Alessandro Dignös – Uno Spinoza diverso. L’«Ethica» di Spinoza e dei suoi amici, di Piero Di Vona.

Spinoza- Di Vona Pietro-Alessandro Dignös
Alessandro Dignös

Uno Spinoza diverso. L’Ethica di Spinoza e dei suoi amici

di Piero Di Vona

Un possibile nuovo punto di partenza
per una reinterpretazione della filosofia di Spinoza

***

Lo scopo principale del presente studio di Piero Di Vona (1928-2018), insigne conoscitore e interprete della filosofia di Spinoza, è quello di «sollevare qualche dubbio sul modo in cui l’Ethica», il capolavoro del pensatore olandese, «si è formata» (p. 5). Tali dubbi non comportano il rifiuto del testo dell’opera in nostro possesso, giacché, come osserva lo studioso, esso appartiene alla storia del pensiero e, come tale, deve essere accettato. L’obiettivo del saggio di Di Vona è invece quello di chiarire se, e in che misura, «l’Ethica che possediamo uscì per intero dalla penna di Spinoza» (p. 9).
Secondo lo studioso, l’opera a noi giunta non riflette interamente il pensiero dell’autore, poiché «fu corretta dagli amici cristiani di Spinoza» (p. 10), cioè da quegli amici che, alla morte del filosofo, lavorarono all’edizione degli Opera Posthuma, di cui l’Ethica è parte integrante. Essi, per Di Vona, non si limitarono a correggere il latino dell’autore, ma intervennero sull’Ethica e sull’Epistolario, «stabilendo quali lettere si potessero pubblicare e quali no» (Ibidem). Dati gli interventi degli editori sul testo dell’opera, più che di Ethica di Spinoza, sarebbe corretto parlare di Ethica “di Spinoza e dei suoi amici”. Il presente lavoro di Di Vona è volto a fare luce sulle ragioni a supporto di questa tesi.

Ora, per capire quale sia l’intento degli amici di Spinoza, è opportuno rivolgersi al sottotitolo che compare nella traduzione nederlandese (dal latino) del Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità. In tale sottotitolo, scritto non da Spinoza ma dal traduttore, un suo amico, si sostiene che il trattato è stato tradotto «a beneficio degli amanti della verità e della virtù, […] affinché i malati nell’intelletto siano guariti con lo spirito di mitezza e tolleranza, secondo l’esempio di Cristo, nostro miglior maestro» (Sottotitolo). In verità, nell’opera di Spinoza non si fa riferimento a Cristo; l’accostamento tra la dottrina del filosofo e la morale cristiana si deve unicamente al traduttore. Da qui, sottolinea Di Vona, risulta evidente «il tentativo di fare di Spinoza un cristiano, o di presentarlo come un cristiano» agli occhi della comunità intellettuale – un intento che «è dunque antico tra gli amici di Spinoza e risale alla sua giovinezza» (p. 10), vale a dire al tempo dei suoi esordi filosofici.

L’obiettivo degli amici-editori degli Opera Posthuma di Spinoza è anzitutto quello di «difendere la filosofia di Spinoza dalle principali obiezioni filosofiche che circolavano su di essa già a quei tempi» e «assolvono questo compito cercando di dimostrare che non c’è nessuna discrepanza tra le idee di Spinoza e la dottrina di Cristo e degli apostoli» (p. 11). Che l’intento degli amici di Spinoza fosse proprio questo, rileva lo studioso, emerge con chiarezza nella Prefazione a tali scritti. Costoro, tuttavia, non riconducono a sé l’idea che si dia una concordanza tra la filosofia spinoziana e gli insegnamenti di Cristo, ma asseriscono che tutto ciò appare evidente nella parte IV dell’Ethica.

Ed è qui che, per Di Vona, vi sarebbero alcune “anomalie” che portano a pensare ad un intervento sul testo spinoziano. In particolare, nello scolio della proposizione 68, si fa riferimento alla vicenda di Adamo ed Eva e si sostiene che l’uomo cessò di essere libero allorché cominciò ad agire come gli animali, ritenendo che fossero suoi simili; subito dopo, si afferma che la sua libertà fu recuperata dai Patriarchi «guidati dallo Spirito di Cristo, ossia dall’idea di Dio, dalla quale sola dipende che l’uomo sia libero e che desideri per gli altri uomini il bene che desidera per sé» (Prop. 68, Scolio).

Questo passo dell’Ethica di Spinoza risulta problematico per diverse ragioni. Innanzitutto, si deve osservare come esso sia il solo luogo del capolavoro spinoziano in cui si fa riferimento a Cristo – un fatto che «deve renderci molto vigili nel giudicarne il valore conoscitivo e l’attribuzione a Spinoza stesso» (p. 20). In secondo luogo, l’idea che lo Spirito di Cristo si sia, in un certo senso, manifestato ai Patriarchi contrasta con ciò che Spinoza afferma in altri luoghi della sua opera, nonché con ciò che scrive nel Tractatus Theologico-Politicus – un’opera pubblicata mentre costui era vivo, dunque impossibile da “correggere” per gli editori cristiani. Come mette in luce Di Vona, Spinoza, quando si riferisce a Cristo, allude sempre a «come visse e si manifestò in un dato tempo e in una certa regione della terra e non asserisce mai, né suppone mai, che prima che Abramo fosse Egli era (Giovanni, VIII, 58) […]. Cristo non parla, né si manifesta mai a uomini di un tempo passato, né Spinoza fa mai la supposizione ch’egli si fosse mai manifestato ad uomini del passato» (p. 36). Stando così le cose, «sembra evidente che», nella prospettiva spinoziana, «non si potesse avere lo Spirito di Cristo prima che Gesù Cristo fosse» (p. 37). L’identificazione dello «Spirito di Cristo» con l’«idea di Dio» presuppone la dottrina trinitaria cristiana, che fa coincidere Cristo col Verbo di Dio, e dunque con Dio stesso; in questa prospettiva, lo Spirito di Cristo è chiaramente precedente l’esistenza dell’uomo Gesù. Tuttavia, si tratta di un’idea inconciliabile con la concezione spinoziana del Dio-Natura, la quale, rigettando l’idea che Dio possa «diventare una res finita come Gesù» (p. 39), implica ovviamente la ferma negazione dei dogmi cristiani dell’incarnazione e dell’eucaristia.

La seconda ragione per cui il passo in questione appare estremamente dubbio emerge, secondo Di Vona, se lo si confronta con ciò che Spinoza scrive nel Tractatus Theologico-Politicus a proposito di Adamo e dei Patriarchi. Qui il filosofo «rigetta interamente la caduta di Lucifero, la caduta di Adamo e la sua conseguente riduzione allo stato di natura lapsa» (p. 43), ossia di natura decaduta; in generale, se è vero che il nome di Adamo compare in più luoghi dell’opera, è altresì vero che non si dice mai che in seguito alla sua caduta gli uomini si snaturarono e divennero animali. Per Spinoza «non c’è mai stata una natura lapsa, e tanto meno una riduzione di Adamo e dei suoi discendenti allo stato animale»: infatti, «l’intelletto di Adamo e dei suoi discendenti è rimasto integro e capace di condurre l’uomo alla libertà della mente ed a riconoscere l’eternità della mente, sebbene come noi fosse soggetto agli affetti e alle passioni» (p. 47). Per quanto concerne i Patriarchi, lo studioso osserva come dalla lettura del Tractatus risulti evidente che «per Spinoza […] ebbero, come tutti gli altri Ebrei, una conoscenza del Dio delle narrazioni sacre, non la conoscenza chiara e distinta dovuta al lume naturale» (p. 42). Essi non compresero dunque l’«idea di Dio» grazie allo Spiritus Christi, ma ebbero una concezione antropomorfica del divino identica a quella di ogni altro Ebreo.

Dato quanto emerge, secondo Di Vona è lecito concludere che la parte dell’Ethica in cui si allude alla caduta di Adamo e alla restituzione della libertà da parte dei Patriarchi «guidati dallo Spirito di Cristo, ossia dall’idea di Dio», sia «una aggiunta estranea di cristiani troppo zelanti nel vano intento di difendere Spinoza dall’accusa di empietà e di ateismo» (p. 47). Questo obiettivo è perseguito dai suoi amici per mostrare che le sue idee sono in linea con i racconti delle Sacre Scritture e per suggerire che la libertà umana, per costui, coincide con la libertà cristiana. Si spiega in questo modo la totale discordanza tra ciò che si afferma in quel luogo dell’Ethica e ciò che Spinoza sostiene nel Tractatus Theologico-Politicus. Poiché, come emerge in quest’opera, «non c’è mai stata una natura lapsa» a causa di Adamo, «non c’era nessun bisogno per il nostro filosofo che i Patriarchi, ignoranti e capaci solo di avere un’idea antropomorfica di Dio, grazie allo Spirito di Cristo identico alla “idea di Dio”, non si sa come ottenuti, venissero a restituire non si sa come la libertà della mente a uomini ridotti allo stato animale» (Ibidem). In conclusione, lungi dall’essere dovuta ad “errori” o “sviste” dello stesso Spinoza, questa discrepanza è dovuta ad un vero e proprio intervento esterno da parte degli editori.

A questo punto, è forse possibile chiedersi se vi fosse una “ragione profonda” dietro tale tentativo di “cristianizzazione” della filosofia di Spinoza compiuto dai suoi amici. Di Vona mette in luce come quest’implicita “apologia di Spinoza” non fosse soltanto volta a scagionarlo dalle accuse succitate, poiché mirava a dimostrare che «Spinoza aveva insegnato che gli ignoranti che avessero creduto e praticato l’insegnamento degli articoli della fede universale del capitolo XIV del Tractatus Theologico-Politicus, e li avessero seguiti nella loro vita, in morte per le promesse, il perdono e la grazia di Gesù Cristo avrebbero conseguito anch’essi l’eternità della mente» (Ibidem). Sembra dunque questa la “ragione profonda” alla base dell’interpretazione cristianeggiante degli amici: dimostrare che, secondo Spinoza, tutti gli uomini possono conseguire l’eternità della mente attraverso la fede.

L’idea che, per Spinoza, l’eternità della mente sia conseguibile da ogni uomo per mezzo della fede sembra, in effetti, sostenersi su ciò che si legge in alcuni luoghi della parte V dell’Ethica. Di Vona ricorda che al termine dello scolio della proposizione 20 il filosofo afferma di aver concluso la trattazione di ciò che ha a che fare con la vita presente, e che è giunto il momento di trattare ciò che riguarda la durata della mente, senza relazione con il corpo, mentre nello scolio alla proposizione 40 sostiene di aver esposto ciò che intendeva mostrare sulla mente «senza relazione all’esistenza del Corpo». Anche Spinoza, dunque, come i cristiani, pare ammettere l’idea di una durata della mente indipendente dal corpo. Non solo: nella proposizione 30 si afferma che la mente conosce «il Corpo sotto la specie dell’eternità», cioè il corpo come un elemento eterno. Si tratta di un’idea che sembra conciliarsi con quella della «resurrezione della carne» affermata dal Cristianesimo. Ma Spinoza – è giusto chiedersi – ha davvero sostenuto idee così affini a quelle su cui si fonda la religione cristiana?

Secondo Di Vona, anche in questo caso ci sono buoni motivi per pensare a delle aggiunte apocrife nel testo dell’opera. Se, ad esempio, si considera la proposizione 39, si può notare come Spinoza, in contrasto con quanto si legge negli scoli delle proposizioni 20 e 40, dichiari che il conseguimento dell’eternità della mente è possibile solo con un «Corpo atto a moltissime cose» (Prop. 39, Scolio). Non solo dunque non si parla di “durata della mente senza relazione con il corpo”, ma addirittura si sostiene che soltanto il possesso del corpo consente di conseguire l’eternità della mente. Inoltre, se è vero che nella proposizione 30 si parla di «Corpo sotto la specie dell’eternità», è altrettanto vero che in alcune proposizioni precedenti si parla invece di «idea che esprime l’essenza di questo e di quel Corpo umano sotto la specie dell’eternità» (Prop. 22), di «idea che esprime l’essenza del Corpo sotto la specie dell’eternità» (Prop. 23, Scolio) o di «essenza del corpo sotto la specie dell’eternità» (Prop. 29). Si passa così, in maniera graduale, dall’idea che la mente conosca “l’idea dell’essenza del corpo sotto la specie dell’eternità” a quella secondo cui la mente conosce l’“essenza del corpo sotto la specie dell’eternità” e, infine, all’idea che la mente conosca il “corpo” stesso come eterno.

Dinanzi a tali incongruenze, per lo studioso non è illecito supporre che gli editori fossero intervenuti su questi punti dell’Ethica proprio allo scopo di «difendere, per quanto era possibile e in accordo con la Prefazione delle Opere Postume, le idee cristiane dell’immortalità dell’anima e della resurrezione della carne» (p. 52). In questo modo, essi «misero il lettore di Spinoza nella necessità di ritenere che, se per avere l’idea di corpo nella durata occorre un corpo esistente in atto nella durata, come afferma Spinoza nel corollario della proposizione 8 della parte II dell’Ethica e nello scolio della proposizione 23 della parte V, allora per avere una idea di noi stessi nella eternità, occorre avere un corpo sub specie aeternitatis, e perciò lo premisero nella proposizione 30 alla proposizione 31 della parte V che afferma che la mente stessa è eterna» (Ibidem). Non fu dunque Spinoza a sostenere e insegnare tesi e idee che richiamano alcuni dogmi del Cristianesimo ma, al contrario, furono i suoi amici cristiani a “modificare” il suo capolavoro e ad “adattare”, per quanto possibile, il suo pensiero filosofico alla concezione cristiana del mondo. Intervenendo sull’Ethica e “avvicinando” Spinoza a tali dogmi, gli editori delle Opere Postume cercarono di attribuirgli l’idea che tutti gli uomini, compresi gli ignoranti, possono conseguire l’eternità della mente se aderiscono alla fede cristiana. Per effetto del loro intervento, Spinoza non appare solo come un autore cristiano, ma addirittura come un filosofo che chiarisce e insegna come il Cristianesimo rappresenti il “grande veicolo” in virtù del quale ciascun uomo viene condotto al conseguimento dell’eternità della mente.

Alla luce di quanto è emerso, è possibile comprendere che cosa abbia veramente detto Spinoza? Se l’idea che la religione cristiana costituisca il medium per conseguire l’eternità della mente non può essere ascritta a costui, com’è possibile che ciò avvenga? Chi, per Spinoza, può conoscere l’eternità della mente? Nel Tractatus Theologico-Politicus, com’è noto, egli sostiene che agli ignoranti che rispettano le regole e i dogmi della fede si aprono le porte della salvezza; tuttavia, ben altra cosa è il conseguimento dell’eternità della mente, come si evince da alcuni passi fondamentali dell’Ethica. Ciò è possibile soltanto a quei «pochissimi» che dispongono della «conoscenza intuitiva» (scientia intuitiva), cioè ai «sapienti», «cui Spinoza ha rivolto la dottrina della parte V dell’Ethica» (p. 105). Ad essi si contrappone la stragrande maggioranza del «volgo», cui appartiene chiunque sia schiavo dell’immaginazione, delle memoria e delle passioni. Stando così le cose, come potrebbero i cristiani conoscere l’eternità della mente? Essi compongono il «volgo» al pari di tutti coloro che ignorano la verità dell’essere – siano essi reggitori, nobili, dotti, filosofi o uomini comuni. Di Vona suggerisce, in conclusione, che la “difficilissima” conoscenza dell’eternità della mente abbia, nella prospettiva spinoziana, un carattere “esoterico”: essa, infatti, «intendere non la può chi non la trova. […] Spinoza ha potuto parlarne da filosofo, ma non può comunicarcela ed essa non è comunicabile. La consapevolezza dell’eternità non s’insegna e non si partecipa: “può tuttavia essere trovata”. Questo è tutto» (Ibidem).

L’analisi di Di Vona, condotta sulla base di una profonda conoscenza del pensiero di Spinoza, ha il merito di sollevare alcuni dubbi sulla formazione del suo capolavoro filosofico, arrivando a mettere in discussione l’autenticità di alcuni suoi punti e le interpretazioni della filosofia spinoziana che su di esso si reggono. In ogni caso, l’obiettivo del presente saggio non è quello di negare l’importanza storica della lettura data dagli amici del filosofo: «con la Prefazione» agli Opera Posthuma, infatti, «comincia lo Spinozismo e l’interpretazione cristiana di Spinoza, destinata a un lungo avvenire» (p. 14); né – è bene ripeterlo – è quello di «infirmare il testo che ci è pervenuto» (p. 5): come ammette lo stesso studioso, «bisogna saper distinguere il testo definitivo che ci è pervenuto, dalla sua formazione, perché esso appartiene ormai da secoli alla storia della cultura filosofica moderna» (p. 48). Nondimeno, l’immagine di Spinoza che emerge dalla sua analisi è diversa da quella tramandata da una lunga tradizione di studi, ed è per questa ragione che non sembra scorretto considerare il presente studio un possibile nuovo punto di partenza per una reinterpretazione della sua filosofia.

Alessandro Dignös
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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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