in Id., Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai e E. Fubini, vol. III, Torino, UTET, 2000, vol. I, p. 219.
«Operare la scelta migliore e conforme all’armonia universale […] Che ciò che esiste è il meglio e il più armonico lo si dimostra invincibilmente in quanto la prima e unica causa efficiente delle cose è la mente; la causa perché la mente agisca, ovvero il fine delle cose, è l’armonia; il fine della mente più perfetta è l’armonia massima».
G. W. von Leibniz, Confessio Philosophi e altri scritti, Napoli, Cronopio, 2003, pp. 64-65.
Là sulle cime nevose una croce sta piantà. Non vi sono né fiori né rose è la tomba d’un soldà. D’un partigian che il nemico uccise, d’un partigian che tra il fuoco morì; a mamma tua lontana ti piange sconsolata mentre una campana in ciel prega per te. E noi ti ricordiamo, o partigiano che guardi di lassù, mentre scendiamo al piano ti salutiamo, caro compagno.
Non pianga più la mamma il figlio suo perduto sull’Alpe sconosciuto un altro, eroe sta là. Vi vedo e penso ancora nell’ora dei tramonti al sorger dell’aurora montagne del mio cuor. Questo dolce ricordo mi fa sognare, mi fa cantare tutta la melodia che riempie il cuor di nostalgia. Vi vedo e penso ancora nell’ora dei tramonti al sorger dell’aurora montagne del mio cuor.
Salvatore Bravo
La preghiera del partigiano
La preghiera del partigiano è un canto della resistenza. L’autore non ha un nome: l’esperienza partigiana è stata un’esperienza di prassi comunitaria. Nulla si teme maggiormente nei nostri anni che la prassi politica e storica, per cui l’esperienza partigiana è stata ridimensionata a presenza liturgica svuotata di ogni valenza rivoluzionaria. Si susseguono gli appelli a cantare “Bella ciao”, ad inneggiare sui balconi alla Liberazione in una triste festa confinata all’urlo di circostanza in un microspazio, che denota la restrizione delle nostre libertà. L’urlo liberatorio in un momento di grande incertezza serve a dare l’ennesima illusione, ovvero quella di essere protagonisti della storia. Il velo dell’ignoranza scende con le sue illusioni, permette di non vedere che il 25 Aprile 1945 è uno dei tanti furti a cui la comunità è sottoposta. La festa della Liberazione dovrebbe essere la festa con cui si festeggia e si rende vivo il ricordo del progetto costituzionale. La Costituzione affonda il suo senso nell’esperienza della dittatura e nell’esperienza partigiana. La dittatura aveva offeso la volontà di ciascuno, le volontà erano coartate ed oggetto di perenne di violenza, i partigiani mostrarono che non vi è comunità, se non nel rispetto nelle volontà di ciascuno. Ci furono errori, certamente, ma devono essere letti all’interno della cornice storica del momento. Il loro agire dimostrò che la volontà non può essere nullificata, che la volontà senza giustizia non è che una vuota forma di volontarismo fine a se stesso. I partigiani furono mossi dall’anelito per la giustizia. La volontà della giustizia implica il “no” al potere, la capacità di distanziarsi rispetto alla coercizione del potere per poterlo sovvertire. La parola giustizia sociale, oggi, è temuta, mentre imperversano gli effetti dei tagli alla sanità, dopo decenni di partecipazione ai “bombardamenti etici” della NATO e con la distribuzione delle ricchezze sempre più ineguale. Al posto della parola giustizia, “essenza dell’esperienza partigiana”, oggi ci si propone di ricordare la data fondativa della Repubblica con la spettacolarizzazione della festa: sui balconi si canta e si balla come se si fosse su un piccolo palcoscenico, i video virali impazzano, così il messaggio cade svilito tra il narcisismo e l’incoscienza collettiva. Negli ultimi anni si è ipotizzato anche, non poche volte, di festeggiare il 18 Aprile 1948 data in cui il fronte popolare fu sconfitto, piuttosto che il 25 Aprile 1945. Si teme l’esperienza partigiana, poiché ci ricorda quanto i padri fondatori siano stati traditi e dimenticati.
Festa della giustizia che non c’è Si dovrebbe, in questa data, rileggere la Costituzione nella quale la giustizia, in nome della quale si è combattuto, ha trovato forma giuridica ed etica. La giustizia partigiana ha favorito processi di concretizzazione dei diritti sociali: non vi è giustizia senza diritti sociali. Al posto di essi prevalgono i processi di privatizzazione, di individualismo, si esaltano i soli diritti individuali scissi dai diritti sociali tradendo la lotta partigiana. La stessa rete è privatizzata, per cui la conoscenza non è per tutti, ma solo per alcuni. Di tutto questo si tace, si riempie il vuoto con canti e balli che servono a “tenere buoni” su un balcone una popolazione che subisce provvedimenti con il parlamento esautorato dalle sue funzioni. Intanto si canta e si balla e non si comprende cosa ci stanno portando via: la nostra storia e con essa la nostra identità. Il regime fascista, nella sua morte, rivelò la sua verità: era un regime violento e dunque la sua fine fu violentissima, ma i partigiani seppero pensare “quella morte” e la trasformarono in progetto politico e in speranza comunitaria. Vissero un processo dialettico di rinascita con cui ridiedero dignità ad un popolo umiliato ed offeso, anche se a volte complice. Di tutto questo sembra non esserci più traccia, al suo posto vi è solo una breve gioia da consumarsi esibendosi sul balcone tra gli sguardi dei passanti e le riprese degli smartphone.
La cultura partigiana che non c’è Sorge un ulteriore dubbio: cosa conoscono i nostri giovani dei partigiani? Poco o nulla. I tagli alla scuola, la storia ridotta ad una presenza curriculare senza spessore e la scuola che quest’anno non c’è, fanno in modo che ne abbiano un’idea vaga e fuorviante, pertanto festeggiano ciò che non conoscono. Si permette di festeggiare ciò che non si conosce, in quanto non crea nessun concetto, non c’è pericolo che l’esperienza partigiana si trasformi in attività politica, per cui li si lascia festeggiare … sono innocui, e domani non sarà un altro giorno. A tutto questo è necessario non reagire, ma agire, ed ancora una volta è la conoscenza il fondamento da cui ricominciare. Coloro che vivono la conoscenza come missione con cui umanizzarsi ed umanizzare devono far sentire la loro resistenza civile non abbandonando le nuove generazioni allo squallore di una gioia belante. La speranza si radica nella storia, pertanto si tratta di conoscere e cogliere che i partigiani non hanno lottato solo per se stessi, ma per la comunità intera. Le loro storie ci raccontano di vicende umane, in una situazione storica eccezionale, capace di comprendere la giustizia ed il suo valore. Senza giustizia non vi è comunità, ma solo la giustapposizione violenta di individui espressione della politica che non c’è anche in questa giornata.
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