«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Giovanni Casertanoè stato professore ordinario di Storia della Filosofia Antica nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. È stato Visiting Professor in varie Università dell’Europa e dell’America del Sud. Ha ricevuto la cittadinanza onoraria dell’antica città di Elea per i suoi studi su Parmenide, e il Dottorato in Filosofia honoris causa dall’Università di Brasilia, con la quale collabora in qualità di Permanent fellow dell’Archai UNESCO Chair (Filosofia Antiga); è Enseignant-chercheur, Professeur des Universités, Membre statutaire rattaché à l’«Unité de Recherche Institut d’histoire de la philosophie» (E.A. 3276) de l’Université de Provence (Aix-Marseille 1). Il suo campo di ricerca sono principalmente i Presocratici e Platone, ed ha al suo attivo più di trecento pubblicazioni, tra volumi, articoli, saggi. Tra i suoi volumi: Parmenide il metodo la scienza l’esperienza, Napoli 1989 (1978); Il nome della cosa. Linguaggio e realtà negli ultimi dialoghi di Platone, Napoli 1996; Morte, Napoli 2003; Sofista, Napoli 2004; La nascita della filosofia vista dai Greci, Pistoia 2007; Paradigmi della verità in Platone, Roma 2007; I Presocratici, Roma 2009; O prazer, a morte e o amor nas doutrinas dos Pré-socráticos, São Paulo 2012; Da Parmenide di Elea al Parmenide di Platone, Sankt Augustin 2015; Giustizia, filosofia e felicità. Un’introduzione alla Repubblica di Platone, Roma 2015; Platone, Fedone, o dell’anima. Dramma etico in tre atti (traduzione, commento e note di G.C.), Napoli 2015; I proverbi di Platone, Napoli 2019; Venticinque studi sui preplatonici, Pistoia 2019.
Premessa
Su gentile invito dell’amico Luca Grecchi, ripubblico qui un insieme di alcuni dei miei studi sui dialoghi platonici. Spero che da essi risulti chiara (e documentata) la prospettiva della mia lettura di Platone, così come si è venuta costruendo negli ultimi decenni. Tesa a dare un’immagine non convenzionale del grande filosofo/drammaturgo, che costituisce una figura unica nei secoli della nostra cultura.
Un Platone non metafisico, né dispregiatore della sensibilità di contro alla razionalità, o del corpo rispetto all’anima, ma sempre attento a scovare tutti i risvolti (psicologici, morali, politici) dei personaggi che mette in scena, nel costruire (o nel tentativo di costruire) dialogicamente una filosofia che sia la più rispondente ai concreti problemi dell’essere umano. Il dialogo, per Platone, è appunto il segno di una filosofia degli uomini e per gli uomini, senza presupposti né “aiuti” trascendenti; e sono appunto dialoghi che in originali drammi filosofici tentano di fondare una ricerca che si trova di fronte a problemi che riguardano la concretezza della posizione nel mondo degli uomini, come singoli individui e come comunità, che affronta difficoltà di vario tipo nel determinare il senso delle cose e della vita, che si trova di fronte ad impasses apparentemente insuperabili, che conosce anche sconfitte e fallimenti, che raggiunge mete e conclusioni importanti, ma sempre con la coscienza di non doversi mai contentare dei risultati raggiunti, e di dover sempre tendere al meglio. Filosofia dunque come via da seguire, quella via della quale il personaggio Socrate (il simbolo della filosofia, sapientemente e appassionatamente costruito da Platone), in un bellissimo passo del Filebo, dichiara di essere da sempre innamorato, e alla quale è sempre rimasto fedele, anche a costo di rimanere solo.
Ringrazio Graça, che come sempre mi è stata vicina e mi ha aiutato nell’allestimento del volume, e Silvio, che mi è stato di aiuto nella correzione delle bozze. E, naturalmente, ringrazio ancora Luca per l’opportunità che mi ha offerto di ripresentare qui alcuni risultati (ovviamente provvisori) delle mie ricerche su Platone.
G. Casertano
Presentazione
Da alcuni anni, Petite Plaisance si è impegnata in riedizioni di testi – spesso arricchite da introduzioni, con notevole cura dei dettagli: mai mere riproduzioni fotostatiche – di grandi antichisti (Rodolfo Mondolfo, Marino Gentile, Diego Lanza, Mario Vegetti, Giovanni Casertano, Livio Rossetti, solo per citare alcuni nomi). Inoltre, ha raccolto in volume articoli di importanti studiosi, presenti in riviste o testi collettanei assai difficilmente reperibili. Questi articoli, presentando una prospettiva di insieme, risultano ancor più apprezzabili, se riuniti, nella loro significatività complessiva. Per questo motivo si è deciso di realizzare, di Enrico Berti, Incontri con la filosofia contemporanea; di Mario Vegetti Scritti sulla medicina ippocratica, Scritti sulla medicina galenica e Scritti con la mano sinistra; di Maurizio Migliori La bellezza della complessità, e di Diego Lanza Nous e thanatos. Scritti su Anassagora e sulla filosofia antica, di imminente pubblicazione.
Per quanto concerne Giovanni Casertano, già nel 2019 avevamo pubblicato Venticinque studi sui preplatonici. Abbiamo ritenuto però, per il grande valore dell’opera di questo studioso in merito anche all’interpretazione di Platone, che i suoi testi su questo argomento, che coprono un arco di anni assai ampio, dovessero essi pure essere raggruppati in un unico volume. Ciò, infatti, non solo, come detto, ne agevola la fruizione, ma contribuisce in certo modo, in una ideale libreria dei grandi interpreti del pensiero antico, a tenere l’opera di questi grandi studiosi più vicina. Questa si presenta, almeno per me – ma credo di non essere l’unico a pensarla così: chi ama i classici ama anche gli interpreti che meglio se ne sono occupati, nonché i libri che ne raccolgono le riflessioni –, come una cosa bella, il che mi fa particolarmente piacere, in quanto sono, o sono stato (alcuni, purtroppo, sono mancati), amico di molti di loro.
I testi qui esposti sono numerosi, sicché una sintesi dei medesimi, nel breve spazio di questa presentazione, non è sicuramente possibile. Una rapida scorsa dell’indice mostra del resto che essi si occupano di pressoché tutti i campi dell’opera platonica, prendendo in considerazione vari dialoghi, con la consueta attenzione al testo che ha sempre caratterizzato il nostro studioso. Pur nella grande cura, anche filologica, che emerge dagli studi di Casertano, il presente volume risulta facilmente leggibile anche dal lettore non specialista, perché lo stile dell’amico Gianni è sempre chiaro ed essenziale. I riferimenti alla letteratura secondaria, nelle note, certo non mancano, ma essi risultano realmente – come accade quasi sempre nella “vecchia scuola” degli antichisti – come un contorno volto a far assaporare meglio la portata principale, non come l’unico piatto, come invece talvolta accade in alcune pubblicazioni recenti. Ciò deriva da un approccio filosofico concreto che cerca di far risaltare, pur senza tacerne le problematicità, le singole argomentazioni di Platone, nella convinzione che il filosofo ateniese abbia ancora molto da dire anche al nostro tempo.
Il volume che qui si pubblica risulta già molto corposo, e lo studioso che lo ha composto, per la sua notorietà, non abbisogna di ulteriori presentazioni. Lascio pertanto il lettore godersi tutto ciò che l’amico Gianni, in questi anni, ha preparato, non prima di essere io, ancora una volta, a ringraziarlo, sia per il fatto di avere accettato l’invito di Petite, e sia, soprattutto, per come ha fatto fruttare a beneficio di tutti, nelle opere, la sua vita di studioso.
Luca Grecchi
Indice
Presentazione
Premessa
L’amicizia, qualcosa che non si può spiegare
La struttura del dialogo (o di quando la filosofia si fa teatro)
Mηχανὴ πειθοῦς: metodo e verità nel Gorgia
Il (in) nome di Eros. Una lettura del discorso di Diotima
In cerca dell’anima nel Simposio platonico
La difficile analogia tra poesia e amore
La linea e la caverna: tra analogia, immagine,
conoscenza e prassi
L’idea, il letto e la virtù
Caratteristiche e funzioni del logos.
Sulla forma e la struttura del Teeteto
Teeteto 201d8: perché «un sogno in cambio di un sogno»?
Ogni uno di fronte a gioventù e vecchiaia
Il falso: un’esistenza che non esiste tra cose esistenti
Il Politico di Platone: o della distinzione, in politica,
tra sembrare ed essere, tra costituzione vera e sue imitazioni
Vero e corretto nel Politico
Il piacere falso nel Filebo
Scrivere e dipingere nell’anima. Sullo statuto di λόγος nel Filebo
La ricostruzione dei ricordi. Funzionalità e verità
del discorso che interpreta la realtà: Plat. Tim. 19c6-29d2
Causa (e concausa) in Platone
Le parti, le forme ed i nomi del tempo nel Timeo platonico
L’istante: un tempo fuori del tempo, secondo Platone
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
La “crescita verde” è contro la natura, un saggio di Hélène Tordjman
di Jean-Marie Harribey
Riprendiamo e traduciamo dai siti di Alternatives économiques e Alencontre un’interessantissima recensione critica di J-M. Harribey ad un’opera di H. Tordjman contro la mercificazione della natura, da poco uscita in Francia. (Avremo modo di tornare a ragionare sulle intuizioni e le contraddizioni di autori quali Illich o Ellul, ai quali Tordjman si ispira.)
La nostra collega e amica Hélène Tordjman ha appena pubblicato La croissance verde contre la nature. Critique de l’écologie marchand (Crescita verde contro la natura. Critica dell’ecologia di mercato), La Découverte, 2021. Questo libro sarà un punto di riferimento perché raccoglie una documentazione molto aggiornata sulla concettualizzazione e lo smantellamento della natura da parte di un capitalismo sull’orlo dell’asfissia planetaria, per la natura ma anche per l’uomo. Ora che la crisi ecologica è chiara, che non si discute più del riscaldamento globale e che aumentano gli allarmi sulla perdita di biodiversità, si potrebbe pensare che sia stato detto tutto. Forse, ma riunire in un volume una sintesi così dettagliata, precisa e piena di riferimenti sia sui molteplici attacchi alla natura sia sulle false soluzioni che vengono presentate, è un grande successo.
Una critica della mercificazione della natura
La questione generale di fondo che il libro mette in luce è che intraprendere la strada di una risposta di mercato alla crisi ecologica non può avere altro effetto che approfondirla. Il libro è strutturato in sei capitoli, più una densa conclusione che è, di fatto, un settimo capitolo. Su questo tornerò.
Fin dal primo capitolo, l’autrice mette alla prova il progetto di realizzare nanotecnologie, biotecnologie, scienze dell’informazione e della conoscenza (in sigla, NBIC) delle “tecnologie capaci di aumentare le prestazioni umane” (p. 21).
In altre parole, c’è un progetto transumanista, un’utopia nel senso cattivo del termine. Perché “sviluppare tali strumenti di trasformazione presuppone di coinvolgere nello stesso processo la materia, gli esseri viventi, il processo della conoscenza, gli ecosistemi, la biosfera e le galassie” (p. 27). Ma, “poiché, per definizione, è quasi impossibile prevedere le traiettorie dei sistemi complessi, l’ambizione di strumentalizzare attraverso la scienza e la tecnica i processi biologici, le dinamiche climatiche e geologiche o le istituzioni sociali con l’intenzione di controllare i risultati aggregati, dovrebbe apparire vana” (pag. 28). Purtroppo, negli Stati Uniti come in Europa, o al Forum di Davos, tutte le migliori menti fanno a gara con la loro immaginazione per “liberare il valore economico della natura” in nome di “tutto questo è bio, perché bio significa vivente” (p. 47). Se “una tale frenesia scientista e prometeica” viene considerata come “la soluzione al degrado dello stato ecologico del pianeta” (p. 49), è perché si ragiona “come se potessimo separare gli effetti positivi da quelli negativi, tenendo fermi i primi e regolando i secondi separatamente. Tuttavia, come dimostrò Jacques Ellul già nel 1954, una delle caratteristiche della tecnologia moderna è la sua ‘inaffidabilità’: essa dà vita ad un sistema, ad un tutto, e i suoi effetti non dipendono dall’uso che se ne fa, sono intrinseci in esso” (p. 49-50).
Con l’esempio degli agrocombustibili, il secondo capitolo illustra l’impasse tecnica svelata in precedenza. “Vediamo all’opera l’autoaccrescimento e l’autonomia della tecnica che producono dinamiche egocentriche o autoreferenziali, rispondendo solo alle domande che la tecnica stessa si pone” (p. 55). Ne consegue che “la crescita verde… non rompe con l’estrattivismo e l’ideologia industriale” (p. 55). E, dai biocarburanti di prima generazione fino a quelli “avanzati”, non è cambiato davvero nulla. Né lo è “la combinazione di bioenergia, di cui gli agrocombustibili fanno parte, con la cattura e lo stoccaggio del carbonio” (p. 93). Ritroviamo questo problema con l’agricoltura industriale perché “si tratti di mangiare o di guidare, bisogna scegliere” (p. 70).
Riferendosi a Marx e a Polanyi, Hélène Tordjman mostra nel terzo capitolo del suo libro che la fabbricazione di semi “aumentati” produce “nuove enclosures” capaci di espropriare i contadini di ogni potere e conoscenza. La privazione degli alimenti vegetali e l’istituzione di diritti sulle sementi “aumentate” consentono di standardizzare tecnicamente i semi: è in atto la brevettabilità degli organismi viventi. “Un gene che viene semplicemente scoperto non è brevettabile, ma se è isolato e modificato dall’ingegno tecnico e scientifico dell’Homo industrialis, lo diventa” (pp. 113-114). “Prima che la genetica diventasse dominante, la descrizione delle varietà protette era fatta a livello fenotipico, quello delle loro caratteristiche fisiche. Sempre più spesso si fanno descrizioni a livello genotipico: ciò che conta è l’informazione genetica che codifica le sue caratteristiche fisiche. Questo cambio di prospettiva genera una forma di smaterializzazione delle varietà vegetali, che vengono percepite come informazioni e non più come piante. È quindi più facile reificarle e la loro industrializzazione sembra meno problematica” (pag. 149).
Nel quarto e quinto capitolo del suo libro, Hélène Tordjman critica la trasformazione della natura in “capitale naturale” – “l’ultima tappa di un processo di reificazione della natura iniziato all’inizio dei tempi moderni” (p. 160) – e la sua riduzione a una serie di “servizi ecosistemici”. Richiama l’idea sottesa all’economia ambientale neoclassica secondo la quale basta fissare i prezzi per scongiurare gli effetti esterni negativi, perché “secondo tale visione andrebbe protetto solo ciò che ha un valore monetario; per converso, sarebbe possibile distruggere ciò che non ce l’ha, dal momento che non costa nulla: si tratta del calcolo utilitaristico nella sua versione strettamente economica. In altre parole, fino ad allora avremmo distrutto la natura perché non ci rendevamo conto del suo valore” (pagg. 157-158). Una tale impalcatura concettuale richiede, per diventare operativa, una “proliferazione” di istituzioni capaci di instaurare una “governance internazionale” imponendo una “soft law” proveniente da attori “non eletti” (p. 176-177) come TEEB (The Economics of Ecosystems and Biodiversity), paladino dei “valori economici della biodiversità” (p. 182).
Nell’era del capitalismo finanziarizzato si sta creando “una nuova classe di merci fittizie” composta da “sequenze genetiche, varietà vegetali e razze animali, processi naturali, raccolte di campioni biologici, banche dati di informazioni digitali sequenziali, servizi resi dagli ecosistemi” (pag. 190). Quando si riesce a “dividere la biosfera in entità discrete”, allora si può procedere alla “definizione”, quindi alla “valutazione monetaria” e alla “valorizzazione” (p. 191) della natura e dei suoi servizi. L’autrice ricorda l’avvio di questi processi avvenuto con la celebre ricerca di Robert Costanza nel 1997, che assegnava un valore a tutti i servizi ecosistemici del mondo, nonostante gli innumerevoli problemi metodologici di misurazione.
Nel sesto capitolo Hélène Tordjman si chiede se possiamo “fidarci della finanza” (p. 245). La sua risposta è, ovviamente, negativa. E spiega nel dettaglio i meccanismi sempre più sofisticati messi a punto dai finanzieri, verosimilmente, secondo questi ultimi, per indirizzare gli investimenti verso attività “verdi” (p. 249). La loro immaginazione è straripante: indici di borsa sostenibili, obbligazioni verdi, obbligazioni catastrofe (o cat bond, perfino pandemic bonds, obbligazioni pandemiche), prodotti derivati garantiti dalla natura, cartolarizzazione, benchmark per stabilire standard ed etichette di valutazione, ecc. L’autrice fornisce numerosi esempi di grandi aziende che anticipano il verificarsi di rischi sociali o ambientali, non per limitare questi rischi, ma per trarne vantaggio sul piano finanziario: “I rischi sociali e ambientali sono rischi solo nella misura in cui hanno un impatto sulla reputazione delle aziende e possono ridurre il loro valore per gli azionisti” (p. 277). Il problema della finanza è che “questi diversi strumenti non eliminano i rischi, li trasferiscono semplicemente da una classe di agenti a un’altra; ci deve sempre essere qualcuno alla fine della catena che se ne fa carico” (p. 282).
Per concludere il suo libro, Hélène Tordjman traccia una densa conclusione, che può essere considerata – come dicevo sopra – alla stregua di un settimo ed ultimo capitolo. Sceglie, infatti, di presentare un percorso che possa servire come esempio da sviluppare contro il business della mercificazione della natura. Si tratta della trasformazione del modello di produzione agricola dominante in direzione di un’agrobiologia. Riferendosi ai concetti sviluppati sia da Oliver de Schutter, già relatore sul diritto all’alimentazione per le Nazioni Unite, sia da agronomi come Marc Dufumier, scrive che “la conoscenza delle relazioni funzionali che consentono a un agrosistema di riprodursi senza il contributo della sintesi chimica sta facendo ogni giorno dei passi in avanti, e questa conoscenza può essere utilizzata dagli agricoltori, in particolare attraverso programmi di ricerca partecipata” (p. 302). La messa in pratica dell’agrobiologia include diversificazione e rotazione delle colture, agroforestazione, agricoltura e allevamento integrati, gestione e conservazione del suolo e dell’acqua, controllo biologico e meccanico contro parassiti e malattie e sementi contadine (p. 305). Economicamente, questo comporta una sostituzione del lavoro contadino con la meccanizzazione spinta all’estremo. Hélène Tordjaman non ha problemi a dimostrare che l’autorizzazione concessa all’industria della barbabietola di derogare al divieto dei neonicotinoidi in nome dell’occupazione, “è destinata a sostenere un sistema che mira a distruggere posti di lavoro” (p. 326). Siamo agli antipodi di un’evoluzione verso pratiche di autogestione, che l’autrice si augura e descrive sempre così: “non ha molto senso distinguere tra effetti ambientali ed effetti sociali dell’agricoltura produttivista. Essi fanno parte di un unico processo di trasformazione” (p. 61). Questo argomento, su cui tornerò, è molto marxista.
Un libro che invita alla riflessione e alla discussione
Il valore di un libro si misura anche sulla discussione che permette di aprire. Ecco alcune delle domande che mi vengono in mente leggendo quest’opera, che, ribadisco, è affascinante.
Hélène Tordjman riprende il punto di vista di vecchi autori che sono stati tra i pionieri del pensiero ecologico, in particolare Ivan Illich e Jacques Ellul. Ad essi fa spesso riferimento per criticare il carattere tecnicista della civiltà industriale, attraverso il concetto illichiano di controproduttività o quello elluiano di autonomia della tecnica. Tuttavia, è ben consapevole che la concezione molto deterministica della tecnica di Ellul è stata e continua ad essere messa in discussione. Il paradosso di questo autore non è da poco, poiché egli intende aggiornare il pensiero di Marx, arrivando tuttavia a una visione ancora più deterministica di quella da tempo diffusa nel marxismo tradizionale a proposito dello sviluppo delle forze produttive da cui tutto doveva scaturire, incluse le trasformazioni sovrastrutturali. Un punto di vista che impoveriva certamente il pensiero di Marx stesso. Questa vecchia questione potrebbe essere collegata alla problematica sviluppata in questo libro.
Tanto più che Hélène Tordjman approfondisce la questione sul piano epistemologico scrivendo: “Marcel Mauss, Joseph Schumpeter, Karl Polanyi o Louis Dumont avevano già ai loro tempi insistito sull’intreccio di istituzioni, rappresentazioni collettive e ideologie, in tutte le società, siano esse tradizionali o moderne. Per dirla in altro modo, la classica opposizione nelle scienze sociali tra materialismo e idealismo non ha più senso di esistere: strutture economiche, istituzioni e ideologie sono in interazione permanente, o, meglio, sono le diverse sfaccettature di uno stesso processo” (pag. 159). Perché da questa lista di autori viene espunto proprio Marx, il teorico della dialettica? E che dire delle lotte di classe in questo “processo”? E come giustificare la presunta scomparsa dell’opposizione filosofica tra materialismo e idealismo, che è uno degli capisaldi dell’idealismo?
Segue una seconda questione. La denuncia della mercificazione della natura mette in discussione l’ordine mercantile o l’ordine capitalista? Sappiamo, da Marx, che i due ordini non sono identici. Nella storia il primo precede il secondo, e quest’ultimo è contraddistinto dall’instaurazione di rapporti sociali basati sul salario di una forza lavoro proletaria che possiede solo la sua forza lavoro.1 Ciò potrebbe contraddire quanto scritto da Hélène Tordjman: “Nel modo di produzione capitalistico, i detentori di capitale vogliono accrescere il loro valore, vale a dire cercare di aumentare il loro valore, attraverso lo scambio commerciale” (p. 12, corsivo mio). Lo scambio commerciale di cosa? Nel capitalismo, si tratta dello scambio commerciale della forza lavoro e non solo dello scambio delle merci.
In quale ordine concettuale si colloca la critica di Hélène Tordjman? Il primo termine è la mercificazione, presente nel sottotitolo e che spesso ricorre nella sua opera. Ma lei prende atto anche del fatto che “Questo modello procede dalla stessa visione e dalle stesse strutture socio-economiche avviate alla fine del XVIII secolo, quelle di un capitalismo industriale dominato da una frenetica ricerca di risorse e di profitto, in cui il progresso tecnico è un mezzo utile a questo fine. Questo modo di produzione ci ha portato dove siamo ora” (p. 98). Ciò significa che la responsabilità degli “economisti” è ben al di qua di quella che andrebbe criticata: “L’idea [dei mercati del carbonio nel protocollo di Kyoto] nasce da una visione del mondo degli economisti, che vedono il mercato come uno strumento neutrale capace di servire scopi molto diversi, inclusa la lotta contro l’inquinamento e il riscaldamento globale” (p. 224). A me sembra, però, che bisogna identificare la visione “economicista” del mondo (p. 239) come propria della classe capitalista, al di là della giustificazione pseudoscientifica data dagli economisti neoclassici che dominano la disciplina. Apprezziamo invece l’autrice quando afferma: “La finanza verde è in linea con il fenomeno analizzato in questo libro: utilizza le forze del capitalismo per una ‘crescita verde e inclusiva’, cioè per ‘riparare’ i danni prodotti dallo stesso capitalismo” (p. 290).
Ma veniamo a una terza domanda. Se è vero, come sostiene l’autrice, che la finanziarizzazione della natura, attraverso la cosiddetta “finanza verde”, fa parte della finanziarizzazione generale dell’economia mondiale da quasi mezzo secolo, da dove arriva quest’ultima? In questo libro, nonostante l’esplorazione metodica degli elementi che rendono la natura una merce, nulla si dice sulla crisi del sistema produttivo capitalistico, del cui sistema si vedono oggi le due flagranti contraddizioni: dal punto di vista sociale, il calo della crescita della produttività del lavoro che pure sta all’origine del valore del capitale; dal punto di vista ecologico, la crescente difficoltà di restituire alla natura il maltolto.2 Una crisi di sistema che produce una redditività del capitale ritenuta insufficiente e la cui finanziarizzazione è solo un palliativo ingannevole ed effimero. Un’illusione se si tratta di “riparare i danni prodotti dal capitalismo”, cosa su cui concordo pienamente con l’autrice. Tuttavia, il fatto che non vengano presi in considerazione i legami tra gli aspetti socio-economici e gli aspetti ecologici della crisi che sono legati dal fine ultimo dell’accumulazione infinita del capitale, è un tema caro all’autrice che in precedenza aveva scritto in un articolo: “Ciò che colpisce dell’analisi che generalmente viene fatta della crisi del capitalismo contemporaneo è che tratta separatamente le questioni economiche e le questioni ecologiche”.3
Un problema centrale: il “valore della natura”
Mettere in discussione la logica profonda del capitalismo ci permette di esaminare un problema centrale nel libro di Hélène Tordjman: quello del “valore della natura”. Certo, ammetto in anticipo che ciò che sto per dire può a sua volta essere criticato. Ma credo che Hélène Tordjman non si occupi propriamente della teorizzazione di tale valore della natura nella letteratura sul tema dell’economia ambientale neoclassica, più comunemente nota come Ecological Economics, di cui ritroviamo le ambiguità, per non dire gli spropositi, negli scritti e nelle posizioni dell’ecologia politica. Condivido con Hélène Tordjman le critiche mosse all’internalizzazione degli effetti esterni dello sfruttamento della natura, ai metodi di valutazione contingente o delle disponibilità marginali a pagare, ai valori monetari di detti servizi ecosistemici, di compensazione, una critica già vecchia (come quella relativa alla tassa immaginata da Arthur Pigou4 nel 1920, o quella di David Pearce5 sugli effetti perversi della compensazione monetaria del danno ecologico) – e tuttavia per me è tempo perso, una ricerca inutile interrogarsi sul “vero valore” della natura, il “vero valore dell’impollinazione” (p. 213), il “vero valore di una barriera corallina” (p. 219), il “vero valore di una foresta tropicale” (p. 224). “Se è impossibile concepire che un sistema di prezzi possa riflettere i valori relativi di un servizio in relazione a un altro” (p. 241), a che serve il concetto di “vero valore della natura”? Credo sia un modo per accreditare l’idea che ci sarebbe un valore economico intrinseco della natura, che potrebbe aggiungersi ad altri elementi (e non mancano, se ci basiamo sull’ultimo rapporto Unesco sul “valore dell’acqua”).6 Questa idea è alla base della riduzione della natura a “capitale naturale”, molto ben analizzata, questa, da Hélène Tordjman. Ma se la logica del modo di produzione capitalistico è coinvolta nella distruzione della natura, allora dobbiamo collegare la critica di questa distruzione alla logica della produzione di valore per la incessante accumulazione di capitale. E penso che, per uscire dall’imbroglio teorico neoclassico a cui soccombono purtroppo troppi ecologisti e troppi economisti ecologicamente sensibili,7 dobbiamo raccogliere l’essenza della critica di Marx all’economia politica, la sola che permette di distinguere ricchezza e valore, utilizzare valore e valore di mercato, e, infine, considerare i diversi registri come incommensurabili a fortiori,8 quando alcuni si riferiscono all’etica o alla filosofia, altri all’economia.
La maggior parte dei rapporti internazionali e dei centri di ricerca sull’economia ambientale sono appesantiti da questa ricerca del “valore intrinseco” della natura. John Dewey aveva sviscerato questo concetto in un diverso contesto, ma la sua riflessione potrebbe applicarsi qui:
“C’è un’ambiguità nell’uso degli aggettivi ‘inerente’, ‘intrinseco’ e ‘immediato’, che alimenta una conclusione errata. […] L’errore consiste nel pensare che ciò che si qualifica così è al di fuori di ogni relazione e può essere, quindi, ritenuto assoluto. […] L’idea che possa essere definito inerente solamente ciò che è privo di ogni relazione con tutto il resto non solo è assurda, ma è contraddetta dalla stessa teoria che lega il valore degli oggetti presi come fini al desiderio e all’interesse. Questa teoria infatti concepisce espressamente il valore dell’oggetto-fine come relazionale, per cui, se ciò che è inerente è ciò che è non relazionale, se seguiamo questo ragionamento, non esiste in realtà nessun valore intrinseco. […] A rigor di logica, l’espressione ‘valore intrinseco’ porta con sé una contraddizione in termini”. 9
In una prospettiva socio-ecologica, il rifiuto della nozione di valore economico intrinseco significa, da un lato, che non si può aggregare ciò che appartiene all’economia e ciò che appartiene alla filosofia, e, dall’altro, che il valore è una relazione sociale. Ciò vale sia per i beni di mercato che per i beni considerati beni comuni. Di conseguenza, il lavoro di André Orléan può essere utilizzato da Hélène Tordjman come riferimento per la rendicontazione delle valutazioni autoreferenziali nei mercati finanziari. E poiché la finanziarizzazione finisce in una catastrofe, comprendiamo che questa è riprodotta dalla “trasposizione diretta della teoria finanziaria standard a questi nuovi oggetti definiti dalla scienza” (p. 220), come quelli della natura. Ma la tesi keynesiana della valutazione autoreferenziale nel mondo della finanza non aiuta molto a comprendere la questione ecologica associata alla questione sociale.10 Inoltre, il lavoro degli economisti istituzionalisti e dei post-keynesiani è ancora relativamente poco sviluppato sulla tematica della sostenibilità sociale ed ecologica.11
Inoltre, mi sembra necessario distinguere meglio i tre livelli che sono la monetizzazione, la mercificazione e la finanziarizzazione della natura. Ad esempio, se la collettività, agendo in qualità di ente governativo, decide di far pagare l’erogazione e la sanificazione dell’acqua, ne fissa un prezzo, monetario per definizione, al livello che ritiene necessario per coprire tale costo, e lascia questo servizio ad una società privata, l’acqua non viene semplicemente monetizzata, viene mercificata con tutto ciò che include l’esigenza di redditività per gli azionisti. Se l’acqua diventa un supporto per dei titoli finanziari, stiamo entrando nella terza fase, quella della finanziarizzazione, giustamente criticata da Hélène Tordjman. Ma questo è a un livello radicalmente diverso dalla monetizzazione resa essenziale dalla copertura dei costi di produzione. Le condizioni del prezzo che dipendono, ad esempio, dalle condizioni sociali dell’uso dell’acqua possono essere soggette a deliberazione politica.
Per concludere, esaminiamo un ultimo tema sul quale Hélène Tordjman insiste più volte, quello della sostituzione del lavoro al capitale, che dovrebbe essere intrapresa per uscire dall’ingranaggio tecnicista e per, lo ripete più volte, ridurre le disuguaglianze (p. 63, 317, 334). “Solo l’attuazione di processi produttivi ad alta intensità di lavoro e bassa intensità di capitale può consentire di risolvere fondamentalmente, strutturalmente, il problema delle disuguaglianze sociali” (p. 334). È davvero convincente questa tesi? Primo, un secolo o due secoli fa, quando i processi produttivi erano ad intensità molto minore di capitale tecnico di quanto non lo siano oggi, le disuguaglianze sociali erano forse minori? In secondo luogo, mentre comprendiamo che la riduzione della produttività del lavoro individuale resa possibile dal miglioramento delle tecniche può essere parte di una prospettiva di condivisione del lavoro e alleviare la pressione sulle risorse, sorgono molti dubbi se si tratta anche di ridurre la produttività dell’ora di lavoro. Ciò richiederebbe una discussione sulla rilevanza della perdita di efficienza dei processi produttivi. Non dimentichiamoci di tenere sempre presenti le quattro variabili che sono: l’evoluzione della produzione, quella della produttività oraria del lavoro, quella del numero di posti di lavoro e quella dell’orario di lavoro medio individuale.12
La conclusione di Hélène Tordjman sotto forma di capitolo finale dedicato all’agricoltura, è illuminante al riguardo. Certo, il passaggio dall’agricoltura industriale, inquinante e devastante per suoli, acque, paesaggi e esseri umani, all’agrobiologia è un perfetto esempio di una strategia da costruire. Ma questo è senza dubbio l’esempio più semplice da capire e da attuare tecnicamente (gli ostacoli sociali dovuti in particolare alle lobby non sono certo esigui). È così semplice per la trasformazione del settore? Se vado in bicicletta, posso manutenerla e ripararla, ma non sono in grado di costruirla; è vero che si può immaginare che questa produzione possa essere organizzata in laboratori di dimensione artigianale piuttosto che da grandi e lontane industrie. Ma se prendo anche il treno, la produzione di locomotive e vagoni pone la domanda di quale tipo di industria avremo bisogno nella società post-capitalista e post-produttivistica, il che non è semplice come sopprimere i pesticidi in agricoltura. Questo è il motivo per cui per “resistere al rullo compressore della modernità agricola e [agire] per attuare pratiche alternative” (p. 339), la società deve allo stesso tempo pensare alla trasformazione sociale ed ecologica dell’intero apparato produttivo, in cui l’industria dovrà trovare posto. Se ci si pone in una prospettiva di vera transizione, la critica all’ideologia tecnicista non esaurisce l’analisi dell’industria.
Quando chiudi il libro di Hélène Tordjman, sei consapevole di avere fra le mani un grande lavoro, sia in termini di informazioni raccolte che di discussioni che ne seguono. Il lettore deve credermi, è un libro denso ma scritto perfettamente, e questo aumenta il piacere della lettura con note di umorismo qua e là, che rendono credibile “l’ottimismo della volontà”. Hélène Tordjman conclude il suo libro con questa celebre espressione.
Articolo pubblicato sul blog di Jean-Marie Harribey in Alternatives économique e su «Sinistrainrete» il 10-11-2021.
1K. Marx, Le Capital, Livre I, 1867, par exemple, dans Œuvres, tome I, Paris, Gallimard, La Pléiade, 1965.
2C’est ce que j’ai essayé de montrer dans J.-M. Harribey, Le trou noir du capitalisme, Pour ne pas y être aspiré, réhabiliter le travail, instituer les communs et socialiser la monnaie, Lormont, Le Bord de l’eau, 2020 ; et En finir avec le capitalovirus, L’alternative est possible, Paris, Dunod, 2021.
3Hélène Tordjman, « La crise contemporaine, une crise de la modernité technique », Revue de la Régulation, n° 10, 2e semestre, automne 2011. Bien sûr, le débat n’est pas clos pour savoir s’il s’agit seulement d’une crise due à la technique.
4A.C. Pigou, L’économie de bien-être, 1920, Paris, Dalloz, 1958.
7À preuve l’utilisation fréquente par les économistes écologistes de fonctions de production de type Cobb-Douglas pour tenter désespérément de mesurer l’apport productif de l’environnement à la production de valeur économique. Pour une critique, voir J.-M. Harribey, La richesse, la valeur et l’inestimable, Fondements d’une critique socio-écologique de l’économie capitaliste, Paris, Les Liens qui libèrent, 2013.
8C’est le thème de mon livre La richesse, la valeur et l’inestimable, op. cit. Voir aussi A. Douai et G. Plumecocq, L’économie écologique, Paris, La Découverte, Repères, 2017. Recension dans J.-M. Harribey, « L’économie écologique tiraillée de tous côtés », Contretemps, 8 septembre 2017.
9John Dewey [2011 (1981)], La formation des valeurs (Théorie de la valuation), Paris, Les Empêcheurs de penser en rond, La Découverte, p. 108 à 110.
11É. Berr, V. Monvoisin, J.-F. Ponsot (dir.), L’économie post-keynésienne, Histoire, théories et politiques, Paris, Seuil, 2018. Recension dans J.-M. Harribey, « L’économie post-keynésienne en bonne voie », Contretemps, 21 février 2018.
12] Pour une discussion sur ce problème, voir dans le livre collectif de F. Jany-Catrice et D. Méda (dir.), L’économie au service de la société, Autour de Jean Gadrey, J.-M. Harribey, « De la productivité à la valeur : un problème de mesure ou de paradigme ? », Paris, Institut Veblen, Les Petits matins, 2019, p. 129-138.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
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Gli uomini sono muti e sentono una condanna fatale e vanno in giro come se non ci fosse nulla da fare […] i giovani sono furiosi perché non hanno denaro da spendere, tutta la loro vita si basa sul denaro che spendono […] e le donne sono più furiose di tutte, ma sono anche le più pazze nello spendere,ªùèai nostri giorni.
Se si potesse soltanto dir loro che vivere e spendere non sono la stessa cosa! […]
Solo che fossero educati a vivere invece che a guadagnare e spendere […].
Se gli uomini indossassero calzoni scarlatti, come dissi una volta, non penserebbero tanto al denaro; se potessero saltare e ballare e cantare e far mostra di sé ed esser belli, si accontenterebbero di ben poco denaro. E potrebbero far divertire le donne e divertirsi con loro. Dovrebbero imparare ad essere nudi e belli, a cantare in massa, a ballare le antiche danze in gruppo, a intagliare gli sgabelli su cui seggono e a ricamare i propri simboli. Allora non avrebbero più bisogno di denaro.
Il solo mezzo per risolvere il problema è insegnare al popolo a vivere e vivere in bellezza, senza bisogno di spendere.
[…] I giovani vanno in giro con le ragazze in motocicletta e ballano quando ne hanno l’occasione. Ma sono proprio morti. E hanno bisogno di denaro.
Il denaro avvelena quelli che ne hanno e affama quelli che ne sono privi.
[…] Sento il diavolo nell’aria, e cercherà di afferrarci. O, forse, non il diavolo ma Mammona, il quale non è altra cosa, credo, se non la volontà collettiva degli uomini che vogliono il denaro e odiano la vita. Comunque sento nell’aria grandi mani bianche avide che tentano di prendere per la gola e di far schizzar fuori la vita a chiunque cerca di vivere, di vivere al di là del denaro.
D. H. Lawrence, L’amante di Lady Chatterley, trad. di G. Monteleone, Mondadori, Milano 1947, pp. 369 ss. (pagine finali del libro).
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Alessandra, hai intitolato la tua Tesi di Dottorato “Ricucirsi con Dioniso. La lectio tragica come esperienza genealogica di cura e di umanità”. Perché occuparsi oggi del dionisiaco nella nostra società?
Grazie Diego. La risposta per me è molto semplice: per nutrire la nostra tensione alla felicità. Vedi, siamo abituati a vedere Dioniso come il dio degli eccessi, della promiscuità sessuale, della trasgressione e dell’ebbrezza, ma questa è una visione molto riduttiva, dettata da una lettura parziale o superficiale delle fonti. Nella mia Tesi di Dottorato mi avvicinavo già a questo tema: cosa succederebbe, nelle accademie, se tornassimo a leggere i testi come se la lettura fosse davvero una pratica filosofica, disciplinata e trasformativa, in poche parole, un esercizio spirituale? E, nota importante, spirituale non significa religioso. Ogni umano, che lo voglia o meno, è un ricercatore, cioè va in cerca di se stesso. Nel suo ri-cercare sta già nutrendo, formando e inseguendo – a volte senza saperlo davvero – la propria intima possibilità di realizzazione personale, il proprio sentiero individuativo. Noi viviamo in un mondo scisso, diviso, frammentato politicamente e psichicamente. Individuarsi significa non-dividersi, essere integrati, tenere insieme i pezzi, in quel costante lavoro da funamboli, da palombari, da sarti che è il ricercare la propria umanità. Hadot afferma che il grande Goethe, in tarda età, si chiedesse: sono capace di leggere, di leggere per davvero? Non è, in fondo, la vita stessa una grande opera di lettura, ri-lettura, scrittura e ri-scrittura di narrazioni originarie, ramificate, genealogiche – mie, tue, dei nostri cari, del pezzo di mondo che abbiamo vissuto? Diego, iniziamo da un testo o da un autore. Quale sceglieresti? Il mio testo sacro sono state le Baccanti di Euripide. Un testo che ho interrogato e da cui mi sono lasciata interrogare per molto tempo, legittimandomi le metamorfosi a cui mi sentivo chiamata. Non è stato facile, sai? Ci è voluto coraggio. Da qui credo che sia abbastanza intuitivo e immediato il collegamento con il contemporaneo. Comprendere questi simboli, oggi, per la loro incredibile attualità, senza appiattirli od oggettificarli è fondamentale. Stiamo vivendo una delle più grandi crisi spirituali mai viste, l’etica non è purtroppo un modo di vivere che alimenta il nostro psichismo individuale e collettivo. Eudaimonia, felicità in greco, è proprio questo, l’etica in atto: sentire il daimon orientato e armoniosamente accordato al bene. Una tensione costante, che segue un sentiero ben preciso però, e questo sentiero è filosofico. E questo sentiero è dionisiaco, perché ci insegna a lasciar andare e a essere chi si è davvero.
Cosa si intende per filosofia del tragico e quale importanza ha la figura di Dioniso (lo straniero, l’androgino, l’irrazionale, l’addolorato)?
Dioniso è una divinità antichissima, addirittura cretese. In quanto archetipo di zoe, la vita indistruttibile non riducibile al bios (il segmento vita-morte), Dioniso è e deve essere travolgente e inarrestabile, infatti indica sempre una rinascita come simbolo della vibrante circolarità vita-morte-nuova vita. Dioniso è, più di tutti, un daimon, un essere intermedio tra il dio e l’umano. Il suo compito è quello di orientare, offrire una mappa del senso, una direzione nella vita. Ma bisogna imparare ad ascoltare e per ascoltare bisogna saper stare nel silenzio – cosa che oggi pare impossibile non solo perché del silenzio abbiamo paura, ma anche perché siamo costantemente calati nell’attività produttiva e performativa. Al contrario Dioniso ci chiama all’ascolto di noi stessi: chi siamo? Cosa desideriamo? Come ci portiamo nel mondo, ovvero come ci com-portiamo? Dioniso ci chiede di rinunciare agli ingombri dell’io, alle derive individualistiche, alle prospettive antropocentriche, alle logiche del potere e del guadagno o dell’accumulo fine a se stesso, al fine di celebrare la vita nella sua forza inarrestabile. Ci chiede, pertanto, di risvegliarci alla vita, di vivere e non meramente sopravvivere. Ancora, Dioniso ci chiede di allenare i sensi, la corporeità, di andare oltre noi stessi ma proprio a partire dal nostro sentire. La trascendenza si compie nell’immanenza. In questo senso la trance estatica si compie qui e ora e coinvolge necessariamente corpi e anime in un comune senso di appartenenza. Dioniso è, infatti, maestro delle cose umili e semplici, insegna a godere dell’istante ma non costringe nessuno a seguire i suoi culti. In quanto dio meticcio, dio del tutto e del suo contrario, dio del paradosso, Dioniso insegna il superamento del pensiero dualistico, frammentato, dicotomico. Insegna a seguire, ad affidarsi ad altri registri del sapere non meno degni di quello razionale, quale la sapienza artigiana del corpo, l’intuito, il presentimento. La filosofia del tragico è, di conseguenza, una filosofia che si inscrive nel culto di questa complessità ecologica, simbolica e non-dualistica. Intendo qui la filosofia, richiamandomi a Luce Irigaray, come quel portare alla luce “la saggezza nelle cose dell’amore” oltre che come “l’amore per la saggezza”. Inoltre l’accezione che do al termine tragico è etimologica: in greco, infatti, il termine tragedia rimanda a un rituale sacro, fatto di canti e balli sfrenati che accompagnano il pianto di un capro sacrificale. Il tragico, dunque, è prima di tutto un’opera di contemplazione e di partecipazione al dolore – il dolore di un altro essere che riflette, ricorda, evoca e rappresenta sempre anche il mio. Ecco il teatro tragico. La filosofia del tragico è quella filosofia che celebra la vita senza negarne gli aspetti più oscuri e traumatici, anzi imparando a danzare insieme a questi, poiché è grazie all’andare giù, in profondità, a fondo, entrando in contatto con le parti oscure di noi stessi, che non solo non affondiamo ma riusciamo anche a trasformare il dolore in un atto creativo, vitale e foriero di luminosità.
Penteo squartato dalle Baccanti, Casa dei Vettii, Pompei, I secolo d.C.
Nel dibattito e nella comunità scientifica quale può/deve essere secondo te il ruolo della filosofia?
La filosofia deve sporcarsi le mani, uscire dalla torre d’avorio dell’elucubrazione fine a se stessa, smuovere le coscienze, formare le persone, prendere posizioni scomode e portarle avanti, stimolare il dialogo e occuparsi delle emergenze politiche, etiche, ecologiche dei nostri tempi. Il tutto con una sensibilità sinestetica e simbolica che integri e non dis-integri. Nel gruppo di Filosofia Morale, guidato prima da Romano Màdera e poi da Claudia Baracchi, i miei maestri, o ancora presso l’Associazione Philo-Pratiche Filosofiche è ormai da decenni che diffondiamo un modo di fare filosofia che sia concreto, reale, in dialogo con il contemporaneo. Proponiamo da moltissimi anni i Seminari Aperti di Pratiche Filosofiche, che sono appunto aperti a tutti, dentro e fuori l’Università, e sono assolutamente gratuiti. Io penso che la filosofia e le scienze umane siano fondamentali per un Ateneo come il nostro, che si fonda sulla ricerca scientifica in senso stretto.
Su cosa si stanno concentrando ora i tuoi studi e quali saranno i tuoi prossimi progetti?
Torno di recente da un’esperienza di Visiting in America dove ho insegnato al fianco del Prof. Gordon Cappelletty, in North Carolina. A novembre parteciperò a Bookcity, insieme alla Dott.ssa Sara Bergomi, con un incontro sul Dioniso delle profondità marine e melmose – un incontro a cui siete ovviamente invitati. Sicuramente, non posso negartelo, caro Diego: come ricercatrice precaria mi sento sempre un po’ sul filo del rasoio. Ad oggi spero comunque di continuare a lavorare in Bicocca con Claudia Baracchi, perché sento che questo è il mio posto e perché la Bicocca mi ha conosciuto fin da giovane. Oltre ai maestri, le persone che ho incontrato qui sono state tutte preziosissime per la mia vita e per la mia crescita professionale, soprattutto il mio collega Luca Grecchi, da cui ho appreso tanta umanità e sapienza filosofica. Ho una vita piuttosto ricca, molti progetti in mente e molti fronti di collaborazione aperti, come quello con il CSTG guidato da Riccardo Zerbetto, che mi ha invitato alla conferenza che hai segnalato in apertura, o quello con la Dott.ssa Giusi Negroni, con cui porto avanti il gruppo di Danzare le Tragedie. In prospettiva c’è una collaborazione aperta con l’ANPI e – in ultimo, ma non per importanza – anche con l’Associazione Felicita, presieduta da Alessandro Azzoni, a cui tengo molto perché si occupa dei diritti degli anziani nelle RSA e dei loro familiari, specie a fronte degli scandali di malasanità e dell’ingiustificabile ecatombe legata alla diffusione della pandemia. La filosofia, come Antigone ci insegna, deve essere coraggiosa, politica, e rispondere sempre alle leggi del cuore.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
Il «metodo tipico della conoscenza umana» consiste, per Alcmeone, nel «tekmairesthai», ovvero nel «procedere appunto per indizi, congetture, prove»: egli, in tal modo, «non faceva che teorizzare la sua stessa prassi di medico, abituato a interpretare l’esperienza per ritrovare in essa un significato, un valore di sintomo, e risalire così all’unità della malattia e delle sue cause». Sotto questo profilo, con Alcmeone «si apriva una nuova via verso il sapere, una via che passava pur sempre attraverso l’osservazione».
I saggi raccolti in questo volume ripercorrono gli ultimi cinquant’anni di ricerca ippocratica. Gli entusiasmi iniziali, ben motivati dalla “scoperta” di un grande territorio del sapere scientifico fino ad allora relativamente inesplorato, dei suoi metodi e della sua efficacia terapeutica, hanno via via ceduto in parte il campo a un più equilibrato atteggiamento critico-storico. Nel suo insieme, una lettura di questi testi può continuare ad offrire un panorama intellettuale utile a comprendere le coordinate metodiche e sociali che hanno consentito la comparsa di uno dei fenomeni più rilevanti dell’antica tradizione scientifica dell’Occidente. I saggi sono disposti in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni al volume ippocratico (1964 e 1973) che sono poste al termine per il loro carattere riassuntivo.
[1]MarioVegetti, Scritti sulla medicina ippocratica, Petite Plaisance, Pistoia 2018, pp. 330-333.
Ad Alcmeone di Crotone toccò, quasi un secolo prima di Ippocrate, il compito di raccogliere l’oscura eredità di ricerca di generazioni di medici, e anche il ricco patrimonio di osservazioni naturalistiche che si era venuto costituendo pur nell’involucro della physiologia: ed egli per primo intuì che questa eredità e questo patrimonio costituivano un campo relativamente autonomo del sapere, che richiedeva una sua specifica consapevolezza e suoi propri metodi di comprensione. Ad un’autonoma presa di coscienza della techne, Alcmeone fu spinto del resto dalle sue stesse conquiste di medico e di biologo, dagli stessi problemi teorico-pratici che la sua scienza veniva ponendogli ogni giorno e che certamente non trovavano risposta alcuna nelle semplificazioni e nella dogmatizzazione dell’empirico operate dalla physiologia. Certo, in questo suo lavoro di costruzione di una consapevolezza scientifica Alcmeone fu agevolato dal diffuso clima di ricerca che il pitagorismo propagava nella stessa Crotone e in Magna Grecia; ma è altrettanto certo che i suoi rapporti con il pitagorismo furono su una base di autonomia, di “dare ed avere”; e del resto non ci sembra una coincidenza occasionale che la fioritura di Alcmeone avvenisse proprio quando, ad opera di Ippaso e comunque dello sviluppo stesso della ricerca matematica, l’edificio sistematico della scuola pitagorica incominciava per altra via a vacillare (a partire dal 510 a.C.).
Alcmeone non attaccò le dottrine dell’arché: semplicemente le ignorò, come quelle che non trovavano corrispondenza alcuna nell’esperienza criticamente osservata. In quell’esperienza, egli riconosceva invece una indefinita molteplicità, non già di princípi sostanziali, bensì di princípi attivi o “qualità”, vale a dire di stimoli capaci di determinare nell’organismo una certa reazione fisiologica (l’amaro, il freddo e così via); di conseguenza, non v’è continuità fra organismo e physis, ma il rapporto fra l’uno e l’altra è un rapporto di stimolo e reazione (come testimonia anche Teofrasto attribuendo ad Alcmeone, in contrasto con Empedocle, la formula della «sensazione per contrari»).
Parallelamente, Alcmeone scopriva, grazie alla pratica spregiudicatamente scientifica della dissezione, che la funzione del percepire è nell’uomo bensì diffusa nei vari organi di senso, ma che essa viene poi coordinata e «interpretata» (per usare un termine dello stesso Ippocrate, che dipende qui da Alcmeone), da un organo centrale, e precisamente dal cervello. La scoperta di tale funzione del cervello spezzava di fatto il legame ombelicale fra uomo e mondo, fra conoscenza e realtà: e Alcmeone poteva rendere esplicita questa rivoluzionaria conseguenza dichiarando che, se la “sensibilità” è una proprietà di tutti gli organismi viventi, la funzione del “comprendere”, cioè di ridurre a sintesi significativa l’esperienza, e di “prender coscienza” della sensibilità stessa, è propria esclusivamente dell’uomo.
Il solco, che così si apriva fra l’uomo e la realtà che egli vuol comprendere e trasformare, era profondo e definitivo. Il mondo dell’esperienza riacquistava la sua concretezza e la sua datità, e l’esperienza stessa veniva riconosciuta incapace di dare spontaneamente conto di sé. Così, l’uomo e lo scienziato riconquistavano un’autonomia e una possibilità di comprensione e di controllo sul mondo, scoprendosi ad esso eterogenei e, nella tensione del conoscere e dell’agire, alla polarità opposta di esso. Ma Alcmeone si avvide di una conseguenza decisiva di tutto questo: la realtà si faceva ad un tratto opaca agli occhi dello scienziato; la verità e la realtà non si palesavano più tutt’intere all’interrogante; la sapienza, intesa come perfetta trasparenza e immanenza di tutto il mondo al frammento di mondo che è l’uomo, restava ormai solo una proprietà degli dèi (ed Empedocle, ispirato e taumaturgo, poteva ben dirsi simile a un dio).
In termini scientifici, la sapienza doveva venir sostituita dall’indagine, la rivelazione dalla congettura. Il metodo dell’analogia, basato sull’immanenza dell’arché a physis e di physis a ogni osservazione, doveva essere sostituito da quello dell’indizio e della prova. Quando Alcmeone poneva il tekmairesthai, il procedere appunto per indizi, congetture e prove, a metodo tipico della conoscenza umana, egli non faceva che teorizzare la sua stessa prassi di medico, abituato a interpretare l’esperienza per ritrovare in essa un significato, un valore di sintomo, e risalire così all’unità della malattia e delle sue cause. In questo modo si apriva una nuova via verso il sapere, una via che passava pur sempre attraverso l’osservazione, ma non più mitizzata bensì indagata per il suo valore di “segno”; e questa era la via che conduceva ad Ippocrate.
Il relativo isolamento di Alcmeone, in quanto puro scienziato, dalle grandi correnti filosofiche, gli agevolava certamente questa spregiudicata presa di coscienza metodologica; e tuttavia gli impediva di esplicitarne tutto il valore, e di generalizzarla fino a determinare chiaramente il rapporto fra teoria e osservazione, fra pensiero e realtà, fra verità e fatto. In altri termini, la zona dell’esperibile veniva bensì restituita alla concretezza che sola rendeva possibile l’indagine scientifica, e di quest’indagine veniva indicato il metodo tipico; ma poi Alcmeone lasciava in ombra la sfera del “pensabile” e insomma la struttura, la funzione, i procedimenti della ragione scientifica, che a quell’indagine era parimenti indispensabile.
Così la portata eversiva del pensiero di Alcmeone nei riguardi della physiologia non veniva immediatamente in luce, ed anzi ancora Empedocle poteva largamente ispirarsi ai singoli spunti di esso nella propria riduzione a sistema della physiologia. Solo dopo che un attacco frontale alla physiologia fosse stato portato in nome dell’autonomia e dell’intrinseca validità della ragione, l’eredità di Alcmeone avrebbe potuto essere raccolta in tutta la sua potenziale fecondità.
MarioVegetti, Scritti sulla medicina ippocratica, Petite Plaisance, Pistoia 2018, pp. 330-333.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Se chiedete a un italiano, che cosa è avvenuto nel 1937 a Debra Libanos, quasi certamente non vi risponderà. Molti non saprebbero neppure dire dove si trova Debra Libanos. Il loro silenzio è il segno di come nel nostro Paese si conosca poco la storia, soprattutto quella coloniale, e di come una parte di essa (quella meno presentabile) sia stata rimossa. Debra Libanos è una delle pagine più vergognose della storia italiana. Dal 21 al 29 maggio, soldati del nostro esercito sterminarono centinaia di monaci, preti e pellegrini ortodossi (tutti ovviamente disarmati) radunati nel monastero etiope di Debra Libanos.
Debrà Libanòs è tra di noi. Il massacro perpetrato da italiani è sconosciuto alla maggioranza degli Italiani di oggi: «Italiani, brava gente?».
Parlati dalla storia Un popolo è la sua storia, il rapporto che un popolo instaura con la propria storia contribuisce largamente al suo presente ed al suo futuro, si costruisce e decostruisce la realtà effettiva per disoccultare le verità nascoste. L’identità è un’operazione di disvelamento senza la quale è esperienza di ripiegamento violento su se stessa. L’identità non è un deposito sacrale da trasmettere e riprodurre nel presente, ma la somma delle esperienze e degli errori da cui trarre la verità per un nuovo inizio. La memoria è l’esperienza che mediata dal logos collettivo germina in un nuovo inizio, ma senza memoria ogni progetto politico non può che arenarsi nel pericolo di ripetere errori e di non saperli individuare in un tempo utile per correggerli. La storia è vita collettiva senza la cui consapevolezza si procede ciecamente e biecamente nel flusso del tempo. Non è liturgia, conservazione stantia di cerimonie ed eventi per giustificare il presente, ma dialettica, con essa ci si confronta non per giudicare il passato, ma per capirlo al fine di non ripeterne le tragedie, altrimenti tutto ritorna. La dimenticanza è un boomerang i cui effetti possono essere esponenziali. La decadenza degli studi storici, la loro riduzione a biografie di grandi personaggi è in linea con il clima liberista, che riduce ogni complessità sociale a semplice omaggio alla grandezza di pochi grandi individui nel bene e nel male, i restanti sono i subalterni che si adattano agli eventi. La storia collettiva scompare sotto lo zoccolo dei grandi personaggi usati in modo ideologico per giustificare l’individualismo imperante. In tale contesto il disprezzo verso le differenze continua a circolare e specialmente, se il potere con le sue favole ideologiche è trasmesso senza mediazione del logos, inevitabilmente la logica gerarchica e aggressiva continuerà a produrre le sue conseguenze nel presente ed ad impedire un futuro non improntato a tali dinamiche. La violenza capillare che si diffonde in ogni campo, e che assume forme metamorfiche plurali non è causata solo da variabili contingenti, ma è il risultato della rimozione delle violenze del passato. Senza lo sguardo storico nella verità di ogni popolo non si vi sarà l’esodo da schemi sclerotizzati dall’abitudine: ogni grande progetto non potrà che ricadere su se stesso per il riemergere di comportamenti ed azioni sedimentati nell’inconscio collettivo. Si potrebbe dire parafrasando Heidegger che siamo parlati dalla storia, ci avvolge tanto più la ignoriamo, si insinua nelle parole e nei gesti e non li riconosciamo. Con la storia si dialoga, ci si relaziona sollevando domande che consentono di partecipare fortemente al presente, se il dialogo viene a mancare si fatalizza il proprio tempo favorendo il dominio e la subalternità generale.
Debrà Libanòs tra di noi Il massacro di Debrà Libanòs il 21-29 maggio 1937 in Etiopia si aggira tra di noi, inficia le relazioni con i paesi africani e con le persone provenienti da quei luoghi tormentati dall’Occidente. Il massacro non è stato dimenticato, perché si dimentica solo ciò che è stato conosciuto. Debrà Libanòs è, invece, sconosciuto alla maggioranza della popolazione. L’eliminazione immotivata e tragica della comunità del monastero di Debrà Libanòs è un caso unico della storia europea. La comunità del monastero era di religione copta, i rapporti tra la classe dirigente dei copti e il regime fascista che aveva invaso l’Etiopia nel 1935 e proclamo l’impero nel 1936 erano pessimi. L’Etiopia era stata invasa, ma non domata, la propaganda nascondeva la verità con un falso trionfalismo imperiale. La strage a seguito dell’attentato al viceré d’Etiopia Graziani fu occasione per liberarsi dell’opposizione etiope e rimarcare il dominio dei colonizzatori sui colonizzati. Fu eseguita dai musulmani sotto il comando italiano, li si spinse contro i cristiani usando l’odio religiosi a fini militari. Fu scelta la data di San Michele, perché in quel giorno si aveva il massimo afflusso di fedeli. Furono sterminati tutti senza constatare colpe, l’etiope era il nemico da abbattere, la selvaggina da predare. L’esecuzione ricorda i primi tentativi di sterminio degli ebrei prima della soluzione delle camere a gas: raduni e trasferimenti veloci sui luoghi dell’eliminazione con gli assassinati gettati nel dirupo. L’eccidio fu seguito dal saccheggio e dalla distruzione dell’antichissimo monastero e degli edifici limitrofi. In questi anni sono ricomparsi gli elenchi degli oggetti razziati dal fascismo, tra cui una serie di corone d’oro che si utilizzavano nelle cerimonie religiose. Gli oggetti potrebbero giacere dimenticati in qualche museo o in qualche collezione privata, sono scomparsi come le vittime. L’operazione fu genocidaria tutto doveva scomparire di quella realtà, non solo le persone, ma specialmente la cultura che si opponeva all’assimilazione[1]:
“Le vittime furono spinte giù dal camion e furono rapidamente fatte allineare, con il viso a nord e la schiena volta verso gli ascari. Furono quindi costrette a sedersi in fila lungo l’argine meridionale del fiume, che in quel periodo dell’anno era quasi completamente in secca. Gli ascari presero quindi un lungo telone, preparato appositamente per l’occasione, e lo stesero sui prigionieri come una stretta tenda formando un cappuccio sopra la testa di ognuno di loro. Si procedeva quindi alla fucilazione dei religiosi. E mentre un ufficiale italiano provvedeva a sparare il colpo di grazia alla testa, vicino all’orecchio, gli ascari toglievano il telone nero dai cadaveri per utilizzarlo per il successivo gruppo di condannati. Alle 15.30 del pomeriggio tutto era finito e Graziani poteva annunciare a Roma che «oggi, alle 13 in punto», il generale Maletti «ha destinato al plotone di esecuzione 297 monaci, incluso il vice-priore, e 23 laici sospetti di connivenza. Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d’ordine, che verranno tradotti e trattenuti nelle chiese di Debrà Berhàn. Il convento è stato di conseguenza chiuso definitivamente» Ma tre giorni dopo il viceré cambiava idea, sembra su istigazione di ras Hailù Tecla Haimanot, il più noto e spietato fra gli aristocratici collaborazionisti, e inviava a Maletti questa nuova direttiva: «Confermo pienamente la responsabilità del convento di Debrà Libanòs. Ordino pertanto di passare immediatamente per le armi tutti i diaconi di Debrà Libanòs. Assicuri con le parole: “Liquidazione completa”» .Il generale Maletti, con il consueto zelo, provvedeva subito a far scavare due profonde fosse in località Engecha, a pochi chilometri da Debra Berhàn, e nella mattinata del 26 maggio faceva sfilare davanti alle mitragliatrici 129 diaconi, martiri giovanetti che la cristianità non ricorda e non piange perché africani e diversi. «Per cui» concludeva Graziani «la cifra dei giustiziati saliva a 449». Ma la vera cifra degli assassinati era molto più alta, almeno tre volte superiore. Tra 1991 e 1994 i due docenti universitari già ricordati, l’inglese Ian L. Campbell e l’etiopico Degife Gabre-Tsadik, eseguivano nel territorio di Debrà Libanòs un’ampia e approfondita ricerca, interrogando monaci, cascì, civili, alcuni dei quali avevano assistito a una o più fasi del massacro. Dalle loro testimonianze emergeva che i fucilati a Laga Wolde non erano 320 ma tra 1000 e 1600. Successivamente, tra 1993 e 1998, il professor Campbell proseguiva da solo le indagini spostandosi nella regione di Debrà Berhàn per trovare informazioni sulla strage di Engecha. Egli non soltanto riusciva a localizzare le due fosse che contenevano i corpi dei 129 diaconi, ma poteva raccogliere le deposizioni di due testimoni oculari che avevano assistito alla strage dall’inizio alla fine. L’inchiesta di Campbell rivelava inoltre che Graziani, nel comunicare a Lessona l’eliminazione dei diaconi, aveva sostenuto il falso. Egli, infatti, non si era limitato a ordinare a Maletti la «liquidazione completa» dei 129 diaconi, ma gli aveva ingiunto di sopprimere altri 276 etiopici, fra insegnanti, studenti di teologia, monaci e sacerdoti che appartenevano ad altri monasteri e che nulla avevano a che fare con Debrà Libanòs. Per cui il bilancio della strage di Engecha saliva a 400 vittime e quello complessivo della rappresaglia contro la città conventuale di Debrà Libanòs si aggirava, secondo i due ricercatori, tra 1423 e 2033 morti. Mai, nella storia dell’Africa, una comunità religiosa aveva subìto uno sterminio di tali proporzioni”.
La violenza di Debrà Libanòs è giunta a noi nel silenzio e nel disprezzo con cui si inneggia alla differenza per omologarla, non si usano, in patria, gli ascari contro i diversi, ma i trombettieri del giudizio universale, il clero asservito che in nome della libertà laica ed atea inneggia all’omologazione. La differenza può sopravvivere solo come esperienza folcloristica, ma i comportamenti devono essere quelli dettati dal liberismo. Se avessimo trasformato la strage in cultura condivisa, probabilmente il “sì” automatico alle missioni di pace non sarebbe stato tanto “spontaneo”. I braccianti agricoli schiavizzati nella raccolta dei prodotti agricoli sono nella scia di quella violenza respinta nel dimenticatoio della storia. L’abitudine a rimuovere e a elaborare false immagini di sé giunge fino a noi e produce forme di sfruttamento diffuso, la tempesta della storia ci inghiotte e ci trascina verso la negazione della “buona vita”.
Senza storia non vi è umanesimo, ma solo una lenta agonia, in cui a morire è l’umanità nella sua totalità, al suo posto non resta che una temporalità circolare in cui ogni evento è destinato a ritornare nella sua tragicità inemendabile. La prassi necessita di senso storico comunitario, perché trae dagli avvenimenti della storia, la possibilità con cui riprogettare politiche sociali e visioni comunitarie. La storia ha la potenzialità di liberarci dalla condizione di subalterni, ci indica che la cultura di subalternità è la condizione per lo stragismo militare ed economico. Il subalterno rinuncia alla prassi per farsi servo e salvarsi dalle responsabilità verso la storia, verso il presente ed in passato, ma ogni subalterno compartecipa ai crimini della storia, è la mano esecutrice che si presta all’esecuzione. Emanciparsi significa liberarsi dalla subalternità. Ogni cultura e ogni politica che la inseguono è organica al dominio. Debrà Libanòsè tra di noi nella forma del fatalismo servile che ci rende corresponsabili della violenza dei nostri giorni.
[1]Angelo Del Boca,Italiani, brava gente?, capitolo dieci: Debrà Libanòs: una soluzione finale, Editore Neri Pozza, 2012.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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L’uomo deve scegliere se essere storia o avere storia, se identificarsi con la propria situazione o farne un tramite per attingere l’origine, se rinunciare alla verità o darne una rivelazione irripetibile.
Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia editore, Milano 2005, p. 116.
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«Vivere in modo virtuoso vuol dire vivere nel modo più attivo possibile, non soffocando le emozioni – cosa che porterebbe solo a renderle più riottose, isolate, in una parola: più tristi e farebbe noi più passivi rispetto a quello che proviamo –, ma cercando di decifrare la lingua degli affetti, che possiamo comprendere solo riconoscendoci negli altri, specchiandoci in chi ci sta di fronte e scoprendo quanto ci somigliamo».
Ilaria Gaspari,Vita segreta delle emozioni, Einaudi, Torino 2021.
Ha studiato filosofia alla Scuola Normale Superiore di Pisa e si è addottorata all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito per Voland il suo primo romanzo, Etica dell’acquario, e nel 2018 ha pubblicato per Sonzogno Ragioni e sentimenti, un conte philosophique sull’amore. Per Einaudi ha pubblicato Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (2019). Collabora con diversi giornali e tiene corsi di scrittura alla Scuola Holden. Vive tra Roma e Parigi.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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