Marie Catherine Sophie (Daniel Stern), contessa d’Agoult (1805-1876) – Quando tutti i pericoli fossero nella libertà e tutta la tranquillità nella servitù, io continuerei a preferire la libertà, perché la libertà è vita e la servitù è morte.

Marie Catherine Sophie, contessa d'Agoult

Marie Catherine Sophie, contessa d'Agoult

DANIEL STERN, Marie Catherine Sophie, contessa d’Agoult.

 

La liberté

«Quando tutti i pericoli
fossero nella libertà
e tutta la tranquillità nella servitù,
io continuerei a preferire la libertà,
perché la libertà è vita e la servitù è morte».

Marie Catherine Sophie, contessa d’Agoult, Storia della Rivoluzione del 1848, 1862.

 

 

 

 

Il pensiero

Tomba de Marie d’Agoult, scrittrice sotto lo pseudonimo di Daniel Stern. Particolare del bassorilievo La Pensée, opera di Henri Chaput (1833-1891).

 

 

Opere in linea

Essai sur la liberté considérée comme principe et fin de l’activité humaine, Parigi, Michel Lévy, 1862.

Histoire de la Révolution de 1848, Parigi, Charpentier, 1862.

Dante et Goethe, Parigi, Didier, 1866.

 

 

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Elias Canetti (1905-1994)– L’opera sopravvive perché contiene pura quantità di vita e lo scrittore coinvolge tutti coloro che sono con lui nell’immortalità dell’opera.

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L’immortalità

È bene prender le mosse da un uomo come Stendhal se si vuol parlare di tal genere di immortalità privata o letteraria. Difficilmente si potrebbe trovare una persona più aliena dalle correnti immagini di fede. Stendhal fu del tutto libero dai vincoli e dalle promesse di qualsiasi religione; le sue sensazioni e i suoi pensieri furono esclusivamente rivolti alla vita terrena, che egli sperimentò e godette nel modo più preciso e profondo. Egli si aprì a tutto ciò che poteva recargli piacere, e così facendo non fu sciocco giacché conservò intatto l’elemento individuale: non ricondusse nulla entro una precaria, globale unità. Diffidò di tutto ciò che non gli fu possibile sperimentare. Pensò molto, ma in lui non vi fu alcun pensiero freddo. Ogni cosa che egli registrava, ogni cosa che egli plasmava, restava prossima all’istante ardente in cui era nata. Amò molte cose, credette a molte cose, ma tutte meravigliosamente concrete. Di qualunque cosa si trattasse, egli poteva trovarla proprio in sé senza dover ricorrere ad alcun trucco.
Quest’uomo che non diede nulla per presupposto, che volle toccare ogni cosa, che fu la vita stessa nella misura in cui la vita è senso e spirito, che visse ogni avvenimento nel cuore pur riuscendo anche ad osservarlo dall’esterno, – quest’uomo nel quale parola e contenuto coincisero con suprema naturalezza come se di sua iniziativa si fosse accinto a purificare la lingua, quest’uomo raro e veramente libero, ebbe tuttavia anch’egli una fede, della quale parlò con facilità e spontaneità come di un’amata.
Senza alcuna insofferenza egli si accontentò di scrivere per pochi: era però certissimo che entro cent’anni molti lo avrebbero letto. Nei tempi moderni non esiste una fede nell’immortalità letteraria più chiara, isolata e priva di presunzione della sua. Cosa significa tale fede? Quale è il suo contenuto? Essa significa che lo scrittore vivrà quando tutti gli altri suoi contemporanei non saranno più vivi. Ciò non vuol dire affatto che lo scrittore sia maldisposto verso i viventi in quanto tali. Egli non si sbarazza di loro, non fa nulla di ostile a loro, e tantomeno vi si pone contro in battaglia. Egli disprezza coloro che si sono procurati falsa gloria, ma altrettanto disdegna di combatterli con le loro stesse armi; non nutre rancore verso di essi, poiché sa bene quanto si ingannino. Egli si sceglie la compagnia di coloro alla cui schiera sa di appartenere: coloro che furono nei tempi trascorsi, e la cui opera ancora vive – coloro che parlano ancora a qualcuno, e delle cui opere ci si nutre. La gratitudine che si prova per essi è gratitudine per la vita stessa.
Uccidere per sopravvivere non può avere alcun valore dal punto di vista di questo modo di sentire, giacché chi lo fa proprio non vuole sopravvivere ora. Egli entra in lizza cent’anni dopo, quando ormai non vive più, né può dunque uccidere. Agendo così, egli rinuncia a contrapporre opera contro opera ed è poi troppo tardi perché possa intervenire nel confronto. La vera e propria rivalità inizia quando i rivali non sono più in vita. Essi non possono assistere alla battaglia tra le loro rispettive opere. L’opera, però, deve sopravvivere, e per sopravvivere deve contenere la maggiore e la pura quantità di vita. Lo scrittore non soltanto ha disdegnato uccidere, ma ha coinvolto tutti coloro che erano con lui in quell’immortalità, ove ogni cosa è attivamente presente, la più piccola come la più grande.
Tale quadro è esattamente l’opposto di quello fornito dai potenti che portano con sé nella morte tutto ciò che li circonda, al fine di poter ritrovare nell’aldilà ogni cosa cui erano abituati. Nulla denuncia in modo più terribile la loro profonda impotenza. Essi uccidono da vivi, uccidono da morti, un corteo di uccisi li accompagna nell’aldilà.
Ma chi apre Stendhal ritrova lui stesso insieme con tutti coloro che lo circondavano, e li ritrova in questa vita. Così i morti si offrono come il pià nobile nutrimento ai vivi. La loro immortalità torna a vantaggio dei vivi; grazie a questo capovolgimento del sacrificio dei morti, tutto prospera. La sopravvivenza ha perduto il suo aculeo e il regno dell’inimicizia è alla fine».

Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi, 1981, pp. 334-336.

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William Faulkner (1897-1962) – Chi scrive deve imparare da sé che la più vile di tutte le cose è avere paura.

William Faulkner

William Faulkner

«Non abbiamo leggi contro il cattivo gusto […]
forse perché nella nostra democrazia il cattivo gusto
è stato convertito il un bene di consiumo».

William Faulkner, W.F. Scritti, discorsi e lettere, a cura di James B. Meriwether, traduzione di Luca Fusari, Il Saggiatore, 2010.

 

«[Chi scrive] deve imparare da sé
che la più vile di tutte le cose è avere paura».

William Faulkner, Discorso di accettazione del premio Nobel per la Letteratura, Stoccolma, 10 dicembre 1950.

 

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David Ciolli – Infinito semplice. Le storie del piccolo maestro wu dao

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David Ciolli

INFINITO SEMPLICE
Le storie del piccolo maestro wu dao

244 IsbnISBN 978-88-7588-157-3, 2015, pp. 80, 105×155 mm., Euro 7
Collana “lo spazio della vita” [3].

l’autore

Nella solitudine del suo eremo
il piccolo maestro Wu Dao accoglie pochissimi allievi
cui impartisce preziosi insegnamenti.

«Tutta la tua vita
è stata la preparazione a questo preciso istante.
Usalo con saggezza.
Rendilo sacro. Danzalo».

David Ciolli, si interessa di filosofie orientali, discipline olistiche e arti marziali da circa 25 anni. Laureato in Storia delle Religioni all’Università di Firenze, ha studiato pianoforte e composizione musicale nel Conservatorio “Cherubini”. Diplomato in Shiatsu, pratica ed insegna Tai Chi Chuan. Fra le sue pubblicazioni: Quinto non uccidere, Pistoia, Petite Plaisance, 2010; Diventa chi sei, Asti, Quantic Publishing, 2012.

 

 

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Mauro Magini – Il mio amico Platone. Riflessioni su società, religione, vita

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 Mauro Magini 

Il mio amico Platone
Riflessioni su società, religione, vita

 Questo libro tratteggia l’impegno civile dell’Autore dagli anni Settanta del Novecento a oggi, un percorso di riflessione sulle grandi questioni della vita e del mondo: la società, la guerra, il terrorismo, la corruzione politica. Il filo che lega i vari passaggi è lo scandaglio problematizzate dei grandi temi etico-religiosi del nostro tempo.
Il percorso inizia con i referendum sul divorzio e sull’aborto, riflette poi negli anni Novanta del Novecento sulla corruzione, sull’etica, sulla ricerca. A partire dai primi anni di questo secolo tenta un’analisi sulla nuova dimensione del terrorismo (in primis quello delle Torri gemelle) e avanza proposte sul pacifismo e sulla collaborazione tra i popoli. Nell’ultima, più consistente parte, viene affrontata la questione religiosa. L’Autore propone un terreno di condivisione dove poter vivere in modo non conflittuale scienza e religiosità, cercando, in quella che lui definisce vera fede, punti di riferimento per se stesso e per la sua famiglia. Studioso attento, sviluppa in queste pagine un confronto con grandi pensatori come Hans Kung, Raimon Panikkar, Vito Mancuso.

245 ISBN

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Mauro Magini è nato a Orciano di Pesaro nel 1941 e attualmente vive a Roma. Laureato in chimica e già ricercatore dell’Enea, dove ha pubblicato numerosi studi su riviste scientifiche internazionali. Ha inoltre pubblicato, con la moglie Maria Teresa Pellegrini, manuali di chimica per le scuole superiori. Questa è la sua prima opera in cui affronta questioni esistenziali. Militante attivo della Comunità di base di San Paolo, crede in una religione che libera le coscienze e non le opprime come purtroppo succede quasi sempre in tutte le religioni.

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Giovanni Stelli – Senso e valore della filosofia. Tre domande, alcune risposte

Giovanni Stelli

Giovanni Stelli

Cercherò di rispondere alle domande con alcune considerazioni teoretiche che riflettono, a grandi linee e in modo schematico, il mio itinerario speculativo degli ultimi trent’anni. Ho indicato nelle note alcuni lavori in cui ho trattato i temi qui illustrati analiticamente e con i necessari passaggi argomentativi, che nei limiti di questo contributo sono stati omessi.
La definizione dell’attività filosofica contenuta nella prima domanda mi trova sostanzialmente d’accordo con alcune precisazioni. In primo luogo, direi che l’attività filosofica consiste non tanto nell’“attribuire” quanto nel “riconoscere e precisare il senso e il valore della vita umana nell’intero” per le ragioni che cercherò di esporre più avanti. In secondo luogo, credo che l’essenza dell’attività filosofica o della filosofia vada ulteriormente determinata. La definizione proposta potrebbe infatti riferirsi anche alla religione, che ha certamente un nesso profondo con la filosofia, ma che da essa va chiaramente distinta.
È stato Aristotele ad individuare con chiarezza ciò che costituisce lo specifico della filosofia rispetto alle scienze particolari: queste ultime studiano l’ente in quanto determinato in un modo o in un altro (come numero, come movimento, come vita, ecc.), mentre la filosofia studia l’ente in quanto tale, l’ente in quanto ente. Da ciò segue che la filosofia (più precisamente: la “filosofia prima”, che è quella che qui ci interessa) riguarda appunto sempre l’intero (tutti gli enti nelle loro connotazioni universali) e costituisce pertanto il fondamento di tutte le scienze particolari…

Leggi tutto il saggio di Giovanni Stelli
aprendo l’impaginato in PDF
.

Già pubblicato in: Koiné Periodico culturale
Anno XX  –  NN° 1-4 – Gennaio-Dicembre 2013, , pp. 41-60
Direttore responsabile: Carmine Fiorillo – Direttori: Luca Grecchi, Diego Fusaro.

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Franco Toscani – L’antropologia culturale e il sogno dell’universalità umana concreta

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OJ40_71-GudrunWEWIR320WeltEthos – WE – WIR

La storia del mondo sta attraversando un periodo denso di violenza, terrorismo, guerre e venti di guerra, conflittualità e veleni d’ogni tipo, disorientamento, confusione, diffidenza. Una delle questioni che sempre di nuovo si ripropone è quella del male, della sua ostinazione e persistenza, banalità e stupidità, crudeltà e tragicità.
Da molti secoli la filosofia e la teologia si sono interrogate e continuano a interrogarsi sulla questione del male, senza poter giungere a conclusioni certe e definitive. Il male resta per noi un grande enigma, possiamo esser certi soltanto della sua tenace presenza nella storia e nel mondo umano, delle sue varie forme, della sua diffusione e delle continue, incessanti difficoltà che incontra la necessaria, sacrosanta, sempre rinnovata lotta contro di esso.
Ha perciò ragione Liliana Segre (deportata quattordicenne nel 1944 e tra i 25 sopravvissuti dei 776 bambini di età inferiore ai 14 anni deportati nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau) quando, in una recente intervista sugli attentati terroristici parigini del 13 novembre (“Corriere della Sera”, 16 novembre 2015, a cura di Paolo Conti), invita gli adulti, in particolare i genitori e gli insegnanti ad avere il coraggio di “non girare la faccia dall’altra parte”, di dire la verità ai nostri ragazzi, di spiegare che cosa è realmente accaduto a Parigi, cercando di non “ripararli” troppo dal dolore, dal pericolo e raccomandando pure di non odiare mai, perché l’odio genera sempre altro odio.
Le nuove generazioni, infatti, sono state sin troppo “protette” da quel male e quel dolore che invece fanno sempre parte della vita reale di ciascuno di noi e che, se vengono ignorati, sottovalutati e non riconosciuti in tutto il loro spessore, rischiano di annichilire e distruggere le personalità più fragili o comunque di renderci incapaci di affrontare la vita in tutti i suoi aspetti e dimensioni. L’eccesso di protezione e le troppo facili “caramelle di consolazione” non aiutano a vivere, a crescere e ad assumersi responsabilità. Occorre cercare sempre di fare i conti – anche se non è facile come dirlo – col male e col dolore che sono presenti non solo negli altri e nel mondo, ma anche in noi, in ciascuno di noi.
Solo così, con lucidità e coscienza, possiamo andare avanti, affrontare la vita con coraggio e responsabilità, partendo sempre da noi stessi, dalle situazioni concrete, cominciando quindi a vivere quotidianamente nelle nostre aule scolastiche e universitarie, in tutti i luoghi di lavoro e di vita rapporti umani caratterizzati dal rispetto, dall’attenzione, dall’ascolto reciproco, dal dialogo, dall’ospitalità culturale fra diversi. Solo così, trovando la vera forza in noi e negli altri, nel meglio di noi stessi, possiamo uscire dal tunnel della paura e del terrore, dall’isolamento nelle nostre case, tornare ad aprirci al mondo e vivere più pienamente il mondo.
Per vivere meglio, occorre fra l’altro che riscopriamo e rimeditiamo gli insegnamenti dell’antropologia culturale, che si studia o, dati i tempi che corrono, si dovrebbe studiare nelle nostre scuole. Per Bronislaw Malinowski, in virtù dell’attenzione posta sulle differenze culturali e sulla comparazione tra culture, l’antropologia ci ispira il senso delle prospettive e delle proporzioni, un più fine umorismo e consente una conoscenza globale dell’umanità.
Dopo aver studiato le altre culture e civiltà, l’antropologo ritorna alla propria con una nuova prospettiva, più ampia e lucida. La presa di coscienza dei diversi modi di vivere dell’umanità, dell’irriducibile ricchezza delle civiltà e culture umane getta una nuova luce anche sulla nostra civiltà e cultura. Diveniamo capaci di spirito critico e autocritico, di distanza critica dalla nostra stessa cultura, contribuendo così a rifondarla e a rinnovarla efficacemente.
I Nambikwara del Mato Grosso, in Brasile, su cui riflette Claude Lévi-Strauss in Tristes Tropiques (Tristi Tropici, 1955) sono molto poveri e indifesi, ma la loro gentilezza e tenerezza risultano per noi commoventi, oltre che evidente la ricchezza della loro umanità. L’antropologia culturale ci libera dai pregiudizi dell’etnocentrismo, consistente nella tendenza a considerare superiori le regole e i valori del proprio gruppo di appartenenza rispetto a tutti gli altri gruppi; l’etnocentrismo è un vero e proprio cancro, che in tutti i tempi e in tutte le latitudini ha seminato violenza, odio, disprezzo, guerre, paura.
Secondo Lévi-Strauss, i veri barbari sono coloro che credono nella barbarie e l’attribuiscono agli altri. Per questa mentalità, mentre “noi” siamo i soli veri esseri umani, gli “altri” sono sottouomini, barbari, selvaggi, primitivi, esseri inferiori.
Già Michel de Montaigne (si veda il saggio Des Cannibales, negli Essais) aveva compreso nel XVI secolo, con straordinaria lucidità e preveggenza, che “ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo”.
La cultura occidentale ha cominciato da tempo a fare i conti con il colonialismo, l’eurocentrismo e l’imperialismo che l’hanno a lungo caratterizzata. Questi conti non sono ancora terminati, ma abbiamo iniziato a capire che l’uomo occidentale può comprendere meglio sé stesso soltanto se dismette l’attitudine e lo sguardo del dominio, se l’altro non viene più considerato e ridotto a oggetto, se lo sfruttamento, l’asservimento e l’oppressione non sono più il suo orizzonte.
Da questo punto di vista l’antropologia può davvero essere intesa come figlia del rimorso dell’uomo bianco, europeo, occidentale e come una via di riscatto e di espiazione dalle colpe del colonialismo e dell’imperialismo.
Vi è un universalismo falso, che nasconde e ricopre i propri interessi particolaristici col richiamo ai valori universali dell’uomo. Lo studio dell’antropologia culturale può consentirci la riconciliazione dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo, c’insegna che l’umanità intera è composta da tutti i suoi esempi particolari e non può prescindere da essi, che davvero nulla di umano può essere estraneo all’uomo. E’ il senso di una universalità umana concreta, non astratta, spiritualistica o retorica, ma frutto del riconoscimento, della valorizzazione e della ricchezza delle differenze.
Sostenere ciò non significa certo abbandonarsi, solo per il gusto della diversità, ad una esaltazione acritica di tutto ciò che proviene dalle varie culture e civiltà umane né accogliere e accettare con rassegnazione o indifferenza ciò che è inaccettabile, oggettivamente lesivo della dignità umana.
Si pensi, ad esempio, alla pratica dell’infibulazione, consistente nella cucitura delle grandi labbra della vagina, lasciando un’apertura ridotta per i flussi fisiologici. Adottata per motivi religiosi e soprattutto culturali, essa è ancora in uso in vari paesi africani, può essere accompagnata dalla mutilazione totale o parziale della clitoride, rende dolorosi i rapporti sessuali e il parto, limita fortemente la libertà delle donne africane, le fa anzi permanere nella subalternità e nell’asservimento al dominio maschile. In buona sostanza, a mio avviso, la pratica dell’infibulazione, in quanto oggettivamente lesiva della dignità e della libertà delle donne, va apertamente contestata e rifiutata in qualsiasi luogo. L’antropologia culturale non c’insegna un relativismo etico indifferente ai valori e, soprattutto, al rispetto delle persone.
L’universalità concreta a cui ci richiamiamo non è un’utopia astratta, non è un’illusione tranquillizzante, non è un facile obiettivo, ma cerca di salvaguardare insieme i valori della diversità, della pluralità e dell’eguaglianza, dell’equità, della dignità di tutti gli esseri umani. Essa consente di muoverci nella direzione di una nuova civiltà planetaria, di una nuova cultura, etica e politica dell’uomo planetario, secondo la felice intuizione di Ernesto Balducci.
E’ anche il “sogno di una cosa” di cui parla il giovane Karl Marx in una lettera ad Arnold Ruge del settembre 1843: ” Il nostro motto dev’essere: riforma della coscienza non mediante dogmi […]. Apparirà chiaro allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente. Apparirà chiaro come non si tratti di tracciare un trattino tra passato e futuro, bensí di realizzare i pensieri del passato. Si mostrerà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma porti a compimento consapevolmente il suo vecchio lavoro”.
Ora, però, proprio questa possibile universalità umana concreta – sottolineiamo possibile, perché non si dà nella forma odierna della cosiddetta globalizzazione, anzi appare ancora soltanto come un bel sogno a occhi aperti – viene seriamente minacciata e compromessa nella difficile e delicata situazione mondiale del presente.
Per noi si tratta non solo di reagire e di lottare contro il terrorismo, ma anche di contrastare qualsivoglia tipo di fondamentalismo, integralismo, fanatismo politico, ideologico e religioso. Qui le risposte in termini meramente militari o di repressione non bastano. Occorre sì lottare in termini netti e duri contro il terrorismo islamico e il “Califfato del terrore”, ma bisogna prestare pure molta attenzione a non criminalizzare l’intero Islam, come invece tendono a fare i fondamentalisti dell’occidentalismo, gli intolleranti e razzisti di casa nostra. Non possiamo dimenticare, ad esempio, che le sūre del Corano si aprono con l’invocazione al Dio clemente e compassionevole oppure quanto leggiamo nel Corano (sūra 5, 28): “se stenderai la mano contro di me per uccidermi, io non stenderò la mano su di te per ucciderti, perché ho paura di Dio, il Signore dei mondi”.
Sappiamo bene che del Corano, come di tutti i testi sacri, si possono fare diverse letture e che vi è pure l’interpretazione dei fanatici, degli intolleranti, dei violenti. Pure noi occidentali ne sappiamo qualcosa, perché anche in nome del Dio cristiano e della Croce si sono compiuti nel corso dei secoli innumerevoli e ben noti misfatti, le Crociate, guerre spaventose, si sono arsi vivi gli “eretici” e le “streghe”, si è sparso a piene mani sangue innocente, etc. . Molti sono anche i nostri peccati e scheletri nell’armadio.
Nel proporre la propria identità, tutte le religioni – nessuna esclusa – sono poste davanti a un bivio, a un aut-aut: o alimentare una cultura (e un’etica) della pace, della convivenza, della solidarietà, dell’amore e del dialogo oppure rafforzare lo spirito settario, erigere muri dottrinali, inseguire i propri fantasmi idolatrici, contrastare qualunque forma di contaminazione e di cooperazione.
Non possiamo più permetterci questa seconda strada, peraltro già ampiamente percorsa in modo fallimentare. Senza ciò che Hans Küng ha chiamato Weltethos, ossia senza un’etica mondiale fondata sulla condivisione a livello planetario di un minimo comune denominatore di tipo etico, non vi sarà un futuro per il pianeta. Tutte le religioni possono dare un grande contributo in questa direzione, se e soltanto se torneranno a riconoscere come essenziale la legge dell’amore e della fratellanza umana, che mi sembra il vero fondamento del dialogo interreligioso autentico.
Noi oggi dobbiamo favorire in tutti i modi possibili coloro che, all’interno del mondo islamico, mirano alla convivenza, vogliono vivere nella pace, puntano a un’integrazione fruttuosa, non vogliono innalzare muri di odio e di disprezzo.
So che non è facile, ma è necessario provarci, se non vogliamo lasciare l’ultima parola agli intolleranti e ai violenti di tutte le risme.
So anche che nelle riviste di propaganda di Daesh, del “Califfato del terrore”, di questi ignobili tagliagole che non si vergognano di richiamarsi al nome di Allāh, tutto ciò che proviene dai “miscredenti”, dal mondo occidentale è soltanto fonte di peccato, corruzione e male; persino le nostre scuole sono soltanto, ai loro occhi, “scuole della perdizione”, caratterizzate dalla tolleranza e dalla secolarizzazione, dall’ateismo e dal pluralismo religioso. Lo stato islamico insiste molto sulla carenza valoriale dell’Occidente, vuole conquistare anche le menti e i cuori delle persone che vivono tra i “miscredenti”, propone un’alternativa complessiva di sistema.
A questo proposito è bene essere molto chiari sull’ambivalenza della cultura occidentale, che ritrova in sé stessa da un lato il consumismo, il neoliberismo, il trionfo del Dio-mercato, del capitale, della tecnica e delle merci, profonde diseguaglianze economico-sociali, la desertificazione di senso, il nichilismo dell’ultracapitalismo vincente e dall’altro i valori essenziali della democrazia e dei diritti umani, del dialogo e della libertà di espressione in tutte le sue forme, della dignità umana, del pluralismo.
Noi dovremmo ovviamente far leva su questi ultimi aspetti, ma vanno rimessi in questione un sistema che, in nome del primato del profitto economico, produce ingiustizia all’interno degli stessi paesi ricchi e la violenza di un mondo che si regge sullo squilibrio abissale di ricchezza e di potere fra Nord e Sud del pianeta. Questo è oggi il brodo di coltura del terrorismo, soprattutto per i giovani musulmani di seconda generazione, senza lavoro, riconoscimenti e opportunità, spesso stigmatizzati e privati della loro dignità.
Se non avvertiremo dolorosamente sulla pelle la mancanza di un’etica e di una cultura dell’uomo planetario, se non mediteremo sulla desertificazione di senso che riguarda anche noi occidentali, sulle molteplici, inedite forme dell’odierno nichilismo e della barbarie, sulla mancanza di progetti di futuro e di nuovi assetti di civiltà che ci assilla, la decadenza e il tramonto dell’Occidente saranno inevitabili.

Franco Toscani

Piacenza, 2 dicembre 2015

Le farfalle volano

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Maura Del Serra – La parola della poesia: un “coro a bocca chiusa”

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In una recente conferenza pistoiese, Giancarlo Zizola ha invocato le “responsabilità della memoria” e della scrittura creativa contro il presente in apparenza assoluto, ma illusorio ed immaginativamente azzerante della civiltà mediatica e della sua Babele di immagini “virtuali”; cioè, si può aggiungere secondo etimologia, esaltanti un’infinita potenzialità di esperienza e di “navigazione” (non a caso è stato adottato per Internet questo verbo ulissiaco e faustiano) che non si traduce però mai – o si traduce in misura assai ridotta – in un vero experiri ricco di senso, cioè spiritualmente e psicologicamente significativo, in una dynamis, in una paideia generatrice di valori. Le immagini da cui siamo avvolti, come in una spiralica ed autoreferenziale Wunderkammer – una camera degli specchi che assomiglia alla caverna platonica – tendono infatti per loro natura, come fuochi d’artificio, a sprofondare annullandosi, dopo una istantanea e pervasiva fioritura, nella memoria personale e collettiva, lasciando un vuoto che è un desiderio infinito di altre immagini ugualmente effimere e pervasive, che tirannicamente “invadono la coscienza”, come disse Kafka nei suoi colloqui con Janouch, senza fecondarla e lasciarla crescere avvolgendola nel necessario silenzio…

Leggi tutto il saggio aprendo l’impaginato in PDF.

 

 

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Maura Del Serra, La parola della poesia: un “coro a bocca chiusa” [Articolo pubblicato su Le opere e i giorni, Periodico di cultura, arte, storia – Anno I, NN. 1-2 – Gennaio/Giugno 1998 – Direttore responsabile: Carmine Fiorillo], pp. 6.

 

 

 

 

 

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