«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
La gioventù non è un periodo della vita, è uno stato d’animo non è una questione di guance rosee, labbra rosse e ginocchia agili è un fatto di volontà, forza di fantasia. Vigore di emozioni: è la freschezza delle sorgenti profonde della vita. Gioventù significa istintivo dominio del coraggio sulla paura, del desiderio di avventura sull’amore per gli agi. E spesso se ne trova di più in un uomo di 60 anni che in un giovane di venti. Nessuno invecchia semplicemente perchè gli anni passano. Si invecchia quando si tradiscono i propri ideali. Gli anni possono far venire le rughe alla pelle, ma la rinuncia agli entusiasmi riempie di rughe l’anima. Le preoccupazioni, la paura, la sfiducia in se stessi fanno mancare il cuore e piombare lo spirito nella polvere. A 60 anni o a 16, c’è sempre nel cuore di ogni essere umano il desiderio di essere meravigliati, l’immancabile infantile curiosità di sapere cosa succederà ancora, la gioia di partecipare al grande gioco della vita. Al centro del vostro cuore e del mio cuore c’è una stazione del telegrafo senza fili: finchè riceverà messaggi di bellezza, speranza, gioia, coraggio e forza dagli uomini e dall’infinito, resterete giovani. Quando le antenne riceventi sono abbassate, e il vostro spirito è coperto dalla neve del cinismo e dal ghiaccio del pessimismo, allora siete vecchi, anche a vent’anni; ma finchè le vostre antenne saranno alzate, per captare le onde dell’ottimismo, c’è speranza che possiate morire giovani a 100 anni.
Il cambio di stagione era inebriante e fu allora che l’idea di percorrere il fiume si impadronì di me. Volevo ripulirmi, in tutti i sensi del termine, e da qualche parte nel profondo di me sentivo che il fiume era il posto giusto per farlo. […]
Quello che mi proponevo era di sondare, scandagliare, trovare un modo per catturare e registrare come si mostrasse una piccola macchia d’Inghilterra in una settimana di mezza estate dell’inizio del XXI secolo. O, almeno, questo è quello che raccontavo alla gente. La verità era meno facile da spiegare. Volevo in qualche modo insinuarmi sotto la superficie dell’universo quotidiano, come quando chi dorme si scrolla di dosso l’aria di tutti i giorni e sale sulla cresta dei sogni.
Un fiume che solca un paesaggio cattura il mondo e lo restituisce raddoppiato: un mondo mutevole e scintillante, più misterioso di quello in cui viviamo abitualmente. I fiumi attraversano le civiltà come i fili attraversano le perle: non mi viene in mente un’epoca che non sia associata al suo rispettivo corso d’acqua. Le terre del Medio Oriente si sono ormai seccate ma un tempo erano rigogliose, alimentate dai fertili Tigri ed Eufrate da cui fiorirono la civiltà sumera e babilonese. Le ricchezze dell’antico Egitto derivavano dal Nilo, che era ritenuto il confine tra la vita e la morte e aveva il suo corrispettivo in cielo, nelle stelle che oggi chiamiamo Via Lattea. La valle dell’Indo, il Fiume Giallo: sono questi i luoghi in cui sono nate le grandi civiltà, alimentate da acque dolci che rompendo gli argini nutrivano la terra. L’arte della scrittura è nata in queste quattro regioni in modo autonomo e non penso sia una coincidenza che l’avvento della parola scritta sia stato alimentato dai corsi d’acqua.
I fiumi racchiudono un mistero che ci attira, perché sorgono da luoghi nascosti e viaggiano per strade che domani forse non seguiranno lo stesso percorso di oggi. A differenza di laghi e mari, i fiumi hanno una destinazione e la certezza del loro tragitto ha qualcosa che li rende molto rilassanti, specie per coloro che hanno perso la fiducia nella loro meta.
[…] Ma il fiume si muove attraverso il tempo e lo spazio. I fiumi hanno plasmato il mondo in cui viviamo, portano con sé, come diceva Joseph Conrad, «sogni di uomini, semi di confederazioni, germi di imperi». La loro presenza ha sempre attirato gli uomini, e infatti essi trasportano, come fossero rifiuti sparsi, le reliquie del passato. L’Ouse non è un corso d’acqua importante. Si è intersecato solo un paio di volte con le più ampie correnti della storia: quando Virginia Woolf vi annegò nel 1941 e ancora, secoli prima, quando sulle sue sponde si combatté la battaglia di Lewes. Eppure possiamo far risalire il suo rapporto con l’umanità a migliaia di anni prima della nascita di Cristo, quando gli uomini del Neolitico iniziarono ad abbattere le foreste e coltivare le aree lungo il fiume. Le epoche successive lasciarono tracce più palpabili: villaggi sassoni, un castello normanno, fognature del periodo Tudor, chiuse e argini d’epoca georgiana progettati per attenuare gli straripamenti, benché neanche queste elaborate modifiche abbiano impedito all’Ouse di gonfiarsi e inondare completamente la cittadina di Lewes, nei primi anni del nostro millennio.
A volte, sembra che il passato sia molto vicino. In certe sere, quando il sole è calato e il cielo si fa blu, quando i barbagianni fluttuano sull’erba dei prati e una luna stilizzata infrange la linea degli alberi, capita che dalla superficie del fiume si sollevi una nebbia. È allora che la stranezza dell’acqua diventa evidente. La terra custodisce i suoi tesori e ciò che vi è sepolto rimane lì finché non interviene una vanga o un aratro a dissotterrarlo. Il fiume invece è più sfuggente, abbandona i propri averi a casaccio, senza riguardo per la cronologia ferma e terragna tanto cara agli storici. Un volume di storia compilato basandosi sull’acqua è per sua natura rapido e fluido, ricco di vita, una vita sommersa e capace, come avrei scoperto, di tracimare inaspettatamente nel presente.
Olivia Laing, Gita al fiume. Un viaggio sotto la superficie, trad. di F. Mastruzzo e G. Poerio, il Saggiatore, Milano 2020, pp. 18-21.
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