«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
È la contraddizione tra i due modi d’usare l’utopia: considerandola per quello che in essa appare realizzabile, come il modello d’una società nuova che possa crescere in margine alla vecchia per eclissarla con l’evidenza dei nuovi valori, oppure per quello che in essa appare irreducibile a ogni conciliazione, in opposizione radicale non solo al mondo che ci circonda ma ai condizionamenti interni che governano le nostre attribuzioni di valori, la nostra immaginazione, la nostra capacità di desiderare una vita diversa, il nostro modo di rappresentarci il mondo: una rappresentazione totale che ci liberi dentro per renderci capaci di liberarci fuori.
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Nelle Edizioni di Storia e Letteratura di Roma, a cura di un comitato presieduto da Bartolo Gariglio, stanno uscendo dal 2011 – con nuove postfazioni e accurati apparati critici – le riedizioni anastatiche dei libri pubblicati dalle case editrici fondate da Piero Gobetti. È un’impresa perseguita con metodo e tenacia che si sta avviando alla conclusione (vedi immagini nella galleria in basso). L’attività di editore fu centrale per il giovane intellettuale. Insieme a quello di giornalista, fu il suo mestiere.
Dopo i continui sequestri della «Rivoluzione Liberale» e dopo che il prefetto gli notificò il divieto di svolgere attività pubblicistica ed editoriale, Gobetti partì per Parigi il 3 febbraio 1926, come altri antifascisti prima di lui. Lasciò incompiuti i libri cui stava lavorando: Risorgimento senza eroi e Paradosso dello spirito russo. Dopo pochi giorni era già ammalato di una grave bronchite complicata da disturbi cardiaci, in un fisico duramente provato dall’aggressione fascista del settembre 1924. Morì nella notte del 15 febbraio 1926, non ancora venticinquenne (era nato il 19 giugno 1901), e fu sepolto al Père Lachaise non lontano dal Muro dei Federati.
Giuseppe Gangale ricordò su «Conscientia», vivace rivista degli evangelici italiani cui Gobetti collaborava, la sua figura:
«errò per l’Italia inquieto inquietando le coscienze nostre: […] veniva qui a Roma in terza classe, frettoloso, arruffato, con la grossa valigia carica dei suoi libri e dei suoi giornali che egli stesso distribuiva ai librai e collocava dai giornalai; […] a casa sua […] aveva impiantato una casa editrice in cui egli era tutto: autore, editore, contabile, spedizioniere, incollatore di fascette. E i giovani sentirono il fascino e il contagio di questa ascesi febbrile e operosa».
A Parigi Gobetti voleva continuare ad essere un editore: «Parto per Parigi – scriveva a Giustino Fortunato che citò la lettera nel numero del «Baretti» uscito nel marzo 1926 per commemorarlo – dove farò l’editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi è interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo, o della polemica spicciola […] Vorrei fare un’opera di cultura nel senso del liberalismo europeo e della democrazia moderna». Già nell’articolo-programma del «Baretti» intitolato Illuminismo, nel dicembre 1924, aveva detto che si trattava di «salvare la dignità prima che la genialità» e di voler «lavorare con semplicità per trovare anche per noi uno stile europeo». Sul «Baretti» furono presentanti e discussi gli autori europei più nuovi, da Proust ai surrealisti, agli espressionisti tedeschi.
Anche quando svolse un’attività più direttamente politica – dall’impegno durante gli anni universitari nei gruppi “unitari” ispirati a Salvemini, allo sforzo di organizzare in tutta Italia i gruppi della Rivoluzione liberale – si trattò sempre di un’attività culturale-politica tesa alla formazione di quadri in senso ampio, di una futura classe dirigente. In quest’opera di educazione politica gli aspetti più propriamente culturali hanno un grande rilievo e non sono mai piegati a fini politici contingenti e immediati.
Lo storico della letteratura italiana Natalino Sapegno, che collaborò alle sue riviste, ricorda «l’incredibile varietà e ricchezza delle sue curiosità estese in ogni direzione, dalla letteratura al teatro, dall’arte alla filosofia e alla storia, instancabili e insaziabili» (in Aa. Vv., Colloquio gobettiano, a cura di P. Bagnoli, La Pietra, Milano 1979, p. 32). Fu critico letterario e teatrale e si occupò di teatro fino alla fine della vita (scrisse su invito di Antonio Gramsci numerosi articoli di letteratura e di teatro sul quotidiano «l’Ordine Nuovo» nel 1921-22, molti dei quali raccolti in La frusta teatrale, 1923, articoli polemici e complessi, che non concedono nulla alla divulgazione). Fu un acuto critico d’arte (ricordiamo l’amicizia con Felice Casorati cui dedicò una monografia nel 1923). Casorati dipinse nel 1961, per la fondazione del Centro studi a Torino, il suo famoso ritratto: un Gobetti idealizzato, che espunge gli aspetti irrequieti e mobili del personaggio e lo fa rivivere in un’aura sacrale.
Fu anche studioso di filosofia di formazione idealistica; ammirò Croce e Gentile, più Croce che Gentile (contro il quale pubblicò all’inizio del 1923 I miei conti con l’idealismo attuale), e studiò a fondo la filosofia dell’azione francese di Blondel e Laberthonnière, insieme ad alcuni filosofi minori dell’Ottocento italiano cui attribuiva grande importanza (Luigi Ornato e Giovanni Maria Bertini). Come storico del Risorgimento ricostruì soprattutto l’opera degli intellettuali radicali settecenteschi – come Pietro Giannone e Alberto Radicati di Passerano– trascurati o deformati dalla storiografia ufficiale. Come ha scritto Franco Venturi nella nota introduttiva agli studi gobettiani sul Risorgimento, «Gobetti prende quasi naturalmente ai nostri occhi il suo posto nella serie degli uomini del Piemonte che egli scoprì e studiò. I suoi eretici non vanno più da Radicati ad Alfieri, né a Cavour, ma da Radicati a Gobetti». Ma Gobetti fu in primo luogo un «organizzatore di cultura di straordinario valore» (come lo definì Gramsci) attraverso le sue riviste e la sua casa editrice. Documento dei suoi ampi interessi culturali sono i più di cento volumi che pubblicò come editore (114 se contiamo anche i non molti volumi, alcuni dei quali da lui programmati, usciti dopo la sua morte presso le Edizioni del Baretti). Alla fine del ‘22, insieme a Felice Casorati e al tipografo Arnaldo Pittavino di Pinerolo, aveva fondato una casa editrice. Ci fu presto un tentativo di incendio doloso della tipografia di Pinerolo e Pittavino si ritirò dall’impresa pur continuando ad essere una delle tipografie di cui si serviva Gobetti.Nel marzo 1923 la casa editrice divenne la “Piero Gobetti editore”. Pubblicò numerosi volumi di storia e politica (soprattutto saggi di antifascisti di vario orientamento: Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi, Giovanni Amendola, Luigi Sturzo, Francesco Saverio Nitti, Guido Dorso, Luigi Salvatorelli, autore nel 1923 dell’importante Nazionalfascismo). Ma Gobetti pubblicò anche molti libri di letteratura e di poesia. Il più famoso è Ossi di seppia di Eugenio Montale, che uscì nel giugno del 1925. Quando, l’anno prima, il poeta aveva incontrato Piero a Torino, erano diventati amici, per cui Montale si impegnò anche a scrivere per «Il Baretti», la cui uscita era imminente. Nel 1925 comparvero sulla rivista tre articoli di Montale, che però si trasse poi in disparte temendo il troppo filosofismo e la troppa politica (su Gobetti e Montale ha scritto saggi illuminanti Ersilia Alessandrone Perona). Dopo molti anni, in un articolo per il cinquantenario della nascita di Gobetti, uscito il 16 febbraio del 1951 sul «Corriere della Sera» il poeta scriveva che «Gobetti, pur senza additarci un sistema o tanto meno un partito, ci pone di fronte uno specchio dal quale ci discostiamo con fastidio o con orrore, a seconda che la dilagante marea della mediocrità politica e intellettuale ci riempa di tedio o di disgusto, di noia o di ribrezzo».
Qual è lo specchio, l’immagine della società italiana, alla quale alludeva Montale ? È rimasta famosa, nelle interpretazioni del fascismo, la formula gobettiana del fascismo come rivelazione di mali secolari, come «autobiografia della nazione». Il fascismo non è una parentesi nella marcia vittoriosa del liberalismo come sostenne Benedetto Croce e non è neppure riducibile alla «reazione capitalistica» dell’interpretazione marxista. Nella formula del fascismo come autobiografia della nazione c’è la denuncia della tendenza all’unanimismo populista, alle vaste maggioranze trasformiste, al paternalismo addomesticatore, alla vuota retorica. Con il fascismo, «ci troviamo per una volta, davanti, il blocco completo dell’altra Italia, l’unione confusa di tutte le nostre antitesi, il simbolo di tutte le malattie […]» (Scritti politici, Einaudi, 1997, p. 435).
Gobetti non poté vedere né gli aspetti di modernizzazione autoritaria del fascismo degli anni trenta né le dimensioni internazionali del fenomeno fascista. Il fascismo gli sembrò soprattutto un fenomeno italiano di arretratezza economico-sociale e culturale. Inizialmente lo confuse anche con una forma di giolittismo peggiorato, salvo ricredersi più tardi. Tuttavia colse con grande acutezza i tratti del mussolinismo come l’ultima manifestazione di una tendenza permanente nel costume etico-politico italiano all’opportunismo, alla demagogia, alla retorica. Queste abitudini affondano secondo Gobetti nella tradizione controriformistica di un Paese che non ha conosciuto né la Riforma religiosa né una rivoluzione borghese radicale. Alla fine del saggio La Rivoluzione Liberale Gobetti scrisse: «Il mussolinismo è dunque un risultato assai più grave del fascismo stesso perché ha confermato nel popolo l’abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza» (così nel saggio sulla lotta politica in Italia, Einaudi, 1995, p. 176; d’ora in poi cito con RL). Insomma, Gobetti individuò con grande precisione e denunciò con intransigenza i tratti di un populismo che ha segnato e minaccia costantemente la nostra storia.
Di Mussolini dice: «la sua figura di ottimista sicuro di sé, le astuzie oratorie, l’amore per il successo e per le solennità domenicali, la virtù della mistificazione e dell’enfasi riescono schiettamente popolari per gli italiani» (RL, 173). A questi costumi contrappose la sua «religione della libertà». Il motto in greco delle edizioni di Gobetti è Che ho a che fare io con gli schiavi?, disegnato elegantemente in un ovale da Felice Casorati. Fu suggerito nel 1923 da Augusto Monti, il grande professore del Liceo D’Azeglio di Torino, che l’aveva tratto da una lettera di Vittorio Alfieri del 1801. Fin dall’adolescenza Alfieri era l’eroe di Gobetti, il quale nella tesi di laurea La filosofia politica di Vittorio Alfieri diceva che in Alfieri c’è una «religione della libertà», che impegna tutto l’individuo, «esclude interessi e calcoli», vuole dedizione e intransigenza. Moralismo di Gobetti? Sono molto chiare alcune righe che scrisse sul “moralismo” nell’ottobre 1924, nel pieno della crisi politica che si era aperta dopo l’assassinio di Matteotti: «Sempre bisogna che le nazioni trovino l’ora dell’esame di coscienza, che sappiano misurare la loro sensibilità morale a costo di aprire crisi dolorose e totali. Né ci si attribuisca preoccupazioni di astratti moralisti: in verità tutta la politica è possibile soltanto a patto che sappia trovare nei momenti solenni le sue origini di rigorismo e di rivoluzione morale» (Scritti politici, cit., p. 787). La politica non deve ridursi a meschini calcoli parlamentari e deve rifarsi a principi e a convinzioni ultime. Nel tener fede ai principi e alle convinzioni ultime Gobetti vide la migliore garanzia anche dell’efficacia dell’azione politica, almeno sul lungo periodo. Quali sono le convinzioni ultime di Gobetti? A mio avviso, il filo rosso che lega insieme le sue posizioni e tutta la sua attività è l’autonomismo libertario. Sul suo liberalismo Gobetti affermò: «la parola d’ordine dei liberali in Italia a partire dal secolo scorso fu: “tutti liberali”. La nuova critica liberale deve differenziare i metodi, negare che il liberalismo rappresenti gli interessi generali, identificarlo con la lotta per la conquista della libertà, e con l’azione storica dei ceti che vi sono interessati» (RL, p. 51). Occorre «rinnovare la vita politica facendovi affluire continuamente nuove correnti libertarie» (RL, p. 43). Tra queste correnti mise in rilievo soprattutto l’esperienza dei Consigli di fabbrica, che gli apparve «uno dei più nobili sforzi che si siano tentati» nella vita politica di quel periodo (RL, p. 103), mentre fu un critico impietoso della chiusura burocratica del PCd’I, come si vede nelle pagine del saggio La Rivoluzione Liberale dedicate ai comunisti. Simpatizzò per le punte rivoluzionarie del movimento operaio da una visuale liberale e libertaria, per i valori autonomistici, di libertà, di iniziativa dal basso, di agonismo che erano capaci di suscitare, indipendentemente dai fini collettivistici del socialismo e del comunismo che Gobetti dichiarava di non condividere (anche quando nel 1924 scriveva che era giunta L’ora di Marx). Il marxismo non gli apparve vivo nelle teorie economiche e nella prospettiva del comunismo, ma come «dottrina dell’iniziativa popolare diretta, preparazione di un’aristocrazia operaia capace, nell’esperimento della lotta quotidiana, di promuovere l’ascensione delle classi lavoratrici» (RL, p. 77). Gobetti sperava che in Italia, rimasta sotto il peso dell’arretratezza economica e del conformismo religioso, si diffondesse, grazie allo sviluppo dell’industria e delle aristocrazie imprenditoriali e operaie, un’etica moderna, alimentata in Europa dalla Riforma protestante, della responsabilità personale e della dignità del lavoro. A proposito di una visita agli stabilimenti della Fiat Lingotto appena inaugurati, Gobetti, dichiarava «l’orgoglio di essere stati i primi teorici di quella vita industriale», e scriveva che là, dentro la Fiat, «si prepara la morale del lavoro, la civiltà dei produttori» (Visita alla Fiat, «Il Lavoro», 15 dicembre 1923). In quanto costruttori di una «civiltà dei produttori», Gobetti ammirava sia le «aristocrazie operaie» rivoluzionarie sia i capitani d’industria come Henry Ford e Giovanni Agnelli. Questo oggi ci sembra far parte di un’ideologia novecentesca della modernizzazione molto lontana, se non altro per le trasformazioni intervenute nel lavoro e nell’industria. Ma, insieme, c’è in lui l’idea più ampia, che trovò confermata in Cattaneo, dello Stato moderno come terreno della libera competizione degli individui e dei gruppi sociali. C’è la convinzione della positività permanente del conflitto sociale, c’è l’idea che la lotta politica è continuamente alimentata dai gruppi che si affacciano sulla scena rivendicando nuovi diritti e nuovi assetti democratici. Questa, scrisse, è «la religiosità dell’uomo moderno, la religiosità della democrazia come forza autonoma, liberamente operante dal basso senza limiti che la predeterminino fuori della volontaria disciplina che essa stessa si pone […]» (RL, p. 58). Nelle pagine di Gobetti, che scrisse e fece l’editore immerso nelle lotte politiche e sociali degli anni drammatici che vedono la crisi dello Stato liberale e la vittoria del fascismo, vive una utopia libertaria che ci interroga ancora e che meglio di altre ideologie ha resistito nel tempo.
Basta questo oggi per rianimare una democrazia in grave affanno? Non credo, ma è una bussola preziosa di cui non possiamo ancora oggi fare a meno.
Cesare Pianciola, Kosik e Sartre, «Quaderni piacentini», anno IV, n. 2, 1965dicembre-1965
Il pensiero di Karl Marx, Loescher, 1971
Filosofia e politica nel pensiero Francese del dopoguerra, Loescher, 1979
Piero Gobetti. Biografia per immagini, Gribaudo, 2001
Piero Gobetti. Opera critica, Edizioni di storia e letteratura, 2013
N. Bobbio, Scritti su Marx. Dialettica, stato, società civile. Testi inediti a cura e con una introduzione di Cesare Pianciola e Franco Sbarberi, Donzelli, 2014
Raniero Panzieri, Centro di Documentazione di Pistoia, 2014
Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970), Petite Plaisance, 2017 (con Giuseppe Cambiano)
Pietro Chiodi (1915-1970), filosofo esistenzialista che negli anni Sessanta insegnò Filosofia della storia all’Università di Torino, è ricordato soprattutto per la sua attività di studioso e traduttore di Heidegger che ha ricreato per i lettori italiani il vocabolario filosofico del pensatore tedesco. Non meno importanti i suoi saggi su Kant e le traduzioni della ‘Critica della ragion pura’ e degli ‘Scritti morali’. Questo libro, curato da due tra i suoi primi allievi, contiene contributi sull’opera filosofica e sui confronti teorici in cui si è impegnato (con Abbagnano e Paci, con Sartre, con i marxisti), ma anche saggi sulla drammatica vicenda resistenziale consegnata a ‘Banditi’ – il diario partigiano che Fortini considerò “quasi un capolavoro” -, sul rapporto di profonda amicizia e di influenze reciproche con B. Fenoglio, sul suo interesse poco noto per le arti figurative. In appendice un inedito su socialismo e libertà, a proposito di ‘Riforme e rivoluzione’ di A. Giolitti, e una testimonianza della sua compagna, Aida Ribero, sulla coerenza tra filosofia e vita. Chiude il volume una completa bibliografia degli scritti di e su Chiodi.
La guerra d’Algeria e il «manifesto dei 121», Edizioni dell’Asino, 2017
Nel 1960 un gruppo di intellettuali sottoscrive il “manifesto dei 121”, che denuncia la brutale repressione e l’uso sistematico della tortura praticata dall’esercito francese in Algeria, e solidarizza con l’insubordinazione alle gerarchie militari e con il sostegno alla causa della indipendenza algerina. È un episodio della storia politica e culturale del Novecento da rimeditare nella sua complessità. Chiude il libro la testimonianza di Louisette Ighilahriz, algerina militante all’epoca nel Fronte di liberazione nazionale.
Il critico e il pittore. Gobetti, Casorati e la sua scuola, Aras Edizioni, 2018
Felice Casorati (1883-1963) ci ha lasciato di Piero Gobetti (1901- 1926) un ritratto penetrante e idealizzato dipinto per la fondazione del Centro studi a lui intitolato. La critica d’arte, nella multiforme attività di Gobetti, fu seria e impegnativa. Tra i pittori contemporanei che apprezzò (Carrà, De Chirico, Soffici…), la figura centrale è Casorati, su cui scrisse e pubblicò nelle sue edizioni una monografia nel 1923. Il pittore era legato al suo critico da una «amicizia tenace completa perfetta», come la definì alla morte del giovane antifascista. Gobetti fu anche il primo a mettere in rilievo l’importanza della scuola di Casorati ai suoi inizi, vedendovi «una cosa completamente nuova, lontana da ogni sistematicità di accademia». Piero e Ada erano intimi delle sorelle Marchesini: Maria, Dadi e Nella, che fu la prima allieva del maestro. I saggi qui raccolti esplorano diversi aspetti di una vicenda che parte da Gobetti e si dipana in un tessuto culturale da cui è possibile trarre nuovi echi.
Marxismo. Tradizioni di pensiero, il Mulino, 2019
A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l’esposizione dei loro temi portanti e delle figure in cui si sono concretati. Indice del volume: Premessa. – I. Dal marxismo a Marx. – II. Dall’opposizione al potere. – III. Marxismi occidentali. – IV. Lavoro e valore tra economia, filosofia e sociologia. – V. Un’eredità politica contrastata. – VI. Complicazioni: nazione, genere, ambiente. – Bibliografia. – Indice dei nomi.
La collana, realizzata in collaborazione con il Centro Studi Piero Gobetti, nasce con un obiettivo ambizioso: ripubblicare l’intera produzione di Piero Gobetti editore, 114 titoli usciti dal 1922 al 1929. Le opere qui riproposte in edizione anastatica sono accompagnate da nuove postfazioni e da schede critiche e bibliografiche. Un patrimonio considerevole di autori, che comprende tra gli altri Luigi Einaudi, Wolfgang Goethe, Eugenio Montale (la prima edizione di Ossi di seppia), Giuseppe Prezzolini, Gaetano Salvemini, oltre allo stesso Gobetti.
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«[…] soltanto attraverso l’intero svolgimento oggettivo della ricchezza dell’essere umano, viene in parte educata, in parte prodota la ricchezza della sensibilità soggettiva dell‘uomo, e parimenti un orecchio per la musica, un occhio per la bellezza della forma, in breve i soli sensi capaci di un godimento umano, quei sensi che si confermano come forze essenziali dell‘uomo. Infatti non solo i cinque sensi, ma anche i cosiddetti sensi spirituali, i sensi pratici (il volere, l’amore, ecc.), in una parola il senso umano, l’umanità dei sensi, si formano soltanto attraverso l’esistenza dell’oggetto loro proprio, attraverso la natura umanizzata. L’educazione dei cinque sensi è un’opera di tutta la storia del mondo fino ad oggi […] e così la società già formata produce l’uomo in tutta questa ricchezza del suo essere, produce l’uomo ricco e profondamente sensibile a tutto come sua stabile realtà».
Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 2004, pp. 114-115.
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Società e spettacolo La società dello spettacolo è sempre alla ricerca di un catalizzatore sociale da usare come elemento identitario e di distrazione di massa. La morte di Raffaella Carrà è presentata come una tragedia italiana, poiché la schowgirl è parte del tessuto “sociale e culturale” della nazione. Non vi sono ideali, ideologie o religioni a tessere la koinonia sociale, il plusvalore ed il nichilismo passivo hanno reso al suolo ogni solidità umana e metafisica, non resta che produrre miti estemporanei con cui fabbricare processi di identificazione di massa. Tutto è falso nel capitalismo, per cui la fabbrica dei miti deve necessariamente osannare l’ultima diva da utilizzare per occultare il vuoto abissale di una nazione senza poeti, santi e navigatori,. Tutto è stato consumato, pertanto il nulla non può che produrre miti dai piedi d’argilla. Negli innumerevoli salotti televisivi si ripete nella più tradizionale ipocrisia italica la bravura e la completezza della schowgirl. Nessun cenno critico sulla qualità di musiche e canzoni, si esaltano i valori che la cantante ha depositato nelle sue canzoni e che giungono a noi come lascito da conservare, si è inaugurata una nuova “tradizione culturale e musicale”. Se si ascoltassero i testi con un modesto senso critico ci si renderebbe conto immediatamente della “modestia” dei contenuti e della imbarazzante semplicità delle musiche. La Carrà rivoluzionaria ha contribuito, secondo i giornalisti mainstream, a liberare i costumi e specialmente le donne. Si spingono a dichiarare che ha fatto molto di più la cantante per loro che la politica ed i sindacati. Nei testi emerge solo individualismo ed edonismo, una sessualità senza affettività e stabilità. I testi non sono certo rivoluzionari, ma organici al capitalismo nella sua fase apicale, per il quale ogni progettualità affettiva è un limite al libero sciamare edonistico. Non si tratta di moralismo, ma di un dato oggettivo. I testi della Carrà hanno garantito il diffondersi di costumi liquidi, il disimpegno è stato il grande messaggio della cantantei. La donna liberata dal dono e dalla comunità diventa il simbolo della nuova era senza cultura, senza progetti, senza profondità: la società dello spettacolo ha trovato in lei la sua icona. L’indifferenza verso la politica e le tragedie della storia l’ha portata nel 1980 in Argentina: si esibiva acclamata e difesa dalle forze dell’ordine argentine che la proteggevano dalla folla. In Argentina vi era la dittatura militare, si può ipotizzare che esibirsi in concerti, mentre i dissidenti venivano eliminati sia stata una forma di legittimazione di quel potere, o è stata usata in tal senso. Rivoluzionaria per i costumi ha avallato l’edonismo consumistico erotico, ma non ha mai preso parola contro le ingiustizie sociali che laceravano il mondo e la nazione, si è adattata al sistema, è divenuta parte del dispositivo culturale e linguistico del nuovo capitalismo assoluto.
Nuova identità Non secondario è l’uso identitario che della cantante vien fatto, dopo che la scuola, la lingua nazionale e ogni asse valoriale sono stati annichiliti, per reinventare una pubblica identità si usa una diva della società dello spettacolo che con i suoi eccessi scenografici ben si presta a catalizzare l’identità nazional popolare senza turbare con eventuali messaggi critici: Il sistema che inneggia al suo modello di libertà nichilistico mediante una sua diva. Dal vuoto dei contenuti non può venire minaccia alcuna. Ancora una volta si assiste alla decadenza che ha spinto Riccardo Muti ad affermare in una lettera al Corriere della Sera:
“La banalità della tv e della Rete, questo divertimento superficiale, la mancanza di colloquio mi preoccupano molto per la formazione dei giovani”
Muti nella lettera scrive che per lui è preferibile morire, piuttosto che assistere al salire dell’onda dell’ignoranza e dell’arroganza sociale che ha disumanizzato ogni rapporto, non si identifica con l’attuale società del consumo e della dimenticanza. Vi è da chiedersi dove fosse, mentre tutto questo accadeva. La Carrà non la si può non ricordare nei quiz in cui i telespettatori dovevano indovinare il numero dei legumi presenti nei contenitori. Il gioco dei fagioli in Pronto Raffaella? dal 1983 al 1985, non è stato un semplice quiz, ma ha contribuito a normalizzare il nichilismo sociale. Il sistema capitale ha educato generazioni intere che il caso e la fortuna valgono più dell’impegno e del merito. Si può vincere e riscuotere denaro senza merito, esattamente come si può vincere un concorso senza preparazione, la struttura del sistema ha la sua pedagogia ed i complici pedagoghi per insegnare il disprezzo verso i contenuti. La cattiva maestra televisione può diseducare a suon di banda, se è l’unico messaggio presente in essa a reti unificate pubbliche e private. L’omaggio ad ogni persona che non c’è più è vero solo se la verità si fa spazio nella solo formale ritualità funebre. Le lunghe discussioni osannanti, l’esaltazione di ogni gesto ed il silenzio sul contesto in cui ha svolto la carriera sono ormai parte della menzogna conosciuta che continua come un acido a dissolvere i frammenti di razionalità e comunità sopravvissuti alla lunga notte della società dello spettacolo. Nessun uomo è innocente, siamo tutti responsabili del disastro attuale, ciascuno nel proprio ruolo. Responsabilità sociale ed etica sono rifiutati dal sistema, perché lo spettacolo può andare avanti solo al ritmo della menzogna conosciuta, sta a noi singoli pensare le parole che il mainstream usa per poter tracciare un percorso di uscita ed esodo dalla società dello spettacolo.
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«L’immaginazione costruisce sempre con materiali fondati sulla realtà. […] L’attività creatrice dell’immaginazione è in diretta dipendenza dalla ricchezza e varietà della precedente esperienza dell’individuo, per il fatto che questa esperienza è quella che fornisce il materiale di cui si compongono le costruzioni della fantasia. Quanto più ricca sarà l’esperienza dell’individuo tanto più abbondante sarà il materiale di cui la sua immaginazione potrà disporre. Ecco perché nel bambino l’immaginazione è più povera che nell’adulto: la cosa si spiega con la maggiore povertà della sua esperienza. […] L’immaginazione si dimostra una condizione assolutamente indispensabile in tutte le attività intellettuali dell’uomo».
Lev Semenovic Vygotskij, Immaginazione e creatività nell’età infantile, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 29-33.
«L’immaginazione e la creatività non sono doni divini, frutti improvvisi, folgorazioni, ma rappresentano un complesso processo di ristrutturazione dell’informazione di cui è dotato un individuo, in stretta dipendenza dai nuovi rapporti che egli istituisce con la realtà naturale e sociale. Se l’immaginazione parte dalla realtà, non ne è però una semplice copia, ma è appunto una immaginazione creatrice, la combinazione in forme nuove di elementi provenienti dall’esperienza, ma che ad essa non possono essere più ricondotti direttamente, perché ne danno una nuova configurazione che è propriamente mentale. Per cui i prodotti dell’immaginazione, scrive Vygotskij, “preso corpo, sono di nuovo rientrati nella realtà ormai come una nuova forza attiva, trasformatrice della realtà stessa”»
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Videor ergo sum Intellettuali e necessità della verità metafisica
Derealizzazione ed impotenza La reificazione e l’atomocrazia nel capitalismo assoluto si struttura con un diffuso scollamento tra realtà storica e vita del soggetto, la condizione schizoide è la normalità dello stato presente. Tali processi sono consustanziali alla sostituzione della verità con il paradigma dell’utile. Le filosofie scettiche fungono da sovrastruttura al dominio globale del mercato. In tale contesto i soggetti “addomesticati” al solo conteggio del PIL non possono che ritirarsi dalla storia e rinunciare alla comprensione dell’orizzonte in cui sono “gettati”. La verità non è che “un mito” del passato, pertanto si rinuncia a capire “il proprio tempo nel pensiero” e la verità della natura umana, senza di essi è improbabile la partecipazione alla prassi. Il cittadino diviene suddito globale, si rifugia nella realtà virtuale (tecnologie e realtà aumentata) limitandosi all’uso delle stesse e specialmente sostituisce la verità con il calcolo dell’utile. Gradualmente la realtà diviene estranea e straniera, si vive in una contingenza a cui ci si adatta, ma non si comprende. Si precipita in un irrazionalismo insidioso, si scambia il virtuale e l’ideologia annessa per realtà, e dunque, la scissione tra pensiero e realtà consolida il capitalismo assoluto, fino a rendere gli esseri umani “accidenti” che appaiono nella storia come elementi complementari del sistema. Costanzo Preve con l’ontologia dell’essere sociale ha l’obiettivo di fondare la comunità e la politica su un principio veritativo capace di veicolare il discernimento tra vero e falso. Per uscire dalla caverna della derealizzazione Costanzo Preve utilizza l’ontologia dell’essere sociale e la deduzione sociale delle categorie, con la prima fonda la verità della natura umana nel logos, nella pratica comunitaria del pensiero, nella sua capacità di astrarre la verità storica del tempo in cui è immerso, tale operazione comporta l’uso della deduzione trascendentale delle categorie con cui discernere il contingente dall’eterno che si manifesta nella storia. Il soggetto non rispecchia la realtà storica, ma la pensa con la mediazione del logos all’interno delle istituzioni, per cui per “natura” l’essere umano è attività pensante che si materializza nella storia. L’eterno è la consapevolezza che alcune conquiste della razionalità non sono contingenti, ma appartengono all’umanità. L’ontologia dell’essere sociale si oppone allo storicismo alleato dell’economicismo, poiché insegna che tutto è storia, e dunque, non vi è verità, ma l’essere umano è solo storia. La verità è sostituita dall’utile e dalla infinita manipolazione. L’essere umano è il niente che appare nella storia, a cui “enti esterni” danno la forma:
“Il punto di vista dell’ontologia dell’essere sociale è il solo che può realmente fronteggiare le due patologie complementari dello storicismo e del sociologismo, formazioni ideologiche entrambe impotenti di fronte alle smentite storiche. E questo perché l’ontologia dell’essere sociale non nega affatto la crucialità decisiva della storia, e non nega neppure il ruolo indispensabile dei soggetti sociali organizzati, ma inserisce questi due fattori “materiali” in una “forma” senza la quale questi due fattori non possono trovare alcun fondamento[1]”
L’essere sociale esige che sia il pensiero che l’essere (sociale e comunitario) siano esaminati da un punto di vista concreto nel rispetto della natura umana, la quale è pensante e comunitaria e si manifesta nella storia, non secondo un’illimitata plasticità, ma secondo forme che rispettino il carattere del logos, il quale calcola il limite e con esso dà forma all’umanità e determina il suo “esserci”:
“Il genere stesso, inoltre, non è pura vuota potenzialità riempibile all’infinito in modo relativistico (dynamis), ma è la realizzazione in atto di questa potenzialità (energheia) in quanto la realizzazione in atto di questa potenzialità, allude ad un contenuto, il contenuto antropologico dell’uomo come animale sociale, politico e comunitario (politikòn zoon), e dell’uomo come animale dotato di ragione, linguaggio e capacità di calcolo geometrico delle proporzioni applicato alle proporzioni sociali e comunitarie (zoon logon echon)[2]”.
Il successo delle filosofie anti-ontologiche lo si può comprendere con la deduzione sociale delle categorie, esse sono organiche all’economicismo crematistico che vuole rappresentare l’essere umano come privo di fondamento veritativo per poterlo spingere verso l’illimitato consumo e l’illimitata manipolazione rendendo l’umanità fragile e disorientata. La negazione della natura umana comporta un robinsonismo generalizzato che ha l’effetto di deviare la vita dei singoli in un mondo virtuale, al quale si chiede una vita sociale e un’impossibile identità. Dietro le forme tragicomiche di narcisismo mediatico vi è una implicita speranza di vivere “una vita umana”, continuamente disattesa, la qualcosa ha l’effetto di provocare un’aggressività diffusa ed incontrollata. L’impotenza generalizzata comporta la fuga dalla comunità e dal sociale abbandonato alle fatali e letali leggi dell’economia. L’individuo è resecato dalla storia, diviene ente astratto nell’impotenza generalizzata. La persona è rappresentata come in-dividuo, ovvero come essere astratto dal suo fondamento comunitario e veritativo. La solitudine dell’individuo astratto è l’inizio dei processi di derealizzazione, in cui l’utile si sviluppa in modo parossistico, invade ogni campo del sapere e della vita comunitaria fino a fagocitarli. Il logos attraverso i processi dialettici può ricucire la scissione tra realtà e logos con l’attività razionale del soggetto. L’Idealismo hegeliano ha insegnato che la realtà diviene razionale, solo se il soggetto “pensa il reale”, per pensare si intende la capacità di coglierla olisticamente per decodificarne la verità storica, in tal modo è possibile capire il progetto, in cui si è implicati per assumere una prospettiva responsabile e progettuale. Costanzo Preve è stato libero discepolo di Hegel, Marx ed Aristotele, ne ha colto i nuclei “eterni” per capire il presente ed elaborare una teoretica della verità che affonda il suo senso nella tradizione da ripensare plasticamente. La realtà è razionale, se il soggetto la trasforma in esperienza pensata e condivisa, ma affinché ciò possa essere è necessaria la chiarezza del fondamento veritativo dell’essere umano. Verità e storia non sono antitetiche, ma la verità della natura umana si rivela nella storia. Senza verità metafisica la menzogna non è più tale, è sola una declinazione del nichilismo, l’indifferenza sostituisce ogni senso etico, se la verità è messa al bando, di conseguenza non resta che il calcolo acquisitivo e l’utile empirico a governare i destini dei popoli. Il cittadino non ha ragione di agire contro le menzogne conosciute, perché non ha paradigmi etici per comprenderle. Tutto è indifferente ed omologato, la verità vale quanto una menzogna, non resta che ritirarsi dalla storia e compensare il senso di nullità quotidiana con l’onnipotenza dell’apparire che nasconde l’impotenza di sistema. L’Umanesimo comunitario in Preve ha lo scopo di trascendere il dualismo tra verità e storia. La derealizzazione aggira il travaglio del negativo, è la grande vittoria del modo di produzione capitalistico sull’umanità. Il capitalismo assoluto, in tal maniera, non si specchia nella sua verità, produce menzognej per potersi espandere senza limiti. L’inclusione nel mercato si realizza per mezzo della derealizzazione: i soggetti sono “educati” alla sola registrazione degli eventi storici. Lo sguardo registra l’accadimento, guarda ed osserva l’evento storico come una realtà su cui non ha potere alcuno. Il pregiudizio metafisico è uno dei mezzi con cui le Accademie e il circo mediatico favoriscono i processi di derealizzazione:
“Il reale è dunque razionale solo se la sua razionalità può svilupparsi attraverso l’esperienza storica. […] Hegel non è un sostenitore del giustificazionismo storico, ed ancora una volta non lo è perché difende la realtà razionale ed ontologica di un orizzonte trascendentale di tipo logico[3]”.
La derealizzazione favorisce l’irrazionale imperio della ragione strumentale, la quale è prassismo senza fondamento, è attivismo acquisitivo, nel quale il soggetto scambia il pragmatismo utilitarista come attività e partecipazione. In realtà il soggetto è passivizzato ed atomizzato, in quanto subisce le decisioni del mercato e della “politica” senza poter orientare il senso della propria esistenza. Vive in un mondo impersonale che accetta fatalmente, poiché “così è” e non può che adattarsi. Le filosofie scettiche e il pensiero debole promuovono con la “morte di dio”, ovvero della verità, l’obiectum, anziché il Gegenstand. Il soggetto e le comunità hanno dinanzi ad essi il mercato con le sue logiche e lo percepiscono come intrascendibile, pertanto lo si accetta come un dato naturale incontestabile ed eterno. La realtà storica non è posta dal soggetto comunitario, per cui l’io comunitario non può che attraversare la storia come una comparsa, ciò comunica a tutti i membri della comunità un senso di inutilità, il quale disorienta ed annichilisce. La cultura è l’anticorpo più vigoroso contro le forme tossiche di derealizzazione, la cultura come paideia, formazione globale, consente di sviluppare l’identità della persona con le sue potenzialità, e di affinare il senso critico, ovvero di pensare “il proprio tempo” per poterlo trasformare. La storia della cultura ci consente di individuare il paradigma per distinguere la cultura dall’ideologia. La prima è cultura dell’universale, i suoi fondamenti sono universali, poiché la formazione e la lettura olistica dei fenomeni culturali e storici, già forma ad una disposizione all’universale, in cui il pensiero ritorna su se stesso per individuare parzialità e rigidità e confrontarsi con esse. L’ideologia è la rappresentazione del reale falsata dall’illusione dell’universale, ovvero si scambia la parzialità per universale, sostenuta dall’assenza della capacità e della motivazione a tornare sulla rappresentazione per liberarla dalle trappole della falsa coscienza. L’ideologia vive di ipostasi, essa necrotizza il tempo storico, divide senza mai unire, mentre la cultura distingue il temporale dall’universale. La cultura è orientamento verso la verità, è trascendere l’immediato per astrarre dalla storicità l’universale in cui ciascuno può ritrovarsi, sentirsi nella propria casa, poiché l’universale è posto in modo corale.:
“Il termine di cultura, nel significato che intendo dargli, non significa solo “alta cultura”, la cultura scritta e visiva dei grandi scrittori e dei grandi pittori, e neppure cultura in senso antropologico come insieme dell’attività lavorativa, linguistica e simbolica dell’uomo, ma significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento (e di autoaccrescimento) della coscienza umana che dura tutta la vita. La cultura è dunque un termine che connota sia l’individuo, sia i gruppi ristretti, sia l’intera società[4]”.
La formazione esclusivamente “specialistica” è già pratica di derealizzazione, in quanto la complessità del reale storico e dei saperi è atomizzato in parti non riconducibili all’unità. La separazione, isola e rinchiude in nuove torri d’avorio, il mondo storico si liquefa nell’iperspecializzazione, al suo posto vi è solo il disegno egemonico-specialistico che si esplica su rappresentazioni virtuali del reale che non sono più tali, è il robinsonismo dei saperi. La razionalità strumentale si sostituisce alla razionalità oggettiva. Si è solo gli esecutori del mercato globale, che si è autofondato escludendo ogni riferimento metafisico ed umano. Il mercato è la sostanza aurea a cui ci si inginocchia, poiché nella percezione generale non dipende dalle generazioni che si susseguono nella storia, non è stato posto dal soggetto comunitario, ma si è autofondato ed autofecondato. I sudditi globali sono i tristi spettatori di tale processo, così Preve argomenta a Luigi Tedesco, in un’intervista, sul tema dell’inutilità e dei processi di derealizzazione:
“(Preve) Sono veramente felice che tu abbia scelto come concetto principale di questa nostra conversazione (destinata probabilmente a chiudere il secondo volume della raccolta delle nostre conversazioni, che risalgono alla fine del 2003) il tema della “inutilità”, per meglio dire il tema della sensazione del crescente aumento dell’ “inutilità” in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale. Sulla base degli stimoli delle tue considerazioni svolgerò alcune autonome riflessioni. In primo luogo, utilizzando la concezione hegeliana del rovesciamento dialettico di una costellazione teorico-pratica nel suo contrario complementare, possiamo ipotizzare che l’inutilità sia il coronamento temporale dello sviluppo dell’utilitarismo individualistico, messo a punto per la prima volta da Smith e Hume nella seconda meta del Settecento scozzese-inglese. Ma come è possibile che l’inutilità sia il coronamento temporale dialettico del suo contrario, e cioè dell’utilitarismo? Nulla di più semplice, se si è abituati all’applicazione del pensiero dialettico. Il cuore dell’utilitarismo è l’autofondazione del meccanismo riproduttivo globale del mercato capitalistico su se stesso, togliendo di mezzo le tre fondazioni tradizionali della filosofia politica, l’esistenza di Dio (non importa se cattolica, protestante o ortodossa variamente secolarizzata e già da tempo privata di ogni promessa messianica), il contratto sociale (non importa se nella forma di “destra” di Hobbes, di “centro” di Locke o di “sinistra” di Rousseau (mi scuso con il lettore intelligente per avere usato queste improprie categorie, da lasciare a Bersani, Casini ed Alfano), ed infine il diritto naturale, concetto che rimanda pur sempre alla natura umana comunitaria associata come principio di legittimazione filosofica di ultima istanza. Con l’utilitarismo di Hume e di Smith, curiosa ed a suo modo geniale ed originale mescolanza di empirismo e di scetticismo, il mercato capitalistico si autofonda sulla propensione allo scambio ed alla mercificazione universale. A distanza di più di due secoli, siamo in grado ormai di fare un vero bilancio storico-filosofico serio, che presuppone probabilmente il raggio temporale minimo di duecento anni, possiamo dire che il principio dell’utilità generale si è rovesciato nella sensazione diffusa ed inquietante della inutilità generale. Siamo arrivati ad avere popoli inutili, generazioni inutili, e più in generale alla sensazione che non vale neppure più la pena argomentare, svelare, dimostrare, eccetera, perchè di fronte allo spread ed al “giudizio dei mercati” ogni discorso sensato appare inutile[5]”.
La derealizzazione, la fuga dalla storia, è favorita da una temporalità senza progettualità, il soggetto “intuisce” nel quotidiano di essere soltanto funzione di un meccanismo, che non ha scelto, e specialmente, può essere sostituito, in ogni tempo: l’utile si trasforma in una spada di Damocle che minaccia potenti e deboli, poiché rende ogni essere umano sostituibile in una perversa uguaglianza che entifica l’umanità.
Videor ergo sum Il linguaggio utilitarista, apparentemente concreto, in realtà è la dose di “quotidiano avvelenamento delle speranze”. L’utilitarismo insegna che il mercato può sostituire con enorme facilità qualsiasi soggetto. L’entificazione è assoluta, pertanto, ogni soggetto senza identità e verità è solo parte dell’automatismo dell’utile. Il linguaggio contribuisce attivamente alla derealizzazione, il codice orwelliano con cui il circo mediatico rappresenta la realtà è anch’esso uno dei mezzi mediante il quale la derealizzazione diviene “normalità alienante”. Le parole non corrispondono a nessun reale storico, sono solo un trucco retorico degli intellettuali asserviti (giornalisti, professori universitari) per giustificare dinanzi al pubblico lo spettacolo dell’osceno[6]. Gli intellettuali non sono dei creatori, ma il mezzo di legittimazione e diffusione capillare dei processi di derealizzazione. Le loro competenze linguistiche sono al servizio del “padrone”. Il linguaggio orwelliano è flatus vocis, pertanto le parole non sono che mezzi per il dominio, con cui indurre alla condizione di “plebe” che dissipa il proprio tempo in attività organizzate da un potere invisibile. Tutto è reso pubblico, ogni gesto, ogni parola, ma il potere resta celato ed irraggiungibile. Se la verità è solo una chimera metafisica non resta che adattarsi, in quanto la resistenza presuppone un’alternativa fondata sulla verità e sulla razionalità oggettiva. La verità nel circo mediatico è associata alla violenza del totalitarismo, per cui si “scoraggia” ogni riflessione su di essa, in quanto foriera di violenza fascista. Le violenze del capitalismo assoluto sono rimosse mediante il velo di Maya del linguaggio mediatico[7]. L’ossimoro (bombardamento etico, missioni di pace) e la reductio ad Hitlerum (Slobodan Milošević, Saddam Hussein, Mu’ammar Gheddafi) sono gli artifici retorici con cui strappare il consenso. Le controriforme che erodono i diritti sociali sono denominate “riforme”, e sono evocate in lingua inglese (jobs act). Il consenso è ottenuto con parole che seducono, ma al cui interno vi sono provvedimenti contro i popoli. L’offuscamento semantico con la neolingua ha lo scopo di mettere in atto un delicato e progressivo lavaggio del cervello con cui trasformare il cittadino in spettatore-consumatore. La neolingua santifica l’apparire, anziché l’essere. La cultura dell’apparire, il bisogno generalizzato indotto a ritagliarsi un cono di luce per sembrare, a qualsiasi costo, connota la società attuale come pornografica. Se il soggetto è perennemente alla ricerca dei riflettori, è sotto la lente di ingrandimento dei meccanismi della società dello spettacolo, non si appartiene, non ha il tempo qualitativo per pensarsi e riflettere sul mondo che, mentre lo espone in vetrina, lo annichilisce: gli sottrae il tempo del pensiero e specialmente la derealizzazione è orchestrata dai poteri pubblici e privati che stabiliscono le leggi dell’apparire. Si coltiva un’immagine pubblica decisa da altri. Nulla è sotto il controllo del soggetto che si trasforma in oggetto del sistema, e si rifugia in un’esistenza virtuale destinata ad essere perennemente sotto scacco. Il soggetto è perennemente pro-vocato, ovvero è “chiamato fuori”, deve essere sotto l’abbaglio della stimolazione, in modo che il pensiero rallenti la sua attività e non pensi la sua condizione storica, ma la subisce, in tal modo l’io è derealizzato, è disabitato dall’io pensante per essere ad immagine e somiglianza del mercato. L’io inseguito, catturato ed umiliato, non agisce, ma reagisce rifugiandosi in un mondo delirante che scambia per realtà. L’io si derealizza, in quanto è resecato da se stesso, dalle sue potenzialità creative e dalla comunità. L’in-dividuo[8] è l’effetto del taglio, dei processi di resecazione-alienazione, pertanto è scisso dalla storia, non resta che il competitore vuoto di se stesso, ma abitato da una realtà violenta e virtuale. Non a caso l’in-dividuo coincide con l’affermarsi del privato che persegue i soli interessi personali, e ciò è un’ulteriore resecazione dalla vita comunitaria. Al termine di tali dinamiche di resecazione non resta che un atomo che ha perso il contatto con la realtà storica, fino a non riconoscerla e a disinteressarsi di essa, il soggetto si ripiega sui soli interessi privati decretando con la solitudine la sua sconfitta. L’io si indebolisce, l’identità diviene liquida fino a disperdersi nelle maschere della società del videor ergo sum:
“Viviamo in un’epoca il cui fondamento non è più il cogito ergo sum di cartesiana memoria criticato da Husserl, ma è il videor, ergo sum. Il termine latino videor è particolarmente adatto a quanto intendiamo qui dire, perché significa sia “sono visto” al passivo, sia “sembro” come verbo intransitivo. Più esattamente “sono visto” (al video) e “sembro” (attraverso il video). Sembra che la visibilità sia la condizione minima di esistenza. Se non si è visti, non si esiste. Ma questa è un’illusione[9]”.
Il linguaggio, in questo contesto, è depotenziato delle sue possibilità creative e critiche, è stereotipato e ripetitivo, in quanto la derealizzazione desertifica il pensiero, e quindi il linguaggio è solo il riflesso del circo mediatico. Senza identità veritativa e comunitaria il linguaggio diviene “chiacchiera” senza fondamento, e qualora si debba far accettare dal pubblico “l’inaudito”, si usa un linguaggio addomesticato ed evirato della sua intensità concettuale. L’eufemismo è orchestrato dai media, a seconda delle circostanze si usano parole che possano “tranquillizzare” lo spettatore. É l’artificio linguistico con cui il sistema protegge se stesso, in modo che si possa far accettare anche l’impossibile allo spettatore-consumatore. il politicamente corretto è l’architrave di un sistema che produce menzogna, edulcora il logos, in modo da trasformare i popoli in armenti belanti disponibili alla democrazia procedurale. Senza logos, verità e linguaggio non vi può che essere la derealizzazione organizzata sul mito del piacere assoluto, della regressione e fuga da ogni condizione emotiva adulta. Coloro che denunciano lo stato presente sono rappresentati come nemici della gioia di vivere e dei diritti individuali. In questo clima di violenza verbale e fattuale si vuole eliminare la speranza, poiché quest’ultima presuppone un “soggetto forte” che pone il reale storico, per cui “sperare” è dimensione della trasformazione sociale indissolubilmente legata all’agire storico del soggetto che pone la storia e ne scorge tra le pieghe le potenzialità di cambiamento. La speranza è la dimensione dell’esodo dal presente. L’inutilità strutturata si palesa con forme compensatorie dell’io, dietro cui si nasconde la perdita della speranza. L’ipertrofia dell’io narcisistico palesa la derealizzazione indotta. È vietato vietare qualsiasi comportamento o scelta tranne lottare per una società diversa:
“Non ci sono più identità, ma fantocci televisivi intercambiabili che si pronunciano nei talk-show per individui del tutto passivizzati. In questa società in cui è vietato vietare qualsiasi cosa, e la sola cosa vietata è il battersi per una società diversa, la vecchia religione invasiva dei costumi familiari e sessuali dev’essere smantellata e delegittimata […][10]”.
Il soggetto può perdersi tra realtà virtuale e pulsionale, gli è concesso ogni appetito, l’importante è che non metta in discussione il presente e che non si occupi del suo futuro. Il tempo è puntiforme, non vi è temporalità progettuale e condivisa, cade così, la motivazione a capire la realtà storica, perché è religiosamente e dogmaticamente difesa dal politicamente corretto. Non resta che ritagliarsi spazi illusori di azione, in cui dimenticare la quotidiana passività con il giogo che diventa sempre più greve fino a schiacciare i sudditi. Il calcio, la rete, la pornografia sono forme di derealizzazione, il soggetto si ritira in fantasie, in sogni puerili di dominio e piacere assoluto, per non guardare con gli occhi della mente la sua riduzione a semplice “ente” tra gli “enti”. La corporeità vissuta nella distanza con la rete, deforma la percezione del proprio corpo vissuto, l’illimitato si consolida nelle aspettative, pertanto il soggetto non regge la relazione duale e comunitaria: l’astratto sostituisce il concreto. L’illusione di essere soggetto attivo è traslata nel nuovo “oppio dei popoli: il tifo, la pornografia, l’ossessione del viaggio e dello spostamento veicolare. I media deviano l’attenzione dei cittadini dai reali problemi sociali e storici con la chiacchiera, che nega il logos ed il linguaggio con forme stereotipate ed anonime di comunicazione. La derealizzazione diviene un dispositivo di controllo sociale, dinanzi al quale il cittadino-suddito ed il popolo-plebe sono senza difese:
“24. Inizierò con alcune osservazioni di superficie su alcuni fenomeni molto noti ma anche poco compresi come il tifo sportivo, la pornografia, la circolazione autoveicolare ipertrofica ed asfissiante, ed infine la televisione e la sua centralità comunicativa, o meglio escludente. Si tratta di quattro fenomeni ben noti, ma come dice giustamente Hegel, il noto in quanto noto non è ancora conosciuto. Per poter portare la comprensione di questi quattro fenomeni sociali al livello della conoscenza teorica occorre abbandonare ogni visione moralistica, snobistica ed elitaria di questi fenomeni, per comprendere che si tratta di quattro fenomeni di individualizzazione artificiale, e pertanto di socializzazione adattativa, del suddito-consumatore di questa nuova terza età del capitalismo. Il tifo sportivo è spesso visto con disprezzo dalle cosiddette “persone colte”. Vi sono anche persone di cultura, come lo scrittore inglese Tim Parks, tifoso degli “ultra” del Verona, che invece ne rivalutano gli aspetti ludici e comunitari. Io sono totalmente privo di snobismo, la gente comune non mi fa per niente schifo, e tendo dunque a prendere sul serio Tim Parks. Ma Tim Parks, ed i molti come lui, parlano anche di calcio, non solo di calcio. C’è una sottile differenza, che non dovrebbe sfuggire neppure a Parks. Quando lo spettacolo sportivo satura ogni comunicazione mediatica, le squadre vengono quotate in borsa, l’ossessiva chiacchiera calcistica ed automobilistica sostituisce nei bar il precedente “parlare di donne” (forse a causa di una diminuzione del desiderio dovuto all’inquinamento atmosferico), ecc., non siamo più di fronte ad un fenomeno sportivo, ma ad una sostituzione della virtualità alla precedente sportività stessa. È bene ribadire che non intendo affatto sostenere che i nuovi tifosi vengono “distratti” dai loro veri interessi sociali o dalla organizzazione della prossima rivoluzione proletaria. Questo modo inattendibile di vedere le cose era tipico dell’ideologia di sinistra, per cui già nell’antica Roma i giochi dei gladiatori e più in generale i circenses avevano il compito di distrarre le masse dalla lotta contro il modo di produzione schiavistico. In realtà, come ha a suo tempo chiarito lo storico francese Paul Veyne, i circenses non avevano lo scopo di “distrarre” le masse da una improbabile rivoluzione, che in forma cristiana avvenne poi comunque, ma di affermare simbolicamente il potere senatorio o imperiale, e poi esclusivamente imperiale. Del resto questo avviene anche oggi, da Agnelli a Berlusconi. Il discorso sportivo socializza in modo artificiale, contrapponendo agonisticamente tifosi socialmente del tutto omogenei, ed in questo modo individualizza in modo adattativo queste stesse persone che vengono teatralmente fatte scannare per Totti e Ronaldo. La pornografia è anch’essa un fenomeno per molti aspetti nuovo ed inedito, e sbaglia chi parla soltanto del mestiere più antico del mondo, o fa notare che l’eccitazione erotica per gli organi sessuali fa parte del corredo biologico della riproduzione umana..[11]”.
La derealizzazione ha lo scopo di strutturare un senso di “superfluità” diffuso. Se il soggetto “sente” che la sua esistenza è inutile, ciò gli comunica un senso profondo di superfluità: non gli resta che rifugiarsi nella realtà virtuale, la quale prende prepotentemente il posto della realtà storica. Il consenso è estorto mediante una rappresentazione parziale e falsata degli accadimenti storici, non a caso “i bombardamenti etici” sono preceduti da un’esposizione morbosa e dettagliata dei crimini del dittatore di turno per strappare il consenso al bombardamento. Il concreto è sostituito dall’immagine astratta, la razionalità critica con l’emozione che sarà presto archiviata. La normalità diviene patologia non riconosciuta, al punto che gli apparati istituzionali curano i sintomi del male per evitare di incidere sul sistema.
Intellettuali e necessità della verità metafisica La verità del capitalismo assoluto va resa “nota”, va tradotta in un linguaggio che rompe la continuità tra struttura e sovrastruttura. Gli intellettuali possono e devono defatalizzare la condizione presente riportando la parola al centro, parola di senso, parola progettante e politica. Il capitalismo assoluto può essere avviato al suo trascendimento con la teoria e la prassi, le quali necessitano di categorie di significato collettive senza la quali la passività dei popoli è il volto concreto della feticizzazione della storia. L’intellettuale è ad un bivio: può contribuire, affinché il sistema possa perpetuare se stesso o devertere dal suo esiziale cammino. L’intellettuale deve riportare la prassi mediante la teoretica del rovesciamento dell’in sé col per sé nelle condizioni storiche date, solo in tal modo il misticismo economico che ci minaccia e reifica può deviare dal cammino nichilistico, dal silenzio della parola e della politica mediando l’immediato con la ragione dialettica. Gli intellettuali devono vivere la doppia temporalità della critica al capitalismo nel presente con lo sguardo rivolto verso la passione per la verità che riconcilia le temporalità storiche in un nuovo ordine. Il ruolo degli intellettuali ed il loro destino sono indissolubilmente legati alla democrazia, nella fase attuale del capitalismo assoluto la palese decadenza degli intellettuali, ormai organici alla società dello spettacolo, coincide con la fase regressiva ed autoritaria della “democrazia della finanza”. La democrazia nel suo significato ideale è attività decisionale e consapevole dei popoli, è pensiero condiviso, attività creatrice e dialettica mediante la quale i popoli si riconoscono ed autoriconoscono nelle reciproche differenze rispettose dei comuni principi: comunità, giustizia sociale, consapevole limitazione dei processi crematistici, riconoscimento delle differenze all’interno di una cornice assiologica comune. La democrazia è misura e senso del limite senza i quali non è che la parodia di se stessa, dove vige la dismisura, la cattiva distribuzione delle ricchezze e dei poteri non vi è che la sudditanza della politica all’economia. È evidente che la democrazia dei nostri giorni agonizza sotto i colpi del liberismo, delle conseguenti mercificazioni e della derealizzazione. La fase imperiale del capitalismo nella sua furiosa volontà di potenza, conquista e vendita omologa le parole, le svuota del loro significato per renderle frecce uncinate per la perenne televendita. La decadenza delle parole, il loro essere organiche alla lingua del capitale è forse il risultato più alto che il capitalismo assoluto ha potuto ottenere. Il pensiero è costituito di parole, la loro funzionalizzazione alla sola vendita ha reso possibile l’attacco alle coscienze; la penetrazione violenta nella mente dei popoli è un’operazione imperiale nuova ed inaudita: i popoli senza lingua e linguaggi indotti a parlare la lingua unica del mercato, possibilmente l’inglese commerciale, vivono la profondità della loro crisi politica nella forma dell’attività-passiva, ovvero apparentemente si fa appello ai popoli ed ai singoli, li si spinge verso un attivismo perpetuo nel campo della produzione, dei desideri e del consumo, ma nel contempo si organizza la loro passività. L’attività perenne senza spazi temporali e fisici per poter dialettizzare il tempo immediato dell’economicismo favorisce la passività, si è presi all’interno di una spirale che invita alla ripetizione del medesimo senza sosta, senza possibilità di far emergere nell’incontro con sé e la comunità la parola che ridisegna l’ordito dei giorni. Il capitale ha reso le parole vuoti ronzii con l’effetto che ogni attività intellettuale legata alla parola è stata anestetizzata. Se il linguaggio è stato divorato dalla struttura economica, le nuove forme espressive e spettacolarizzate divenendo la normalità dello stato presente hanno reso la scissione tra intellettuale e popolo profondissima, la faglia sembra incolmabile, poiché si uccide la parola-pensiero sul nascere con l’effetto di un’assoluta estraneità tra intellettuali e popoli. La decadenza dell’intellettuale è espressione di questi processi in atto, non a caso è concesso all’intellettuale di presenziare nei dibattiti mediatici solo se le sue parole o anche le sue critiche fatalmente confermano il sistema. Vi sono intellettuali che incarnano la cultura dell’eccesso, del narcisismo logorroico fine a se stesso, ed intellettuali che in quanto “pessimisti tragici” descrivono l’apocalisse presente ed insegnano agli ignari ascoltatori che ogni speranza non è che illusione, mentre la prassi è solo un residuo di epoche storiche tramontate. Non resta che adeguarsi al mondo, inseguirlo per imitarlo ed avanzare celati dietro maschere di vuote parole “larvatus prodeo”. Essere spettatori è una condizione, ma non un destino, la condizione attuale non è senza uscita, solo con l’uscita dal ruolo di spettatore e del consumo è possibile ridare senso e consistenza qualitativa alle istituzioni che come gusci vuoti sopravvivono alla società dello spettacolo. Resistere significa donarsi, trasgredire il comandamento dell’utile, e testimoniare che la violenza (Gewalt) è un accidente storico e non la verità dell’essere umano. La quarta guerra mondiale in atto, è una nuova forma di totalitarismo, una nuova forma di violenza che fa convivere “bombardieri e menzogna palese”. Si tratta di svelare non solo la relazione tra i due elementi del binomio, ma specialmente di dimostrare che una simile realtà è “innaturale”, perché non corrisponde alla verità umana. Si instaura una società ideologica, che nega l’ideologia imperante, dichiarando la fine di tutte le ideologie per entrare nel regno irenico della pace a suon di cannonate e menzogne. Costanzo Preve lontano dal circo mediatico e dagli “eunuchi” del potere, ha riportato al centro la verità metafisica. Solo ripartendo dal sentiero interrotto della verità sarà possibile, non solo svelare la menzogna palese nella sua realtà, ma specialmente solo la fede argomentata e dialettica nella verità può riportare la comunità con i suoi individui al centro della storia, perché capaci di pensare la verità e di agire in nome della verità:
“La menzogna palese rappresenta a mio avviso un grado superiore, darwinianamente parlando, della precedente menzogna occulta. La menzogna occulta dava infatti luogo a strategie di smascheramento o di “demistificazione” (come si diceva negli anni Sessanta) e queste strategie nutrivano gruppi appositi di intellettuali che si qualificavano come smascheratori e demistificatori, secondo il modello di quelli che il filosofo francese Ricoeur aveva chiamati “maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche, Freud). La menzogna palese svuota completamente questa funzione critica e si pone come strumento bellico diretto. La menzogna palese, lungi dall’essere “sciocca”, riflette, invece la dura realtà dei rapporti di forza[12]”.
La sola critica non è sufficiente, è necessaria la fondazione metafisica della verità. I rapporti di forza sono senza equilibrio, per cui i dominatori possono rappresentare come verità ciò che i deboli sanno essere menzogna. L’insostenibile causa la fuga nel virtuale come nella malattia mentale. La società attraversata da rapporti di forza insostenibili si disintegra nella derealizzazione: i sudditi nella loro impotenza “fingono di credere alle menzogne”, si ritraggono dall’ostilità nella storia stordendosi in mondi immaginari, in speranze illusorie, in forme di rimozione collettiva delle violenze subite. La nostra è un’epoca che necessita di testimonianza attiva per smentire gli imperativi del turbocapitalismo. I principi di ogni civiltà sono negati in nome della finanza: è l’anno zero della civiltà, è l’epoca della grande dispersione, dopo il diluvio della società dello spettacolo. Dinanzi al diluvio della storia si ha il dovere di attraversare il negativo per ritrovare il fondamento onto-assiologico senza il quale non vi è che il male di vivere. Costanzo Preve ha testimoniato la sua lotta contro i processi di derealizzazione con la sua testimonianza e la sua vita. Riappropriarsi del reale storico è possibile con la fondazione metafisica della verità, poiché essa motiva alla lotta ed induce a pensare: le rivoluzioni e le riforme sono possibili solo nella verità, l’alternativa è una lunga agonia a cui non ci si può opporre. Costanzo Preve ha avuto il coraggio di deviare dal nichilismo per la fondazione metafisica della verità senza la quale non vi è futuro, ma solo il lento consumarsi dei giorni. Per poter riconnettersi con la realtà storica e concettualizzarla è necessario “dire addio” alle appartenenze che sono forme sofisticate di derealizzazione. L’appartenere ad un gruppo, ad un partito, ad un movimento rischia di trasformarsi in difesa ideologica dell’appartenenza e dunque, in allontanamento dalla verità e dall’impegno etico.. Costanzo Preve non si considerava un intellettuale, poiché ne constatava la normale pratica di difesa delle lobby di appartenenza, pertanto è stato fedele al suo destino, è stato filosofo che ha pensato il reale storico senza asservimento derealizzante:
“Con tutti i miei difetti soggettivi, psicologici e caratteriali, e con tutte le mie insufficienze oggettive, scientifiche e filosofiche, rivendico però a mio onore l’avere capito fino in fondo che l’autoidentificazione illusoria e fantasmatica con il gruppo sociale degli “intellettuali”, impegnati e/o organici che siano, non poteva che svilupparsi dialetticamente verso la rovina e l’autodissoluzione, che sono comunque sotto i nostri occhi (Veltroni, Sarkozy, eccetera). Gli intellettuali sono una forma moderna e postmoderna di clero, sia pure un clero non tenuto al celibato ma anzi invitato alla libera scopata postfamiliare. Eretico o ortodosso, giornalistico o universitario, celibe o scopatore, un clero rimane clero. Non dico che un clero non sia talvolta necessario. A volte lo è. Ma oggi il problema non è quello di aggregarsi per produrre collettivamente (inesistenti) profili ideologici articolati e sistematizzati per uso politico, ma di differenziarsi dai greggi esistenti per tentare di avanzare ipotesi teoriche radicalmente nuove. Questo è impossibile se si intende compatibilizzare l’avanzamento di questa ipotesi con l’appartenenza a gruppi intellettuali oggi esistenti, il cui conservatorismo è tale da produrre automaticamente l’esclusione del reo. Termino allora qui questa modesta autocertificazione. Il signor Costanzo Preve è stato a lungo un “intellettuale”, sia pure di seconda fila e non di prima. Ma oggi non lo è più, e chiede di essere giudicato non più sulla base di illusorie appartenenze di gruppo, ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche. E di queste cominceremo finalmente a parlare[13]”.
Per trascendere i processi di derealizzazione necessitiamo di strumenti cognitivi per capire il presente, ma specialmente, necessitiamo non di una Filosofia da “Accademia”, in cui si dibatte sulla “definizione” della stessa, ma della testimonianza di una vita filosofica che mostra e dimostra la possibilità di vivere pienamente la propria umanità nella verità. La testimonianza di Costanzo Preve dev’essere associata a Massimo Bontempelli con cui ha collaborato e che nel testo “Filosofia e Realtà” ha attraversato “il negativo” del sentiero della notte (derealizzazione), mediante la logica hegeliana:
“D’altra parte, per concepire un’uscita dal sentiero della notte, ovvero per individuare un varco nell’attuale orizzonte storico nichilistico, è assolutamente indispensabile identificare la storia che ha materializzato quel sentiero, che ha chiuso il nostro orizzonte. Senza andare con il pensiero a questa radice, infatti, non è possibile capire quali settori ed ambiti dell’attuale esperienza umana ne siano i germogli, e siano intrinsecamente ontooccultanti. Ma se non si capiscono le zone ormai ontooccultanti dell’esperienza, non si può neanche capire attraverso quali esperienze sia oggi possibile manifestare la realtà, e costruire quindi un cammino di uscita dalla derealizzazione umana del sentiero della notte[14]”.
La derealizzazione conduce, secondo l’efficace espressione di Massimo Bontempelli “all’intercosalità”. Se il logos non comprende il proprio tempo, se i soggetti sono reificati non resta che un mondo senza umanità, in cui l’unico legame è lo scambio di “merci”, fino al punto di non riconoscersi ed autoriconoscersi come persone, ma come “merci” da esporre nel mercato delle transazioni. L’intercosalità è il punto apicale dell’alienazione, in cui non si riconosce più la propria umanità.
Ricostruzione genetica, fondazione veritativa, prassi sociale e testimonianza vissuta sono il quadrifarmaco contro il sentiero della notte. L’essere umano è un essere pensante, per cui tutti siamo chiamati a dare nel rispetto delle differenze il nostro contributo testimoniale contro il sonno della razionalità oggettiva e l’incubo della sola razionalità strumentale.
Salvatore Bravo
[1] Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia, Petite Plaisance, Pistoia, 2013, 18.
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«L’uomo tedesco ha per il complesso dell’esistenza di un essere reale la parola Gestalt. In questa espressione egli astrae dall’elemento mobile, e assume che qualcosa di co-appartenente sia solidificato, conchiuso e fissato nel suo carattere. Ma se noi consideriamo tutte le Gestalten, particolarmente quelle organiche, troviamo che non vi occorre mai qualcosa di stabile, qualcosa di quiescente, di compiuto, ma che piuttosto tutto oscilla in un continuo movimento. Per questo la nostra lingua usa la parola Bildung con sufficiente proprietà tanto per indicare ciò che è stato prodotto quanto ciò che è in fase di produzione. Se vogliamo introdurre una morfologia non dobbiamo parlare di Gestalt, ma se ci serviamo di questa parola dobbiamo quantomeno connetterle solo l’idea, il concetto o qualcosa che nell’esperienza venga tenuto fermo soltanto per la durata dell’istante. Il già formato viene subito ritrasformato; e noi, se vogliamo acquisire una percezione vivente della natura, dobbiamo mantenerci mobili e plastici seguendo l’esempio che essa ci dà. […] Ogni vivente non è un singolo, ma una pluralità; anche presentandosi come individuo, rimane tuttavia un insieme di esseri viventi e autonomi, che, eguali secondo l’idea e per natura, appaiono empiricamente identici o simili, diversi o dissimili».
J.W. Goethe, Zur Morphologie. Ersten Bandes erstes Heft 1817, in W, XIX, p. 16; tr. it. a cura di S. Zecchi, in La metamorfosi delle piante, Guanda, Parma 1983, p. 43.
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«Spinoza n’oppose pas l’imaginaire à la réalité, mais bien plutôt la réalité de l’imaginaire à celle des événements physiques externes [Spinoza non oppone l’immaginario alla realtà, ma piuttosto la realtà dell’immaginario a quella degli eventi fisici esterni. ]» (p. 15).
«L’homme ne cesse jamais d’appartenir à l’imaginaire, alors même qu’avec constance il poursuit le dessein de decouvrir (par la connaissance) la structure de l’univers ou sa propre verité singulière. […] Le mouvement de la connaissance prend appui sur celui de l’imaginaire. Il s’en separe également. Mais ce sont deux modes d’être et de penser, et non deux mondes. L’homme ne cesse pas plus d’imaginer qu’il ne cesse d’être une partie de la nature. Mais la connaître n’est pas en devenir l’auteur. On ne cesse pas d’imaginer parce qu’on a commence de connaître; on ne devient pas ce que l’on connaît, et pour être capable de se lire sous un angle d’éternité, notre existence particuliere n’en devient pas pour autant éternelle» (p. 68).
Michèle Bertrand, Spinoza et l’imaginaire, PUF, Paris 1983.
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L’importanza di decifrare i meccanismi della comunicazione.
La macro-retorica intorno a noi
Mi pare ben condivisibile l’idea di fondo secondo la quale ogni nostro atto, ogni nostra opera e prima ancora ogni nostra elaborazione teorica dipendono in qualche misura da una scelta – che facciamo o che talvolta subiamo – per cui siamo esseri responsabili, in parte o in toto. Questo però significa che è necessaria e anzi determinante una seria e approfondita analisi delle procedure che ci portano a pensare, agire, comunicare. Nella intricata selva di azioni volontarie, di non detti, di congetture-riflessioni implicite e di quelli che sono e forse sempre rimarranno i segreti dell’agire comunicativo, la migliore bussola non può che essere ancora una volta il pensiero critico al quale Socrate, Kant e altri illuminati maestri ci hanno educato. Muovendo dall’esercizio di disvelamento di quelli che chiama “incantesimi di ordine comunicazionale”, Livio Rossetti con il suo Strategie macro-retoriche (Petite Plaisance, Pistoia 2021) fresco di stampa propone, come suggerisce il sottotitolo del saggio, la “formattazione” dell’evento comunicazionale e pone l’accento su quella fondamentale distanza critica, appunto, che permette di identificare a dovere e “leggere” tra le righe l’impianto macro-retorico all’interno del quale volenti o nolenti ci muoviamo. Come chiarisce nella sua Prefazione Mauro Serra, questo libro innanzitutto riconosce la natura sistemica dell’attività retorica, poi se da una parte presenta la macro-retorica come “indispensabile complemento al più tradizionale repertorio retorico”, dall’altra evidenzia la “strutturale complessità dell’attività comunicativa” che rischiamo di perdere a causa della notevole frammentazione legata alle svariate discipline che se ne sono via via occupate e che se ne occupano tutt’oggi. Già docente di Storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Perugia e studioso di un pensiero occidentale che egli si ostina a non far partire dal solo Talete per recuperarne appieno il fertile terreno sottostante, Rossetti si era concentrato oltre una ventina d’anni fa sulle “insidie della comunicazione seria” quale può essere, ad esempio, quella del libro di filosofia. Egli ci porta qui a interrogarci su quelle strategie che di fatto ci raccontano, narrano di noi poiché “conoscono bene” il nostro modo di relazionarci con l’altro. Strada facendo, allora, emergono tutte le penombre della fenomenologia del comunicare: oltre che i cosiddetti sovraccarichi comunicazionali, i sempre riemergenti pregiudizi e le diverse mitizzazioni di un sapere, quello scientifico, presuntivamente del tutto neutrale e obiettivo; poi anche le diversificate forme di banalizzazione e/o di semplificazione che altro non sono che facili scorciatoie rispetto alla fatica del conoscere e dell’incontrare l’alterità: per non parlare della colpevole ignoranza di quanto sia importante decifrare i meccanismi che risiedono alla base di una comunicazione che può influenzare le scelte di politici, di operatori dell’economia e della finanza, di elettori, dell’opinione pubblica, di popoli. Non tutto, nota opportunamente Rossetti, “si sedimenta nelle parole. In quanto ricettori (e così pure in veste di analisti) è proprio impensabile non ci si adoperi per risalire al pensato che sta a monte del dichiarato, specialmente a quel pensato che trova altre vie per arrivare fino a noi e per condizionare il nostro modo di recepire il – e di reagire al – dichiarato”. E così in Appendice l’autore s’incammina verso una rethorica universalis, tornando a scomodare Platone e a chiedergli un di più rispetto a ciò che una certa tradizione della letteratura critica si era accontentata di cogliere. Adesso, però, tutto questo il lettore è chiamato a declinarlo in chiave “politica” così da poter porsi e porre nuovi interrogativi e riaprire questioni troppo frettolosamente chiuse, anche in merito a un certo modo di comunicare la politica stessa.
Da: Academia.edu <updates@academia-mail.com>
Giuseppe Moscati Responsabile della Biblioteca Aureliana dell’Accademia Neoumanistica Via Giovine Italia, 1 06073 SOLOMEO – Perugia – Italia Tel. 075 6970893 (int. 2893) info: www.brunellocucinelli.it E-mail giuseppe.moscati@fondazionebrunellocucinelli.it
Recensione già pubblicata su «Il Senso della Repubblica», maggio 2021.
Giuseppe Moscati è dottore di ricerca in Filosofia e Scienze umane e collaboratore del Dipartimento di Scienze filosofiche dell’Università degli Studi di Perugia. Si occupa di tematiche etico-politiche e socio-pedagogiche con particolare riferimento all’educazione nonviolenta. Giornalista pubblicista, scrive su riviste e pagine culturali di testate regionali e nazionali; per il quindicinale “Rocca”, di cui è redattore, cura una rubrica di letteratura contemporanea (“Nuova Antologia”) e una di filosofia e dintorni (“Maestri del nostro tempo”, insieme a S. Cazzato).
Una lettura critica del concetto e del fenomeno della violenza alla luce di alcune tra le più significative e penetranti riflessioni di tre filosofi contemporanei: Karl Jaspers, Hannah Arendt e Günther Anders.
La questione prioritaria che pone Feuerbach è quella di un’etica per l’avvenire. Questa ricerca, andando in parte controcorrente rispetto alle letture tradizionali e tornando su alcune tra le più interessanti piste aperte dalla recente letteratura critica, tenta una non facile operazione: sottrarre Feuerbach alle sabbie mobili del riduttivismo e di quel materialismo tout court che egli stesso ha combattuto.L’uomo integrale e la riscoperta della corporeità, la dimensione morale dell’Ich-Du, il dialogo tra filosofia, antropologia e religione: questi e altri temi centrali nell’opera di un filosofo troppo spesso “etichettato” – e che invece ha ancora molto da dirci – vengono riletti alla luce del suggestivo orizzonte della trasformazione del ‘pensare la morte’ in filosofia della vita.
Livio Rossetti, Strategie macro-retoriche. Prefazione di Mauro Serra. ISBN 978–88–7588-280-8, 2021, pp. 192, formato 130×200 mm, Euro 16 – Collana “Il giogo” [130]. In copertina: Joan Mirò, Il mio Alfabeto, 1972.
È strano che in una società invasa da forme di comunicazione sapiente e anche astuta (quindi insidiosa) qual è la nostra non si registri una congrua offerta di strumenti analitici sulle procedure cui è normale ricorrere in ogni momento. In effetti, nel rivolgere la parola, nello scrivere o anche soltanto nel rispondere al telefono si manifestano moltissime scelte, alcune involontarie e altre consapevoli. Queste scelte delineano l’impostazione e il senso di ciò che io, per esempio, ho finito per dire o scrivere. Quindi parlano di me, del mio stato d’animo, dell’idea che mi ero fatta sul conto della persona o delle persone cui mi sono rivolto, dell’idea che mi ero fatta della situazione, di cosa credevo di fare e dei criteri che ho saputo adottare nel decidere cosa dire e come esprimermi, di cosa tacere, che cosa lasciare intendere etc. E a essere carica di tutti questi impliciti è ogni iniziativa comunicazionale, semplice o impegnativa che sia. Per cercare di penetrare nei segreti della comunicazione e individuare anche ciò che transita sotto traccia, c’è poco da fare: bisogna attrezzarsi e prendere confidenza con cose così diverse come la ‘retorica dell’anti-retorica’, il feedback comunicazionale, la soglia critica, la saturazione, i meta-segnali e altro ancora. Questo libro fornisce l’apparato concettuale di cui c’è bisogno per mettersi a scavare in profondità.
Il nome di Livio Rossetti è facilmente associato alla filosofia greca – Socrate e Platone, Parmenide e Zenone – mentre non è intuitivo associarlo al tema della retorica, che è rimasta un filone leggermente in ombra della sua produzione scientifica. In effetti il volume sulle strategie macro-retoriche (1994), ora in seconda edizione, è nato a margine dei suoi studi sul dialogo socratico (alcuni dei quali figurano in Le dialogue socratique, Paris 2011) e avrebbe dovuto fornire le premesse concettuali per indagini più specifiche sull’insidiosa sapienza comunicazionale di Platone, indagini che però… devono ancora materializzarsi. Docente di filosofia greca all’Università di Perugia per decenni, Rossetti ha pubblicato, da ultimo, Verso la filosofia: nuove prospettive su Parmenide, Zenone e Melisso (Baden Baden 2020), che si può considerare l’editio maior di Parmenide e Zenone sophoi ad Elea (in questa stessa collana, Pistoia 2020), mentre
I. Iniziative comunicazionali, strategie comunicazionali e retorica
1. L’iniziativa comunicazionale 2. Individuare gli ‘incantesimi’ di ordine comunicazionale 3. Impostazione dell’iniziativa comunicazionale e forme di finissage 4. Progettare una iniziativa comunicazionali significa… 5. Identificare e analizzare l’impianto macroretorico
II. La formattazione dell ’unità comunicazionale
1.Una formattazione a molti livelli. Il feedback comunicazionale 2. Gli obiettivi da raggiungere
III. Ricettore ideale, distanza critica, dissimulazione. Il contratto comunicazionale
1. Lettore ideale e ricettore ideale. Il ruolo della dissimulazione 2. Contratto letterario e contratto comunicazionale. Il foedus iniquus
IV. Gestione dell a soglia critica e forme di saturazione
1. Orizzonte di attesa, soglia critica e forme di saturazione 2. La pretesa di incidere sulla soglia critica 3. Risalire alla soglia critica prefigurata dal locutore
V. La comunicazione form attante. Il ‘sottotesto’
1. Farsi largo nella mente altrui; la pretesa di ‘comandare a casa nostra’ 2. La semplificazione: grimaldello con cui si aggirano le difese altrui 3. Quando l’intreccio di contenuti epistemici e valori comunicazionali resiste all’analisi
VI. Formattazione e obsolescenza degli standard comunicazionali. Come difendersi dall a formattazione sapiente?
1. Siamo sicuri che la magia dell’evento comunicazionale funzioni ancora? 2. Understatement, autoironia e ‘retorica dell’anti-retorica’ 3. Le difese su cui possono contare i ricettori 4. Identificare il sovraccarico comunicazionale
VII. Conclusioni. Oltre la formattazione
Bibliografia
Appendice – Verso una rhetorica universalis
1. La mia comunicazione non è mai del tutto spontanea 2. Platone e la retorica degli altri 3. Le ossessioni dei moderni e le loro ‘aggressioni’ alla retorica 4. Oltre il mero arrocco. Nuovi aspetti della relazione retorica-filosofia nel Novecento 5.Verso una nuova idea di verità 6. Verso una nuova idea di retorica: la rhetorica universalis Nota bibliografica
In questo Parmenide e Zenone sophoi a EleaLivio Rossetti ci propone una marcia di avvicinamento a due pensatori antichi di primissimo ordine. Il suo proposito è stato di lavorare su due ‘pezzi da museo’ che ci sono stati trasmessi pieni di polvere e di incrostazioni esegetiche, riportarli alla luce e tornare a osservarli da vicino. Pretesa eccessiva? Non proprio, perché di Parmenide si sta riscoprendo solo ora lo stupefacente sapere naturalistico che pure formava parte integrante del suo poema, e di conseguenza il suo insegnamento richiede di essere visto da una prospettiva profondamente rinnovata. Quanto poi ai paradossi di Zenone, essi sono stati per lo più trattati come problemi da risolvere o calcoli da eseguire, senza considerare che Zenone avrà avuto interesse a idearli, non certo a risolverli e dissolverli. Quindi, anche qui, netto cambio di prospettiva. L’autore ci invita dunque a guardare a questi due personaggi estremamente creativi senza pensare alle tradizioni interpretative, con la mente sgombra, con rinnovata curiosità. Lo fa con competenza, ma usando un linguaggio piano, cordiale, arioso, partendo dai luoghi e dal contesto. Avvicinarsi a quel mondo sarà una scoperta.
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