Alessandra Filannino Indelicato – Ritrovare noi stessi (e la felicità) grazie a Dioniso, la filosofia concreta che smuove le coscienze. Una ricerca che non sia profondamente connessa con la spiritualità del ricercatore è una ricerca sterile.

Alessandra Filannino Indelicato 02

L’intervista ad Alessandra Filannino Indelicato, condotta da Diego Di Donato,
è già stata pubblicata su «Bnews», Notizie dal Campus Bicocca,
il blog dell’Università Bicocca di Milano, il 28-07-2021.

Alessandra, hai intitolato la tua Tesi di Dottorato Ricucirsi con Dioniso. La lectio tragica come esperienza genealogica di cura e di umanità”. Perché occuparsi oggi del dionisiaco nella nostra società?

Grazie Diego. La risposta per me è molto semplice: per nutrire la nostra tensione alla felicità. Vedi, siamo abituati a vedere Dioniso come il dio degli eccessi, della promiscuità sessuale, della trasgressione e dell’ebbrezza, ma questa è una visione molto riduttiva, dettata da una lettura parziale o superficiale delle fonti. Nella mia Tesi di Dottorato mi avvicinavo già a questo tema: cosa succederebbe, nelle accademie, se tornassimo a leggere i testi come se la lettura fosse davvero una pratica filosofica, disciplinata e trasformativa, in poche parole, un esercizio spirituale? E, nota importante, spirituale non significa religioso. Ogni umano, che lo voglia o meno, è un ricercatore, cioè va in cerca di se stesso. Nel suo ri-cercare sta già nutrendo, formando e inseguendo – a volte senza saperlo davvero – la propria intima possibilità di realizzazione personale, il proprio sentiero individuativo. Noi viviamo in un mondo scisso, diviso, frammentato politicamente e psichicamente. Individuarsi significa non-dividersi, essere integrati, tenere insieme i pezzi, in quel costante lavoro da funamboli, da palombari, da sarti che è il ricercare la propria umanità. Hadot afferma che il grande Goethe, in tarda età, si chiedesse: sono capace di leggere, di leggere per davvero? Non è, in fondo, la vita stessa una grande opera di lettura, ri-lettura, scrittura e ri-scrittura di narrazioni originarie, ramificate, genealogiche – mie, tue, dei nostri cari, del pezzo di mondo che abbiamo vissuto? Diego, iniziamo da un testo o da un autore. Quale sceglieresti? Il mio testo sacro sono state le Baccanti di Euripide. Un testo che ho interrogato e da cui mi sono lasciata interrogare per molto tempo, legittimandomi le metamorfosi a cui mi sentivo chiamata. Non è stato facile, sai? Ci è voluto coraggio. Da qui credo che sia abbastanza intuitivo e immediato il collegamento con il contemporaneo. Comprendere questi simboli, oggi, per la loro incredibile attualità, senza appiattirli od oggettificarli è fondamentale. Stiamo vivendo una delle più grandi crisi spirituali mai viste, l’etica non è purtroppo un modo di vivere che alimenta il nostro psichismo individuale e collettivo. Eudaimonia, felicità in greco, è proprio questo, l’etica in atto: sentire il daimon orientato e armoniosamente accordato al bene. Una tensione costante, che segue un sentiero ben preciso però, e questo sentiero è filosofico. E questo sentiero è dionisiaco, perché ci insegna a lasciar andare e a essere chi si è davvero.

 

William Adolphe Bouguereau, La giovinezza di Bacco (1884)

Cosa si intende per filosofia del tragico e quale importanza ha la figura di Dioniso (lo straniero, l’androgino, l’irrazionale, l’addolorato)?

Dioniso è una divinità antichissima, addirittura cretese. In quanto archetipo di zoe, la vita indistruttibile non riducibile al bios (il segmento vita-morte), Dioniso è e deve essere travolgente e inarrestabile, infatti indica sempre una rinascita come simbolo della vibrante circolarità vita-morte-nuova vita. Dioniso è, più di tutti, un daimon, un essere intermedio tra il dio e l’umano. Il suo compito è quello di orientare, offrire una mappa del senso, una direzione nella vita. Ma bisogna imparare ad ascoltare e per ascoltare bisogna saper stare nel silenzio – cosa che oggi pare impossibile non solo perché del silenzio abbiamo paura, ma anche perché siamo costantemente calati nell’attività produttiva e performativa. Al contrario Dioniso ci chiama all’ascolto di noi stessi: chi siamo? Cosa desideriamo? Come ci portiamo nel mondo, ovvero come ci com-portiamo? Dioniso ci chiede di rinunciare agli ingombri dell’io, alle derive individualistiche, alle prospettive antropocentriche, alle logiche del potere e del guadagno o dell’accumulo fine a se stesso, al fine di celebrare la vita nella sua forza inarrestabile. Ci chiede, pertanto, di risvegliarci alla vita, di vivere e non meramente sopravvivere. Ancora, Dioniso ci chiede di allenare i sensi, la corporeità, di andare oltre noi stessi ma proprio a partire dal nostro sentire. La trascendenza si compie nell’immanenza. In questo senso la trance estatica si compie qui e ora e coinvolge necessariamente corpi e anime in un comune senso di appartenenza. Dioniso è, infatti, maestro delle cose umili e semplici, insegna a godere dell’istante ma non costringe nessuno a seguire i suoi culti. In quanto dio meticcio, dio del tutto e del suo contrario, dio del paradosso, Dioniso insegna il superamento del pensiero dualistico, frammentato, dicotomico. Insegna a seguire, ad affidarsi ad altri registri del sapere non meno degni di quello razionale, quale la sapienza artigiana del corpo, l’intuito, il presentimento. La filosofia del tragico è, di conseguenza, una filosofia che si inscrive nel culto di questa complessità ecologica, simbolica e non-dualistica. Intendo qui la filosofia, richiamandomi a Luce Irigaray, come quel portare alla luce “la saggezza nelle cose dell’amore” oltre che come “l’amore per la saggezza”. Inoltre l’accezione che do al termine tragico è etimologica: in greco, infatti, il termine tragedia rimanda a un rituale sacro, fatto di canti e balli sfrenati che accompagnano il pianto di un capro sacrificale. Il tragico, dunque, è prima di tutto un’opera di contemplazione e di partecipazione al dolore – il dolore di un altro essere che riflette, ricorda, evoca e rappresenta sempre anche il mio. Ecco il teatro tragico. La filosofia del tragico è quella filosofia che celebra la vita senza negarne gli aspetti più oscuri e traumatici, anzi imparando a danzare insieme a questi, poiché è grazie all’andare giù, in profondità, a fondo, entrando in contatto con le parti oscure di noi stessi, che non solo non affondiamo ma riusciamo anche a trasformare il dolore in un atto creativo, vitale e foriero di luminosità.

Penteo squartato dalle Baccanti, Casa dei Vettii, Pompei, I secolo d.C.

Nel dibattito e nella comunità scientifica quale può/deve essere secondo te il ruolo della filosofia?

La filosofia deve sporcarsi le mani, uscire dalla torre d’avorio dell’elucubrazione fine a se stessa, smuovere le coscienze, formare le persone, prendere posizioni scomode e portarle avanti, stimolare il dialogo e occuparsi delle emergenze politiche, etiche, ecologiche dei nostri tempi. Il tutto con una sensibilità sinestetica e simbolica che integri e non dis-integri. Nel gruppo di Filosofia Morale, guidato prima da Romano Màdera e poi da Claudia Baracchi, i miei maestri, o ancora presso l’Associazione Philo-Pratiche Filosofiche è ormai da decenni che diffondiamo un modo di fare filosofia che sia concreto, reale, in dialogo con il contemporaneo. Proponiamo da moltissimi anni i Seminari Aperti di Pratiche Filosofiche, che sono appunto aperti a tutti, dentro e fuori l’Università, e sono assolutamente gratuiti. Io penso che la filosofia e le scienze umane siano fondamentali per un Ateneo come il nostro, che si fonda sulla ricerca scientifica in senso stretto.  

Su cosa si stanno concentrando ora i tuoi studi e quali saranno i tuoi prossimi progetti?

Torno di recente da un’esperienza di Visiting in America dove ho insegnato al fianco del Prof. Gordon Cappelletty, in North Carolina. A novembre parteciperò a Bookcity, insieme alla Dott.ssa Sara Bergomi, con un incontro sul Dioniso delle profondità marine e melmose – un incontro a cui siete ovviamente invitati. Sicuramente, non posso negartelo, caro Diego: come ricercatrice precaria mi sento sempre un po’ sul filo del rasoio. Ad oggi spero comunque di continuare a lavorare in Bicocca con Claudia Baracchi, perché sento che questo è il mio posto e perché la Bicocca mi ha conosciuto fin da giovane. Oltre ai maestri, le persone che ho incontrato qui sono state tutte preziosissime per la mia vita e per la mia crescita professionale, soprattutto il mio collega Luca Grecchi, da cui ho appreso tanta umanità e sapienza filosofica. Ho una vita piuttosto ricca, molti progetti in mente e molti fronti di collaborazione aperti, come quello con il CSTG guidato da Riccardo Zerbetto, che mi ha invitato alla conferenza che hai segnalato in apertura, o quello con la Dott.ssa Giusi Negroni, con cui porto avanti il gruppo di Danzare le Tragedie. In prospettiva c’è una collaborazione aperta con l’ANPI e – in ultimo, ma non per importanza – anche con l’Associazione Felicita, presieduta da Alessandro Azzoni, a cui tengo molto perché si occupa dei diritti degli anziani nelle RSA e dei loro familiari, specie a fronte degli scandali di malasanità e dell’ingiustificabile ecatombe legata alla diffusione della pandemia. La filosofia, come Antigone ci insegna, deve essere coraggiosa, politica, e rispondere sempre alle leggi del cuore.


Alessandra Filannino Indelicato

Per una filosofia del tragico

Tragedie greche, vita filosofica e altre vocazioni al dionisiaco

Prefazione di Claudia Baracchi

Mimesis Edizioni, Milano 2019, pp. 216, Euro 20


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Maria Timpanaro Cardini (1890–1978) – Anima, vita e morte in Alcmeone.

Maria Timèanaro Cardini - Alcmeone - Vegetti

Il «metodo tipico della conoscenza umana» consiste, per Alcmeone, nel «tekmairesthai», ovvero nel «procedere appunto per indizi, congetture, prove»: egli, in tal modo, «non faceva che teorizzare la sua stessa prassi di medico, abituato a interpretare l’esperienza per ritrovare in essa un significato, un valore di sintomo, e risalire così all’unità della malattia e delle sue cause». Sotto questo profilo, con Alcmeone «si apriva una nuova via verso il sapere, una via che passava pur sempre attraverso l’osservazione».

Mario Vegetti,
Scritti sulla medicina ippocratica.
[1: leggi l’estratto di M. Vegetti su Alcmeone dopo il saggio di M. Timpanaro Cardini]


Mario Vegetti

Scritti sulla medicina ippocratica

indicepresentazioneautoresintesi

ISBN 978-88-7588-225-9, 2018, pp. 416, euro 30

I saggi raccolti in questo volume ripercorrono gli ultimi cinquant’anni di ricerca ippocratica. Gli entusiasmi iniziali, ben motivati dalla “scoperta” di un grande territorio del sapere scientifico fino ad allora relativamente inesplorato, dei suoi metodi e della sua efficacia terapeutica, hanno via via ceduto in parte il campo a un più equilibrato atteggiamento critico-storico. Nel suo insieme, una lettura di questi testi può continuare ad offrire un panorama intellettuale utile a comprendere le coordinate metodiche e sociali che hanno consentito la comparsa di uno dei fenomeni più rilevanti dell’antica tradizione scientifica dell’Occidente. I saggi sono disposti in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni al volume ippocratico (1964 e 1973) che sono poste al termine per il loro carattere riassuntivo.


[1] MarioVegetti, Scritti sulla medicina ippocratica, Petite Plaisance, Pistoia 2018, pp. 330-333.

Ad Alcmeone di Crotone toccò, quasi un secolo prima di Ippocrate, il compito di raccogliere l’oscura eredità di ricerca di generazioni di medici, e anche il ricco patrimonio di osservazioni naturalistiche che si era venuto costituendo pur nell’involucro della physiologia: ed egli per primo intuì che questa eredità e questo patrimonio costituivano un campo relativamente autonomo del sapere, che richiedeva una sua specifica consapevolezza e suoi propri metodi di comprensione. Ad un’autonoma presa di coscienza della techne, Alcmeone fu spinto del resto dalle sue stesse conquiste di medico e di biologo, dagli stessi problemi teorico-pratici che la sua scienza veniva ponendogli ogni giorno e che certamente non trovavano risposta alcuna nelle semplificazioni e nella dogmatizzazione dell’empirico operate dalla physiologia. Certo, in questo suo lavoro di costruzione di una consapevolezza scientifica Alcmeone fu agevolato dal diffuso clima di ricerca che il pitagorismo propagava nella stessa Crotone e in Magna Grecia; ma è altrettanto certo che i suoi rapporti con il pitagorismo furono su una base di autonomia, di “dare ed avere”; e del resto non ci sembra una coincidenza occasionale che la fioritura di Alcmeone avvenisse proprio quando, ad opera di Ippaso e comunque dello sviluppo stesso della ricerca matematica, l’edificio sistematico della scuola pitagorica incominciava per altra via a vacillare (a partire dal 510 a.C.).

Alcmeone non attaccò le dottrine dell’arché: semplicemente le ignorò, come quelle che non trovavano corrispondenza alcuna nell’esperienza criticamente osservata. In quell’esperienza, egli riconosceva invece una indefinita molteplicità, non già di princípi sostanziali, bensì di princípi attivi o “qualità”, vale a dire di stimoli capaci di determinare nell’organismo una certa reazione fisiologica (l’amaro, il freddo e così via); di conseguenza, non v’è continuità fra organismo e physis, ma il rapporto fra l’uno e l’altra è un rapporto di stimolo e reazione (come testimonia anche Teofrasto attribuendo ad Alcmeone, in contrasto con Empedocle, la formula della «sensazione per contrari»).

Parallelamente, Alcmeone scopriva, grazie alla pratica spregiudicatamente scientifica della dissezione, che la funzione del percepire è nell’uomo bensì diffusa nei vari organi di senso, ma che essa viene poi coordinata e «interpretata» (per usare un termine dello stesso Ippocrate, che dipende qui da Alcmeone), da un organo centrale, e precisamente dal cervello. La scoperta di tale funzione del cervello spezzava di fatto il legame ombelicale fra uomo e mondo, fra conoscenza e realtà: e Alcmeone poteva rendere esplicita questa rivoluzionaria conseguenza dichiarando che, se la “sensibilità” è una proprietà di tutti gli organismi viventi, la funzione del “comprendere”, cioè di ridurre a sintesi significativa l’esperienza, e di “prender coscienza” della sensibilità stessa, è propria esclusivamente dell’uomo.

Il solco, che così si apriva fra l’uomo e la realtà che egli vuol comprendere e trasformare, era profondo e definitivo. Il mondo dell’esperienza riacquistava la sua concretezza e la sua datità, e l’esperienza stessa veniva riconosciuta incapace di dare spontaneamente conto di sé. Così, l’uomo e lo scienziato riconquistavano un’autonomia e una possibilità di comprensione e di controllo sul mondo, scoprendosi ad esso eterogenei e, nella tensione del conoscere e dell’agire, alla polarità opposta di esso. Ma Alcmeone si avvide di una conseguenza decisiva di tutto questo: la realtà si faceva ad un tratto opaca agli occhi dello scienziato; la verità e la realtà non si palesavano più tutt’intere all’interrogante; la sapienza, intesa come perfetta trasparenza e immanenza di tutto il mondo al frammento di mondo che è l’uomo, restava ormai solo una proprietà degli dèi (ed Empedocle, ispirato e taumaturgo, poteva ben dirsi simile a un dio).

In termini scientifici, la sapienza doveva venir sostituita dall’indagine, la rivelazione dalla congettura. Il metodo dell’analogia, basato sull’immanenza dell’arché a physis e di physis a ogni osservazione, doveva essere sostituito da quello dell’indizio e della prova. Quando Alcmeone poneva il tekmairesthai, il procedere appunto per indizi, congetture e prove, a metodo tipico della conoscenza umana, egli non faceva che teorizzare la sua stessa prassi di medico, abituato a interpretare l’esperienza per ritrovare in essa un significato, un valore di sintomo, e risalire così all’unità della malattia e delle sue cause. In questo modo si apriva una nuova via verso il sapere, una via che passava pur sempre attraverso l’osservazione, ma non più mitizzata bensì indagata per il suo valore di “segno”; e questa era la via che conduceva ad Ippocrate.

Il relativo isolamento di Alcmeone, in quanto puro scienziato, dalle grandi correnti filosofiche, gli agevolava certamente questa spregiudicata presa di coscienza metodologica; e tuttavia gli impediva di esplicitarne tutto il valore, e di generalizzarla fino a determinare chiaramente il rapporto fra teoria e osservazione, fra pensiero e realtà, fra verità e fatto. In altri termini, la zona dell’esperibile veniva bensì restituita alla concretezza che sola rendeva possibile l’indagine scientifica, e di quest’indagine veniva indicato il metodo tipico; ma poi Alcmeone lasciava in ombra la sfera del “pensabile” e insomma la struttura, la funzione, i procedimenti della ragione scientifica, che a quell’indagine era parimenti indispensabile.

Così la portata eversiva del pensiero di Alcmeone nei riguardi della physiologia non veniva immediatamente in luce, ed anzi ancora Empedocle poteva largamente ispirarsi ai singoli spunti di esso nella propria riduzione a sistema della physiologia. Solo dopo che un attacco frontale alla physiologia fosse stato portato in nome dell’autonomia e dell’intrinseca validità della ragione, l’eredità di Alcmeone avrebbe potuto essere raccolta in tutta la sua potenziale fecondità.

 

MarioVegetti, Scritti sulla medicina ippocratica, Petite Plaisance, Pistoia 2018, pp. 330-333.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Debrà Libanòs è tra di noi. Il massacro perpetrato da italiani è sconosciuto alla maggioranza degli italiani di oggi: «Italiani, brava gente?».

Angelo Del Boca, Italiani brava gente? Debra Libanos

Se chiedete a un italiano, che cosa è avvenuto nel 1937 a Debra Libanos, quasi certamente non vi risponderà. Molti non saprebbero neppure dire dove si trova Debra Libanos. Il loro silenzio è il segno di come nel nostro Paese si conosca poco la storia, soprattutto quella coloniale, e di come una parte di essa (quella meno presentabile) sia stata rimossa. Debra Libanos è una delle pagine più vergognose della storia italiana. Dal 21 al 29 maggio, soldati del nostro esercito sterminarono centinaia di monaci, preti e pellegrini ortodossi (tutti ovviamente disarmati) radunati nel monastero etiope di Debra Libanos.

da Africarivista.it


Salvatore Bravo

Debrà Libanòs è tra di noi.
Il massacro perpetrato da italiani è sconosciuto alla maggioranza degli Italiani di oggi:
«Italiani, brava gente?».

 

Parlati dalla storia
Un popolo è la sua storia, il rapporto che un popolo instaura con la propria storia contribuisce largamente al suo presente ed al suo futuro, si costruisce e decostruisce la realtà effettiva per disoccultare le verità nascoste. L’identità è un’operazione di disvelamento senza la quale è esperienza di ripiegamento violento su se stessa. L’identità non è un deposito sacrale da trasmettere e riprodurre nel presente, ma la somma delle esperienze e degli errori da cui trarre la verità per un nuovo inizio. La memoria è l’esperienza che mediata dal logos collettivo germina in un nuovo inizio, ma senza memoria ogni progetto politico non può che arenarsi nel pericolo di ripetere errori e di non saperli individuare in un tempo utile per correggerli. La storia è vita collettiva senza la cui consapevolezza si procede ciecamente e biecamente nel flusso del tempo. Non è liturgia, conservazione stantia di cerimonie ed eventi per giustificare il presente, ma dialettica, con essa ci si confronta non per giudicare il passato, ma per capirlo al fine di non ripeterne le tragedie, altrimenti tutto ritorna. La dimenticanza è un boomerang i cui effetti possono essere esponenziali. La decadenza degli studi storici, la loro riduzione a biografie di grandi personaggi è in linea con il clima liberista, che riduce ogni complessità sociale a semplice omaggio alla grandezza di pochi grandi individui nel bene e nel male, i restanti sono i subalterni che si adattano agli eventi. La storia collettiva scompare sotto lo zoccolo dei grandi personaggi usati in modo ideologico per giustificare l’individualismo imperante. In tale contesto il disprezzo verso le differenze continua a circolare e specialmente, se il potere con le sue favole ideologiche è trasmesso senza mediazione del logos, inevitabilmente la logica gerarchica e aggressiva continuerà a produrre le sue conseguenze nel presente ed ad impedire un futuro non improntato a tali dinamiche. La violenza capillare che si diffonde in ogni campo, e che assume forme metamorfiche plurali non è causata solo da variabili contingenti, ma è il risultato della rimozione delle violenze del passato. Senza lo sguardo storico nella verità di ogni popolo non si vi sarà l’esodo da schemi sclerotizzati dall’abitudine: ogni grande progetto non potrà che ricadere su se stesso per il riemergere di comportamenti ed azioni sedimentati nell’inconscio collettivo. Si potrebbe dire parafrasando Heidegger che siamo parlati dalla storia, ci avvolge tanto più la ignoriamo, si insinua nelle parole e nei gesti e non li riconosciamo. Con la storia si dialoga, ci si relaziona sollevando domande che consentono di partecipare fortemente al presente, se il dialogo viene a mancare si fatalizza il proprio tempo favorendo il dominio e la subalternità generale.

 

Debrà Libanòs tra di noi
Il massacro di Debrà Libanòs il 21-29 maggio 1937 in Etiopia si aggira tra di noi, inficia le relazioni con i paesi africani e con le persone provenienti da quei luoghi tormentati dall’Occidente. Il massacro non è stato dimenticato, perché si dimentica solo ciò che è stato conosciuto. Debrà Libanòs è, invece, sconosciuto alla maggioranza della popolazione. L’eliminazione immotivata e tragica della comunità del monastero di Debrà Libanòs è un caso unico della storia europea. La comunità del monastero era di religione copta, i rapporti tra la classe dirigente dei copti e il regime fascista che aveva invaso l’Etiopia nel 1935 e proclamo l’impero nel 1936 erano pessimi. L’Etiopia era stata invasa, ma non domata, la propaganda nascondeva la verità con un falso trionfalismo imperiale.
La strage a seguito dell’attentato al viceré d’Etiopia Graziani fu occasione per liberarsi dell’opposizione etiope e rimarcare il dominio dei colonizzatori sui colonizzati. Fu eseguita dai musulmani sotto il comando italiano, li si spinse contro i cristiani usando l’odio religiosi a fini militari. Fu scelta la data di San Michele, perché in quel giorno si aveva il massimo afflusso di fedeli. Furono sterminati tutti senza constatare colpe, l’etiope era il nemico da abbattere, la selvaggina da predare. L’esecuzione ricorda i primi tentativi di sterminio degli ebrei prima della soluzione delle camere a gas: raduni e trasferimenti veloci sui luoghi dell’eliminazione con gli assassinati gettati nel dirupo. L’eccidio fu seguito dal saccheggio e dalla distruzione dell’antichissimo monastero e degli edifici limitrofi. In questi anni sono ricomparsi gli elenchi degli oggetti razziati dal fascismo, tra cui una serie di corone d’oro che si utilizzavano nelle cerimonie religiose. Gli oggetti potrebbero giacere dimenticati in qualche museo o in qualche collezione privata, sono scomparsi come le vittime. L’operazione fu genocidaria tutto doveva scomparire di quella realtà, non solo le persone, ma specialmente la cultura che si opponeva all’assimilazione[1]:

 

“Le vittime furono spinte giù dal camion e furono rapidamente fatte allineare, con il viso a nord e la schiena volta verso gli ascari. Furono quindi costrette a sedersi in fila lungo l’argine meridionale del fiume, che in quel periodo dell’anno era quasi completamente in secca. Gli ascari presero quindi un lungo telone, preparato appositamente per l’occasione, e lo stesero sui prigionieri come una stretta tenda formando un cappuccio sopra la testa di ognuno di loro. Si procedeva quindi alla fucilazione dei religiosi. E mentre un ufficiale italiano provvedeva a sparare il colpo di grazia alla testa, vicino all’orecchio, gli ascari toglievano il telone nero dai cadaveri per utilizzarlo per il successivo gruppo di condannati. Alle 15.30 del pomeriggio tutto era finito e Graziani poteva annunciare a Roma che «oggi, alle 13 in punto», il generale Maletti «ha destinato al plotone di esecuzione 297 monaci, incluso il vice-priore, e 23 laici sospetti di connivenza. Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d’ordine, che verranno tradotti e trattenuti nelle chiese di Debrà Berhàn. Il convento è stato di conseguenza chiuso definitivamente» Ma tre giorni dopo il viceré cambiava idea, sembra su istigazione di ras Hailù Tecla Haimanot, il più noto e spietato fra gli aristocratici collaborazionisti, e inviava a Maletti questa nuova direttiva: «Confermo pienamente la responsabilità del convento di Debrà Libanòs. Ordino pertanto di passare immediatamente per le armi tutti i diaconi di Debrà Libanòs. Assicuri con le parole: “Liquidazione completa”» .Il generale Maletti, con il consueto zelo, provvedeva subito a far scavare due profonde fosse in località Engecha, a pochi chilometri da Debra Berhàn, e nella mattinata del 26 maggio faceva sfilare davanti alle mitragliatrici 129 diaconi, martiri giovanetti che la cristianità non ricorda e non piange perché africani e diversi. «Per cui» concludeva Graziani «la cifra dei giustiziati saliva a 449». Ma la vera cifra degli assassinati era molto più alta, almeno tre volte superiore. Tra 1991 e 1994 i due docenti universitari già ricordati, l’inglese Ian L. Campbell e l’etiopico Degife Gabre-Tsadik, eseguivano nel territorio di Debrà Libanòs un’ampia e approfondita ricerca, interrogando monaci, cascì, civili, alcuni dei quali avevano assistito a una o più fasi del massacro. Dalle loro testimonianze emergeva che i fucilati a Laga Wolde non erano 320 ma tra 1000 e 1600. Successivamente, tra 1993 e 1998, il professor Campbell proseguiva da solo le indagini spostandosi nella regione di Debrà Berhàn per trovare informazioni sulla strage di Engecha. Egli non soltanto riusciva a localizzare le due fosse che contenevano i corpi dei 129 diaconi, ma poteva raccogliere le deposizioni di due testimoni oculari che avevano assistito alla strage dall’inizio alla fine. L’inchiesta di Campbell rivelava inoltre che Graziani, nel comunicare a Lessona l’eliminazione dei diaconi, aveva sostenuto il falso. Egli, infatti, non si era limitato a ordinare a Maletti la «liquidazione completa» dei 129 diaconi, ma gli aveva ingiunto di sopprimere altri 276 etiopici, fra insegnanti, studenti di teologia, monaci e sacerdoti che appartenevano ad altri monasteri e che nulla avevano a che fare con Debrà Libanòs. Per cui il bilancio della strage di Engecha saliva a 400 vittime e quello complessivo della rappresaglia contro la città conventuale di Debrà Libanòs si aggirava, secondo i due ricercatori, tra 1423 e 2033 morti. Mai, nella storia dell’Africa, una comunità religiosa aveva subìto uno sterminio di tali proporzioni”.

La violenza di Debrà Libanòs è giunta a noi nel silenzio e nel disprezzo con cui si inneggia alla differenza per omologarla, non si usano, in patria, gli ascari contro i diversi, ma i trombettieri del giudizio universale, il clero asservito che in nome della libertà laica ed atea inneggia all’omologazione. La differenza può sopravvivere solo come esperienza folcloristica, ma i comportamenti devono essere quelli dettati dal liberismo. Se avessimo trasformato la strage in cultura condivisa, probabilmente il “sì” automatico alle missioni di pace non sarebbe stato tanto “spontaneo”. I braccianti agricoli schiavizzati nella raccolta dei prodotti agricoli sono nella scia di quella violenza respinta nel dimenticatoio della storia. L’abitudine a rimuovere e a elaborare false immagini di sé giunge fino a noi e produce forme di sfruttamento diffuso, la tempesta della storia ci inghiotte e ci trascina verso la negazione della “buona vita”.

Senza storia non vi è umanesimo, ma solo una lenta agonia, in cui a morire è l’umanità nella sua totalità, al suo posto non resta che una temporalità circolare in cui ogni evento è destinato a ritornare nella sua tragicità inemendabile. La prassi necessita di senso storico comunitario, perché trae dagli avvenimenti della storia, la possibilità con cui riprogettare politiche sociali e visioni comunitarie. La storia ha la potenzialità di liberarci dalla condizione di subalterni, ci indica che la cultura di subalternità è la condizione per lo stragismo militare ed economico. Il subalterno rinuncia alla prassi per farsi servo e salvarsi dalle responsabilità verso la storia, verso il presente ed in passato, ma ogni subalterno compartecipa ai crimini della storia, è la mano esecutrice che si presta all’esecuzione. Emanciparsi significa liberarsi dalla subalternità. Ogni cultura e ogni politica che la inseguono è organica al dominio. Debrà Libanòs è tra di noi nella forma del fatalismo servile che ci rende corresponsabili della violenza dei nostri giorni.

[1] Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, capitolo dieci: Debrà Libanòs: una soluzione finale, Editore Neri Pozza, 2012.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Luigi Pareyson (1918-1991) – L’uomo deve scegliere se essere storia o avere storia, se identificarsi con la propria situazione o farne un tramite per attingere l’origine, se rinunciare alla verità o darne una rivelazione irripetibile.

Luigi Pareyson 02
L’uomo deve scegliere se essere storia o avere storia, se identificarsi con la propria situazione o farne un tramite per attingere l’origine, se rinunciare alla verità o darne una rivelazione irripetibile.
Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia editore, Milano 2005, p. 116.

Luigi Pareyson (1918-1991) – L’esistenza dell’opera musicale non è quella inerte e muta dello spartito, ma quella viva e sonora dell’esecuzione, che è vita e possesso dell’opera.

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Ilaria Gaspari – Vivere in modo virtuoso vuol dire vivere non soffocando le emozioni, ma cercando di decifrare la lingua degli affetti, riconoscendoci negli altri.

Gaspari Ilaria

«Vivere in modo virtuoso vuol dire vivere nel modo più attivo possibile, non soffocando le emozioni – cosa che porterebbe solo a renderle più riottose, isolate, in una parola: più tristi  e farebbe noi più passivi rispetto a quello che proviamo –, ma cercando di decifrare la lingua degli affetti, che possiamo comprendere solo riconoscendoci negli altri, specchiandoci in chi ci sta di fronte e scoprendo quanto ci somigliamo».

Ilaria Gaspari, Vita segreta delle emozioni, Einaudi, Torino 2021.


Ha studiato filosofia alla Scuola Normale Superiore di Pisa e si è addottorata all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito per Voland il suo primo romanzo, Etica dell’acquario, e nel 2018 ha pubblicato per Sonzogno Ragioni e sentimenti, un conte philosophique sull’amore. Per Einaudi ha pubblicato Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (2019). Collabora con diversi giornali e tiene corsi di scrittura alla Scuola Holden. Vive tra Roma e Parigi.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ptolémée «al-Gharib» – Épître à Gallus sur la vie, le testament et les écrits d’Aristote. Texte établi et traduit par : Marwan Rashed.

Ptolémée «al-Gharib», Marwan Rashed

Voici, pour la première fois édité et traduit, un texte grec antique perdu dans la langue originale et conservé en arabe.
Il s’agit d’une lettre rédigée par un mystérieux Ptolémée, philologue aristotélicien actif à Alexandrie autour de l’an 200 après J.-C., dans laquelle celui-ci rapporte la Biographie et le Testament d’Aristote, ainsi qu’un Catalogue d’une centaine de titres inconnu par ailleurs. Ce vestige est l’une de nos meilleures sources d’information – et la seule qui soit interne à l’école péripatéticienne – sur la vie d’Aristote. Elle permet de reconstituer les liens entre Aristote et le pouvoir macédonien – Philippe, Alexandre le Grand et le général Antipatros – ainsi que l’émancipation progressive d’Aristote à l’égard de Platon. C’est aussi notre seul témoignage sur la première édition, dans l’Antiquité, des écrits savants du Philosophe. Instantané pris sur le vif de l’état de la philologie aristotélicienne, à Alexandrie, à la fin du IIe siècle, ce texte est une lecture essentielle pour quiconque s’intéresse à la question de savoir ce que nous lisons quand nous lisons Aristote.


Ptolémée « al-Gharib »

Ptolémée « al-gharīb » est un philologue aristotélicien de l’Antiquité, sans doute actif à Alexandrie autour de l’an 200 ap. J.-C.

Marwan Rashed

Après avoir été professeur de philologie grecque à l’Ecole normale supérieure, Marwan Rashed est aujourd’hui professeur de philosophie à la Sorbonne, où il enseigne l’histoire de la philosophie grecque et arabe.  



Marwan Rashed vous présente une découverte exceptionnelle pour l’histoire de la philosophie ancienne : l’Épître à Gallus sur la vie, le testament et les écrits d’Aristote, de Ptolémée « Al Gharīb », qu’il a édité et traduit.


Aristote comme vous ne l’avez jamais lu, avec Marwan Rashed


Table des matières

Introduction
1. État de la question

1.1. Trace de l’épître dans l’Antiquité
1.2. La redécouverte moderne de Ptolémée

2. Le texte et l’auteur
2.1. Structure de l’Épître à Gallus
2.1.1. Prologue
2.1.2. La Biographie d’Aristote
2.1.3. Le Testament d’Aristote
2.1.4. Le Catalogue des écrits d’Aristote
2.2. L’auteur
2.2.1 Ptolémée le Péripatéticien cité par Longin
2.2.2. Ptolémée le Platonicien
2.2.3. Ptolémée le Péripatéticien cité par Sextus Empiricus
2.2.4. Une attribution fautive à Ptolémée Philadelphe
2.2.5. Ptolémée Chennos
2.2.6. Ptolémée l’adultère

3. Ptolémée et les Pinakes d’Andronicos de Rhodes
3.1. État de la question
3.2. Sept points remarquables de la liste de Ptolémée
3.2.1. Absence de l’Éthique à Nicomaque
3.2.2. Une Métaphysique en treize livres
3.2.3. Présence du De interpretatione
3.2.4. Position des Topiques
3.2.5. Le titre des Premiers et des Seconds Analytiques
3.2.6. Le titre des Réfutations Sophistiques
3.2.7. Le titre du traité Du ciel
3.2.8. Conclusion : Ptolémée et l’érudition alexandrine autour de l’an 200

4. L’histoire ancienne du corpus
4.1. Les récits anciens : Strabon, Plutarque, Athénée … et al-Fārābī
4.1.1. La contradiction entre le récit de Strabon et de Plutarque et l’indication d’Athénée
4.1.2. Al-Fārābī : une version favorable au rôle d’Alexandrie ?
4.2. Les six données positives
4.2.1. Les listes anciennes
4.2.2. Le testament de Théophraste
4.2.3. Le renseignement de Posidonius
4.2.4. Rouleaux et traités : Porphyre et Ptolémée
4.2.5. Ptolémée et « la bibliothèque d’Apellicon »
4.2.6. Ptolémée et la découverte d’Andronicos
4.3. Retour sur le texte d’al-Fārābī
4.4. L’histoire ancienne du corpus Aristotelicum

5. La transmission du texte
5.1. Un texte arabe traduit du syriaque
5.2. Tradition directe et tradition indirecte
5.2.1. La tradition indirecte arabe
5.2.2. La tradition directe arabe
5.2.3. Établissement du texte

Sigla

Texte arabe et traduction
مقالة لرجل يسمّى بطلميوس فيها وصية أرسطوطاليس
وفهرست كتبه وشيء من أخباره الى رجل يسمّى غلس
Traité d’un nommé Ptolémée contenant le testament d’Aristote, le catalogue de ses écrits et sa biographie, adressé à un nommé Gallus

Notes complémentaires
Bibliographie


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ilona Jerger – E Marx tacque nel giardino di Darwin

Ilona Jerger 01

Parla C. Darwin:
«[…] Effettivamente la prospettiva di essere stati creati direttamente dalla mano di Dio è più lusinghiera che pensare di aver percorso una lunga strada tortuosa e casuale, partendo dagli esseri unicellulari e passando per le rape […]. L’uomo trova offensivo sapere di essere soltanto il risultato di banali coincidenze […]. Cattolici, musulmani, anglicani, protestanti, ebrei, nessuno vuole che la meravigliosa favola della creazione sia smascherata come tale […]. Non dà alcuna soddisfazione sapere che il caso è la maggiore forza alla base dell’evoluzione. Sebbene non ne dubiti neppure per un istante, questa mancanza di scopo non piace neanche a me. La nostra vita assume così il retrogusto della consapevolezza che nessuno ci ha voluto […]. È un senso della vita che soltanto pochi sanno apprezzare. […] Sono un naturalista e nutro la ferma convinzione che la scienza vada coltivata al di fuori delle dispute sociali. Non deve lasciarsi comprare, né dalla chiesa, ma neppure dalla politica. L’indipendenza delle scienze è forse il traguardo più importante che abbiamo raggiunto dal Medioevo […]. Per me non ci sono dubbi che la competizione metta in risalto i migliori, i più forti, i più sani e i più furbi, e in tal modo favorisca il progresso […]. Per questo temo le società che fanno della cooperazione il loro principio fondante.»».

Parla K. Marx:
«…Darwin ha spazzato via con inaudita efficacia le chiacchiere sull’aldilà e ha assestato un bel colpo ai pretucoli […]. Ha creato il fondamento scientifico per il materialismo e quindi per il comunismo […]. Ha dimostrato l’evoluzione storica della natura e ha fatto piazza pulita del cristianesimo e dell’ebraismo insieme a tutte quelle baggianate sull’aldilà! […]. Darwin ha trasferito su piante e animali la lotta per la sopravvivenza che ha osservato nel sistema capitalistico. No, non è un caso che riconosca nella natura la sua società classista inglese […]. Qualsiasi politica comunista è priva di senso, se una legge naturale rende legittima la competizione mortale. Possibile che nessuno si accorga che la questione gira su se stessa?».

Parla C. Darwin:
«[…] Rilevo negli atei gli stessi metodi degli ecclesiastici: semplificano la discussione, lasciano da parte gli argomenti spiacevoli, affermano cose che nessuno può sapere e vogliono convertire gli altri con uno zelo missionario. Che ne direbbe invece di un po’ di umiltà?».

Ilona Jerger, E Marx tacque nel giardino di Darwin, Neri Pozza Editore, Vicenza 2018.


Quarta di copertina

Nel 1881 Charles Darwin è già da decenni una persona famosa. Il sacco di posta che gli viene quotidianamente recapitato attesta chiaramente che L’origine delle specie, la sua opera maggiore pubblicata nel 1859, è nota ormai in ogni angolo del mondo: tra i botanici delle isole dei Mari del Sud fino agli abitanti della Lapponia. Riceve naturalmente lettere anche da un cospicuo numero di pazzi che gli pongono sempre lo stesso interrogativo: qual è il posto del Creatore in un mondo governato dalle leggi dell’evoluzione? Lettere che hanno per lui il solo effetto di procurargli forti attacchi di quell’emicrania cronica per lenire la quale riceve da tempo le visite del dottor Beckett.
Medico incline al progresso scientifico, Beckett ha il coraggio di sperimentare nuovi metodi di cura e non ha soltanto Darwin tra i suoi pazienti di spicco. Si reca infatti spesso a casa di un esule tedesco affetto da una grave forma di bronchite: Karl Marx, filosofo ed economista, autore di un’opera anch’essa di vasta risonanza, Il capitale. L’orrenda aria londinese, ricca di nebbia e carbone, ha dato il colpo di grazia all’apparato respiratorio del pensatore tedesco, ma non ha minimamente arrestato la sua attività di studioso e di erudito.
Un giorno, dopo aver riposto lo stetoscopio nella borsa, lasciando vagare lo sguardo nella stanza di Marx, sul tavolino di legno accanto alla finestra Beckett scopre una copia consunta e corredata di numerosi foglietti dell’Origine delle specie. Quando di lì a poco, a casa di Darwin, si imbatte in una copia del Capitale, un’idea si affaccia, irresistibile, nella sua mente: far incontrare i due studiosi per scoprire magari quale costellazione di pensiero li unisca.
Mescolando finzione letteraria e verità storica, Ilona Jerger immagina l’incontro tra i due illustri pensatori del XIX secolo, dando vita a un romanzo brillante e pieno di humour, capace di trattare i grandi temi filosofici in maniera originale e ironica.

 

Ilona Jerger è cresciuta sul lago di Costanza, in Germania. Ha studiato letteratura e scienze politiche all’università di Friburgo. Fino al 2011 è stata caporedattore di un’importante rivista naturalistica. Oggi lavora come giornalista e scrive saggi, sempre in ambito scientifico naturalistico. E Marx tacque nel giardino di Darwin è il suo primo romanzo. Vive tra le Canarie e l’Austria.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Josè Saramago (1922-2010) – Oggi gli ideali socialisti stanno attraversando il deserto, ma dire che l’idea socialista è morta significa cadere in una tentazione molto comune all’uomo che, avendo una vita breve, tende sempre a pensare che qualche altra cosa muoia prima di lui. Io sono ancora comunista. Certo che lo sono e non riesco a immaginare me stesso essere qualcosa di diverso.

José Saramago, Io sono comunista

«Oggi gli ideali socialisti stanno attraversando il deserto, ma dire che l’idea socialista è morta nel 1989 significa cadere in una tentazione molto comune all’uomo che, avendo una vita breve, tende sempre a pensare che qualche altra cosa muoia prima di lui».

«Qualche volta ho riflettuto sul fatto che io sono ancora comunista. Certo che lo sono e non riesco a immaginare me stesso essere qualcosa di diverso. Ma ho capito che avevo bisogno di aggiungere qualcosa a questo dire “io sono un comunista,” e quello che sto aggiungendo è che io sono un comunista libertario.
Il comunismo in Unione Sovietica è crollato per le stesse ragioni per cui crollerà la democrazia: perché non si può sopportare un sistema che si suppone sia democratico, che viene proclamato come un governo del popolo, che mette ogni giorno in bocca alla gente la parola democrazia, senza che nessuno si fermi per lo meno a chiedere se davvero quella che stiamo vivendo abbia qualcosa a che vedere con la realtà che avrebbe dovuto creare. Viviamo in un epoca in cui tutto può essere discusso, tranne la democrazia. Nessuno in questo mondo si domanda se davvero la democrazia sta facendo ciò che per sua stessa definizione è chiamata ad essere. Il nome della democrazia non si tocca, la sua fallacia non si disvela e rimaniamo con gli occhi bendati, riempiendo la bocca con una parola che funziona come una rappresentazione falsata di qualcosa che non ha cominciato a esistere. La democrazia non può essere limitata alla semplice sostituzione di un governo con un altro. Abbiamo una democrazia formale, abbiamo bisogno di una democrazia sostanziale.
Io ero ospite del programma di Bernard Pivot, il giornalista francese, e mi ha chiesto: “Come mai sei diventato un comunista?”. E io, che non ci avevo pensato, ho detto: “voglio lasciare un importante contributo al marxismo e alle idee di sinistra ed è che, come la barba o hanno alcuni tratti genetici attribuiti agli ormoni maschili, io sono un comunista ormonale “. Può essere attribuito agli ormoni, anche se senza dubbio, sarebbe meglio attribuirli alla coscienza. Ultimamente sto dicendo: comunista sì, però credo che si debba cambiare il qualificativo: sono un comunista libertario.
Marx ed Engels hanno scritto nella Sacra famiglia: «se l’uomo è formato dalle circostanze, allora bisogna formare le circostanze umanamente». Niente di più chiaro, niente di più eloquente, niente di più ricco di senso. Non avevo ancora trent’anni quando, per la prima volta, lessi quelle parole. Furono, per così dire, la mia via di Damasco. Capii che mi sarebbe stato impossibile tracciare una rotta per la mia vita al di fuori di quel principio e che solo un socialismo integralmente inteso (dunque, il comunismo) avrebbe potuto soddisfare i miei aneliti di giustizia sociale. Molti anni più tardi, in una intervista con Bernard Pivot, che voleva sapere perché continuassi a essere comunista dopo gli errori, i disastri e i crimini del sistema sovietico, risposi che, essendo un comunista «ormonale», mi era impossibile avere delle idee diverse: gli ormoni avevano deciso. La spiegazione è più seria di quanto sembri: e forse si capisce meglio se dico che, in qualche modo, ha un equivalente nel «non possumus» biblico. Recentemente, suscitando lo scandalo di certi compagni dediti alla più canonica ortodossia, ho osato scrivere che il socialismo – e a maggior ragione il comunismo – è uno stato dello spirito. Continuo a pensarlo. E la realtà si incarica giorno dopo giorno di darmi ragione.
Come è che dopo la caduta dell’Unione Sovietica, il crollo del muro di Berlino, i processi di Mosca, l’invasione dell’Ungheria, come si continua a essere comunista? Mi piacerebbe rispondere chiedendo: ‘Voi siete cattolica? Come è che siete ancora cattolica dopo l’Inquisizione? ‘ Io sono quello che si potrebbe chiamare un’ comunista ormonale ‘. Che cosa significa questo? Proprio come nel corpo ho un ormone che mi fa crescere la barba, c’è un altro ormone che mi obbliga che lo voglia o no , per una sorta di fatalità biologica, ad essere comunista. E’ molto semplice. Più tardi, ho cominciato a dire che essere un comunista è uno stato d’animo. E lo è. Potete leggere Marx, le opere più importanti che Lenin scrisse, ma in fondo, in fondo, è uno stato d’animo. (…) Marx non ha mai avuto tanta ragione come ora.
Nella mia vita ho capito che l’alienazione è uguale che provenga da un potere o da un altro, da un colore o un altro. Ecco perché sto dicendo che sono un comunista libertario. Forse si può credere che tra questi due termini vi sia una contraddizione, ma io l’ho piuttosto bene risolta. Io dico comunismo, sì, io dico che si può. Però non per ripetere quanto è stato fatto. Alcune cose sì. Quello che ho capito è che non si può, nel nome di qualsiasi cosa, cercare di imporre quella che si suppone sia la felicità senza ascoltare l’altro. Non sei più importante o migliore dell’altro. Lui potrebbe aver ragione.
Il socialismo non può essere costruito contro cittadini o senza i cittadini, e per non aver compreso questo che a sinistra c’è oggi un campo di rovine, dove, dopo tutto, alcuni ancora insistono a cercare e incollare i frammenti delle vecchie idee con la speranza di essere in grado di creare qualcosa di nuovo … ‘riusciranno a farlo?’, mi hanno chiesto, e ho detto, ‘Sì, un giorno, ma io già qui non ci sarò a vederlo …’
Come scrittore, credo di non essermi mai separato dalla mia coscienza di cittadino. Ritengo che dove va l’uno dovrà andare l’altro. Non rammento di aver scritto una sola parola che fosse in contraddizione con le convinzioni politiche che difendo, ma questo non significa che abbia mai messo la letteratura al servizio diretto dell’ideologia che è la mia. Vuol dire, questo sì, che quando scrivo cerco, in ogni parola di esprimere la totalità dell’uomo che sono. Lo ripeto: non separo la condizione di scrittore da quella di cittadino, ma non confondo la condizione di scrittore con quella del militante politico».

Josè Saramago




Josè Saramago (1922-2010) – Mi lascia indifferente il concetto di felicità, ritengo più importanti la serenità e l’armonia
José Saramago (1922-2010) – Quanti anni ho, io? Ho l’età in cui le cose si osservano con più calma, ma con l’intento di continuare a crescere. Ho gli anni che servono per abbandonare la paura e fare ciò che voglio e sento. Per continuare senza timore il mio cammino, perché porto con me l’esperienza acquisita e la forza dei miei sogni.
Josè Saramago (1922-2010) – Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono.
Josè Saramago (1922-2010) – Marx ed Engels hanno scritto nella “Sacra famiglia”: «Se l’uomo è formato dalle circostanze, allora bisogna formare le circostanze umanamente». Il comunismo è per me uno stato dello spirito.
Josè Saramago (1922-2010) – Ecco cos’hanno di simpatico le parole semplici, non sanno ingannare.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Il nichilismo musicale dei Måneskin con «I Wanna Be Your Slave».

Måneskin, I Wanna Be Your Slave

La musica […] dà anima all’universo, ali al pensiero, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla gioia e vita a tutte le cose.  Essa è l’essenza dell’ordine, ed eleva ciò che è buono, giusto e bello, di cui è la forma invisibile ma tuttavia splendente, appassionata ed eterna.
Platone

Salvatore Bravo

Il nichilismo musicale dei Måneskin con «I Wanna Be Your Slave».

***

Nichilismo musicale
In questi giorni nelle TV di Stato, e in quelle del “mercato libero”, si esalta il successo della musica italiana. I Måneskin con I Wanna Be Your Slave sono i primi nelle classifiche mondiali ed in particolare inglesi. Si esalta il genio canoro italiano che riesce a scalare le classifiche dei paesi anglofoni. Ancora una volta il commento dei giornalisti è rivolto in primis al risultato. Si omette che il testo è rigorosamente in inglese, e che pertanto è un successo di cantanti italiani che si adattano ai parametri della globalizzazione, che esige che i “contenuti” debbano negare le lingue nazionali e debbono essere espressi nel nuovo esperanto imposto dai poteri globali: il più forte impone con la lingua il pensiero. Il testo esalta la libertà, ma la libertà si può declinare in una pluralità di semantiche. La libertà dei Måneskin è in “armonia” con l’attuale sistema: liberi nel corpo, nessuna identità, nessun impegno per cambiare le contraddizioni sociali ed economiche della globalizzazione. Il successo arriva, se i testi sono organici al potere che esige consumatori senza volto, senza genere, senza identità. La libertà non dev’essere libertà critica e propositiva, in cui la teoria e la prassi fondano aperture per nuovi orizzonti. I testi omologati e conformisti non devono denunciare i modelli economici e culturali che logorano la comunità per trasformarla in un immenso mercato di individui che cambiano identità nella stessa maniera con cui scelgono e cambiano prodotti. La loro libertà è regressiva, ed è urlata, in un arrogante “io voglio”. L’accento è posto sull’io, sulla brama onnipotente di essere tutto e di avere diritto a ogni desiderio, per cui si può essere in un momento gangster e subito dopo un bravo ragazzo. Si può essere tutto solo se si è niente. Il gioco narcisistico e capriccioso non deve avere limite. L’altro è cancellato dalla relazione, perché l’identità personale è solo una prigione, e pertanto si fugge da essa come da un peso gravido di responsabilità. Nessuna comunicazione affettiva ed erotica è possibile tra identità pronte ad evaporare nel gioco del desiderio che diviene il nuovo “giogo” non riconosciuto. Il sistema esalta questa “canora” libertà dei Måneskin in quanto non fa paura: soggetti senza identità, soggetti “liquidi”, creature camaleontiche pronte ad inseguire il prurito di ogni smania, dominate da pulsioni libidiche, si lasciano dominare senza che il potere imponga loro il dominio. Nei Måneskin non ci sono contenuti o ideologie, sono personalità che inseguono il mondo, si adattano al mondo fino ad essere il niente, ed il nulla non fa paura, anzi è accarezzato dal potere. In un passaggio del testo si afferma di voler usare l’altro come il telecaster, una chitarra versatile: non più persona, ma ente, un oggetto multiuso. L’odio verso l’identità ed il logos non potrebbe essere più loquace. Anche gli oggetti devono essere nell’ottica della liquidità senza forma e stabilità. La relazione è sempre nell’ottica del padrone e dello schiavo, mai paritaria, e dunque in linea con il sistema attuale che divide l’umanità in schiavi e padroni. Il testo dei Måneskin, presentato come trasgressivo, è il volto, la maschera della contemporaneità, del cattivo gusto, che ammicca e rappresenta la verità del sistema: violenza e nichilismo. Il verbo volere ripetuto ossessivamente è il segno della regressione infantile. Il volere incondizionato è una forma di aggressività in cui è avviluppata la società intera. La derealizzazione ha come punto cardine il desiderio illimitato che sospinge adulti e giovani in uno stato di frustrazione e mortificazione continua, perché il principio di realtà e razionalità confligge con il desiderio assoluto di metamorfosi. La sostituzione del principio di realtà con il principio di piacere indebolisce le personalità, le rende prossime alla loro rovina. La fuga dalla realtà sociale e politica favorisce le oligarchie che usano la musica leggera e di facile consumo come strumento di colonizzazione delle menti, e nella propaganda idolatra i mediocri artisti sono servi del sistema:

Voglio essere il tuo schiavo
Voglio essere il tuo padrone
Voglio far battere il tuo cuore
Correre come le montagne russe

Voglio essere un bravo ragazzo
Voglio essere un gangster

Perché tu puoi essere la bellezza
E io potrei essere il mostro
Voglio renderti silenzioso
Voglio renderti nervoso
Voglio lasciarti libera

Ma sono troppo fottutamente geloso
Voglio tirare i tuoi fili
Come se tu fossi il mio telecaster
E se vuoi usarmi potrei essere il tuo burattino

 Perché sono il diavolo
Che sta cercando la redenzione
E io sono un avvocato
Che sta cercando la redenzione
E sono un assassino
Che sta cercando la redenzione
Sono un fottuto mostro
Che sta cercando la redenzione

 Voglio essere il tuo schiavo
Voglio essere il tuo padrone”.

 


Musica e senso
Lo sguardo filosofico dev’essere capace di concettualizzare la tragedia quotidiana, di farla emergere nei suoi aspetti più banali e veri. La filosofia è anche impegno politico, e come tale deve, senza moralismi, essere interprete del presente, in modo da permettere il passaggio dall’uso passivo dei messaggi ideologici alla fruizione attiva e critica, in modo che la cultura emancipatrice possa far scorgere la valenza ideologica dei contenuti che circolano per smascherane la complicità con il sistema. Alla musica che depotenzia le personalità facendole evaporare nelle pulsioni, favorendo i fini imposti dalla società del mercato che ordina la libertà del corpo di consumare illimitatamente, ed impedisce la pratica del pensiero critico e del conosci te stesso, si può opporre Platone con le sue osservazioni sulla musica. Quest’ultima deve metter le ali al pensiero, deve portare ad un viaggio interiore, in cui il logos fonda la verità in un “io” che incontra il “noi”, e persegue il bene come fine di ogni vita pienamente vissuta. Platone nei suoi dialoghi delinea il senso della musica:

“La Musica è una legge morale: essa dà anima all’Universo, ali al pensiero, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla gioia e vita a tutte le cose. Essa è l’essenza dell’ordine ed eleva ciò che è buono, giusto e bello, di cui è la forma invisibile, ma tuttavia splendente, appassionata ed eterna”.

Sorge la domanda se la musica che invade i nostri vissuti sia motore della dialettica dei buoni fini o neghi l’umanità nella sua capacità di elevarsi verso mete che la rendono degna di se stessa. Si assiste, invece, ad una decadenza che ha consumato il suo punto di caduta, e pertanto propina solo trasgressioni omologate e conformiste fino alla noia. Si attende la vera trasgressione la quale ha come fondamento il logos e la ricerca della verità.

Salvatore Bravo


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Clifford Geertz (1926-2006) – La Cultura deve essere intesa come una cornice fondatrice di senso. Questo significa un atteggiamento critico verso modi di pensare che riducono le cose a uniformità, omogeneità, concordanza di vedute e consenso.

Clifford Geertz 01

«La Cultura deve essere intesa come una cornice fondatrice di senso, all’interno della quale gli uomini vivono e danno forma alle loro convinzioni ed al loro sé, e come una forza regolatrice in fatto di questioni di convivenza umana. […] Questo significa un atteggiamento critico verso modi di pensare che riducono le cose a uniformità, omogeneità, concordanza di vedute e consenso».

Clifford James GeertzAntropologia e filosofia: frammenti di una biografia intellettuale, il Mulino, Bologna 2001.

 

«[…] senza l’aiuto di modelli culturali, l’uomo sarebbe funzionalmente incompleto […] una specie di mostro informe senza meta né potere di autocontrollo, un caos di impulsi spasmodici e vaghe emozioni. […] L’uomo ha bisogno di […] fonti simboliche di illuminazione per trovare la sua strada nel mondo, perché quelle di tipo non simbolico, inserite nel suo corpo costituzionalmente, gettano una luce troppo soffusa. […] All’uomo sono date capacità innate di reazione estremamente generali che lo lasciano regolato con molta minore precisione: […] non diretto da modelli culturali – sistemi organizzati di simboli significanti – il comportamento dell’uomo sarebbe praticamente ingovernabile, un puro caos di azioni senza scopo e di emozioni in tumulto, la sua esperienza sarebbe praticamente informe. La cultura, la totalità accumulata di questi modelli, non è un ornamento dell’esistenza umana ma – base principale della sua specificità – una condizione essenziale per essa».

Clifford James Geertz, Interpretazione di culture [The Interpretation of Cultures, 1973], traduzione di E. Bona, il Mulino, Bologna 1987.

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