«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
“Gabriela Mistral era un’extraterrestre e per questo non aveva né i nostri stessi bisogni né i nostri stessi desideri. […] Era solo un’aliena che si era smarrita in Cile, in America latina, e che non poteva comunicare con la nave madre perché venisse a recuperarla.” Roberto Bolaño
Canto que amabas
Yo canto lo que tú amabas, vida mía, por si te acercas y escuchas, vida mía, por si te acuerdas del mundo que viviste, al atardecer yo canto, sombra mía. Yo no quiero enmudecer, vida mía. ¿Cómo sin mi grito fi el me hallarías? ¿Cuál señal, cuál me declara, vida mía? Soy la misma que fue tuya, vida mía. Ni lenta ni trascordada ni perdida. Acude al anochecer, vida mía; ven recordando un canto, vida mía, si la canción reconoces de aprendida y si mi nombre recuerdas todavía. Te espero sin plazo y sin tiempo. No temas noche. neblina ni aguacero. Acude con sendero o sin sendero. Llámame adonde tú eres, alma mía, y marcha recto hacia mí, compañero.
Canto che amavi
Io canto ciò che tu amavi, vita mia, nel caso ti avvicini e ascolti, vita mia, nel caso ti ricordi del mondo che hai vissuto, nel rosso del tramonto io canto te, ombra mia. lo non voglio restare più muta, vita mia. Come senza il mio grido fedele puoi trovarmi? Quale segnale, quale mi svela, vita mia? Sono la stessa che fu già tua, vita mia. Né infiacchita né smemorata né spersa. Raggiungimi sul fare del buio, vita mia; vieni qui a ricordare un canto, vita mia; se tu questa canzone riconosci a memoria e se il mio nome infine ancora ti ricordi. Ti aspetto senza limiti né tempo. Tu non temere notte, nebbia o pioggia. Vieni per strade conosciute o ignote. Chiamami dove sei, anima mia, e avanza dritto fino a me, compagno.
Gabriela Mistral, Canto che amavi, in Id., Sillabe di fuoco, a cura di Matteo Lefèvre, con un testo di Octavio Paz, Bompiani, Milano 2020.
E me ne devo andare via così? Non che mi aspetti il disegno compiuto ciò che si vede alla fine del ricamo. Ma quel che ho visto si è tutto cancellato. E quasi non avevo cominciato.
[…]
Ma prima di morire forse potrò capire la mia incerta condizione.
Forse per non morire continuo a non capire sicura in questa chiara confusione».
Patrizia Cavalli,Vita Meravigliosa, Einaudi, Torino 20220.
Perché tanta inerzia al Senato? E i senatori perché non legiferano?
Oggi arrivano i barbari. Che leggi possono fare i senatori? Venendo i barbari le faranno loro.
Perché l’imperatore si è alzato di buon’ora e sta alla porta grande della città, solenne in trono, con la corona sulla fronte?
Oggi arrivano i barbari e il sovrano è in attesa della visita del loro capo; anzi, ha già pronta la pergamena da offrire in dono dove gli conferisce nomi e titoli.
Perché i nostri due Consoli e i Pretori stamane sono usciti in toga rossa ricamata? perché portano bracciali con tante ametiste e anelli con smeraldi che mandano barbagli? perché hanno in mano le rare bacchette tutte d’oro e d’argento rifinito?
Oggi arrivano i barbari, e queste cose ai barbari fan colpo. Perché non vengono anche i degni oratori a perorare come sempre?
Oggi arrivano i barbari e i barbari disdegnano eloquenza e arringhe.
Tutto a un tratto perché questa inquietudine e questa agitazione? (oh, come i visi si son fatti gravi). Perché si svuotano le vie e le piazze e tutti fanno ritorno a casa preoccupati?
Perché è già notte e i barbari non vengono. È arrivato qualcuno dai confini a dire che di barbari non ce ne sono più.
Come faremo adesso senza i barbari? Dopotutto, quella gente era una soluzione.
C. Kavafis
Konstantinos P. Kavafis, Settantacinque poesie, trad. di N. Risi e M. Dalmàti, Einaudi, Torino, 1992, pp. 37-39.
«Chi si richiama al comunismo dovrà evitare l’errore di credere in un perfezionamento illimitato; ossia che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. Questo errore, con le più varie manipolazioni, ha già prodotto, e può produrre, dei sottouomini o dei sovrauomini, egualmente negatori degli uomini in cui ci riconosciamo. Ereditato dall’illuminismo e dallo scientismo, depositato dalla cultura faustiana della borghesia vittoriosa dell’Ottocento, quell’errore ottimistico fu presente anche in Marx e in Lenin, ed oggi trionfa nella maschera tecnocratica del capitale. Quando si parla di un al di là dell’uomo, è dunque necessario intendere un al di là dell’uomo presente, non un al di là della specie. Comunismo è anche rifiutare ogni sorta di mutanti per preservare la capacità di riconoscersi nei passati e nei venturi».
Fraco Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Garzanti, Milano, 1990, p. 101.
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Il testo di Franco Fortini, Extrema ratio, Garzanti, Milano 1990, pp. 99-101, è stato pubblicato per la prima volta nell’inserto settimanale satirico “Cuore” del quotidiano L’Unità del 16 gennaio 1989. Dopo la pubblicazione in Extrema ratio, questo testo è stato ristampato anche in: Una voce: comunismo, Edizioni del Centro di ricerca per la pace, Viterbo 1990; in Non solo oggi, Editori Riuniti, Roma 1991; in Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003; in “Contropiano”, Giornale comunista online, 2 maggio 2011.
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“Comunismo: termine con cui si designano dottrine che propugnano e descrivono una società basata su forme comunitarie di produzione ovvero di produzione e consumo, in alternativa a società basate su forme di proprietà privata ovvero di distribuzione e di consumo diseguali. Possesso comune della terra e dei mezzi di produzione, lavoro per tutti, regolazione pianificatrice dei bisogni e delle funzioni [...] parte integrante di tali dottrine è l’educazione comune, pubblica, di tutti gli individui” (Enciclopedia Garzanti).
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Il combattimento per il comunismo è già il comunismo. È la possibilità (quindi scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior numero di esseri umani – e, in prospettiva, la loro totalità – pervenga a vivere in una contraddizione diversa da quella oggi dominante. Unico progresso, ma reale, è e sarà il raggiungimento di un luogo più alto, visibile e veggente, dove sia possibile promuovere i poteri e la qualità di ogni singola esistenza. Riconoscere e promuovere la lotta delle classi è condizione perché ogni singola vittoria tenda ad estinguere la forma presente di quello scontro e apra altro fronte, di altra lotta, rifiutando ogni favola di progresso lineare e senza conflitti.
Meno consapevole di sé quanto più lacerante e reale, il conflitto è fra classi di individui dotati di diseguali gradi e facoltà di gestione della propria vita. Oppressori e sfruttatori (in Occidente, quasi tutti; differenziati solo dal grado di potere che ne deriviamo) con la non-libertà di altri uomini si pagano l’illusione di poter scegliere e regolare la propria individuale esistenza. Quel che sta oltre la frontiera di tale loro “libertà” non lo vivono essi come positivo confine della condizione umana, come limite da riconoscere e usare, ma come un nero Nulla divoratore. Per dimenticarlo o per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, di quella propria. Oppressi e sfruttati (e tutti, in qualche misura, lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile, dissolta ora nella precarietà e nella paura della morte ora nella insensatezza e non-libertà della produzione e dei consumi. Né gli oppressi e sfruttati sono migliori, fintanto che ingannano se stessi con la speranza di trasformarsi, a loro volta, in oppressori e sfruttatori di altri uomini. Migliori cominciano ad esserlo invece da quando assumono la via della lotta per il comunismo; che comporta durezza e odio per tutto quel che, dentro e fuori degli individui, si oppone alla gestione sovraindividuale delle esistenze; ma anche flessibilità e amore per tutto quel che la promuove e la fa fiorire.
Il comunismo in cammino (un altro non esiste) è dunque un percorso che passa anche attraverso errori e violenze, tanto più avvertiti come intollerabili quanto più chiara si faccia la consapevolezza di che cosa gli altri siano, di che cosa noi si sia e di quanta parte di noi costituisca anche gli altri; e viceversa. Il comunismo in cammino comporta che uomini siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce invece che, come oggi avviene, per un fine che non è mai la loro vita. Usati, ma sempre meno, come mezzi per un fine, un fine che sempre più dovrà coincidere con loro stessi. Ma chi dalla lotta sia costretto ad usare altri uomini come mezzi (e anche chi accetti volontariamente di venir usato così) mai potrà concedersi buona coscienza o scarico di responsabilità sulle spalle della necessità o della storia.
Chi quella lotta accetta si fa dunque, e nel medesimo tempo, amico e nemico degli uomini. Non solo amico di quelli in cui si riconosce e ai quali, come a se stesso, indirizza la propria azione; e non solo nemico di quanti riconosce, di quel fine, nemici. Ma anche nemico, sebbene in altro modo e misura, anche dei propri fratelli e compagni e di se stesso; perché non darà requie né a sé medesimo né a loro, per strappare essi e se stesso agli inganni della dimenticanza, delle apparenze e del sempreuguale.
Dovrà evitare l’errore di credere in un perfezionamento illimitato; ossia che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. Questo errore, con le più varie manipolazioni, ha già prodotto, e può produrre, dei sottouomini o dei sovrauomini; egualmente negatori degli uomini in cui ci riconosciamo. Ereditato dall’Illuminismo e dallo scientismo, depositato dalla cultura faustiana della borghesia vittoriosa dell’Ottocento, quell’errore ottimistico fu presente anche in Marx e in Lenin e oggi trionfa nella maschera tecnocratica del capitale. Quando si parla di un al di là dell’uomo, è dunque necessario intendere un al di là dell’uomo presente, non un al di là della specie. Comunismo è rifiutare anche ogni sorta di mutanti per preservare la capacità di riconoscersi nei passati e nei venturi.
Il comunismo in cammino adempie l’unità tendenziale tanto di eguaglianza, fraternità e condivisione quanto quella di sapere scientifico e di sapienza etico-religiosa. La gestione individuale, di gruppo e internazionale, dell’esistenza (con i suoi insuperabili nessi di libertà e necessità, di certezza e rischio) implica la conoscenza delle frontiere della specie umana e quindi della sua infermità radicale (anche nel senso leopardiano). Quella umana è una specie che si definisce dalla capacità (o dalla speranza) di conoscere e dirigere se stessa e di avere pietà di sé In essa, identificarsi con le miriadi scomparse e con quelle non ancora nate è un atto di rivolgimento amoroso verso i vicini e i prossimi; ed è allegoria e figura di coloro che saranno.
Il comunismo è il processo materiale che vuol rendere sensibile e intellettuale la materialità delle cose dette spirituali. Fino al punto di sapere leggere nel libro del nostro medesimo corpo tutto quel che gli uomini fecero e furono sotto la sovranità del tempo; e interpretarvi le tracce del passaggio della specie umana sopra una terra che non lascerà traccia.
«[…] nessuna delle opere umane è dotata di tanta stabilità quanto le attività secondo virtù; esse, infatti, sono ritenute essere ancora più salde delle scienze; tra queste, poi, le più stimabili sono anche le più stabili, dal momento che coloro che vivono beatamente trascorrono in esse, in massima parte e in modo massimamente continuo, la loro esistenza; questa infatti, a quanto pare, è la ragione per cui non vengono più dimenticate. Quindi le caratteristiche che cerchiamo apparterranno alla persona felice ed egli sarà tale per tutta la vita; infatti sempre, o soprattutto, compirà le azioni secondo virtù e si dedicherà alla contemplazione, e sopporterà in modo estremamente dignitoso le vicende della sorte, in ogni occasione, con eleganza, come si confà a chi è davvero virtuoso, saldo e senza macchia. Siccome, poi, le vicende della sorte sono molte, e differenti tra loro per grandezza e piccolezza, le piccole fortune, come pure le piccole sfortune, è evidente che non hanno alcun peso all’interno dell’esistenza, mentre quelle grandi, e che si verificano in gran quantità, se positive, rendono la vita più beata (infatti, prese per sé, adornano l’esistenza e noi le utilizziamo in modo bello e moralmente retto) mentre, se si verifica il contrario, riducono e oscurano la beatitudine; infatti comportano dolori e impediscono molte attività. Ciononostante, anche in questi casi, risplende il bello morale, se uno è capace di sopportare molte e grandi sventure con animo sereno, non perché è insensibile ma perché è nobile e fiero. E se, come abbiamo detto, le attività costituiscono l’elemento più importante dell’esistenza, nessun individuo beato potrà mai diventare misero; infatti non compirà mai azioni odiose e riprovevoli. Noi infatti riteniamo che l’individuo veramente virtuoso e saggio sarà in grado di sopportare tutti gli eventi della sorte in modo decoroso, saprà sempre compiere le azioni più belle tra quelle che gli si presentano […]. Se le cose stanno così, chi è felice non diventerà mai misero […]. E neppure sarà un individuo incostante, né sarà volubile […]».
Aristotele, Etica Nicomachea, Libro I, 10, 1100 b 15-35 – 1101 a 1-10, in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 469-471.
– Sono tutti libri antichi? – chiese Rina. – Sì, tutti i libri del mio negozio sono antichi. Più sono vecchi e più hanno fascino. – …fascino? – Esatto! I libri hanno il potere di attirare le persone e influenzare le loro scelte. Sta in questo il loro fascino. – Quando sono entrata ho sentito un odore simile a quello che c’è nelle biblioteche – disse Rina. – Ma certo: i libri si impregnano anche dell’odore delle persone che li hanno letti. E a me interessa solo questo tipo di libri – sorrise Naata.
Sachiko Kashiwaba, La città incantata al di là delle nebbie, trad. dall’inglese di Marta Fogato, Kappa Edizioni, Bologna 2011, pp.32-33.
Costanzo Preve ha analizzato la totalità sociale con gli occhi dell’intelligenza filosofica praticando la libertà dalle strutture di potere. Chiede di essere giudicato non sulla base di illusorie appartenenze di gruppo, ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche
Intellettuali ed alienazione simbolica
La crisi della funzione dell’intellettuale è speculare alla crisi che coinvolge ogni settore della vita sociale ed economica. La totalità del sistema sociale in cui viviamo è falsa. È l’assurda “verità” della condizione contemporanea con l’aggravante che il falso non provoca scandalo. Non vi sono alzate di scudi contro la società dello spettacolo-mercato. Anzi, è osannata e portata religiosamente sugli altari per essere adorata. Ogni manifestazione della vita relazionale è segnata dall’assenza di verità, ogni azione reca in sé finalità acquisitive. Per raggiungere tale obiettivo si recita il falso: lo si insegna con linguaggio orwelliano, si chiama «educazione all’impresa». Si deve imparare a conoscere l’altro, a comprenderne i gusti e le fragilità per poterlo attrarre ed eventualmente saccheggiare. Il falso – in una perversa conversione del bene in male – è la legge che regna, è la finalità di ogni “educazione”. Nessuna educazione sentimentale, ma soltanto educazione al calcolo ed al cinismo. Nella vendita globale, nell’entificazione di tutti e di tutto, ciascuno vende ciò che può: c’è chi vende la propria immagine, perché sul mercato non ha altro da offrire. La svalorizzazione dell’essere umano è la legge del totalitarismo del mercato. Gli ultimi tra i sussunti sono costretti a vendere il proprio corpo che diviene un feticcio da adorare in una sorta di pubblica regressione pagana. I dominati spesso sono i complici inconsapevoli del sistema, non hanno conosciuto altro che la totalità come falsità. Dopo la caduta del muro nel 1989 il modello unico della ragion liberale – ormai senza katechon (limite) alcuno – governa. Nella società che si dichiara la più pluralista della storia, governa il modello unico del mercato, il quale è entrato nelle relazioni, nell’ordine dei concetti, nel corpo vissuto (Gestell): fuori dal mercato non vi è nulla. Un perverso essere parmenideo è planato tra di noi, assimila tutto, non ammette contrapposizioni dialettiche. L’asservimento alla nuova divinità totalitaria non potrebbe essere più completa, l’alienazione è diventata la legge della nuova libertà senza trasgressione, perché tutto è permesso, purché non si pensi. Il mercato come modello di vita non ha nessun livello assiologico, vive dell’irrilevanza. In questo contesto l’intellettuale, come gruppo sociale, è parte della totalità del falso. È il gruppo sussunto dai dominatori della finanza, il gruppo che si fa mediatore simbolico del falso.
Il potere dispone non solo dei corpi e dei comportamenti, ma specialmente delle parole. Gli “intellettuali” – che dovrebbero liberare mediante la parola – hanno invece impoverito il lessico, eliminato il congiuntivo, modo della possibilità, per il solo indicativo, modo della certezza, inaugurando l’alienazione del linguaggio.[1] Il linguaggio scurrile, che ammicca al linguaggio del popolo, è il modo più immediato per ottenere il consenso e condizionare i subalterni per spingerli nella gabbia del mercato. Il linguaggio non è più simbolo[2] che unisce, ma strumento perverso di inclusione. Gli “intellettuali” sono un gruppo divisorio, il loro intento è sussumere ed atomizzare, in quanto prezzolati dal potere. Giornalisti ed accademici divengono parte della struttura di potere, la clonano, la riproducono. Il simbolo, nel suo significato profondo, è unione, è parte dell’essenza della comunicazione, mette in comune per completare una prospettiva, per unire informazioni e giungere al concetto. Gli “intellettuali” invece lavorano, affinché questo non avvenga, al concetto hanno sostituito la chiacchiera (Gerede) con cui estraniare ciascuno da se stesso e dal mondo storico. L’alienazione linguistica è derealizzazione organizzata, un crimine contro l’umanità su cui regna il silenzio.
Costanzo Preve “intellettuale anomalo”
I “no” sono stati detti, sono rari, e per questo immensamente preziosi. Costanzo Preve ne è un esempio. Si è congedato dall’intellettuale “impegnato”, in quanto onnipresente, e limitrofo alla cultura del fare e dell’apparire. L’intellettuale impegnato rischia di essere parte del narcisismo socialmente integrato. L’impegno declinato in presenza dei media rischia di trasformarsi in attivismo narcisistico. Inoltre, la presenza ipertrofica dell’immagine comporta che l’intellettuale diventi parte del circo mediatico, perché per utilizzarlo deve pagare il pedaggio dell’onnipresenza visiva con la propria onestà intellettuale. L’alternativa all’intellettuale impegnato è stata l’intellettuale organico, il quale inevitabilmente diviene parte di un meccanismo: il partito e il movimento. Se si è parte di un sistema è inevitabile il compromesso, lo schierarsi parziale ed ideologico:
«Nel mio caso la prima decisione esistenziale (fine anni Cinquanta – inizio anni Sessanta) fu quella di non accettare l’insieme di valori adattativi al capitalismo della visione del mondo piccolo-borghese dell’Italia dell’epoca e di “contestarli”, ed in qual periodo storico il cosiddetto “marxismo” costituiva il principale modo di farlo (non l’unico, ce ne erano anche altri, il neofascismo, l’anarchismo, gli stili di vita detti “alternativi”, eccetera). Il “marxismo” era così assai spesso scelto esistenzialmente senza neppure conoscerne gli elementi minimi filosofici, sociologici ed economici, conoscenza che veniva dopo. Non si diventava “comunisti” dopo aver studiato il marxismo, ma si diventava “marxisti” dopo essersi autoproclamati esistenzialmente comunisti. In questo, niente di nuovo. La storia ci offre molti esempi di questo tipo. E tuttavia la prima “eresia” che caratterizzò la mia iniziazione al marxismo stava in ciò, che nell’ambiente che mi era più vicino (la piccola borghesia di Torino di “sinistra”) le due modalità ideologiche dominanti erano quelle dell’antifascismo azionista e dell’operaismo sociologico di identificazione. Entrambe mi erano profondamente estranee, esistenzialmente e culturalmente (inutile qui scendere in dettagli), per cui il mio “tradimento” del profilo identitario piccolo-borghese di integrazione subalterna nel capitalismo non mi portò ad un approdo collettivo nuovo in cui riconoscermi, ma da un’inedita solitudine. Dato il mio sostanziale disinteresse sia per l’antifascismo azionista (Bobbio, Antonicelli, eccetera) sia per l’identificazione operaistica (Panzieri, estremisti gruppettari successivi), il mio approdo al marxismo fu un approdo al marxismo “in solitudine”. Questo non significa affatto – ovviamente – non avere contatti permanenti, amici, compagni, ed anche estimatori. Significa però relazionarsi con i gruppi “militanti” organizzati come ci si relaziona con un autobus di linea. Lo si prende, ma si sale e si scende alla fermata che ci sembra più opportuna. Dato il clima intellettuale del periodo storico (1956-1991), che poi in una mia opera ho connotato come “tardomarxismo”, non potevo che essere attratto dalla figura dell’ “intellettuale”, nella doppia versione dell’intellettuale impegnato (Sartre) e dell’’intellettuale organico (Gramsci). Oggi sono lontanissimo da questi due profili, e non mi considero più nemmeno un “intellettuale”. So bene che all’interno della divisione del lavoro fra lavoro intellettuale e lavoro manuale ed all’interno di una gerarchia differenziale di conoscenze e di competenze specifiche di fatto si è spesso “intellettuali”, lo si voglia o non lo si voglia, in quanto produttori di profili ideologici articolati e sistematizzati che hanno poi una “ricaduta” ed un utilizzo manipolato da parte di ceti politici specializzati (intellettuali di “sinistra”) o da parte di apparati oligarchici di potere economico con il loro accompagnamento corale giornalistico (“opinione pubblica”, eccetera). E tuttavia gli intellettuali, a partire da fine Ottocento, sono un gruppo sociale specifico che non deve essere assolutamente confuso con gli studiosi, gli specialisti, gli artisti, gli scienziati, i filosofi, eccetera. Tutti costoro possono anche essere “intellettuali”, così come un medico può anche essere velista ed un avvocato può essere anche cacciatore. E tuttavia, gli intellettuali in quanto tali sono soprattutto produttori specializzati di profili ideologici articolati, arricchiti e sistematizzati. Nel mondo di “sinistra” della seconda metà del Novecento i due profili principali di intellettuale erano le figure convergenti e largamente complementari di intellettuale “impegnato” (Jean-Paul Sartre) e di intellettuale “organico” (Antonio Gramsci). Io ho cercato sinceramente di essere entrambi, ma ora ho cambiato idea. Vale la pena dire – sia pure brevemente – il perché. L’intellettuale impegnato (engagé) è quello che si impegna per le cause giuste contro quelle ingiuste (popoli del terzo mondo, classe operaia, sfruttati, eccetera). Tutto questo è molto nobile, corretto e non mi sogno certamente di criticarlo. E tuttavia non possiamo non riflettere sulla sua evoluzione. Oggi chi si impegnava per i popoli rivoluzionari si impegna per l’esportazione imperialista armata dei cosiddetti “diritti umani”, oscena protesi ideologica dell’impero americano distruttore della legalità internazionale. Se infatti il criterio fondamentale non è quello della comprensione del mondo ma è quello dell’ “impegno”, si passa la vita in una frenetica staffetta da un impegno ad un altro, con esiti inevitabilmente narcisistici ed autoreferenziali. Inoltre, con esiti soggettivistici. Ad esempio, Sartre si “impegnava” per l’Algeria, ma per la Palestina no (probabilmente per il timore di essere considerato “antisemita”). Ma gli oppressi si difendono da soli, ed hanno bisogno prima di tutto che si comprenda e si rispetti la loro causa, senza bisogno di grilli parlanti o di “funzionari dell’umanità”. L’intellettuale organico è l’intellettuale che, sulla base dell’interpretazione dicotomica del capitalismo come modo di produzione permanentemente scisso in polo borghese e polo proletario, si schiera contro la Classe Borghese per la Classe Proletaria. Ma dal momento che la classe in sé e per sé è una pura astrazione nella sua immediatezza diretta di fabbrica (a meno che si sia anarcosindacalisti e/o “operaisti”, ma è lo stesso), di fatto essere “organici” significa scegliere l’organicità ad un determinato partito o gruppo politico. Ma questa organicità non è che una forma di subalternità introiettata, che mette al servizio di gruppi specializzati di politici la funzione intellettuale di comprensione della società. Il fallimento è assicurato, ed il Novecento ne è stato uno scenario teatrale gigantesco. Con tutti i miei difetti soggettivi, psicologici e caratteriali, e con tutte le mie insufficienze oggettive, scientifiche e filosofiche, rivendico però a mio onore l’avere capito fino in fondo che l’autoidentificazione illusoria e fantasmatica con il gruppo sociale degli “intellettuali”, impegnati e/o organici che siano, non poteva che svilupparsi dialetticamente verso la rovina e l’autodissoluzione, che sono comunque sotto i nostri occhi (Veltroni, Sarkozy, eccetera). Gli intellettuali sono una forma moderna e postmoderna di clero, sia pure un clero non tenuto al celibato ma anzi invitato alla libera scopata postfamiliare. Eretico o ortodosso, giornalistico o universitario, celibe o scopatore, un clero rimane clero. Non dico che un clero non sia talvolta necessario. A volte lo è. Ma oggi il problema non è quello di aggregarsi per produrre collettivamente (inesistenti) profili ideologici articolati e sistematizzati per uso politico, ma di differenziarsi dai greggi esistenti per tentare di avanzare ipotesi teoriche radicalmente nuove. Questo è impossibile se si intende compatibilizzare l’avanzamento di questa ipotesi con l’appartenenza a gruppi intellettuali oggi esistenti, il cui conservatorismo è tale da produrre automaticamente l’esclusione del reo. Termino allora qui questa modesta autocertificazione. Il signor Costanzo Preve è stato a lungo un “intellettuale”, sia pure di seconda fila e non di prima. Ma oggi non lo è più, e chiede di essere giudicato non più sulla base di illusorie appartenenze di gruppo, ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche. E di queste cominceremo finalmente a parlare».[3]
Costanzo Preve non si giudicava un “intellettuale”, sottolineava la sua distanza dal circo mediatico, dal clero degli oratores, il nuovo clero dedito al meritricio della parola e non solo… Si giudicava un pensatore divergente. Divideva i pensatori in due classi: i convergenti ed i divergenti. I primi convergono verso percorsi sicuri ed accademici, i secondi sfuggono dal branco e dalle convenzioni, per divergere verso orizzonti che nessuno ha calpestato. Possono anche perdersi e sbagliare percorso, ma l’spetto più importante del pensatore è rischiare il nuovo, aprendo una breccia nella cappa plumbea del “politicamente corretto”. Il prezzo della libertà può essere la marginalità – spesso non priva di sofferenze – dai circuiti del potere costituito, ma non vi è altro modo se si vuole creare e comunicare un messaggio emancipativo. Socrate è il modello di Costanzo Preve: in un momento in cui la verità pare essere la vergogna da cui fuggire, il dialogo, il logos divengono la trasgressione massima. Soprattutto non l’immagine deve parlare, ma la parola, perché il logos si approssima all’universale con la parola significante, il resto è secondario.
Abbiamo necessità di parole e non di immagini, per questo necessitiamo di modelli che ci ricordano che un altro modo di vivere è possibile. La missione dell’intellettuale che vive e cerca in spirito di verità è quella di testimoniare che dalle lusinghe del falso e del potere ci si può congedare e che l’atteggiamento adattivo ed inclusivo è una delle possibilità del vivere, ma non l’unica, e non certo la migliore. L’intellettuale dev’essere intelligente. Questa affermazione sembra una banalità, ma non lo è. La parola intelligenza deriva da intus legere, leggere dentro. La persona intelligente deve insegnare ad andare oltre l’immediatezza e la riproduzione del falso, per essere veicolo di verità.
Per poter guardare la totalità presente con gli occhi dell’intelligenza bisogna praticare la libertà dalle strutture di potere, con annessi stereotipi. Significa impegno, ma non accettando l’asservimento ideologico all’istituzione che lo vuole ai ceppi.
Salvatore Bravo
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[1] Costanzo Preve, Storia critica del marxismo, La Città del Sole, Napoli 2007, pag. 112.
[2] Il termine “simbolo” deriva dall’unione del prefisso σύμ– (sym-), “insieme” con il verbo greco βάλλω “getto”, letteralmente significa quindi “mettere insieme”.
[3] Costanzo Preve, Autopresentazione di Costanzo Preve [Scritta da lui medesimo].
«L’amore fa saltare in aria le artificiali categorie della convenzione sociale. Scavalca la laboriosa prosaicità della Prassi e del lavoro; come nell’ebbrezza onirica della notte, la distinzione di possibile e impossibile tende a dissolversi. … Ogni possibile sarà alla portata di tutte le creature. Forse ci sono nell’universo molti possibili che si perdono, molte virtualità di riserva che intristiscono in mancanza di un’eventualità che ne susciti l’attualizzazione. L’avventura esplora le possibilità nascoste nello sconforto o sopite nell’uggiosa beatitudine. Allora ognuno potrà dare un saggio della propria bravura. Ci saranno possibilità per tutti! […] e a ognuno verrà riservata la sua parte di possibili. L’avventura libera il campo al centro del reale perseguendo oasi di fervore e intensità; ridà vita all’istante picaresco, esalta la deliziosa sdrucitura dell’esistenza.
[…] Quando l’uomo, riconciliato con il divenire, accoglie il succedersi dei giorni come un gratuito dono di cui si riconosce destinatario, ringrazia la nuova luce del nuovo mattino e della nuova primavera, accetta la nuova stagione dell’ anno come un dono al quale non aveva diritto, quando la sua riconoscenza per questa grazia inattesa gli dischiude il gioioso avvenimento di qualcosa d’altro, allora l’uomo convertito al carattere insolito dell’istante si meraviglia di trovare l’avventura nella vita più quotidiana; la trova nell’atto di aprire le persiane al mattino, […] nel germogliare della primavera dall’inverno […]. Nelle vite più meticolosamente regolamentate, l’uomo si scopre disarmato, privato dei propri mezzi, sorpreso quando meno se l’aspetta dall’irruzione della congiuntura e dall’istante imprevedibile.
[…] Quando la vita, che pure è il nostro tutto, e che in questo costituisce la serietà per eccellenza, spicca sul fondale del nulla, può apparire anch’essa come un’avventura assai bizzarra. […] Si conoscono le indimenticabili riflessioni che Pascal e Schopenhauer hanno dedicato alla gratuità della nascita, alla stranezza dell’esistenza e allo stupore provato dall’uomo nel trovarvisi dentro. E il vivente percepisce allora questa vita, che pure è unica, come provvisoria, frammentaria e segmentata quanto un pellegrinaggio.
Un celebre dipinto di Rembrandt, ora conservato presso il Museo di Amsterdam, ci farà forse comprendere la funzione dell’avventura. Nella Ronda di notte, posto in basso e a destra rispetto al centro del quadro, un uomo vestito di giallo emerge dalle tenebre che avvolgono quasi totalmente la scena. Cosa significa quell’uomo color oro di cui un poeta contemporaneo, J. Cassou, ha parlato in termini così ammirevoli? Non saremo noi a tentare la risposta. Ma sarebbe bello pensare che quest’uomo dorato costituisca il principio dell’avventura. Nell’oscurità della notte, l’uomo porta luce. […] Per la ronda che compie il suo giro nelle tenebre notturne senza sboccare da nessuna parte, l’uomo luminescente, l’Ulisse dei tempi moderni, indica l’apertura […]. L’uomo luminoso è il principio temporale che indica alla ronda notturna il cammino dell’aurora.
Vladimir Jankélevitch, L’avventura, la noia, la serietà, Introduzione di Enrica Lisciani-Petrini, Einaudi, Torino, pp. 33-35.
«Se io allora dico qualcosa, che non è un’immediata indicazione pratica, ma solo contemplazione e fondazione filosofica, non perdo comunque di vista la prassi: perché anche questo deve aiutare a raggiungere quella disposizione pedagogica, che dà alla pratica del singolo compito il suo giusto tono e la giusta intenzione, ma che non si può raggiungere con uno studio rigidamente limitato a questo singolo compito, bensì solo penetrando nelle stratificazioni più estese e costitutive» (Georg Simmel, L’educazione in quanto vita, a cura di A. Erbetta, Il Segnalibro, Torino i1995, p. 6).
«È decisamente meglio che un cattivo metodo e un cattivo sistema didattico siano esercitati da un pedagogo valido, piuttosto che un cattivo pedagogo si serva di eccellenti princìpi oggettivi e contenuti didattici. […] Nella pedagogia, «ogni sapere è un mezzo che mira alla formazione dell’uomo, e ha bisogno quindi di un ordine del tutto diverso da quello in cui è fine a se stesso. All’interno di questa finalità della pedagogia che sono i soggetti umani si aprono indirizzi di carattere soggettivo e oggettivo, il cui chiarimento è indispensabile per un’analisi più profonda dei compiti del pedagogo (ivi, pp. 6-7).
«La lezione non è un semplice trapianto di contenuti conoscitivi, ma una funzione che porta in sé il contenuto. Questo contenuto non può consistere in una forma rigida e chiusa in sé, bensì deve dissolversi nell’attività dell’insegnante. Ogni singola ora deve essere organizzata in modo da promuovere con l’argomento trattato le preziose qualità dell’alunno: capacità di concentrazione, interesse oggettivo, coscienziosità, giudizio, capacità di discernimento dei valori, presenza di spirito, facoltà combinatoria, sincerità» (Ivi, 41).
«La scuola stessa deve incitare e permettere che la cerchia di interessi e le attività degli alunni si spingano al di là della scuola stessa» (ivi, p. 43)
«Non si dovrebbe mai pronunciare la parola stupidità di fronte a uno scolaro; perché la stupidità dello scolaro non è un oggetto di rimprovero per chi ne è affetto. Stupidità è un insulto che non può mai comparire, perché bisogna che lo scolaro impari che non bisogna mai insultare» (ivi, p. 145).
«Nessuna materia deve essere insegnata ai fini del puro sapere, o perché qualcosa che già si trova in un libro venga inciso in una coscienza nella stessa forma irrigidita» (Georg Simmel, Il conflitto della civiltà moderna, trad. It. di G. Rensi. Edizioni Immanenza, Napoli 2014, p. 29)
«Partire dalla vita è una condizione fondamentale. L’insegnante non perda occasione per indagare le esperienze dello scolaro, per dare loro un senso, un nesso, una valorizzazione interiore ed esteriore. Deve verificare lo spirito filosofico per il quale da ogni punto dell’essere superficiale parte una linea retta collegata alle profondità fondamentali» (ivi, p. 31).
Dal 13 luglio 2020 due piazze fiorentine si sono improvvisamente animate, invase da un minaccioso branco di lupi. Wolves Comingè il nome della complessa installazione realizzata dall’artista cinese Liu Ruowang, che sarà esposta a Firenze fino al 2 novembre 2020. L’opera è composta da un centinaio di lupi fusi in ghisa, del peso di circa 280 kili l’uno, disposti tra piazza Pitti e piazza Santissima Annunziata dove, in quest’ultimo caso, sono posizionati nell’atto di accerchiare minacciosamente la statua di un uomo posta al centro del branco. Figura quest’ultima che, come vedremo, può variare di volta in volta: in due precedenti versioni della stessa installazione al centro del branco, al posto della statua dell’uomo, erano infatti presenti una replica della Pietà vaticana o una grande catasta di libri. I vari elementi, fusioni in ghisa realizzate a stampo, presentano numerose imperfezioni e difetti di fusione, lasciati volutamente visibili sotto alla patina color ruggine. L’installazione, che era già apparsa in Italia (a Venezia, Torino e Napoli prima che a Firenze), è oggettivamente accattivante e ancora in grado, dopo molte uscite, di suscitare l’interesse e la simpatia del pubblico. Pubblico che spesso interagisce con essa dimostrando una certa disinvoltura, insolita nell’usuale dimensione del rapporto con le cose dell’arte. Non è infatti raro vedere persone salire a cavalcioni sui lupi, magari facendosi fotografare, e questo tipo di comportamento non deve né stupire né tantomeno scandalizzare, essendo stato perfettamente previsto e addirittura incentivato dall’artista stesso che, in più occasioni, ha affermato di aver scelto di lavorare su questa scala proprio per stimolare un certo tipo di relazione con il pubblico. L’evento è stato organizzato dalla galleria Lorenzelli arte di Milano e durante il giorno dell’inaugurazione fiorentina erano presenti numerose personalità di rilievo, tra cui il direttore degli Uffizi Eike Schimdt, il console generale della Repubblica cinese Weng Wengang, e il sindaco di Firenze Dario Nardella. Al di là delle valutazioni di carattere estetico o tecnico che possono essere fatte è utile (e forse anche doveroso) chiedersi quale sia la lettura dell’installazione, quale sia il suo senso. In merito a ciò è intervenuto anche lo stesso Liu Ruowang, che in un’intervista ha affermato:
«Volevo simboleggiare la preoccupazione dell’animo umano dopo la crisi del 2007, ma l’opera ha anche un altro significato. Il lupo è un animale che lavora in branco, ed è proprio dall’unione delle forze che l’uomo può superare le sue difficoltà».
Andando oltre le spiegazioni che un artista può dare della propria opera che, come spesso accade nella storia dell’arte, hanno poca o addirittura nessuna importanza, è interessante vedere come lo stesso Liu Ruowang ci indichi sommessamente che Wolves Coming possa avere molteplici interpretazioni. In Italia la critica d’arte, o più genericamente la stampa, ha voluto tuttavia privilegiare una lettura dell’opera in senso esclusivamente ecologista. La lettura per cui i lupi rappresenterebbero una reazione della natura, che si ribella contro le ingiustizie perpetrate dall’uomo nei suoi confronti, simbolizzato dalla figura al centro del branco. Questa interpretazione però non sembra molto pertinente, e non resiste a una più attenta analisi.
Prima di cercare di comprendere perché quest’interpretazione non sembra la più convincente, vale la pena riportare una serie di affermazioni, apparse sulla scia della lettura ecologista. Leggiamo per esempio le parole del sindaco di Napoli De Magistris:
«[…] giunsero da noi in autunno e li accogliemmo nella grande piazza Municipio, pronti a sollecitare il dovere morale di tutelare l’ambiente e custodirlo in buona saluta per le generazioni che verranno […] [i lupi; n.d.a.] ci hanno poi osservato per tutta questa amara primavera, incalzandoci a cercare un rapporto più equilibrato con la natura». Sulla rete, poi, non è difficile imbattersi in veri e propri voli pindarici come questo che segue: «Il minaccioso branco di lupi che sembra attaccare un imponente guerriero è un’allegoria della risposta della natura alle devastazioni e al comportamento predatorio dell’uomo nei confronti dell’ambiente, ed è al contempo una riflessione sui valori della civilizzazione, sulla grande incertezza in cui viviamo oggi, resa ancora più evidente dai drammatici effetti del Covid 19 e sugli effettivi rischi di un annientamento irreversibile del mondo attuale […] i lupi sono un appello disperato alla salvaguardia ambientale di tutto il pianeta». C’è anche chi, con fare amletico, si interroga circa le intenzioni del branco: «I lupi ci attaccano o siamo piuttosto noi ad attaccarli ? Può esserci invece un equilibrio durevole fra noi e loro e in generale tra uomo e natura?».
Come si vede, il tema è sempre e solo quello: l’ambiente e la sua salvaguardia. Ma è davvero questa la lettura più calzante? Cerchiamo di ragionare in modo non ideologico e analizziamo la struttura iconografica dell’opera: i lupi sono minacciosi, il loro aspetto è sinistro e violento; la figura dell’uomo accerchiato dal branco mantiene invece un aspetto nobile e disciplinato, tutto in essa sembra trasmettere un senso di compostezza, di forza interiore, anche un’antica attitudine al sacrificio e all’abnegazione. A essere onesti è davvero difficile identificare questo personaggio con il prototipo del moderno inquinatore, dell’uomo distratto, viziato e vizioso, incurante dell’ambiente che lo circonda.
Se dovessimo trovare una matrice di riferimento per la figura di questo guerriero forse dovremmo guardare alle immagini delle antiche divinità-guerriere della tradizione confuciana, o, in tempi più recenti, a certa statuaria propagandistica di epoca maoista. In quest’ultima accezione, anzi, è curioso come il tema dell’accerchiamento presente nell’opera sembri riproporre, nella sua drammatica teatralità, il noto episodio narrato dall’ambasciatore indiano Menon e riportato anche da Eugenio Corti nel suo bellissimo Processo e Morte di Stalin, in cui il dittatore sovietico traccia con mano distratta il disegno di un uomo, un contadino cosacco accerchiato dai lupi: potente metafora della di lui situazione, minacciato da quelli che considerava essere i nemici del socialismo.
Occorre anche ricordare che, in due delle precedenti volte in cui l’installazione è apparsa in Italia, l’opera presentava delle fondamentali variazioni. Nel caso dell’allestimento alla Biennale di Venezia, nel 2015, al posto della figura del guerriero era presente una replica della Pietà vaticana; nella versione in mostra a Torino, sempre nello stesso anno, era invece presente una grande catasta di libri. Ci dovremmo chiedere come sia possibile che l’artista abbia deciso di sostituire due ideali alti e nobili, come la Pietà di Michelangelo, simbolo della bellezza delle arti e della nobiltà dei sentimenti dell’uomo, e la grande pila di libri, evidente metafora di cultura e progresso, con una figura così disdicevole, che rappresenterebbe gli aspetti più meschini, brutali e nefasti dell’essere umano, sovvertendo completamente la dinamica dell’installazione e invertendo le parti, scambiando il bene con il male potremmo dire. Francamente non sembra credibile. In definitiva credo che per comprendere quest’opera, più che alle sia pur lodevoli istanze ecologiste si debba far riferimento alla politica e ai miti a essa legati. Sappiamo bene che non esistono letture definitive di un’opera d’arte, e che questa muta i suoi valori di riferimento nel tempo e nello spazio, esattamente come sempre differenti sono gli occhi di chi la contempla. Esiste però la possibilità di ricostruire parzialmente i passaggi che hanno portato un autore alla creazione di una determinata opera. Per questo tipo di operazione è però necessario tenersi a debita distanza da facili conclusioni preconfezionate, molto utili magari ai fini commerciali ma fuorvianti rispetto a quelli di un’indagine onesta e rigorosa.
Per risalire alla genesi di Wolves Coming credo si debbano ricordare alcuni fatti esterni, legati alla pubblicazione di un celebre libro, Wolf Totem, dello scrittore cinese Lu Jiamin. Da questo best seller nel 2015 il regista francese Jean-Jacques Annaud trasse un film (presentato anche nelle sale italiane con il titolo di L’ultimo lupo), una pellicola formalmente ineccepibile e caratterizzata da una forte componente ecologista. Sebbene il successo ottenuto dal film abbia sicuramente contribuito alla diffusione del romanzo in Occidente, non si può non riconoscere che Annaud abbia in parte tradito il profondo messaggio sociopolitico racchiuso nelle pagine di Jiamin. Wolf Totem, già dalla sua prima pubblicazione in Cina nel 2004, ha rappresentato un vero e proprio caso letterario: romanzo in gran parte autobiografico, narra le vicende di una giovane ex-guardia rossa che, nei duri anni della rivoluzione culturale, sceglie la via dell’autoesilio presso le popolazioni della Mongolia Interna, dopo essere stato bollato in patria come controrivoluzionario. In un’intervista rilasciata molti anni più tardi Jiamin ammetterà che la scelta dell’autoesilio fu dettata principalmente della consapevolezza che l’isolamento, in una terra selvaggia e inospitale come la Mongolia, gli avrebbe concesso più tempo e tranquillità per dedicarsi alla lettura di testi diventati proibiti, gli stessi libri che solo pochi anni prima, come membro del partito, aveva contribuito a distruggere. Fu in questo lungo decennio di esistenza nomade a contatto con le popolazioni locali che il protagonista del romanzo (alter ego dello scrittore) imparerà ad apprezzare il carattere indomito e fiero del popolo mongolo, così diverso da quello dei cinesi di etnia Han, cui lui apparteneva. I discendenti di Gengis Khan erano gente dura, abituata a combattere per sopravvivere: lo spirito del lupo, l’animale totemico delle popolazioni mongole delle origini, sembrava pervadere ogni aspetto di questa cultura antica e misteriosa. Leggiamo a questo proposito un estratto del romanzo davvero molto significativo:
«I cinesi adorano il drago perché ritenevano che regolasse i ritmi della natura distribuendo equamente fortuna e avversità, la verità è che noi ci siamo isolati dal resto del mondo, ci siamo chiusi nello splendore del nostro recinto. Si, la storia cinese sarebbe stata diversa se avessimo avuto più familiarità con i lupi. Gengis Khan aveva rovesciato le più potenti e splendide dinastie e ridotto in polvere lo sterminato impero cinese, patria di Sun Zu, il grande stratega. Uomini incolti e barbari avevano terrorizzato mezzo mondo perché avevano i lupi, maestri eccezionali di strategia bellica. Se i cinesi vogliono uscire dal proprio nido e conquistare il mondo, devono fare come i nomadi ed essere più determinati e convinti».
Questo genere di affermazioni, a carattere fortemente politico e simbolico, hanno suscitato un interesse enorme in Cina nei confronti dell’autore del libro, comprese reazioni di violenta protesta. Non c’è però stata l’attesa censura da parte del governo, e Jamin stesso acutamente ipotizza che qualcuno, a livello governativo, possa aver apprezzato il significato del libro, e dice:
«[…] da una parte i cinesi sono rimasti affascinati dal lupo: per secoli nella nostra cultura è stato un simbolo del male, una forza oscura, invece nella mia storia mongola è un Dio, oltre che il simbolo della nostalgia per la natura incontaminata».
Particolare attenzione meritano queste ultime parole, in cui vediamo emergere la componente ecologista legata al tema del branco di lupi, quella componente che sarà sviluppata e privilegiata da Annaud nel suo film, e che la stampa italiana ha visto come unica chiave di lettura nell’installazione di Liu Ruowang. Continuando nella lettura del romanzo si incontrano anche parole straordinariamente dure, che colpiscono per la loro candida brutalità:
«Noi cinesi Han non capimmo la forza dei valori mongoli, siamo stati condizionati dal buddismo, una religione fatta per i deboli e i perdenti, i veri eredi del nomadismo mongolo sono storicamente gli imperi navali e mercantili dell’Occidente, Spagna Inghilterra e America. Oggi i cinesi si accorgono che i valori del lupo sono più adatti per combattere nell’economia di mercato. Inoltre il carattere del lupo, come lo descrive la mitologia mongola, si adatta perfettamente all’economia di mercato: è aggressivo, libero e intraprendente, ha un forte senso della competizione ma sa anche disciplinare i suoi istinti dentro a un gioco di squadra».
Inoltre, come sottolinea un articolo apparso su La Repubblica nel 2006, dietro alla popolarità di questo romanzo affiora una Cina che prende le distanze dal pensiero confuciano, che, da sempre avverso all’individualismo, si caratterizza per un profondo senso dell’ubbidienza e della subordinazione. Leggiamo in questo stesso articolo anche alcune interessanti notizie, che forse possono essere utili per comprendere il senso che la figura del lupo assume all’interno del romanzo e come questa sia direttamente collegata ad alcuni importanti mutamenti sociali in atto in Cina:
«Il Totem del lupo è esaltato come una nuova bibbia del capitalismo cinese, amatissimo dal manager e giovani professionisti in carriera, nelle business school che formano la classe dirigente molti docenti usano il romanzo per formare giovani ai valori darwiniani della nuova Cina, iper-selettiva, competitiva, meritocratica, spietata nell’accettazione delle crescenti disuguaglianze sociali. Gli allenatori olimpici lo prescrivono come lettura obbligatoria ai giovani atleti e addirittura molti generali dell’esercito di liberazione popolare hanno introdotto questo testo nelle accademie militari».
In conclusione non sembra improbabile che dietro alla gestazione artistica di Wolves Coming nel 2010, anno in cui l’opera fu concepita, si celi una rielaborazione critica di un fenomeno sociale che stava emergendo in tutta la sua drammatica virulenza, previsto se non addirittura teorizzato già molti anni prima dal libro di Jiamin. In questa prospettiva occorre domandarsi come sia possibile credere alla favola bella per cui i lupi sarebbero presenze tutto sommato positive, incarnanti lo spirito della natura, come ci viene sistematicamente proposto dalla stampa, oppure se non sarebbe più corretto pensare che nelle intenzioni recondite dell’artista essi rappresentino piuttosto la mostruosa deriva che sta prendendo la società cinese attuale; dove lo stravagante ircocervo liberal-socialista, di cui già parlava Benedetto Croce, sta mutando in una pericolosa chimera, incapace di trovare un qualsivoglia equilibrio tra le nature così diverse che la compongono.
È troppo azzardato spingersi a sostenere che Wolves Coming sia coraggiosa arte di protesta sociale travestita da denuncia ecologista per fini puramente commerciali? Chi sono veramente i lupi e Liu Ruowang, se così possiamo dire, di chi è al servizio? Credo che l’installazione potrebbe essere intesa come il manifesto ideologico di una corrente politica conservatrice, avversa alla rivoluzione social-capitalista in atto in Cina. Non dimentichiamo a questo proposito che dietro l’apparente solidità del sistema governativo cinese si agita un mare in tempesta, e lo stesso Xi Jinping può essere visto come il rappresentante di un’élite politica che, nel decennio precedente alla sua elezione, sembrava messa in minoranza, quasi che le vecchie idee del socialismo cinese dovessero essere rapidamente e definitivamente cestinate a favore di un incontrollato sviluppo economico di tipo ultra liberista. Non è dunque improprio pensare che Liu Ruowang, come molti cinesi del XXI Secolo, veda nell’avanzata di questa forma arrembante di capitalismo una minaccia agli antichi valori della cultura, della tradizione e, in una certa misura, anche dell’eguaglianza sociale. E non è altrettanto improprio pensare che i lupi, tutt’altro che creature pacifiche e ben auguranti, non siano altro che l’immagine spettrale di un angosciante futuro, che si avvicina rapidamente e contro il quale la lotta appare ormai impari.
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