Manlio Dinucci – Guerra nucleare. Il giorno prima. Da Hiroshima a oggi: chi e come ci porta alla catastrofe.

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Guerra nucleare. Il giorno prima

 

 

 

 

377px-Nagasakibomb  Sembra di vivere nel film “The day after” (1983), in quella cittadina del Kansas dove la vita scorre tranquilla accanto ai silos dei missili nucleari, con la gente che il giorno prima ascolta distrattamente le notizie sul precipitare della situazione internazionale, finché vede i missili lanciati contro l’URSS e poco dopo spuntare i funghi atomici delle testate nucleari sovietiche. Questo libro ricostruisce la storia della corsa agli armamenti nucleari dal 1945 ad oggi, sullo sfondo dello scenario geopolitico mondiale, contribuendo a colmare il vuoto di informazione creato ad arte su questo tema di vitale importanza. Si è diffusa la sensazione che una guerra nucleare sia ormai inconcepibile e si è creata di conseguenza la pericolosa illusione che si possa convivere con la Bomba. Ossia con una potenza distruttiva che può cancellare la specie umana e quasi ogni altra forma di vita. Lo possiamo evitare, mobilitandoci per eliminare le armi nucleari dalla faccia della Terra. Finché siamo in tempo, il giorno prima.

 

 

Da Hiroshima a oggi:  chi e come ci porta alla catastrofe

di Manlio Dinucci

La lancetta dell’«Orologio dell’Apocalisse» – il segnatempo che sul Bollettino degli Scienziati Atomici statunitensi indica a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra nucleare – è stata spostata in avanti: da 3 a mezzanotte nel 2015 a 2,5 minuti nel 2017. Tale fatto passa però inosservato o, comunque, non suscita particolari allarmi.

Sembra di vivere nel film The Day After (1983), in quella cittadina del Kansas dove la vita scorre tranquilla accanto ai silos dei missili nucleari, con la gente che il giorno prima ascolta distrattamente le notizie sul precipitare della situazione internazionale, finché vede i missili lanciati contro l’URSS e poco dopo spuntare i funghi atomici delle testate nucleari sovietiche.

Questo libro ricostruisce la storia della corsa agli armamenti nucleari dal 1945 ad oggi, sullo sfondo dello scenario geopolitico mondiale, contribuendo a colmare il vuoto di informazione creato ad arte su questo tema di vitale importanza. Si è diffusa la sensazione che una guerra nucleare sia ormai inconcepibile e si è creata di conseguenza la pericolosa illusione che si possa convivere con la Bomba. Ossia con una potenza distruttiva che può cancellare la specie umana e quasi ogni altra forma di vita. Lo possiamo evitare, mobilitandoci per eliminare le armi nucleari dalla faccia della Terra.  Finché siamo in tempo, il giorno prima.

L’autore, giornalista e saggista,  collaboratore de il manifesto e di Pandora TV, è membro del Comitato No Guerra No Nato.
Con Zambon Editore ha pubblicato L’Arte della Guerra / Annali della strategia USA/NATO (1990-2016).
È stato direttore esecutivo per l’Italia della International Physicians for the Prevention of Nuclear War, associazione insignita nel 1985 del Premio Nobel per la Pace per aver «fornito preziosi servigi all’umanità divulgando informazioni autorevoli e diffondendo la consapevolezza sulle catastrofiche conseguenze di un conflitto nucleare».

INDICE

1 La nascita della Bomba 
1.1 Il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki
1.2 Gli effetti dell’esplosione nucleare su una città
1.3 Gli effetti della ricaduta radioattiva
1.4 L’inverno nucleare

2 La corsa agli armamenti nucleari 
2.1 Il confronto nucleare USA-URSS
2.2 I missili balistici intercontinentali
2.3 La crisi dei missili a Cuba e l’ingresso della Cina tra le potenze nucleari
2.4 La pianificazione dell’attacco nucleare
2.5 Il Trattato sullo spazio esterno e il Trattato di non-proliferazione 
2.6 I missili balistici a testate multiple indipendenti 
2.7 La bomba N
2.8 I trattati sui missili anti-balistici e sulla limitazione delle armi strategiche
2.9 La Bomba segreta di Israele 
2.10 L’ingresso di Sudafrica, India e Pakistan tra le potenze nucleari

3 La polveriera nucleare 
3.1 Un milione di Hiroshima
3.2 La «valigetta nucleare»
3.3 I falsi allarmi di attacco nucleare
3.4 Gli incidenti con armi nucleari
3.5 L’inquinamento radioattivo dei test e degli impianti nucleari
3.6 Il legame tra nucleare militare e civile
3.7 Gli incidenti alle centrali nucleari
3.8 I movimenti antinucleari durante la guerra fredda 

4 Le guerre del dopo guerra fredda 
4.1 Il mondo al bivio
4.2 Golfo: la prima guerra del dopo guerra fredda
4.3 Le armi a uranio impoverito 
4.4 Il riorientamento strategico degli Stati Uniti 
4.5 Il riorientamento strategico della NATO
4.6 L’intervento NATO nella crisi balcanica e la guerra contro la Jugoslavia 
4.7 Terreno di prova dei bombardieri da attacco nucleare e uso massiccio di armi a uranio impoverito 
4.8 Il superamento dell’Articolo 5 e la conferma della leadership USA
4.9 Il «Nuovo Modello di Difesa» dell’Italia
4.10 L’espansione della NATO ad Est verso la Russia

5 La messinscena del disarmo 
5.1 Le armi nucleari e lo «scudo anti-missili» nella ristrutturazione delle forze USA
5.2 I trattati START sulla riduzione delle armi strategiche 
5.3 La messa al bando dei test nucleari e i test «subcritici»
5.4 Il Trattato di Mosca e il nuovo START
5.5 L’ingresso della Corea del Nord tra le potenze nucleari
5.6 Altri paesi in grado di fabbricare armi nucleari 
5.7 Le armi chimiche e biologiche 

6 La nuova offensiva USA/NATO 
6.1 11 Settembre: maxi-attacco terroristico in mondovisione 
6.2 11 Settembre: le falle della versione ufficiale 
6.3 Afghanistan: l’inizio della «guerra globale al terrorismo» 
6.4 La seconda guerra contro Iraq
6.5 La guerra contro la Libia
6.6 La guerra coperta contro la Siria e la formazione dell’ISIS
6.7 Il colpo di stato in Ucraina 
6.8 Le guerre segrete dal volto umanitario 

7 L’Europa sul fronte nucleare 
7.1 L’Europa nel riarmo nucleare del Premio Nobel per la pace
7.2 Italia: portaerei nucleare USA/NATO nel Mediterraneo
7.3 La B61-12, nuova bomba nucleare USA per l’Italia e l’Europa 
7.4 L’escalation USA/NATO in Europa
7.5 Lo «scudo» USA sull’Europa 

8 Gli scenari dell’Apocalisse 
8.1 L’escalation qualitativa del confronto nucleare
8.2 La preparazione del first strike nucleare 
8.3 Armi elettromagnetiche e laser e aerei robot spaziali per la guerra nucleare
8.4 La mortale minaccia del plutonio e il monito inascoltato di Fukushima 
8.5 La minaccia del terrorismo nucleare 
8.6 Le nanoarmi: potenziali detonatori della guerra nucleare

9 Il giorno prima finché siamo in tempo
9.1 La strategia dell’Impero Americano d’Occidente
9.2 Il sistema bellico planetario degli Stati Uniti d’America 
9.3 L’ancoraggio dell’Italia alla macchina da guerra USA/NATO
9.4 Il disancoraggio dalla macchina da guerra USA/NATO, per un’italia sovrana e neutrale, libera dalle armi nucleari 

FONTE http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-guerra_nucleare_il_giorno_prima__da_hiroshima_a_oggi_chi_e_come_ci_porta_alla_catastrofe/5871_22802/

 


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Petite Plaisance – A COSA SIAMO CHIAMATI? Ad una resistenza, in primo luogo culturale, alla attuale logica sistemica. Negando il proprio voto ai politici che legittimano il capitalismo assoluto. A dare l’esempio di una vita non motivata dalla ricerca del denaro e dei consumi e non guidata dalla tecnica. A progettare un mondo diverso perché si vuol vivere bene e nella verità.

A cosa siamo chiamati

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 Il nostro invito augurale
L’unico modello in rapporto al quale è umanamente sensato capire cosa vada accettato, e cosa respinto, di un sistema economico, è la libera comunità.
Il sistema economico contemporaneo è la negazione speculare della libera comunità, in quanto produce una collettività disgregata, despiritualizzata, coattivamente e ossessivamente comandata dalla ricerca del profitto e dalle procedure della tecnica. Esso prefigura perciò la morte dell’umanità dell’uomo, proprio in quanto è al di fuori di ogni giustizia e di ogni amore.
Un sistema economico, come quello oggi vigente su scala planetaria, che ha come suo elemento motore e come suo fine intrinseco il profitto monetario privato, e che si sviluppa senza più alcun condizionamento di princípi non economici, è la materializzazione stessa dell’ingiustizia.
Chi vive tranquillo sotto un simile sistema, non trovando nulla di riprovevole nell’attività delle banche, delle società finanziarie e delle imprese volte al profitto, dando il proprio voto ai politici che legittimano questo stato di cose, evitando di condannare pubblicamente i detentori del potere, accettando entusiasticamente tutte le innovazioni tecniche, è perciò un operatore di ingiustizia.
Le esperienze di resistenza a questo sistema sociale (esperienze di agire comunitario non mercantile, esperienze di rifiuto dei comportamenti tecnicizzati, esperienze di autentica comunicazione culturale al di fuori dei ruoli imposti dai poteri dominanti, esperienze di contrasto dei poteri economici e politici, ecc.), se sono vissute in maniera spiritualmente sana come esperienze d’amore per l’umanità dell’uomo e di libera comunità, non possono non essere avvertite come gratificanti e realizzanti di  per se stesse nel loro presente, indipendentemente dall’esito storico dei loro risultati nel loro presente e futuro temporale. Se si ha capacità di amare, e di progettare un mondo diverso, si resiste alla logica di questo sistema sociale semplicemente perché si vuol vivere bene e nella verità.

A COSA SIAMO CHIAMATI ?
La nostra umanità esige, per non morire, una resistenza, in primo luogo culturale, alla attuale logica sistemica.
Ciascuno di noi è chiamato, come uomo morale, a questa resistenza:
– è chiamato a considerare gli oligarchi dell’economia sempre avidi di sfruttare il lavoro, il territorio, i mercati, e i tecnoscienziati intenti a manipolare le specie viventi, per quello che in realtà sono: gli artefici consapevoli della distruzione dell’umanità dell’uomo;
– è chiamato a sottrarsi, nei limiti del possibile, alle logiche disumanizzanti;
– è chiamato a sperimentare le forme oggi possibili di agire comunitario;
– è chiamato a dare l’esempio di una vita non motivata dalla ricerca del denaro e dei consumi e non guidata dalla tecnica;
– è chiamato a pensare concettualmente e criticamente anche riguardo al funzionamento della propria personalità.

Quando la resistenza degli esseri umani guidati dalla loro capacità di amare, dal loro spirito di giustizia, e dalla loro comprensione intelligente di se stessi e della società, avrà spezzato in qualche punto della presente vita coattivamente “associata” l’attuale logica sistemica, e quando le carenze e le disfunzioni derivanti da tali rotture saranno affrontate con una logica nuova, in vista di soluzioni ispirate al vincolo solidale  e comunitario che deve legare tutti gli esseri umani, allora saremo usciti dal sentiero della notte.

Associazione culturale Petite Plaisance

 


Immagine in evidenza: Paul Klee, Ad Parnassum, 1932.

 

 

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Petite Plaisance – Cerchiamo insieme nuovi orizzonti di senso! Ciò che molti dicono essere «impossibile» è invece il possibile cammino verso la realtà, verso la vera umanità dell’uomo, e la vera sapienza.

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Paul Auster – Ciascun libro è un’immagine di solitudine, le sue parole rappresentano molti mesi, se non anni, della solitudine di un individuo. Ogni parola che leggiamo in un libro potremmo dire che siamo di fronte a una particella di quella solitudine.

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L’invenzione della solitudine

 

«Per gran parte della sua vita da adulto ha sbarcato illunario traducendo i libri di altri scrittori. Siede alla scrivania, legge il libro in francese, poi prende la penna e riscrive lo stesso libro in inglese. Si tratta e nel contempo non si tratta dello stesso libro, e la stranezza di quell’ attività non ha mai cessato di stupido. Ciascun libro è un’immagine di solitudine, un oggetto concreto che si può prendere, riporre, aprire e chiudere, e le sue parole rappresentano molti mesi, se non anni, della solitudine di un individuo, sicché a ogni parola che leggiamo in un libro potremmo dire che siamo di fronte a una particella di quella solitudine. Un uomo solo è seduto in una stanza e scrive.
Che parli di isolamento o di compagnia, di amicizia, il libro è necessariamente generato da una solitudine. A. siede nella sua stanza a tradurre il libro di un altro, ed è come se entrasse nella solitudine di quell’uomo facendola propria. Ma questo è irrealizzabile perché quando si apre una falla nella solitudine, quando di una solitudine si impossessa qualcun altro, non è più solitudine, ma una specie di compagnia. Anche se nella stanza c’è una persona sola, in realtà ce ne sono due. A. si immagina come uno spettro dell’altro individuo, che a un tempo è e non è presente, e il cui libro è a un tempo identico e differente da quello che lui sta traducendo. Dunque, dice fra sé, è possibile essere e non essere soli nello stesso momento. Una parola diventa un’altra parola, una cosa ne diventa un’altra».

Paul Auster, L’invenzione della solitudine, Einaudi, 1997.

 

Sinossi

l libro si compone di due scritti speculari. Il primo, "Il ritratto di un uomo invisibile", è una meditazione sulla scomparsa del padre, scritta qualche settimana dopo la sua morte. "Niente è più terribile che trovarsi faccia a faccia con gli oggetti di un morto. Le cose di per sé sono inerti: assumono significato solo in funzione della vita che ne fa uso", scrive Auster nel passare in rassegna le carte e gli oggetti del padre. Nel secondo "pezzo", "Il libro della memoria", l'autore sposta la sua attenzione dalla sua identità di figlio a quella di padre: riflette sulla condizione solitaria dello scrittore e prova a immaginare quella che sarà fatalmente la separazione dal figlio che cresce.


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Paul Auster – Un giorno c’è la vita. Poi, d’improvviso, capita la morte. Come dire: la vita si interrompe. E può interrompersi in qualunque momento.

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L’invenzione della solitudine

 

«Un giorno c’è la vita. Per esempio, un uomo sano, neanche vecchio, senza trascorsi di malattie. Tutto è com’era prima e come sarà sempre. Passa da un giorno all’altro pensando ai fatti suoi, sognando solo il tempo che ancora gli si prepara. Poi, d’improvviso, capita la morte. Un uomo esala un leggero sospiro, si abbandona sulla sedia, ed è la morte. La sua subitaneità non lascia spazio al pensiero, non dà occasione allo spirito di cercare una parola che possa consolarlo. Restiamo soli con la morte, col dato inoppugnabile della nostra mortalità. La morte dopo lunga malattia possiamo accettarla con rassegnazione. Anche la morte accidentale si può attribuire al destino. Ma che un uomo muoia senza causa apparente, che muoia solamente perché è uomo, ci spinge così vicino all’invisibile confine tra la vita e la morte da farci domandare su che lato di esso ci troviamo. La vita si fa morte, ed è come se quella morte avesse posseduto questa vita da sempre. Morire senza preavviso. Come dire: la vita si interrompe. E può interrompersi in qualunque momento».

Paul Auster, L’invenzione della solitudine, Einaudi, 1997.

 

Sinossi

l libro si compone di due scritti speculari. Il primo, "Il ritratto di un uomo invisibile", è una meditazione sulla scomparsa del padre, scritta qualche settimana dopo la sua morte. "Niente è più terribile che trovarsi faccia a faccia con gli oggetti di un morto. Le cose di per sé sono inerti: assumono significato solo in funzione della vita che ne fa uso", scrive Auster nel passare in rassegna le carte e gli oggetti del padre. Nel secondo "pezzo", "Il libro della memoria", l'autore sposta la sua attenzione dalla sua identità di figlio a quella di padre: riflette sulla condizione solitaria dello scrittore e prova a immaginare quella che sarà fatalmente la separazione dal figlio che cresce.


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Byung-Chul Han – Non è l’assenza di legami e di radici a rendere liberi, ma la presenza di legami e di integrazione.

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011   «Essere liberi non significa semplicemente essere privi di legami e di vincoli. Non è l’assenza di legami e di radici a rendere liberi, ma la presenza di legami e di integrazione. La mancanza assoluta di relazioni crea invece angoscia e inquietudine. La stessa radice indogermanica fri, da cui derivano in tedesco termini come frei (libero), Friede (pace) e Freund (amico), significa “amare”. In questo senso “libero” oroginariamente significa “appartenente agli amici e agli amanti”».

Byung-Chul Han, Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose, Vita e Pensiero, Milano, 2017, pp. 40- 41.

 

Quarta di copertina

Viviamo in perenne mancanza di tempo. Quasi in apnea, ci affrettiamo per poter fare esperienza di tutto quello che il nostro mondo iperproduttivo ci mette davanti. Accelerare per avere più tempo è diventato l’imperativo della nostra vita. Ma questa ‘epoca dell’affanno’, in definitiva, ci rende ansiosi, stressati, disorientati. L’accelerazione della tecnologia e delle trasformazioni sociali non solo ha annientato lo spazio e la geografia stessa (ogni luogo è a portata di un clic o di qualche ora di aereo), ma ha atomizzato il tempo, lo ha frammentato in tanti ‘attimi presenti’ che si sostituiscono l’uno all’altro, che non conoscono più pause e intervalli, soglie e passaggi, e soprattutto non costruiscono più un’unica storia: la nostra. Perché questa disgregazione riguarda anche la nostra identità, che si impoverisce e si riduce, soffocata dalle proprie attività senza durata. Sono queste le riflessioni che Byung-Chul Han, il filosofo coreano che ama riflettere sull’uomo svelandone la situazione critica di fronte agli stimoli della società contemporanea, mette a fuoco in questo libro dal titolo seducente. Percorrendo in modo originale il pensiero filosofico sul tempo, da Aristotele e Tommaso a Heidegger e Arendt, passando per Hegel, Marx e Nietzsche (ma soffermandosi anche a lungo sull’opera di Proust), egli ci mette di fronte a quella che riassume come un’assolutizzazione della vita activa: la necessità di produrre (e consumare) come forma di realizzazione umana, che finisce per sottrarre all’uomo respiro e spirito. Bisogna allora riguadagnare un posto alla vita contemplativa, nella sua forma più quotidiana e vicina. Vale a dire reimparare a fermarsi, a ‘indugiare’: bellissimo verbo che parla di pause, di ozio meditativo, di sguardo lungo e cordiale sulle cose. In una parola, lo sguardo contemplativo restituisce al tempo il suo ‘profumo’, che è lento e permanente, che sa di ricordo e di memoria. Acquista allora un senso nuovo e smette di essere solo una stravagante curiosità l’orologio ‘a profumo’ dell’antica Cina, cui l’autore dedica pagine piene di poesia, che misura il tempo col bruciare di un profumato sigillo d’incenso: alla fine, resta un’eccedenza speciale, un aroma che riempie lo spazio, che indugia nell’aria in un momento sospeso e denso che apre alla felicità.

 



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José Ortega y Gasset (1883-1955) – La scienza necessita di un lavoro di ricostruzione. Ciò richiede uno sforzo di unificare, ogni volta più difficile, regioni più vaste del sapere totale.

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La ribellione delle masse, Il Mulino

La ribellione delle masse

 

007u  La filosofia non ha bisogno né di protezione, né di attenzione, né di simpatia da parte delle masse. Cura il suo aspetto di perfetta inutilità; e con ciò si affranca da ogni soggezione all’uomo-medio. Sa di essere per essenza problematica, e abbraccia allegramente il suo libero destino di uccello del buon Dio, senza chiedere a nessuno che l’accetti, senza raccomandarsi né difendersi.  J. Ortega y Gasset

 

«Il risultato più immediato di questo specialismo non compensato è che proprio oggi, quanto “gli uomini di scienza” sono più numerosi che mai, ci siano molti meno uomini “colti” di quanti ce ne fossero, ad esempio, intorno al 1750. E il peggio è che con questi furetti della caccia scientifica non si può neppure considerare assicurato il progresso della scienza. Perché la scienza necessita periodicamente, come organica regolazione del suo stesso sviluppo, di un lavoro di ricostruzione e, come ho già detto, questo richiede uno sforzo di unificare, ogni volta più difficile, regioni più vaste del sapere totale».

José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Milano, 2001, p. 137.

 

La ribellione delle masse

La ribellione delle masse



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Alessandro Leogrande (1977-2017) – Mi chiedo se lo sguardo di Caravaggio nel «Martirio di San Matteo» non sia anche il nostro sguardo nei confronti dei naufragi, dei viaggi dei migranti e soprattutto della violenza politica o economica che li genera. La violenza del mondo. Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte.

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La violenza del mondo

 

Caravaggio nel martirio_bb   La violenza estrema atterrisce. Atterrisce la sua epifania priva di alternative. Al massimo si grida, si scappa, ma raramente si è pronti a intervenire. Così Matteo, la vittima, tra poco verrà finito. Da oltre quattrocento anni, per ogni sguardo che si pone sul dipinto, sta per essere trucidato. La porzione in cui compare il volto barbuto è un autoritratto, quella porzione di tela mi sembra un manifesto. Una riflessione incandescente sulla violenza del mondo, e sul rapporto che instaura con essa chi la osserva. Ora mi chiedo se lo sguardo di Caravaggio non sia anche il nostro sguardo nei confronti dei naufragi, dei viaggi dei migranti e soprattutto della violenza politica o economica che li genera. Ho impiegato molto tempo per capirlo. Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte.

 

Tra le pieghe dell’opera si cela l’enigma del non agire.

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Caravaggio, Martirio di San Matteo.

In un pomeriggio assolato entro nella chiesa di San Luigi dei francesi. È insolitamente vuota, una manciata di turisti si aggira nella penombra. Mi dirigo automaticamente verso le tele del Caravaggio esposte sulle pareti della cappella Contarelli, la prima cappella alla sinistra dell’altare, e mi accorgo che sono anni ormai che non ci metto piede. Sono anni che non vedo la Vocazione e il Martirio di san Matteo, benché quei dipinti realizzati tra la fine del Cinquecento e gli albori del Seicento mi abbiano sempre accompagnato e siano rimasti in un angolo della mia mente, al fondo di tante riflessioni e di tante conversazioni.
Così mi ritrovo incantato a guardare il Martirio, che come sempre cattura i miei pensieri ancora più della Vocazione. In quella scena di cruda, assoluta, improvvisa violenza si affollano le nostre debolezze di fronte al mistero del male. Tra le pieghe dell’opera si cela l’enigma del non agire.
C’è un vecchio steso a terra, la barba grigia, i capelli stempiati, sembra essere scivolato pochi istanti prima. È Matteo. Ha una mano alzata verso l’alto, cerca di parare il colpo che sta per arrivare. Ma il polso, lo stesso polso che sostiene la mano aperta, è afferrato dalle dita del sicario.
È lui il fulcro del quadro. Il centro intorno al quale tutto ruota è l’ottuso carnefice, non la vittima. Quest’ultima è vestita. Lui invece è nudo, un lembo di stoffa copre i genitali. Fissa negli occhi Matteo: con una mano blocca il suo polso, con l’altra impugna la spada.
Caravaggio non ritrae l’uccisione, ma l’attimo prima della mattanza. Decide di fissare sulla tela l’istante prima che la violenza si compia. Sospende il tempo esattamente su quel momento. Ma quella stessa violenza, la cui intenzione si sprigiona come un tuono dal corpo del carnefice, è già esplosa per tutto il quadro. Si è già irradiata per cerchi concentrici verso i suoi quattro angoli.
Si sentono le grida, la tensione ferina, l’odore acre della paura. La scena è affollata di gente che si ritrae dalla mano del boia. Chi scappa, chi urla, chi inciampa nella fuga, chi alza a sua volta le mani. Sono tutti puntini di un cerchio che si sta dilatando. Nessuno compie il movimento contrario, né tanto meno prova a fermare la spada. Ed è la stessa reazione, penso, che avrebbe chiunque davanti a un’esecuzione di mafia o a un attentato terroristico realizzati in pieno giorno in mezzo alla strada o in un luogo affollato. È la stessa reazione che abbiamo tutti, in genere, di fronte alla violenza. Più precisamente davanti alle armi che stanno per provocare una morte violenta: davanti a una lama sguainata, a una pistola che sta per sparare.
La violenza estrema atterrisce. Atterrisce la sua epifania priva di alternative. Al massimo si grida, si scappa, ma raramente si è pronti a intervenire.
Così Matteo, la vittima, tra poco verrà finito. Da oltre quattrocento anni, per ogni sguardo che si pone sul dipinto, sta per essere trucidato. Manca una manciata di secondi. La vittima, in fondo, sa come andranno le cose.

Caravaggio+opera+Il+martirio+di+San+Matteo+particolare

Ma non è il solo. Nell’intreccio di sguardi che tiene insieme il quadro, ci sono innanzitutto gli occhi della vittima e del carnefice, incrociati tra loro e immensamente diversi. E, in secondo luogo, quelli di ripulsa, panico, indifferenza inebetita di tutti gli astanti, che convergono verso il centro, tanto quanto le onde della violenza esplodono verso l’esterno. Ma poi ci sono anche gli occhi di un uomo con la barba.

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Caravaggio nel Martirio di San Matteo.

È alle spalle del sicario. Si trova alla sua destra, qualche metro più indietro. Guarda Matteo a terra, e anche lui sa perfettamente cosa sta per accadere.
Quell’uomo, come dicono tutti i testi critici sul dipinto, è Caravaggio. La porzione in cui compare il volto barbuto è un autoritratto. Eppure, più che un’immagine di sé da consegnare ai posteri, nella penombra della chiesa rotta dai faretti quella porzione di tela mi sembra un manifesto. Una riflessione incandescente sulla violenza del mondo, e sul rapporto che instaura con essa chi la osserva.
C’è un dolore misto a commiserazione nel suo sguardo: un’infinita tristezza. A differenza degli altri spettatori Caravaggio non fugge, guarda la vittima perché non può fare altro che stare dalla sua parte e vedere come va a finire ciò che si sta per compiere. Ha già intuito tutto, ma non interviene. Sa di non poter intervenire, di non poter fermare quella spada. La sua commiserazione è ancora più dolorosa perché totalmente impotente. La lucida interpretazione dei fatti, e ancor di più il genio dell’arte, non arresteranno il massacro. Può solo provare pietà.

Dipingendo il proprio sguardo, Caravaggio definisce l’unico modo di poter guardare all’orrore del mondo. Stabilisce geometricamente la giusta distanza a cui collocarsi per fissare la bestia. Dentro la tela, manifestamente accanto alle cose, non fuori con il pennello in mano. Eppure sa anche che tale sguardo è inefficace, non cambierà il corso delle cose. Non impedirà l’omicidio di quell’uomo anziano caduto per terra, mentre prova a parare i colpi della lama a mani nude.

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Un-autoritratto del Caravaggio.

La luce che illumina il dipinto si spegne di colpo, e mi rendo conto di non avere più spiccioli nelle tasche per farla riaccendere. Mi giro intorno alla ricerca del sostegno di qualche turista, ma non c’è più nessuno.
Il dipinto di colpo è piombato nell’oscurità. Scorgo ancora il corpo del carnefice, ma il volto del Merisi si percepisce appena. Ormai è quasi sparito del tutto, perso nell’ombra.
[…] Ora mi chiedo se lo sguardo di Caravaggio non sia anche il nostro sguardo nei confronti dei naufragi, dei viaggi dei migranti e soprattutto della violenza politica o economica che li genera.
Nella migliore delle ipotesi, ovviamente. Quando cioè quello sguardo non è inquinato dall’apatia, dall’indifferenza, dallo stesso fastidio per l’oscenità della morte. Quando quello sguardo non è già, fin dal principio, connivente con la lama dell’aguzzino.
Non appena osserviamo il mondo con gli stessi occhi di Caravaggio, esso si rivela come un universo di violenza ferina. Tuttavia, non è la violenza a sgomentarci. Ma il fatto che, anche quando comprendiamo pienamente le sue leggi, non riusciamo ad arrestarle.
Si può ridurre il male? Si possono creare delle zone libere all’interno delle quali il suo impatto sia meno devastante? È possibile risolvere le cause che generano la fuga in massa di interi popoli? Riusciamo a dare a quelle cause il nome di stermini silenziosi?
E, soprattutto, riusciamo a capire che i viaggi vengono dopo tutto questo?
Attraversare mezzo mondo per ritrovarsi in Europa non è solo un fatto geografico, non riguarda soltanto le dogane, le polizie di frontiera, i passeurs, gli scafisti, i trafficanti, i centri di detenzione, le navi militari, i soccorsi, gli aiuti, i tir, le corse e le rincorse, gli stop e i respingimenti. Non riguarda solo questo, benché tutto questo possa coincidere, per molti, con l’evento saliente della propria esistenza. Ha a che fare innanzitutto con se stessi. Saltare i muri è innanzitutto un’esperienza individuale.
Alla base di ogni viaggio c’è un fondo oscuro, una zona d’ombra che raramente viene rivelata, neanche a se stessi. Un groviglio di pulsioni e ferite segrete che spesso rimangono tali. Ma capita altre volte che ci siano dei viaggiatori che ne hanno passate così tante da esserne saturi. Sono talmente appesantiti dalla violenza e dai traumi che hanno dovuto subire, talmente nauseati dall’odore della morte che hanno avvicinato, da non voler fare altro che parlarne.
Allora, in quei momenti, hanno bisogno di incontrare un altro viaggiatore. Perché solo un altro viaggiatore può capire il peso delle parole che pronunceranno, solo un altro viaggiatore può indicargli la strada della leggerezza. Tutti gli altri restano sempre a qualche metro di distanza, sulla terraferma, incapaci di afferrare il senso di ciò che viene detto.
Ho impiegato molto tempo per capirlo. Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte. Sedersi per terra intorno a un fuoco e ascoltare le storie di chi ha voglia di raccontarle, come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi.
Ascoltare dalla voce di chi ha oltrepassato i confini come essi sono fatti. Come sono fatte le città e i fiumi, le muraglie e i loro guardiani, le carceri e i loro custodi, gli eserciti e i loro generali, i predoni e i loro covi. Come sono fatti i compagni di viaggio, e perché – a un certo punto – li si chiama compagni.

Come sono fatte le barche.
Come sono fatte le onde del mare.
Come è fatto il buio della notte.
Come sono fatte le luci che si accendono nell’oscurità.

Quelle voci sono plasmate con la stessa pasta dei sogni. Si riempiono di rabbia e utopia, desiderio e paura, misericordia e furore.
La terra e il cielo di prima non ci sono più laddove un nuovo cielo e una nuova terra si stagliano davanti ai loro discorsi.
Sovente si infervorano. E allora gli occhi si sgranano e le bocche si torcono per afferrare le sillabe che compongono la parola da cui tutte le altre discendono. E ogni volta che viene pronunciata, il mondo nuovo si affretta a venire mentre quello vecchio scompare lentamente. Il desiderio cresce, la foga diviene innocente e i morti sembrano meno morti, tanto che la sorte può essere sfidata ancora una volta. Quella parola indica una linea lunga chilometri e spessa anni. Un solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni, le generazioni e le stesse voci che ne parlano, si inseguono, si accavallano, si contraddicono, si comprimono, si dilatano.

È la frontiera.

Per molti è sinonimo di impazienza, per altri di terrore.
Per altri ancora coincide con gli argini di un fortino che si vuole difendere. Tutti la mettono in cima alle altre parole, come se queste esistessero unicamente per sorreggere le frasi che delineano le sue fattezze.
La frontiera corre sempre nel mezzo.
Di qua c’è il mondo di prima. Di là c’è quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai.

Alessandro Leogrande, La frontiera, Feltrinelli, 2017, pp. 309-314.

 

Quarta di copertina

C’è una linea immaginaria eppure realissima, una ferita non chiusa, un luogo di tutti e di nessuno di cui ognuno, invisibilmente, è parte: è la frontiera che separa e insieme unisce il Nord del mondo, democratico, liberale e civilizzato, e il Sud, povero, morso dalla guerra, arretrato e antidemocratico. È sul margine di questa frontiera che si gioca il Grande gioco del mondo contemporaneo. Questa soglia è inafferrabile, indefinibile, non-materiale: la scrittura vi si avvicina per approssimazioni, tentativi, muovendosi nell’inesplorato, là dove si consumano le migrazioni e i respingimenti, là dove si combatte per vivere o per morire. Leogrande ci porta a bordo delle navi dell’operazione Mare Nostrum e pesca le parole dai fondali marini in cui stanno incastrate e nascoste. Ci porta a conoscere trafficanti e baby-scafisti, insieme alle storie dei sopravvissuti ai naufragi del Mediterraneo al largo di Lampedusa; ricostruisce la storia degli eritrei, popolo tra i popoli forzati alla migrazione da una feroce dittatura, causata anche dal colonialismo italiano; ci racconta l’altra frontiera, quella greca, quella di Alba Dorata e di Patrasso, e poi l’altra ancora, quella dei Balcani; ci introduce in una Libia esplosa e devastata, ci fa entrare dentro i Cie italiani e i loro soprusi, nella violenza della periferia romana e in quella nascosta nelle nostre anime: così si dà parola all’innominabile buco nero in cui ogni giorno sprofondano il diritto comunitario e le nostre coscienze. Quanta sofferenza. Quanto caos. Quanta indifferenza. Da qualche parte nel futuro, i nostri discendenti si chiederanno come abbiamo potuto lasciare che tutto ciò accadesse. Quella parola indica una linea lunga chilometri e spessa anni. Un solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni, le generazioni e le stesse voci che ne parlano, si inseguono, si accavallano, si contraddicono, si comprimono, si dilatano.
È la frontiera.

 



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Temistio (317-388) – L’insegnamento silenzioso di Eraclito.

Temistio-Eraclito

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«Gli abitanti di Efeso vivevano in mezzo al lusso e ai piaceri. Quando furono sorpresi dalla guerra e videro i Persiani circondare la loro città, continuarono a vivere come avevano sempre fatto. Solo quando le provviste cominciarono a diminuire e la fame si fece sentire, si riunirono in assemblea per decidere cosa fare per non terminare le provviste, ma non ci fu nessuno che ebbe il coraggio di proporre di mettere un freno al loro eccessivo tenore di vita.

Mentre se ne stavano seduti a discutere, un uomo chiamato Eraclito prese una manciata di farina d’orzo, la mescolò con acqua e si mise a mangiarla standosene seduto in mezzo a loro. In questo modo, diede a tutto il popolo un insegnamento silenzioso.

Si racconta che, dopo aver visto che, se volevano continuare a mangiare, dovevano ridurre in qualche modo gli sprechi della tavola, gli abitanti di Efeso sciolsero subito l’assemblea e se ne andarono a casa».

Temistio, La virtù.



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Lapo Ferrarese – Progresso scientifico e naturalismo nella concezione di Larry Laudan

Larry Laudan

290 ISBN

Lapo Ferrarese

Progresso scientifico e naturalismo nella concezione di Larry Laudan

ISBN 978-88-7588-226-6, 2018, pp. 208, Euro 20

indicepresentazioneautoresintesi

 

Già nel 1977, con Il progresso scientifico, Larry Laudan aveva fornito un contributo fondamentale al dibattito sul tema in questione. In questo studio di Ferrarese, del 1998, vengono esaminate le posizioni epistemo­logiche del filosofo, con particolare attenzione alle opere successive La scienza ed il relativismo (1990) e Oltre il positivismo ed il relativismo (1996), grazie a un accurato lavoro di analisi dei testi e di approfondimento teoretico degli argomenti esposti da Laudan contro il relativismo epistemico e a favore della propria concezione.
Oltre all’esposizione delle idee del filosofo circa gli argo­menti più importanti affrontati dalla discussione epistemologica e me­todologica dei filosofi della scienza negli ultimi decenni (quali la tesi della sottodeterminazione; la tesi della incommensurabilità tra paradigmi o teorie, sviluppata soprattutto da Thomas Kuhn; il dibattito sul progresso scientifico ed il ruolo della raziona­lità, con le critiche alle posizioni dello stesso Kuhn e di Feyerabend; ed, infine, il naturalismo normativo dello stesso Laudan) il presente volume, tramite l’analisi puntuale dei testi, tenta anche di fornire una valutazione finale e complessiva delle tesi del filosofo, incluse le implicazioni teoretiche della sua complessa concezione. Il libro si articola come segue:
Cenni introduttivi sul pensiero di Laudan: Il progresso scientifico (1977). Prospettive per una teoria – La scienza e i valori (1984).
La tesi della sottodeterminazione: La sottodeterminazione in Science and Relativism (1990) – La sottodeterminazione in Beyond Positivism and Relativism (1996) – La sottodeterminazione humemiana o sottodeterminazione deduttiva – Le riformulazioni Quineniane della sottodeterminazione – La sottodeterminazione estensiva di Kuhn – La sottodeterminazione e l’equivalenza empirica.
Incommensurabilità.
Progresso e razionalità: Progresso e Cumulatività in Beyond Positivism and Relativism (1996) – Progresso e Cumulatività in Science and Relativism (1990) – Razionalità e progresso – A favore del Metodo. Risposte alla critica relativista di Kuhn e Feyerabend alla metodologia – La critica di Kuhn alla metodologia.
La critica di Feyerabend alla metodologia: la scienza senza regole.
Naturalismo normativo: Accenni ad un naturalismo normativo – Osservazioni critiche.

 


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Dieci anni nel paese delle meraviglie. La pubblicità per Linea GIG dal 1976 al 1986

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Daniele Orlandi – Il Medioevo di Camilla Migliori. Invito alla lettura di «Un mondo di cronisti, inquisitori, castrati, sante».

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Il Medioevo di Camilla Migliori

Invito alla lettura di
Un mondo di cronisti, inquisitori, castrati, sante,
Viterbo, Alter Ego, 2013.

 

 

copista   Se potessimo aggiungere una risposta alla celebre domanda di Marc Bloch: «Papà, spiegami a che serve la storia»[1], con cui il grande storico francese apriva il suo imprescindibile classico Apologie pour l’histoire, diremmo anzitutto: serve a portarci da lei. Guai, infatti, a credere il contrario. Era l’errore più frequente che facevamo a scuola, perseverando caparbiamente persino nelle aule universitarie. Capimmo poi che per comprendere il passato non esiste metodo più fallace che pretendere di trascinarlo da noi e indagarlo con le categorie del presente. La stessa affermazione di Benedetto Croce per cui ogni storia sarebbe storia contemporanea[2] rischierebbe di fuorviare, quando non opportunamente chiarita. Se la necessità della ricerca storica nasce sempre da un’esigenza attuale, le epoche remote, al contrario, restano tali poiché prodotto di fattori irripetibili, primo fra tutti la mentalità. No, la storia non si ripete mai: non ne ha possibilità né bisogno.

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Il Medioevo è l’emblema di questa alterità, nonostante le sue molteplici riattualizzazioni (folcloristiche, cinematografiche, ludiche e letterarie in genere). Sembra, infatti, che non esista periodo storico in cui l’uomo moderno e contemporaneo si sia specchiato maggiormente, riconoscendo nei secoli centrali ora l’affascinante esotismo ora la culla della sua civiltà e dei suoi riferimenti culturali. Medioevo come specchio e come alibi, si diceva un tempo tra gli studiosi[3]. Rebus sic stantibus, gli anacronismi si sprecherebbero fatalmente. Anche per questo il lavoro di Camilla Migliori – raffinata autrice e regista teatrale – ci ha particolarmente colpiti: poiché corazzata da una vasta ed eterogenea bibliografia (che va dalla scuola classica italiana all’erudizione tedesca passando per le suggestioni della nouvelle histoire francese) e soprattutto per la sua correttezza filologica. Si tratta di un libro composito che spazia dal XIII secolo (Un cuore che non trema. Enrico di Cornovaglia) all’epoca barocca di Urbano VIII Barberini (Io sono un virtuoso) fino alla Palermo settecentesca e agiografica (Il miracolo di Santa Rosalia), dipingendo un «affresco», scrive l’autrice, «in cui mettere in rilievo eventi e personaggi che, seppur ambientati in epoche diverse, parlano della violenza del potere, della prepotenza dell’uomo sull’uomo e dell’intolleranza di chi si pone al di fuori della norma e viene classificato come diverso» (148). Ecco sfilare una gamma di personaggi che incarnano la forma mentis di uomini di diverse stagioni storiche, come in un implicito Essai sur le moeurs. Osti e locandiere, pellegrini e mendicanti, frati e inquisitori controriformati (ricordiamo che ad accendere l’Europa di roghi non fu propriamente il Medioevo ma l’Età Moderna!). Dramatis personae calate in contesti disomogenei a fungere da reagenti per «afferrare una visione più ampia che ci riporta a una realtà tutta contemporanea» (ibid.). Non era facile. Il Novecento italiano si apriva col Medioevo a teatro ed era la Francesca da Rimini (1901) di Gabriele D’annunzio (con la Duse nel ruolo della celeberrima lussuriosa e Gustavo Salvini in quello del più muto della letteratura mondiale: Paolo Malatesta). Da Dario Fo a Umberto Eco i precedenti rischiavano di fare abbastanza ombra. Eppure, con sapienza, equilibrio e ironia (affidata, quest’ultima, alla saggezza popolare), Camilla Migliori riproduce a tinte ora fosche ora lievi, lo Zeitgeist dei periodi via via in questione.

TYP-416237-4161124-salimbene01gPotrebbe finire qui, il nostro “invito alla lettura”, se non fosse per la particolare attenzione che – da ex curiosi del Medioevo – abbiamo prestato alla pièce più corposa, ambientata per l’appunto nel Basso Medioevo. Un cuore che non trema. Qui, la storiografia è affidata alla figura del cronista medievale, vecchi e nuovi relatori universali poi sempre più annalistici, sulla scorta di Livio, ab urbe condita, fino ai giorni contemporanei all’autore. «Quelli che ne scrivevano con qualche intenzione artistica», afferma De Sanctis, «la dettavano in latino e la chiamavano storia»[4]. Ecco, non a caso, entrare in scena uno dei massimi cronisti del Duecento, frate Salimbene de Adam parmensis, autore della Cronica metà guelfa, metà ghibellina e coeva ai fatti narrati da Camilla Migliori[5].

 

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     Viterbo. Patrimonio di San Pietro. Il conclave più lungo della storia della Chiesa (1006 giorni), 1268-1271, sta tenendo col fiato sospeso fedeli e regnanti di tutta Europa. La Fazione filoangioina e quella ghibellina determinano lo stancante andamento della santa assemblea. Persino fra’ Bonaventura da Bagnoregio rifiuterà l’elezione. Ne deriva una rivolta popolare che sfocerà nella semisegregazione dei cardinali (clausi cum clave, sotto chiave) nel palazzo papale di Viterbo finché non avrebbero dato al soglio pontificio un successore. Sarà Tebaldo Visconti ad indossare la tiara col nome di Gregorio X che con la costituzione apostolica Ubi Periculum (1274) normalizzerà le nuove regole per l’elezione dei papi. Tratteggiato lo sfondo, l’autrice dà il via all’intrigo, ricordato per altro da Dante nel XII dell’Inferno sulle rive sanguinose del Flegetonte:

Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
dicendo: “Colui che fesse in grembo a Dio
lo cor che ‘n sul Tamisi ancor si cola
(118-120)

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  Il riferimento è a Guido di Montfort, vicario di Toscana per Carlo d’Angiò che durante il conclave si rese responsabile, insieme al fratello Simone, di «una laida e abominevole cosa»[6], per dirla con le parole impressionate di Giovanni Villani, il maggior cronista del Trecento: l’omicidio in chiesa di Enrico di Cornovaglia (reduce dall’ottava crociata), nipote di Enrico III d’Inghilterra per vendicare la morte del padre. Era il 13 marzo 1271. Personaggio tormentato che deve aver avuto un notevole ascendente su Camilla Migliori tanto da scolpirlo nella sua complessità in un dialogo intenso con una simbolica pellegrina in visita alle sacre reliquie romano-laziali. Tuttavia, a noi che forse indebitamente continuiamo a definirci medievisti, le figure che più colpiscono sono Carlo d’Angiò e Marghertita Aldobrandeschi, moglie del tiranno Guido di Montfort. Questo poiché, sia pure caricato dal polso appassionato dell’autrice, nel personaggio di Carlo compaiono due problemi centrali della politica medievale: quello del difesa del regno e della “ragion di Stato” che viene man mano arricchendosi di una sorta di machiavellismo cristiano: «È bene tenersi lontano dalle piccole, talvolta meschine manovre che agitano la mente degli uomini comuni e che non fanno la Storia» (47). Inoltre, emerge nella figura dell’angioino quella concezione della regalità sacra attribuita ai sovrani, francesi e inglesi in particolare, che costituisce un fenomeno di “lunga durata” nella vicenda storica. Che dire, infine, di Margherita? Camilla Migliori ne fa un ritratto di donna moderna – «Mio marito, un uomo che mi è estraneo» (31) –: una seconda Eloisa, sfortunata e scandalosa amante del maestro di teologia Pietro Abelardo (XII secolo). O il suo aspetto forse più squisito, quel dissidio romantico tra la realtà di un matrimonio politico e l’ideale di una vita al di fuori del gretto provincialismo che le diviene prigione («Sono una donna infelice!» [29]). È, mi si passi il periclitante paragone, una sorta di bovarismo avanti lettera.

     Ecco dunque, che un’opera dimostra come sia possibile andare oltre la semplice ricostruzione storica senza per questo cadere in incongruenze e anacronismi e rimandarci molti motivi della nostra contemporaneità dove la presunta e mitizzata oscurità dei “secoli bui” appare purtroppo davvero realizzata.

Daniele Orlandi


[1] M. Bloch, Apologia della storia, (1949), trad. it., Torino, Einaudi, 1969, p. 23.

[2] B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza, 1938, p. 5.

[3] Cfr, AA. VV. Medioevo: specchio e alibi, (Ascoli Piceno, 13-14 maggio 1988), a cura di Enrico Menestò, Spoleto, CISAM, 1997.

[4] F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Roma, Newton Compton, 1997, p. 86.

[5] Cfr., Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, XXXII, Lipsia, 1905-1913, 775 S. 11 Taf.

[6] G. Villani, Nuova Cronica, a cura di Giuseppe Porta, Parma, Fondazione Pietro Bembo/Guanda, 1991, pp. 386-389.


Daniele Orlandi – Costanzo Preve sulla «zona grigia» di Primo Levi

Daniele Orlandi – Nostalgie semiserie di un medievista senza Eco

Daniele Orlandi – Quell’amore di Dino Buzzati

Daniele Orlandi – Attraverso il prisma dostoevskijano, Camilla Migliori ci invita a considerare l’espressione artistica come un mezzo d’elevazione dell’uomo al di sopra dei suoi limiti.


 



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