Serafina Rotondaro – Il sogno in Platone. Fisiologia di una metafora. Prefazione di Giovanni Casertano

Introduzione alla seconda edizione


Prefazione di Giovanni Casertano


Introduzione


Sommario


Serafina Rotondaro è attualmente dirigente scolastica. Laureata in Filosofia ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Napoli «Federico II»˝, ove è stata anche assegnista di ricerca occupandosi del volontario e dell’involontario nella filosofia di Platone. È stata cultrice della materia collaborando con la cattedra di Filosofia Antica del Prof. Giovanni Casertano, che è stato anche suo relatore per la tesi di laurea. Ha ricoperto incarichi di docente a contratto di Storia della Filosofia Antica presso l’Università degli Studi di Messina e presso l’Università degli Studi della Basilicata. È stata vincitrice di una borsa di studio post dottorato presso il CRIE (Centro di Ricerca sulle Istituzioni Europee – Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa) impegnandosi in attività di studio e di ricerca sul tema Unità e disunità della polis. È autrice di vari articoli sul pensiero antico e su Platone pubblicati in volumi collettanei e riviste internazionali.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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e saranno immediatamente rimossi.

Per ridare luce alle sue riflessioni in un periodo di buio inquietante illuminato solo da lampi di guerra, Salvatore Bravo ci parla di Massimo Bontempelli, filosofo e storico.

Salvatore Bravo

Massimo Bontempelli filosofo e storico

 

Il 31 luglio 2011 a Pisa Massimo Bontempelli filosofo, storico e docente veniva a mancare improvvisamente. Nel tempo del pensiero unico e del “capitalismo totale” Massimo Bontempelli osò divergere dalla “mediocrità imperante”. Tutta la sua opera è segnata dalla faticosa ricostruzione dell’universale. Il senso della filosofa è la verità con cui valutare la totalità del sistema socio-economico. La filosofia è nella storia, ma non si disperde in essa, poiché risponde ai problemi e ai drammi etici del proprio tempo. Le domande, i dubbi e le valutazioni onto-assiologiche devono portare a risposte fondate a livello teoretico. La filosofia non è l’anima bella che fugge dalla storia, ma la vive in ogni dimensione rischiando l’errore nell’elaborare soluzioni. Con il dialogo le risposte sono vagliate e gli errori in tal modo non divengono “violenza” e non si trasformano in “tragedia”. Massimo Bontempelli da hegelo-marxiano fu tutto questo. L’impegno politico si coniugò con la ricerca teoretica per trasformarsi in prassi. Fu educatore nei licei; in un’intervista nel 2012 Costanzo Preve nel ricordarlo affermò che egli fu un «professore di liceo felice» e che si occupò «sistematicamente di scuola»[1]. C. Preve ne riconobbe la profondità filosofica ostracizzata dal sistema.

La scuola in quanto istituzione etica fu sicuramente “il luogo di senso” in cui concentrò la sua azione sociale e politica. Ricordarlo come educatore significa rammentare il suo impegno per ricostruire nel tempo del capitalismo la “memoria etica” senza la quale la prassi è impossibile. La memoria etica è la storia degli uomini che hanno vissuto la storia, si sono confrontati con le sue contraddizioni e ne hanno colto le potenzialità per rendere il “progetto politico comunitario reale e razionale”.

Le condizioni storiche sono la miccia, ma senza gli uomini capaci di comprenderle e di usarle tatticamente nei tempi opportuni nulla è possibile. L’umanesimo di Massimo Bontempelli si rivela nella organica ricostruzione degli eventi storici nei quali le circostanze storiche diventano concetti per la prassi mediante il “pensiero agente” degli uomini. L’educazione storica è l’architrave fondamentale, in quanto la storia è il tempo degli uomini e delle donne nel quale l’umanità si rivela nella sua natura e nella sua progettualità politica. Da neoidealista di sinistra, mentre imperava lo specialismo, riaffermò la visione e la pratica olistica della cultura che forma alla ragione dialogante. Storia e filosofia non possono essere scisse, con tale pratica si degradono a meri strumenti senza profondità e senza visione della totalità sociale.

Insegnare storia significa ritrovarsi e trarre dall’esperienza di coloro che ci hanno preceduto la forza plastica per riprendere il cammino. La storia è materia viva da trasmettere, è il punto di mediazione e di contatto tra le generazioni e le dimensioni temporali del tempo.

 

Cultura della cancellazione e Rivoluzione russa

La storia è oggetto dei processi di cancellazione: il capitalismo totale deve espellerla dall’orizzonte comunitario per ipostatizzarsi. Alla guerra ideologica del capitalismo contro la storia Massimo Bontempelli “agì” facendo di essa uno dei capisaldi della sua riflessione. La sua produzione intellettuale annovera anche manuali di storia con i quali denunciò il graduale svuotamento dei contenuti e della ricostruzione degli eventi sostituiti dall’esemplificazione ideologica. Si disimpara così a pensare e, di conseguenza, il capitalismo totale può continuare la sua bruciante corsa nichilistica. La narrazione storica in Massimo Bontempelli è complessità che si delinea all’interno di innumerevoli variabili, le quali sono da contemplare-pensare per decodificare gli avvenimenti.

La rivoluzione russa del 1917, ne è un esempio, essa è trattata inanellando e coordinando tra di loro una serie di circostanze che prendono forma mediante i protagonisti della stessa. La rivoluzione non è mai necessaria, ma è umanesimo nella storia. Lenin potè innescare il processo rivoluzionario, in quanto comprese che gli eventi storici si disponevano ad uno scontro fatale dal quale poteva scaturire la rivoluzione. Pensò gli eventi che si presentavano a lui e al partito bolscevico per padroneggiarli e orientarli verso la rivoluzione:

 

«Nel settembre 1917, nella provoncia di Tambov si verificarono numerosi episodi di saccheggi e incendi di tenute nobiliari ad opera di torme di contadini che ne avevano occupato le terre, con ferimenti e omicidi di proprietari ed amministratori. […] Ma la contingenza decisiva è il ritorno nelle campagne di numerosissimi soldati congedati, o disertori, o appartenenti a reparti discioltosi, che portano l’abitudine alla violenza omicida acquisita in guerra nelle loro famiglie, indirizzandole a prendersi di forza le risorse di cui hanno bisogno. L’eccezionale genialità dispiegata da Lenin nel 1917 si rivela soprattutto nel settembre di quell’anno, quando egli solo comprende rapidamente che sta montando in Russia una gigantesca sollevazione contadina, e che le prospettive sociali e politiche del paese risultano radicalmente mutate: o le masse rurali in rivolta vedono le loro esigenze soddisfatte e incanalate in una nuova legalità da una rivoluzione proletaria, oppure creeranno un caos sociale contro il quale si leverà una dittatura repressiva. Kerenskij si sta già preparando al ruolo di repressore»[2].

 

Lenin soltanto comprese che la rabbia, la fame, l’inflazione e le stragi della Grande Guerra rimaste inascoltate dal governo Kerensky erano possibilità storiche irripetibili e che avrebbero condotto ad una radicalizzazione favorevole alla rivoluzione. Alla repressione e al disincanto del governo borghese bisognava dare, dunque, una forma progettuale rivoluzionaria e una speranza all’alteza dei tempi. La storia muta velocemente, pertanto nelle situazioni di crisi bisogna disporsi ad adattare i mezzi per raggiungere lo scopo:

 

«Lenin ritiene che la situazione russa si sia drammaticamente semplificata fino ad una alternativa secca: o dittatura borghese o dittatura proletaria. Con la rivolta contadina, con il rifiuto dei menscevichi e socialrivoluzionari di lottare per soddisfarne le esigenze, e con la scelta esplicitamente repressiva di Kerenskij, la prospettiva di uno sviluppo pacifico della rivoluzione, da lui ardentemente sostenuta qualche settimana prima, si è a suo avviso chiusa: un’opposizione puramente legalitaria dei bolscevichi non sarebbe ormai, in assenza di un governo democratico fondato sui soviet, e in presenza di una rivolta contadina, che una copertura della dittatura borghese»[3].

 

Il linguaggio che utilizza Massimo Bontempelli non lascia spazio a dubbi. La cultura del pensiero si trasmette con un linguaggio fruibile a un pubblico vasto pur conservando la qualità della ricostruzione genealogica della storia. Qualità e quantità si armonizzano nello stile vivace finalizzato a far entrare il lettore nel turbinio storico. Riprendiamo la dinamica rivoluzionaria. Lenin ha compreso che la rivoluzione è nella storia, ma necessita di essere resa atto reale e razionale. Al comitato del partito bolscevico Lenin dimostra che la “grande occasione” è dinanzi a loro. Il popolo non è ancora pronto per l’isurrezione che sarà condotta da un manipolo di esperti. La precisione con cui Massimo Bontempelli descrive i momenti nodali si fa tagliente: indica il giorno esatto alla fine del testo, in modo che il lettore viva il magma della rivoluzione che prende forma nel tempo e mentre legge e può immergersi in esso:

 

«La fatica maggiore che Lenin deve compiere è infatti paradossalmente quella di convincere il comitato centrale del partitio bolscevico ad intraprenndere l’insurrezione. L’insurrezione, poi, affidata a un comitato militare rivoluzionario istituito dai soviet di Pietroburgo sotto la guida di Trotzskij, si compie facilmente in un solo giorno con la fuga di Kerenskij e la vittoria degli insorti. Il giorno è il 7 novembre 1917»[4].

 

Il Comitato generale dei soviet nel 1918 entra direttamento in contraddizione con l’Assemblea costituente. Il comitato generale dei soviet approva i decreti per rendere la Russia uno Stato comunista, ma l’Assemblea costituente rifiuta di convalidare i decreti. I due poteri si confontano ed entrano in conflitto. La rivoluzione accelera, ma rischia di arenarsi dinanzi all’Assemblea costituente. Le elezioni dell’Assemblea costituente si tennero la domenica del 25 novembre 1917 col sistema proporzionale, la maggioranza relativa era dei socialrivoluzionari. Ancora una volta solo una iniziativa veloce ed efficace consente a Lenin di superare lo scoglio della Costituente. L’Assemblea eletta a suffragio universale respinse la limitazione dei suoi poteri, per cui il conflitto si risolse con la chiusura dell’Assemblea e con l’instaurarsi nei fatti della dittatura comunista leninista:

 

«Così l’Assemblea costituente è stata privata, prima ancora di aver cominciato le sedute, di gran parte degli effettivi poteri costituenti, in quanto la configurazione essenziale dei rapporti economici e sociali è stata disegnata dai decreti governativi seguiti alla rivoluzione d’Ottobre, e punti fondamentali del’assetto dello Stato sono stati predisposti dall’accordo tra socialrivoluzionari e bolscevichi. Nella sua prima riunione, tenutasi venerdì 18 gennaio 1918 il palazzo di Tauride a Pietroburgo, l’Assemblea costituente respinge ogni limitazione ai suoi poteri»[5].

 

Nella storia

Il 19 gennaio 1918, un sabato, il capo delle guardie rosse Anatolij Zeleznjakov[6] chiuse l’Assemblea costituente. Massimo Bontempelli riporta il giorno della settimana e i nomi degli uomini che furono protagonisti. La storia per renderla concreta e poterla pensare ha bisogno di dettagli che favoriscono la sua visione nel pensiero. Logica, documenti e analisi del contesto devono ritrovarsi nella rappresentazione della medesima. Filologia e filosofia sono sempre in relazione proficua.

Lo scioglimento dell’Assemblea non suscitò grandi reazioni, poiché i decreti per la ridistribuzione delle terre e la statalizzazione dei mezzi di produzione erano stati emanati dal Comitato centrale del partito bolscevico e incontrarono l’approvazione di contadini poveri e degli operai. Ora incombeva il pericolo tedesco. Anche in questo caso Lenin comprese che non c’era alternativa alla “pace oscena” come lui l’aveva denominata. Per salvare la rivoluzione bisognava accettare la pace tedesca. I bolscevichi erano ostili alla “pace oscena”, ancora una volta il suo genio solitario vide prima dei suoi compagni che non c’era alternativa. I tedeschi ripresero l’offensiva che avrebbe potuto far crollare la rivoluzione, e dunque ci si convinse che la scelta di Lenin era l’unica praticabile:

 

“La Germania , però, rifiutando la richiesta bolscevica di una pace generale senza annessioni, pretende proprio ciò che i bolscevichi avevano escluso, vale a dire una pace separata e annessionistica fino alla rapina. Lenin ritiene tuttavia tragicamente necessario accettare la pace voluta dai tedeschi, essendo impensabile la continuazione della guerra con un esercito in disfacimento, con soldati che non vogliono più assolutamente combatterla, con la produzione delle armi ridotta, con una drammatica penuria di viveri che non consentirebbe l’approviggionamento alimentare di milioni di armati, e dopo aver vinto la rivoluzione agitando la parola d’ordine pace ad ogni costo. Il comintato centrale bolscevico respinge ripetutamente la proposta di Lenin di sottoscrivere quella che lui stesso definisce “la pace oscena”, e la accetta soltanto quando i tedeschi, ripresa l’offesnsiva militare, travolgono facilmente ogni tentativo di resistenza, devastano territori, e minacciano la capitale. La pace stipulata a Brest Litovsk tra la Russia e gli imperi centrali domenica 3 marzo 1918 impone alla Russia la rinuncia della Polonia, della Lituania, della Volinia, della Podolia, della Lettonia, dell’Estonia e dell’Ucraina»[7].

 

Ancora una volta per dare rilevanza e materialità all’evento Massimo Bontempelli indica il giorno della settimana in cui cade l’evento che salva la rivoluzione, i cui costi sono evidenti. Tra il 6 e il 9 marzo al settimo congresso del partito bolscevico si approvò il trattato di pace e il partito bolscevico divenne “partito comunista”. Si deliberò il passaggio della capitale da Pietroburgo a Mosca, in quanto Pietroburgo era troppo vicina all’area del conflitto e si decise l’istituzione di squadre annonarie con il compito di prelevare le risorse alimentari da ridistribuire nelle città. La rivoluzione non poteva che sopravvivere che con la svolta autoritaria, poiché era sotto assedio.

 

Psicologia e storia

Massimo Bontempelli procede con il profilo psicologico di Lenin, in modo da comunicare al lettore che la storia vive non solo nelle relazioni strutturali ma anche nella biografia dei suoi attori.

La famiglia reale è sterminata il 17 luglio 1918. Nicola II con la zarina Alessandra e i cinque figli concludono la loro esistenza fucilati, mentre le truppe bianche erano in procinto di liberare la città in cui sono prigionieri. Il comitato centrale decise per la strage in modo da impedire che diventassero una forza catalizzatrice della reazione. Dietro tale decisione non ci sono solo ragioni di carattere storico e di opportunità politica. Il fratello di Lenin fu impiccato nel 1887 per aver partecipato all’attentato contro lo zar Alessandro III. La famiglia Lenin subì la marginalizzazione del governo zarista. La cicatrice non era mai stata superata da parte di Lenin che colse l’occasione per vendicarsi.

Egli ormai era parte di un contesto di violenza, sempre più si identificava con il Partito, unica ancora di salvezza, in una realtà instabile e aggressiva. La dittatura si configurava in un clima feroce. Le potenza capitalistiche attaccarono la Russia da ogni parte. Il 26 maggio 1918 con l’occupazione della città di Celiabinsk negli Urali iniziò la guerra civile. Tutto era violenza e la rivoluzione non poteva che usare la stessa per difendersi e sopravvivere:

 

«Si è anche scoperto che l’eccidio di Ekaterininburg, è stato invece deciso dal comitato centrale del partito, da tempo impegnato a discuterne l’opportunità o meno, e dotato di una linea diretta di comunicazione con i dirigenti degli Urali. Lenin ha voluto l’eccidio non soltanto per eliminare il polo di influenza controrivoluzionaria rappresentato dalla famiglia reale, ma anche per vendicarsi dell’uomo che gli aveva sconvolto l’adolescenza facendo impiccare il suo venerato fratello maggiore, e, in lui, anche tutto l’ambiente monarchico che aveva emarginato la sua famiglia dopo l’esecuzione di suo fratello, costringendolo ad abbandonare la sua città natale. La violenza da cui Lenin si lascia prendere nasce in un contesto storico di feroci scontri sociali, di totale instabilità dei rapporti di potere, e di gravissime minacce armate alla rivoluzione. In questo contesto egli non ha alcun altro punto d’appoggio, per fronteggiare difficoltà inaudite e respingere attacchi tremendi, che il partito comunista, e ciò lo induce ad identificare la salvezza della rivoluzione con la conservazione del potere da parte del partito comunista»[8].

 

Per leggere la storia è necessario lo spirito di finesse; il lettore degli eventi storici deve entrare nella psicologia degli attori storici. Si impara così a decentrarsi e ad entrare in una cornice storica altra e nel contempo ci si conosce. Massimo Bontempelli accompagna sempre le sue analisi degli eventi storici con l’esame delle motivazioni psicologiche delle azioni nei contesti storici. Nel testo sulla resistenza italiana si sofferma sulle motivazioni che condussero Mussolini ad accettare la dipendenza da Hitler dopo la sua liberazione:

 

«Ma perché, allora, Mussolini sceglie di rientrare nella grande politica al servizio di Hitler come suscitatore di guerra civile, quando non soltanto è un uomo stanco e avvilito che sente un gran bisogno di tranquillità, ma viene subito messo al corrente del terribile prezzo personale che dovrà pagare per tale scelta, quello cioè di farsi assassino di suo genero? La risposta giusta l’ha data Giorgio Bocca nel suo bel libro La Repubblica di Mussolini e cioè che Mussolini ha una necessità interiore di recitare una parte nella grande politica, di vivere da politico nella politica, per sopravvivenza identitaria, essendo, come uomo normale, troppo inconsistente e vuoto»[9].

 

La storia invoca i “nostri perché” senza i quali siamo solo delle comparse sul palcoscenico della storia. Il potere, spesso, ha la sua ragion d’essere in circostanze storiche nelle quali personalità “di superficie” trovano le condizioni per esprimere massimamente il vuoto. La loro tragedia personale diventa la sofferenza di interi popoli condotti al macello da menti irrazionali. Riconoscere il pericolo di tali personalità è fondamentale; la studio della storia è un valido ausilio per i popoli, i quali imparano a difendersi con analogie critiche ed analisi.

 

Perché studiare la storia?

Studiare la storia è uno dei modi per umanizzarsi. Conoscere la storia favorisce la consapevolezza individuale e collettiva di ciò che è stato e ciò non può che chiarire il percorso da intraprendere verso una società a misura d’uomo. Massimo Bontempelli così definisce il senso dello studio della storia rimosso dal capitalismo totale:

 

«Perché viviamo in una società che, interamente dominata e incessantemente riplasmata dagli automatismi di mercato e della tecnica, non ha più alcun baricentro che la preservi da mutamenti umanamente devastanti. Perché, quindi, l’educazione di cui la società ha oggettivo bisogno è un’educazione all’autonomia di pensiero e al valore della personalità spirituale dell’uomo. Perché l’asse culturale più congruo a questa finalità educativa è rappresentato dalla conoscenza storica, in quanto si tratta di una conoscenza particolarmente in grado di far emergere possibilità antropologiche cancellate dall’attuale sviluppo sociale, ma custodite nella memoria del passato»[10].

 

Nell’introduzione a Il respiro del Novecento Massimo Bontempelli ribadisce tre criteri per pensare e produrre la storia: la narratività, l’organicità e l’espressione sociale. La narratività è il racconto degli eventi storici “presentandoli con il colore della concretezza vissuta”. Si evita, così, l’effetto estraniante. L’organicità si occupa della ricostruzione degli eventi secondo una “concatenazione significativa”, mentre l’espressività sociale riporta il singolo episodio al contesto di cui è espressione, esso è “una tappa” di un processo dinamico.

 

Rileggere Massimo Bontempelli è il modo migliore per far rivivere un filosofo e uno storico di spessore indigesto al tempo della mediocrità che prepara la barbarie. Quest’ultima non è inevitabile, possiamo trarre energia etica dall’impegno di coloro che non sono passati invano. Gli esseri umani sono intessuti di storia, sono storia vivente, essi possono pensare la storia,e questa è la libertà che la storia ci insegna faticosamente a riconquistare e a cui, se rinunciamo, non siamo dissimili dagli enti che subiscono l’azione meccanica del caso. Massimo Bontempelli ci invita a ripensare il nostro rapporto con la storia e non possiamo che disporci ad ascoltare la sua passione politica e filosofica che continua a dialogare con noi nei suoi testi. Il capitalismo totale è una visione del mondo, non è solo pratica economica e crematistica. Ad esso è necessario opporre un modello culturale radicale e altro che possa palesare “la miseria etica del capitalismo”. Il neoidealismo di Massimo Bontempelli si presta a tale operazione di verità e da ciò deduciamo le ragioni dell’ostracismo che grava sul suo pensiero. A noi il compito di ridare luce alle sue riflessioni in un periodo di buio inquietante illuminato solo da lampi di guerra.

[1] https://youtu.be/4iJiXBuLzig

[2] Massimo Bontempelli, Il respiro del Novecento, Percorso di storia del XX secolo, Volume I (1914-1945), C.R.T. 2002 Pistoia, pp. 118-119.

[3] Ibidem, p. 119.

[4] Ibidem, p. 121.

[5] Ibidem, p. 129.

[6] Ibidem, p. 130

[7] Ibidem, pp. 130 131.

[8] Ibidem, pp. 131 132.

[9] Massimo Bontempelli, La Resistenza italiana Dall’8 settembre al 25 aprile Storia della guerra di liberazione, CUEC Cagliari 2009, p. 39.

[10] Massimo Bontempelli, Il respiro del Novecento, Percorso di storia del XX secolo, Volume I (1914-1945), C.R.T. 2002 Pistoia p. 5.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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