Daniele Orlandi – Nostalgie semiserie di un medievista senza Eco

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All’uscita di una straniante lezione di filologia bizantina, una ragazza a me cara mi chiese di colpo che ne pensassi di lui. Senza attendere risposta aggiunse che quel libro – piuttosto complesso, bisognava pur ammetterlo – lo aveva divorato in tre giorni, e una sera si era persino imposta di non andare a ballare proprio per scoprire finalmente l’assassino di tutti quei monaci.

Dodici anni dopo, nell’apprendere la notizia della scomparsa mi piazzo davanti allo scaffale dove abitano i suoi libri in ordine di editazione, e penso: nel nostro tempo si diventa noti per qualcosa di noi in cui altri possano identificarsi ma non ha più nessuna importanza il conoscere, conta solo riconoscere. Delle molteplici cose immaginate, sognate, programmate, sofferte, solo una – quella realizzata, e non sempre la migliore – sarà per molti l’irrinunciabile riferimento da accostare al nostro nome. Non è colpa di nessuno, anzi, è statistica, se è vero quel che c’insegnavano all’università, vale a dire che la “moda” è quel valore non estremo di una distribuzione a cui corrisponde la massima frequenza. E di mode noi viviamo, più che di apici, di medie e di inferenze, più che di approfondimenti. Perché era chiaro che lei stesse parlando di quel libro. Quelle pagine coltissime che avevano spinto – roba da non credere, anche per lei stessa! – una ex ragazzina tutto pepe a rimanere in casa per vedere come andava a finire. Non ho mai più risposto a quella domanda né forse avrei potuto, consapevole che per il grosso della mia generazione Umberto Eco “è” quel romanzo che nato come L’abbazia del delitto, un giallo di ambientazione fascista, divenne poi Il nome della rosa sul set di un Medioevo al tramonto. Il capolavoro o il mattone, tertium non datur. Uno dei libri più venduti del Novecento, che apparso nell’Ottanta, tra la vertenza Fiat e le Brigate Rosse, tra Ustica e il riflusso berlusconiancraxiano, in Italia chiudeva definitivamente il secolo breve. E lo faceva con un killeraggio di preti.

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Daniele Orlandi,
Nostalgie semiserie di un medievista senza Eco

 


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Camilo Torres Restrepo (1929-1966) – L’umanesimo integrale di un rivoluzionario colombiano, sociologo, cristiano, sacerdote. – A 50 anni dalla sua uccisione ad opera dei miliziani governativi colombiani.

Camillo Torres

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Se la beneficenza, l’elemosina, le poche scuole gratuite, i pochi piani edilizi,
ciò che viene chiamato “la carità”,
non riesce a sfamare la stragrande maggioranza degli affamati,
né a vestire la maggioranza degli ignudi,
né ad insegnare alla maggioranza di coloro che non sanno,
bisogna cercare mezzi efficaci per dare tale benessere alle maggioranze.
Camilo Torres 

 

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Sono un rivoluzionario, come colombiano,
come sociologo, come cristiano e come sacerdote.
Come colombiano, perché non posso estraniarmi dalle lotte del mio popolo.
Come sociologo, perché grazie alla mia conoscenza scientifica della realtà,
sono giunto alla convinzione che le soluzioni tecniche ed efficaci
non sono raggiungibili senza una rivoluzione.
Come cristiano, perché l’essenza del cristianesimo è l’amore per il prossimo
e solo attraverso una rivoluzione si può ottenere il bene della maggioranza.
Come sacerdote, perché dedicarsi al prossimo, come la rivoluzione esige,
è un requisito dell’amore fraterno indispensabile per celebrare l’eucaristia.
Camilo Torres

 

 

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Se Gesù fosse vivo, sarebbe nella guerriglia. 
Camilo Torres

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Gesù di Nazareth raccomandava di non fare come i membri del Sinedrio: Mt 23, 3-4; Mc 12, 37-39; Lc 20, 45-46; Mt 23, 13-28; Lc 11, 39. 42. 44. 48. 52. Tra chi ha inteso le sue parole in modo autentico, qualcuno direbbe e dice “radicale”, ricordiamo un altro “sovvertitore dell’ordine costituito”, Camilo Torres (1929-1966), sacerdote e rivoluzionario colombiano, precursore della Teologia della Liberazione, co-fondatore della prima Facoltà di Sociologia dell’America Latina, che partecipò alla lotta di liberazione del suo popolo, e venne ucciso dai miliziani governativi il 15 febbraio 1966 (poco più di un anno dopo, il 9 ottobre 1967, sarà assassinato in Bolivia E. Che Guevara). Sono trascorsi 50 anni dalla sua morte, e per chi scrive – che allora ne aveva 19 – la sua figura rimane fortemente radicata nel cuore proprio in ragione del suo umanesimo integrale.
È significativo che nella prefazione italiana all’antologia dei suoi scritti, nel marzo 1968, G. M. Albani, allora dirigente delle Acli, ricavava dalla sua morte una lezione che avrebbe dovuto portare ad un «[…] impegno che deve giungere ad estirpare radicalmente nel nostro paese, in progressione solidale con tutti i popoli del mondo, quel nefasto sistema economico e sociale fondato sulla prepotenza del denaro, che alimenta anche tutte le fanatiche intolleranze religiose, ideologiche e razziali» (G. M. Albani, in C. Torres, Liberazione o morte, antologia degli scritti, Milano, Feltrinelli, Milano, 1968, pag. 9).

Carmine Fiorillo

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Per approndire

 

 


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Margherita Guidacci, Margherita Pieracci Harvell – «Specularmente. Lettere, studi, recensioni». A cura di Ilaria Rabatti

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Margherita Guidacci – Margherita Pieracci Harvell

 

Specularmente. Lettere, studi, recensioni

A cura di Ilaria Rabatti

ISBN 978-88-7588-173-3, 2016, pp. 144, Euro 15, Collana “Egeria” [18].

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Margherita Guidacci ricorda così l’incontro con Margherita Pieracci Harwell, avvenuto a Firenze il 25 agosto 1988: «[…] a Firenze mi aspettava una mia amica che vive ed insegna in America e che perciò posso rivedere solo durante l’estate, quando torna in Italia in vacanza. Se il mio sogno americano non fosse tramontato, l’avrei rivista anche nel giro che dovevo fare fra un mese circa in alcune Università statunitensi fra le quali, naturalmente, era inclusa anche la sua (che è Chicago); ma almeno ci siamo riviste ieri. È una donna molto sensibile e intelligente e ha scritto su di me alcune delle pagine più penetranti che mi sia capitato di leggere. Ci vogliamo bene anche perché abbiamo fra di noi una certa “specularità” e quando ci salutiamo, ci par di salutare l’eco».

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Margherita Pieracci Harwell – In lode della lettura: si legge per veder meglio in sé, riflessi in un altro.

 


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Ilaria Rabatti – Tra poesia e profezia: Il buio e lo splendore, l’ultima fase della poesia di Margherita Guidacci

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M. Guidacci

M. Guidacci

Il buio e lo splendore

Il buio e lo splendore

Ilaria Rabatti, Tra poesia e profezia: Il buio e lo splendore, l’ultima fase della poesia di Margherita Guidacci [Articolo pubblicato su Le opere e i giorni, Periodico di cultura, arte, storia – Anno IX, NN. 1-3 – Gennaio/Settembre 2006 – Direttore responsabile: Carmine Fiorillo], pp. 21.

sintesi

 

Ma le notti alte dell’estate,
ma le stelle, le stelle della terra.
Oh esser morti una volta, e saperle all’infinito
tutte le stelle perché come, come, come dimenticarle!
R. M. Rilke

 

Ad identificare i contorni, dilatati in infiniti spazi di luce, dell’ultima stagione poetica guidacciana, sembrerebbe indispensabile mettere in campo una fortissima tensione verso il trascendente (quasi mistica preparazione al “viaggio” verso l’eterno, consumato e atteso ad ogni istante, drammaticamente avvertito come “confine tra l’incontro e l’addio”), oltre la “soglia” del tempo e dello spazio, in un’assorta, pascaliana contemplazione dell’universo stellare, da lei amato con una profonda conoscenza scientifica. Il tema cosmico-astrale – che nasce nella Guidacci come corollario contemplativo della tarda epifania amorosa – già ampiamente introdotto nell’Inno alla gioia, torna ancora più fulgido a campeggiare nel Liber fulguralis (1986) che del maggiore Il buio e lo splendore, pubblicato solo nell’89 da Garzanti, costituisce il significativo e prezioso anticipo. Nel Liber fulguralis, edito quasi “clandestinamente” a Messina, nella collana “La mela stregata”, curata dalla Facoltà di Magistero, sono riunite infatti (fiancheggiate dalla traduzione inglese di Ruth Feldmann) in un ideale ponte lirico tra passato e futuro, cinque poesie dell’Inno alla gioia (Supernova, Anche tu conosci i nomi delle costellazioni, Ubbidiente e fedele, Appuntamento di sguardi nella luna, Aratura) e dodici testi inediti che successivamente confluiranno nel libro garzantiano dell’89 (più esattamente, undici andranno a formare la sezione finale de Il porgitore di stelle, mentre uno, Sibilla Persica, arricchirà quella iniziale delle Sibyllae). [Leggi tutto, pp. 21]

Ilaria Rabatti,
Tra poesia e profezia: Il buio e lo splendore,
l’ultima fase della poesia di Margherita Guidacci

 


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Costanzo Preve – Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica

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Costanzo Preve, Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica. Torino, 19 febbraio 2009 – Liceo Classico D’Azeglio di Torino – Convegno: Origini e Percorsi dell’idealismo tedesco, 2009, pp. 35.

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L’idealismo tedesco è generalmente considerato nei manuali di storia della filosofia come la scuola filosofica di tre personaggi, Fichte, Schelling e Hegel. Chi lo inquadra all’interno di una successione storica tende a mettere “a monte” il criticismo di Kant, ed “a valle” il materialismo di Marx, oppure la via filosofica pessimistica e individualistica di Schopenhauer e la critica proto-esistenzialistica a Hegel di Kierkegaard. La sostanziale dissoluzione del sistema hegeliano è vista con favore da alcuni interpreti (cfr. Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche) ed è invece vista in modo negativo da altri, maggiormente filo hegeliani (cfr. Herbert Marcuse, Ragione e Rivoluzione, oppure Georg Lukàcs, La distruzione della Ragione).
Personalmente, preferisco una dizione differente, quella di “filosofia classica tedesca”. Se accettiamo questa dizione, che comporta immediatamente un vero e proprio “riorientamento gestaltico” ed una diversa periodizzazione, la filosofia classica tedesca inizia con Lessing e Herder, include Kant ed il dibattito sul kantismo che ha dato origine al vero e proprio idealismo filosofico posteriore, comprende ovviamente Fichte, Schelling e Hegel, e termina storicamente con le due figure di Feuerbach e di Marx, che ne fanno parte integrante.
Si tratta di un vero e proprio “riorientamento gestaltico”, [Leggi tutto, pp. 35]

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Marco Penzo – Una particolare idea di “comunismo” nel simposio

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Il simposio di Platone in un dipinto di Anselm Feuerbach

Il simposio di Platone in un dipinto di Anselm Feuerbach.

Nel mondo antico, in dettaglio in quello greco, il simposio fu una pratica che non solo forgiava il buon cittadino, ma esaltava anche la comunità di pari. Il simposio era la pratica che presentava il modello di cittadino, quindi uomo della comunità.
C’era una sorta di comunismo in tale pratica che però prevedeva determinate regole, ma soprattutto delle aggregazioni di ceti “aristocratici” nel senso letterale del termine, ma ancor prima che tali essi erano “amici”.
Murray spiega molto bene questa valenza sociale dell’amicizia, in particolare rifacendosi ad Aristotele, che indica l’amicizia come associazione, così come la πόλις. L’intellettuale, figura fondamentale a mio avviso anche e soprattutto nel simposio, «deve organizzarsi in libere comunità rette esclusivamente dall’amicizia filosofica»: in questo senso si può parlare di “comunismo tra pari” nel simposio, libera associazione tra uguali e soprattutto amici. [Leggi tutto]

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Marco Penzo, Una particolare idea di “comunismo” nel simposio

 

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Alessandro Volpi – Socialismo di popolo e sinistra progressista. Jean-Claude Michéa e i suoi detrattori

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Rileggendo il numero 322 di Diorama Letterario, storica rivista diretta dal Professor Marco Tarchi, ho trovato un interessante articolo di Alain de Benoist: “Il crimine di Jean-Claude Michéa”. Qui il filosofo francese difende il collega in seguito a “una vera e propria offensiva” da parte della gauche radicale francese, inaugurata dal sociologo Luc Boltanski con un articolo apparso su “Le Monde” nel 2011, seguito poi da Serge Halimi su “Le monde diplomatique” di cui è direttore, dall’economista Fréderic Lordon ne “La Revue des livres” e da Philippe Corcuff, militante politico, sul sito Médiapart. L’aspetto interessante dello scontro, come fa notare Alain de Benoist, è che non viene dalla sinistra radical chic contro cui si scaglia sempre il filosofo francese, bensì da “autori più decisamente impegnati a sinistra che finora ci avevano abituato meglio” (basti pensare all’ottimo Le nouvelle esprit du capitalism di cui Luc Boltanski è coautore insieme a Ève Chiapello). [Leggi tutto]

Alessandro Volpi, Socialismo di popolo e sinistra progressista

 

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Georg Büchner (1813-1837) – La drammaturgia critica di un rivoluzionario: La morte di Danton – Leonce e Lena – Woyzeck

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La morte di Danton

Georg Büchner

Teatro

La morte di DantonLeonce e LenaWoyzeck

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Risvolto di copertina

«L’autore drammatico non è altro, ai miei occhi, che uno storico, ma sta al di sopra di quest’ultimo, perché egli ricrea per noi la storia una seconda volta: invece di fornirci un racconto secco e spoglio, ci introduce immediatamente nella vita di un’epoca, ci dà caratteri invece di caratteristiche, personaggi anziché descrizioni». Così Büchner, autore drammatico, definisce il proprio compito in una lettera alla famiglia del 1835. Aveva appena terminato La morte di Danton, il suo primo lavoro letterario, e neanche venti mesi lo separavano dalla morte in esilio a Zurigo, a soli 24 anni, spesi quasi interamente nell’attività rivoluzionaria e negli studi scientifici. Delle altre due opere, Leonce e Lena e Woyzeck – pubblicate parecchi anni dopo la sua morte –, Büchner non parla, almeno nelle lettere di lui che ci sono rimaste. Tanto maggiore ci sembra il prodigio nel vedere come quel giovane abbia potuto precorrere – in queste opere che costituiscono forse il tentativo più audace di rinnovamento che la storia del teatro del XIX secolo conosca – motivi formali e ideologici la cui riscoperta ad opera del naturalismo, e soprattutto dell’espressionismo alla vigilia della prima guerra mondiale, sarebbe stata definita da Walter Benjamin come uno dei «pochi avvenimenti politico-letterari dell’epoca la cui attualità deve apparire di una luce accecante alla presente generazione». Dalla prima rappresentazione di La morte di Danton, curata da Max Reinhardt nel 1916, a quella di Vogt del 1921 con Alessandro Moissi nella parte di Danton, il teatro di Büchner è entrato ormai a far parte del repertorio classico, sia in Germania, sia in Francia, sia in Italia.


Risvolto di copertina
Sotto l’apparenza del dramma storico Morte di Danton nasconde i nervi scoperti della condizione umana, cosí come sarà rivelata e rappresentata un secolo dopo, nel Novecento, con quella stessa incandescenza, la stessa disillusione, lo stesso urlo soffocato. Per Büchner, come per Leopardi, la Storia non è che una macchina celibe, anche se le ragioni per scatenare la rivoluzione sono sempre tutte vive e presenti. Quello che commuove, in Morte di Danton, è la fragilità: sembra un paradosso, trattandosi di vicende che raccontano i protagonisti di un tempo in cui si è sprigionata una forza di cui ancora oggi sentiamo la spinta. Eppure nessuno di quegli uomini ha potuto sottrarsi, oltre che alla ghigliottina, alla verifica della propria impossibilità di invertire la rotta assegnata (da Dio? dalla Natura? dal Nulla?) agli esseri umani, nonché di porre rimedio all’ingiustizia che da sempre regna sovrana.

Mario Martone

 

 

La visione di Danton. Mario Martone porta in scena una riuscita quanto inquietante riflessione sulla politica

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La drammaturgia critica di un rivoluzionario: Büchner
La morte di Danton: autopsia di una rivoluzione

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Luigi Sandri – Recensione al libro di Mauro Magini, «Il mio amico Platone»

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«Questo libro – breve ma intenso – che nel titolo rinvia al famoso detto latino (Amicus Plato, sed magis amica veritas, Platone è un amico, ma la verità è più amica), e che si chiarisce con il sottotitolo “Riflessioni su società, religione, vita”, racconta l’“educazione spirituale” dell’autore (chimico di professione)».[Leggi tutto]

 

Luigi Sandri, Recensione al libro di Mauro Magini, Il mio amico Platone

Confronti copertina

Recensione pubblicata in: Confronti,  Anno XLIII, N. 3, Marzo 2016, p. 45


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Berta Caceres – Aveva detto: «Finire in carcere è il meno che ti possa capitare. Recentemente ci hanno sabotato l’auto su cui viaggiavamo, hanno minacciato la mia famiglia. In Honduras non esiste stato di diritto, ogni giorno è una scommessa». Il 2 marzo è stata assassinata.

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Berta Caceres
è stata assassinata
mercoledì 2 marzo in Honduras, nella città di Esperanza, dipartimento di Intibucá,
dove viveva.

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Non dimentichiamola!

 

Le parole profetiche di Berta Caceres

Honduras. L’ultima intervista al manifesto: «La nostra vita è appesa a un filo»

 

 


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