«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Per la prima volta non ho voglia di conoscere il seguito e nemmeno la fine di quest’avventura. Sono lì, nuda, sulla poltrona, a guardare Julien che dorme; vorrei rimanere così, stagnante, tiepida, nel silenzio rotto soltanto dal nostro respiro regolare, senza più dover fare i gesti, dire le parole che ci trasformano e ci tradiscono; quel minuto è vero e vivo, e lo faccio diventare eterno».
Albertine Sarrazin, L’astragalo
Ilaria Rabatti
Un fiammifero controvento
Non conoscevo Albertine. Incuriosita dal titolo, ho letto L’astragalo, seguendo il consiglio di Patti Smith che ne firma la prefazione nella quasi nuova edizione Bompiani (2016), curata da Fabrizio Ascari. Albertine Sarrazin (1937-1967) è un “personaggio” splendido e straziante. Se nel nome è scritto il destino, tra Proust e Balzac, Albertine fa bene la propria parte. Dolorosamente, maledettamente bene. La vita breve non le risparmia i graffi più feroci, i colpi più duri. Lascio a chi vorrà incontrarla leggendone i libri e le poesie (divenute canzoni, bellissime, ma quasi intraducibili) scoprire la sua storia. Stregata dallo sguardo, ho osservato a lungo il suo volto in copertina tra le volute di fumo di una Gauloise. Accennando un sorriso, Albertine sembra così consapevole del vuoto che le si spalanca intorno. Un’immensità di speranza e di nulla. In fuga sempre, dalla prigione e dalla vita…
«Il cielo si era allontanato di almeno dieci metri. Rimanevo seduta, tranquilla. L’urto doveva aver rotto le pietre, nel buio la mia mano destra sentiva dei frammenti. Via via che riprendevo fiato, il silenzio attenuava l’esplosione di stelle le cui cascate mi crepitavano ancora nella testa. Gli spigoli bianchi delle pietre illuminavano debolmente l’oscurità: la mia mano, staccandosi dal suolo, passò sul braccio sinistro, risalì fino alla spalla, scese lungo le costole fino al bacino: niente. Ero intatta, potevo continuare» (incipit de L’astragalo).
Può forse sembrare disdicevole parlare di se stessi scrivendo di un’altra persona, ma mi chiedo proprio che ne sarebbe stato di me senza Albertine. Senza la sua guida, avrei fatto la sbruffona nello stesso modo, avrei fronteggiato le avversità con la stessa tenacia? Senza I.’astragalo come libro prediletto, le mie poesie giovanili sarebbero state così mordaci? L’ho scoperta per caso girando per il Greenwich Village il giorno di Ognissanti del 1968, come ho annotato poi nel mio diario. Benché avessi fame e voglia di un caffè, ero andata prima a dare un’occhiata alle promozioni della libreria sull’Ottava Strada. Sui tavoli si accatastavano copie dell’ Evergreen Review e traduzioni oscure pubblicate dall’Olympia e dalla Grove Press, nuovi testi sacri rifiutati dalla plebaglia. Cercavo qualcosa che avrei dovuto assolutamente possedere: un libro che fosse più di un libro, pieno di indizi in grado di orientarmi verso un cammino ignoto. Fui attirata dal volto singolare (un’ombra viola su uno sfondo nero) sulla copertina polverosa del romanzo di questo “Genet al femminile”. Costava 99 centesimi, il prezzo di un toast con prosciutto e formaggio e un caffè al Waverly Diner, sulla Sesta Avenue, di fronte. Avevo in tasca un dollaro e un biglietto della metropolitana, ma mi bastò leggere le prime righe per innamorarmi … una fame ne scacciò un’altra e comprai il libro. Il libro s’intitolava L’astragalo, e il volto sulla copertina apparteneva ad Albertine Sarrazin. Aprendo la mia copia sciupata nella metro che mi riportava a Brooklyn, ho appreso che era nata ad Algeri, che era orfana, era stata in prigione, aveva scritto tre libri, due dietro le sbarre e uno in libertà, ed era morta di recente, a pochi mesi dal suo trentesimo compleanno nel 1967. Perdere una potenziale sorella nel momento stesso in cui la trovavo mi ha profondamente colpita. Stavo per compiere ventidue anni, ero abbandonata a me stessa, lontano da Robert Mapplethorpe. L’inverno si preannunciava duro, avevo lasciato il calore di un abbraccio per altri, più incerti. Il mio nuovo amore era un pittore, che arrivava senza avvertire, mi leggeva dei brani di Nostra Signora dei Fiori, mi scopava e poi spariva per settimane. Tutte quelle notti tumultuose, passate ad attendere la mia musa e lui, mi procuravano un tormento delizioso. Caduta nella mia stessa trappola, non trovavo nulla che riuscisse a placare la mia agitazione. Le mie parole non bastavano, solo quelle di un’altra potevano trasformare il mio sgomento in fonte d’ispirazione. Le parole le ho trovate ne L’astragalo, un romanzo scritto da una ragazza più grande di me di otto anni e già morta. Il suo nome non figurava nei dizionari di letteratura, toccava dunque a me rincollare i pezzi della sua vita attraverso ogni sua sillaba (come avevo fatto per Genet), ben consapevole che la verità di un poeta si scopre al di là delle sue menzogne. Mi sono preparata del caffè, ho sprimacciato i cuscini del mio letto e ho iniziato la lettura. Con L’astragalo, la realtà e la finzione finalmente si fondevano.
[…]
Un giorno mi recherò sulla sua tomba con un thermos di caffè nero. Mi siederò accanto a lei e cospargerò di profumo di mughetto la sua lapide a forma di astragalo, come aveva voluto Julien. Quanto l’amavo, la mia Albertine! I suoi occhi scintillanti mi hanno permesso di superare i tormenti della mia giovinezza. È stata la mia guida in quelle notti tumultuose.
Patti Smith, Prefazione a: Albertine Sarrazin, L’astragalo, Bompiani, Milano 2016, pp. 5-6 e 11.
La pandemia ha mutato le modalità di relazione, di insegnamento, di lavoro, di consumo. Si offre in queste pagine una riflessione critica a più voci con i contributi di: Alessandro Dignös, Introduzione / Fernanda Mazzoli, La scuola ai tempi del Covid:prove generali di colonizzazione digitale/ Arianna Fermani, Esperienze di didattica universitaria, tra luoghi non-luoghi, alla ricerca di una “virtuosità del virtuale”/ Claudio Lucchini, La didattica della mercee le esigenze della libera individualità/Michele Di Febo, Università e lezioni a distanza:minaccia o opportunità?/ Alberto Giovanni Biuso, Epidemie barbariche / Salvatore A. Bravo, Didatticismo e Covid-19.La pandemia ha soltanto acceleratoun processo già in atto da anni/Alessandra Filannino Indelicato, Ermeneutica della distanza.Contributi di filosofia del tragicosull’ospitalità inquietante / Giulia Angelini, L’isola di Filottete/ Franco Toscani, Un pianeta malato. Umanità e socialità nel tempo della pandemia / Marco Guastavigna, A distanza,ma dal pensiero e dalle pratiche mainstream / Lorenzo Dorato, Le lezioni economiche della pandemia/ Fernanda Mazzoli– Giancarlo Paciello, La trappola della rete:una lettura dell’indagine di Renato Curciosulla realtà virtuale, o meglio, sulla specificità del capitalismo attuale.
Il sistema dominante non ha creato il virus, né ha favorito la sua diffusione: esso si è “limitato” a trarre cinicamente profitto da un’epidemia di cui nessuno può dirsi artefice, proponendo come rimedio ciò che, per sua natura, è funzionale al proprio “benessere” anziché a quello dell’uomo e della comunità. Le diverse misure poste in essere nel 2020 non fanno che accelerare processi e tendenze in atto dagli ultimi decenni del Novecento, ragione per cui molti tra coloro che studiano la società e le sue strutture vedono nelle nuove modalità e nelle nuove pratiche di vita «fenomeni» tutt’altro che imprevedibili. Il presente numero di Koinè vuole costituire un invito a ripensare il nostro tempo, ponendosi come un vero e proprio esercizio di defatalizzazione di quanto, nel filtro del pensiero mainstream, appare “normale”, “destinale”, “irreversibile”. Solo distinguendo ciò che è ontologicamente “inevitabile” da ciò che, invece, si presenta come tale, è possibile riaprire lo spazio ad una critica trasformatrice che ponga le basi per una nuova progettualità umana. In tal senso, il presente invito a ripensare l’attuale è, al contempo, un’esortazione a ripensare ciò che trascende la semplice presenza: l’uomo. È solo a partire dalla comprensione della sua essenza che è infatti possibile individuare dei nuovi modi di vivere che siano veramente conformi ai suoi bisogni e alle sue aspirazioni, mostrando, in tal modo, quale sia il modello di società a cui tendere affinché costui possa autenticamente “fiorire” e realizzarsi.
Questo volume cerca di colmare un vuoto, almeno nella letteratura specialistica in lingua italiana. Mancava infatti, ad oggi, un volume complessivo sul tema della ricchezza nella filosofia antica, negli oltre dieci secoli del suo sviluppo. Il concetto che dà il titolo al volume, ossia appunto Ricchezza, possiede una pluralità di determinazioni. Esso, infatti, non si presenta con riferimento solo ai contenuti materiali, ma anche ai contenuti spirituali, sicché deve essere analizzato con un approccio poliedrico, come del resto pressoché tutti i concetti principali della filosofia antica. Per questo motivo, pur essendo la filosofia la bussola che orienterà la nostra esplorazione, come nel precedente volume sull’Uomo3 dovremo fare spesso riferimento anche alla cultura letteraria, ed in alcuni casi alla cultura scientifica. La partizione fra filosofia, letteratura e scienza era del resto, come noto, assai meno marcata nel pensiero antico rispetto a oggi. Molte tematiche, che nell’attuale mondo universitario si studiano in Corsi di laurea e Dipartimenti differenti, erano infatti affrontate, nelle opere dei Greci e dei Latini, in maniera unitaria. Questo in quanto l’approccio filosofico, per sua essenza generale, era molto più presente nel mondo antico rispetto al mondo moderno, in cui è più presente invece l’approccio scientifico, per sua essenza particolare. Per quanto concerne specificamente la ricchezza materiale, dunque in certa misura l’economia, va aggiunto che questa tematica era nel pensiero antico incorporata nella più generale tematica sociale, sicché non risulta analizzabile come un campo autonomo. La nascita della economia come scienza specialistica avvenne solo, come noto, parecchi secoli più tardi. Un primo punto da mettere a fuoco, in questa introduzione, è che la ricchezza, per gli antichi, è costituita da tutto ciò che ha valore, ossia da tutto ciò che ha importanza per la vita. Dato che l’uomo, per il pensiero antico, si costituisce generalmente come una unità psicofisica, ossia come un composto di corpo e anima, la ricchezza non si presenta solo come di natura materiale, ma anzi soprattutto – per il maggiore valore attribuito generalmente, da tale pensiero, all’anima rispetto al corpo – come di natura spirituale. In effetti, come mostrano in maniera emblematica gli studi di medicina antica, che pure dovrebbero occuparsi principalmente del corpo, la componente spirituale, o meglio psichica (dell’anima, psyche), risulta determinante per far sì che un determinato bene materiale (chrema) possa porsi come una effettiva ricchezza, ossia appuntocome un bene…
Massimo Cultraro, I micenei. Archeologia, storia, società dei Greci prima di Omero, Carocci, 2017.
Tra le civiltà protostoriche del Mediterraneo, quella micenea è forse tra le poche a suscitare ancora oggi fascino e curiosità e a stimolare un vivace dibattito tra studiosi di diverse discipline. Chi erano i Micenei? Quali erano i rapporti tra il mondo miceneo e le coeve civiltà del Mediterraneo? Settecento anni di storia (1700-1000 a.C.) sono ripercorsi per la prima volta in modo unitario in un libro che rappresenta una guida analitica, completa e scientificamente documentata sulla civiltà elladica che segnò l’apogeo della Grecia prima dell’età del Ferro. Il volume, mettendo insieme l’intera documentazione disponibile e le più recenti scoperte, intende ricostruire in chiave storica, e non più in una dimensione ora prevalentemente filologica ora archeologica, una delle pagine più interessanti e affascinanti del mondo greco. Per la prima volta al lettore italiano viene proposto un quadro storico della Grecia alla fine del II millennio a.C., costruito sull’analisi delle forme economiche, della struttura politica e di quella religiosa. Comprendere il mondo miceneo, in altri termini, significa offrire alcune interessanti chiavi di lettura per chiarire i numerosi interrogativi che ancora oggi dominano il tema delle origini della Grecia antica.
Un tuffo …
… tra alcuni dei libri di Massimo Cultraro …
L’ anello di Minosse. Archeologia della regalità nell’Egeo minoico, Longanesi, 2001
Attraverso l’analisi della documentazione archeologica e basandosi sui più aggiornati modelli antropologici, Cultraro presenta il quadro dell’organizzazione politica della società minoica: il lettore viene guidato lungo il percorso che porta al superamento delle comunità tribali e alla nascita delle prime organizzazioni palatine di Creta, in cui l’emergere di un’amministrazione burocratica, di una complessa stratificazione sociale e di una sempre più alta specializzazione nel lavoro determina il formarsi di una struttura politica fortemente gerarchica, dominata dal sovrano minoico.
Troia e le sue guerre, Carocci, 2009
Il mondo degli eroi omerici che combatterono sotto le mura di Troia continua a suscitare forti emozioni presso il grande pubblico. In questo libro uno dei massimi esperti di civiltà antiche ci conduce per mano alla scoperta della città scavata oltre un secolo fa da Schliemann, illustrando alla luce delle più recenti acquisizioni archeologiche le battaglie di cui – nella storia e nel mito – la capitale del regno di Priamo descritta nell'”Iliade” fu protagonista.
L’ ultimo sogno dello scopritore di Troia. Heinrich Schliemann e l’Italia(1858-1890), Ediz. Storia e Studi Sociali, 2018
Nel 1858 Heinrich Schliemann (1822-1890) compie il suo primo viaggio in Italia da turista ed uomo di affari. Non è ancora il personaggio famoso che il mondo celebrerà come lo scopritore di Troia. Tornerà negli anni successivi girando per tutta la penisola, dall’Emilia fino alla Sicilia e Sardegna, forte della gloria che l’ambiente scientifico gli tributava e con le ricchezze accumulate grazie alle proficue attività commerciali in Russia e negli Stati Uniti. Quale è stato il rapporto tra lo studioso tedesco e l’Italia? Quali i suoi contatti con gli ambienti accademici nazionali, ma anche con personalità del mondo della politica e della cultura? Il libro ricostruisce, attraverso lo studio delle lettere e diari personali conservati nel Fondo Schliemann della Biblioteca Gennadius di Atene, insieme con altre fonti archivistiche italiane presentate per la prima volta, il trentennale sistema di relazioni tra lo scopritore di Troia e l’Italia.
Storia dei Mediterranei. Popoli, culture materiali e immaginario dall’età antica al Medioevo, Edizioni di storia e studi sociali, 2018
Un progetto di ricognizione storica, già annunciato e molto atteso in Italia e all’estero, va finalmente in porto. Al centro di esso è il Mediterraneo, perlustrato con strumenti analitici mirati, allo scopo di coglierne in maniera nuova le ricche pluralità, le differenze, il policentrismo etnico e culturale, e sottolinearne tuttavia, oltre le parzialità degli approcci eurocentrici, le comunanze, le contaminazioni e i fondamentali punti di contatto e di confluenza. È questo il senso che definisce la “Storia dei Mediterranei” di Edizioni di storia e studi sociali, cui hanno lavorato, ognuno da una particolare prospettiva, tredici studiosi di alto profilo, italiani ed esteri: Franco Cardini, Massimo Cultraro, Flavio Enei, Massimo Frasca, Jean Guilaine, Stefano Medas, Antonio Musarra, Patrice Pomey, Carlo Ruta, Alberto Salas Romero, Laura Sanna, Francesco Tiboni, Alessandro Vanoli. L’esito è quello di un’indagine plurale e sfaccettata ma allo stesso tempo coesa, che in circa 500 pagine ripercorre, attraverso un ordito che è stato voluto multidisciplinare, le fasi più emblematiche di una vicenda lunga, dalla protostoria al Medioevo, con l’adozione di metodologie affinate e innovative, allo scopo di identificare le ragioni e i progetti di vita sociale e civile di un Mediterraneo che è la somma sorprendente di tanti Mediterranei, di un mondo che è in realtà un insieme di mondi, ognuno con propri caratteri ma tutti portatori di una naturale disposizione a relazionarsi. Si tratta allora di tante storie, che però finiscono inevitabilmente con il convergere e l’intrecciarsi. È la storia, ad esempio, di un Oriente che in alcuni tratti nodali riesce a supportare le trame civili dell’Occidente. È la vicenda di un Nord che finisce con il condividere i propri destini con quelli del Sud, ancora attraverso contagi, materiali e culturali. È la storia, ancora, del sacro, lacerato e attraversato da chiusure identitarie, e che tuttavia, in maniera sorprendente, si ritrova a dialogare e a coesistere, nel concreto della vita materiale e nelle vicissitudini intellettuali. È la storia, in definitiva, di popoli distanti che, indotti dal bisogno e dalle ricorrenti migrazioni, finiscono però con il ritrovarsi, su piani fondamentali, in un ethos accomunante, fatto di tradizioni, conoscenze e tecniche condivise, di leggi del mare, di contagi artistici, cultuali e culturali. È la storia, anche, di conflitti accesi e devastanti, che non frustrano tuttavia la volontà dei popoli che circondano il Mediterraneo, da nord a sud, da oriente a occidente, nella ricerca, in realtà inesauribile, del contatto.
È un sollievo che Trump non sarà più alla guida, ma la storia di questi quattro anni, culminata nella pandemia e nell’invasione del Campidoglio, è che la maschera è caduta: non si può più ignorare la forza distruttiva del capitalismo e del dominio delle multinazionali, la catastrofe ecologica, la violenza e le diseguaglianze che hanno causato, non si può non vedere che stanno travolgendo i nostri corpi come una supercar. Non si può più credere alle scuse per cui sarebbe possibile un capitalismo egualitario e la governance globale delle élite potrebbe essere controllata e portarci gentilmente per esempio verso l’energia solare, senza però distruggere i piaceri del consumismo e le fantasie della predominanza culturale bianca che sembrano normali, ma non lo sono affatto.
La creazione di miti è un processo seducente, ma devi chiederti che tipo di storia stai creando, di che cosa stai diventando complice. Costruiamo sogni sociali senza un vero esame delle conseguenze. I sogni che Steven Spielberg vuole che tu abbia sono diversi da quelli di Stanley Kubrick. […] Ma alla fine mi associo al protagonista, Journeyman [il viaggiatore di The Arrest), e ai corvi sulla torre, nel ritenere che siamo stanchi delle vecchie storie, abbiamo bisogno di sentirne di nuove».
Jonathan Lethem, Basta con Hollywood, serve un altro sogno, Intervista a Jonathan Lethem, «La lettura», Corriere della Sera, 10-01-2021, p. 7.
«Ancora per i nostri padri una ‘casa’, una ‘fontana’, una torre a loro familiare, perfino il loro vestito e il loro cappotto, erano infinitamente di più, infinitamente più intimi che per noi; ogni cosa quasi un’urna, in cui trovavano sempre un che di umano da mettervi in serbo. Ora dall’America s’affollano tante cose vuote e indifferenti, parvenze di cose, imitazioni della vita … Una casa, nello spirito americano, una mela americana o una vite di laggiù non hanno nulla in comune con la casa, il frutto, il grappolo in cui la speranza e la meditazione dei nostri avi era lentamente penetrata. Le cose vive, vissute e ammesse alla nostra confidenza, a poco a poco scompaiono, e non possono più essere sostituite. Noi siamo forse gli ultimi che abbiamo conosciuto tali cose. Su di noi pesa la responsabilità di serbarne non solo il ricordo (ché sarebbe poca cosa, né darebbe alcun affidamento), ma il loro valore larico e ‘umano’ (‘larico’ nel senso delle divinità domestiche). […] Non vi è né un al di qua né un al di là, ma solo una unità immensa […] con un sentimento puramente, profondamente, beatamente terrestre bisogna introdurre le cose viste e toccate quaggiù in un cerchio più ampio, nel più ampio di tutti. Non in un al di là, la cui ombra oscuri la terra, ma in un tutto, nel Tutto».
R. M. Rilke, “An Witold von Hulewicz” (12 novembre 1925), in Briefe aus Muzot, Leipzig, Insel, 1937, trad. it. a cura di N. Saito, in R. M. Rilke, Del poeta, Torino, Einaudi, 1955, pp. 98-99.
«La cultura, come l’amore, non ha il potere di costringerre. Non offre garanzie. Ciò nonostante, l’unica possibilità di conquistare e difendere la nostra dignità di uomini ce la offrono proprio la cultura e una educazione libera». Rob Riemen
“I valori umanistici classici implicano una fondamentale fiducia nel potere, sempre imperfetto ma costantemente corroborato, dello spirito umano” afferma George Steiner. Portavoci, spesso incarnazioni di questi valori furono grandi figure come Socrate, Baruch Spinoza, Walt Whitman, Thomas Mann e Leone Ginzburg. La consapevolezza di vivere un’epoca di crisi, segnata dalla guerra o dall’abbrutimento, ma soprattutto la strenua volontà di opporsi alle derive del loro tempo ne accomuna il lascito umano e intellettuale: la determinazione a non perdere di vista la destinazione morale dell’essere umano, anche nelle tenebre della storia, anche nel fondo di un carcere. In “La nobiltà di spirito” Rob Riemen si sforza di mettere in salvo il messaggio di queste grandi figure “inattuali” per legarle al nostro travagliato presente, ricostruendo una genealogia spirituale che va dall’Atene di Pericle all’Europa dei totalitarismi. Ripercorre una catena di esistenze esemplari spese alla ricerca di una libertà che non sia arbitrio, ma aspirazione a una vita giusta; di una saggezza che non sia erudizione, ma inseguimento dell’assoluto pur nell’imperfezione della conditio humana; di un coraggio che non sia vanagloria, ma forza di lottare per gli ideali intramontabili dell’umanesimo occidentale. (Prefazione di George Steiner)
Dall’opera di Bertolt Brecht si leva una invocazione e una denuncia
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Resistibile ascesa La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht[1] è un’opera teatrale, scritta nel 1941, che denuncia – in un gioco di metafore – la violenza nazista: i personaggi dell’opera, infatti, sono i protagonisti del potere politico in Germania. Bertolt Brecht rappresenta il potere nazista nella sua verità essenziale: nichilismo e violenza. Il titolo dell’opera teatrale ha un significato profondo: pone un quesito, ovvero, se l’ascesa di Adolf Hitler, nell’opera Arturo Ui, sia stata ineluttabile. Il titolo dell’opera esplicita la risposta: non vi sono eventi storici fatali, ma è la responsabilità generale dei popoli come delle classi dirigenti a pronunciare il “sì” fatale. Si può estorcere il “sì” in una pluralità di modi, le paure possono essere utilizzate per invocare l’uomo della provvidenza, e si può abdicare ad ogni responsabilità individuale e collettiva. Vi è sempre la complicità generale e di molti, la quale ci pone il problema della responsabilità umana e politica delle nuove generazioni. La storia non è scritta nelle stelle o nella natura, ma nella volontà dei singoli e dei popoli che interagiscono con la storia: la formazione, in tal senso, è fondamentale. La guerra all’istruzione, meglio alla paideia, la sua mutazione che l’ha ridotta a serva del potere, aumenta la possibilità in modo esponenziale che si possano generare in modo simile derive totalitarie. La formazione è d’ausilio a riconoscerle, essa non è solo contenuti e cultura, ma anche formazione di caratteri e di volontà disponibili alla partecipazione ed alla lotta condivisa. La rappresentazione del potere nazista, si pensi alla Notte dei lunghi coltelli (1934), come lotta tra gangster, non è poi dissimile dall’attualità, in cui partiti e movimenti si contendono il potere spartendosi lo stesso sulle ceneri della pubblica utilità; la negazione dei diritti sociali in nome degli interessi privati ha innumerevoli vittime che non attendono di essere riconosciute e di avere giustizia:
«Butttafuori: Oggi, spettabile pubblico, presentiamo – ehi voi, fate silenzio, laggiù in fondo! e si tolga il cappello, signorina! – la cavalcata storica dei gangster! Contenente, in prima assoluta, la verità sul grande scandalo dei docks. Vi sveleremo inoltre il testamento e la confessione di Dogsborough. La carriera di Arturo Ui in tempo di crisi! Colpi di scena al processo per l’incendio dei magazzini! Il caso Dullfeet! La giustizia in coma! Lotta tra i gangster: ucciso Ernesto Roma! Quindi il quadro finale, con luminaria: i gangster che conquistano la città di Cicero! Vedrete qui, artisticamente interpretati, gli eroi più noti dei nostri bassifondi. Ne vedrete di morti e di ancor ritti, di già passati e di presenti, di elezione e di nascita; ad esempio, il buono, il vecchio, onesto Dogsborough! (Il vecchio Dogsborough si presenta innanzi al sipario). Nero di cuore, candidi i capelli, fa la tua reverenza, vecchio corrotto! (Il vecchio Dogsborough si inchina e si ritira). Vedrete ancora – ma ecco, è proprio lui che viene… (Givola si presenta davanti al sipario). il negoziante in fiori Givola. Con la bocca unta d’olio sintetico vi sa spacciare un caprone per ronzino. Le bugie, dicono, han le gambe corte! Osservate le sue! (Givola si ritira zoppicando). Ed ora Emanuele Giri, il superclown! Su, vieni fuori, fatti vedere! (Giri compare davanti al sipario e saluta con la mano). Assassino fra i sommi d’ogni tempo! Fuori, via! (Giri si ritira in collera). Ed ora la nostra attrazione più grande! Il gangster di tutti i gangster! Il notorio Arturo Ui! Il castigo del cielo per tutti i nostri peccati e delitti, violenze, debolezze e stupidaggini! (Ui si presenta davanti al sipario ed esce camminando lungo la ribalta). Riccardo Terzo: a chi non viene in mente? Dai tempi della Rosa Rossa e Bianca non si sono piti visti così grandi sanguinosi fulminei massacri. Così stando le cose, inclito pubblico, la direzione si è proposta di non badare a spese straordinarie per inscenare tutto in grande stile. Pure, qui è realistica ogni cosa: quanto vedrete stasera non è nuovo, non è stato inventato o escogitato censurato e manipolato per voi: lo sa, quel che mostriamo, l’intero continente: la commedia dei gangster, nota a tutta la gente! (Mentre la musica cresce e le si unisce il suono di un mitra il buttafuori esce rapido)».[2]
Plebi oranti Il potere ha le sue strategie e dinamiche per rendere i popoli “plebi oranti” che attendono che cadano le briciole dalla tavola dei padroni. In primis l’abitudine graduale alla violenza, la quale non è più colta come tale. Se è inserita nella normalità dei rapporti umani e delle relazioni politiche e sociali diviene il mezzo per “far accettare” anche l’impossibile. Hume lo ha dimostrato, l’essere umano è abitudine, il potere forma all’abitudine alla violenza, al punto da renderla legge del vivere civile in modo che non venga colta nella sua verità e genesi. La violenza non è solo fisica, ma specialmente ideologica e linguistica, essa deve privare il pensiero delle sue potenzialità critiche e generative, deve asciugare al sole dell’indifferenza l’intenzionalità sociale e comunitaria, deve dividere per potersi affermare e conservare. La speranza e l’immaginazione critica tramontano, di conseguenza, dalla comune visuale per abbandonare i popoli all’immediatezza del destino, ad una nuova filosofia della storia in cui i popoli non sono che servi al servizio del destino:
«DOGSBOROUGH: Quelle azioni sono state come il sacchetto di salati, esposto dal barista gratuitamente, in modo che il cliente, saziando la sua fame a buon mercato, stimoli la sete. (Pausa). Non mi piace l’inchiesta al municipio circa le attrezzature. Il nostro prestito è già sprecato: Clark ha preso, Butcher e Caruther e Flake, tutti hanno preso: purtroppo ho preso anch’io, e non s’è ancora acquistata una libbra di cemento! C’è un unico vantaggio: per volere di Sheet, al nostro affare non ho dato pubblicità, e così non sa nessuno che ho a che fare con questa società».[3]
La paura è il modo più celere e veloce per spingere popoli e nazioni sotto la protezione degli uomini della provvidenza o di “istituzioni oracolari” (mercato, scienza e partito) a cui delegare il presente ed il futuro. Diffondere l’inquietudine, far percepire una minaccia perenne che incombe, è il modo più funzionale e diretto per strutturare forme di potere illegittime. Governare in uno stato di eccezione perenne permette di assuefarsi all’impossibile, di tacitare la coscienza comune nell’incombente necessità di provvedimenti eccezionali, ma necessari. Il consenso si vena di terrore, lo si sparge ovunque, la lingua diviene veicolo di violenza scientemente programmata, si solleticano paure e fantasmi profondi, al punto da far apparire l’alterità come minaccia, si inquinano le fonti della vita per spingere ad invocare e sostenere i poteri forti e solidi. La solitudine dei singoli caduti in un mondo irrazionale è l’inizio dei ceppi imposti in nome della sicurezza e della vita:
«UI In breve: regna il caos. Perché, quando ciascuno può far ciò che vuole e che gli suggerisce l’egoismo, significa che tutti son contro tutti, e perciò regna il caos. Quando mi guardo in pace il mio negozio o carico, diciamo, sul mio camion i cavoli o che altro, ed uno irrompe meno pacifico in bottega, e dice «Mani in alto!» e mi spara sulle gomme con la Browning, non può regnar la pace! Però una volta accertato che gli uomini sono così, non agnellini, io debbo fare qualcosa perché non mi mettano tutto il negozio sottosopra, ed io non sia costretto a alzar le mani ad ogni momento, se fa comodo al vicino, ma possa usarle per il mio lavoro, per contar cetrioli, o che so io. Perché l’uomo è così. Di proprio impulso non metterà mai la Browning da parte, e neanche perché sarebbe nobile o perché un oratore al municipio lo loderebbe. Se non sparo io, spara l’altro! È la logica. Ma cosa si deve fare, voi chiedete. Adesso ve lo dirò. Una cosa innanzi tutto. Non quello che finora avete fatto. Sedere pigri davanti alla cassa e sperare che tutto vada bene, e per di più non essere d’accordo tra voi, dispersi, senza una robusta sorveglianza che vi protegga, e quindi impotenti di fronte ad ogni gangster, non va, naturalmente. Quindi occorre, per prima cosa, l’unità. Poi qualche sacrificio. Vi sento dire: «Cosa bisognerà sacrificare? Soldi? Dare il trenta per cento sugli incassi per pagare la protezione? No, noi non vogliamo questo! Amiamo troppo i nostri soldi! Se la protezione si potesse aver gratis, volentieri!» Ma non è cosi semplice, miei cari bottegai! Solo la morte è gratis, tutto il resto si paga. E cosi pure la protezione. E la sicurezza, e la pace, e la tranquillità. Cosi è la vita. E dato che è cosi, né sarà mai diversa, abbiamo stabilito, io ed alcune persone che vedete qui intorno – ed altre ancora stanno fuori – di prestarvi la nostra protezione. (Givola e Roma applaudono). Ma per farvi vedere che ogni cosa sarà fatta su base commerciale, è presente il signor Clark, dei Grossisti, Clark, che voi tutti conoscete».[4]
Frode linguistica perenne L’inganno linguistico è l’appello perenne ai lavoratori, tutti sono al capezzale dei lavoratori, fin quando sono disponibili al solo lavoro senza diritti e specialmente senza partecipazione. L’appello ai lavoratori ha lo stesso effetto del suono del pifferaio magico, serve a richiamare greggi da condurre nell’abisso, ma se qualche elemento del gregge osa “belare” diversamente è oggetto di ostracismo e violenza. Le parole non hanno più significato, sono solo mezzi per l’ascesa inarrestabile di poteri criminali legittimati dalla sovrastruttura giuridica:
«UI: Domanda molto giusta. Ed io rispondo: con il lavoratore, lo si apprezzi o no, nel mondo d’oggi è necessario fare i conti. Anche già come cliente. Io ho sempre affermato che il lavoro non fa vergogna, anzi edifica e dà dei profitti. E per questo è indispensabile. Il singolo lavoratore ha tutta la mia simpatia. Soltanto quando si riunisce in massa e poi pretende di intervenire dove non capisce, ossia sul meccanismo dei profitti e cosi via, io dico allora: fermo, fratello, in questo modo non va bene. Tu sei un lavoratore, ossia lavori, ma quando non lavori più e scioperi, allora non sei più un lavoratore, ma un soggetto pericoloso, ed io intervengo. (Clark applaude). Ma per rendervi certi che ogni cosa è prevista in buona fede, un uomo siede qui tra noi, che vale per tutti noi, posso ben dirlo, come modello di onestà, di incorruttibile moralità, cioè il signor Dogsborough. (I negozianti applaudono un po’ più forte). Io sento, signor Dogsborough, in quest’ora, tutto il debito di riconoscenza che ho verso di lei. Noi siamo stati uniti dalla Provvidenza. Mai mi scorderò che un uomo come lei ha eletto me, più giovane, ed un semplice figlio di Bronx, a suo amico, anzi vorrei dire di più, quasi a suo figlio. (Afferra la mano di Dogsborough che pende inerte e la stringe)».[5]
Il palazzo del Reichstag (1933) in Europa brucia ancora, e continuerà a bruciare fin quando i popoli saranno messi in catene da paure sollecitate e rese incomprensibili, in modo che i poteri possano gestire con l’inquietudine e l’angoscia forme di sussunzione finalizzate a rendere i popoli carne da macello per gli interessi di oligarchie senza etica e senza comunità. Poteri sovranazionali dominano e si celano dietro parole sempre più simili a potenze celesti che necessitano del clero orante per la loro interpretazione da consegnare ai popoli. In tale contesto si comprende come l’attacco o l’indifferenza verso la formazione sia parte di un disegno di analfabetismo tecnocratico che vuole i popoli greggi belanti delle migrazioni in nome dei mercati. Dall’opera di Bertolt Brecht si leva una invocazione indicando un problema perdurante, ma nello stesso tempo è una denuncia del silenzio degli intellettuali che vivono all’ombra del potere e di accademie e che hanno tradito la vocazione critica che dovrebbe animarli. La qualità della democrazia coincide con la qualità dei suoi intellettuali. Il linguaggio ed i contenuti attuali ci parlano di una decadenza che non è solo causata da circostanze storiche, ma è specialmente una scelta distopica che sta contribuendo alle brutture del presente ed alla riduzione della democrazia a semplice formalità senza sostanza e prassi.
Salvatore Bravo
[1] Bertolt Brecht (Augusta, 10 febbraio 1898 – Berlino Est, 14 agosto 1956).
[2] Bertolt Brecht, La resistibile ascesa di Arturo Ui, Prologo.
«La scienza sta già diventando un idolo, un mito. Si comincia a confondere insieme scienza e felicità, progresso materiale e progresso morale; a credere che la scienza prenderà il posto della filosofia, della religione, e che basterà a soddisfare tutte le esigenze dello spirito umano.».
Paul Hazard, [La Crise de la conscience européenne : 1680-1715 (1935)] La crisi della coscienza europea, 2 voll., II, il Saggiatore, Milano 1968, p. 398.
De un modo cordial y bien articulado, Luca Grecchi expone en la introducción algunos de los muchos méritos de Maurizio Migliori y de sus opciones interpretativas a la hora de hacer historia de la filosofía y, en concreto, sobre el modo de estudiar a Platón, al mismo tiempo que ofrece, con sencillez estimulante, un punto que lo distancia de Migliori acerca del modo de encuadrar el proyecto utópico de Platón (pp. 14-15). El volumen recoge 12 trabajos publicados anteriormente en los que Maurizio Migliori, conocido estudioso de Platón y profesor durante años en la Universidad de Macerata (Italia), profundiza en algunos argumentos de la filosofía antigua y, sobre todo, en el pensamiento platónico. Los tres primeros capítulos (no están numerados así, pues aparecen simplemente como trabajos autónomos) están dedicados a figuras importantes del mundo antiguo: a Heráclito, con su compleja teoría en la que conviven las oposiciones entre unidad y multiplicidad, quietud y devenir; a Gorgias, presentado como un sofista importante para entender a Platón; y al movimiento sofístico en su conjunto, para mostrar sus nexos con el eleatismo y para dar relieve a la presencia de Protágoras y de Gorgias en Platón. Con el cuarto capítulo entramos a un tema importante y fuente de un interesante debate en los últimos años: el método para escribir escogido por Platón y la intencionalidad de tal método. Para Migliori, en vez de dejar a un lado posibles incongruencias o saltos incomprensibles en los Diálogos, habría que fijarse precisamente en esos puntos extraños del texto para ir más a fondo en la filosofía platónica (p. 99). A través de ejemplos tomados de varios Diálogos, el Autor señala que el sentido de la escritura platónica radica en estimular filosóficamente al lector, en invitarlo a caminar en la búsqueda de buenos razonamientos (p. 115). El Fedro, que suscita un continuo interés entre los estudiosos, es el centro de atención del capítulo quinto. Migliori no solo presenta el conjunto y las partes de esta obra, sino que busca evidenciar cómo este diálogo platónico tiene como punto central el alma y las relaciones entre el hombre y Dios (pp. 172-181). Ha suscitado diversas discusiones el tema de la unidad (o falta de unidad) de la República, en concreto respecto de la transición entre los libros IX y X. Al argumento está dedicado el capítulo sexto, que resume al inicio la tesis de una reciente publicación a cargo de Mario Vegetti, autor que negaba tal unidad (como lo han hecho otros estudiosos). Migliori no comparte esa interpretación por motivos que expone a lo largo de ese capítulo (cf. sobre todo pp. 185, 189-192). Además, ilustra una interesante interpretación de los tres niveles de realidades (ideas, objetos particulares que incluyen objetos artificiales, imitaciones) que aparecen en el libro X de la República y que describen en cierto modo la relación entre el Demiurgo (Dios) y las ideas (cf. especialmente pp. 220-225). El capítulo séptimo trata de la dialéctica platónica, relacionada con la doctrina de los principios, a partir de una serie de análisis centrados en dos importantes diálogos: el Parménides y el Filebo. Desde sus numerosos estudios sobre el tema, Migliori explica el sentido de la búsqueda platónica, en la que los problemas y aporías ocupan un lugar insustituible (pp. 276-278). El siguiente capítulo continúa el estudio del Filebo, además de otros diálogos (sobre todo Protágoras, Leyes, Político y Parménides), para profundizar en el tema de la medida y su técnica propia, la metrética, que ocupa un lugar importante en la filosofía gracias a las semejanzas que tiene con lo que Aristóteles elaborará sobre la justa medida. Con el capítulo noveno el lector encuentra una ayuda para comprender mejor la relación entre cuidado del alma, cuidado del hombre y cuidado de la sociedad según el pensamiento platónico (p. 406). Migliori sintetiza la doctrina sobre el alma y la prioridad de esta respecto del cuerpo, sin que ello implique un desprecio total de la dimensión corporal en el hombre. De allí se desprende la propuesta de trabajar en el autodominio y en el cuidado del alma, que aparece ya en la Apología y que reaparece en otros Diálogos, llegando hasta las Leyes (cf. especialmente pp. 411-426). Este capítulo es especialmente ilustrativo de temáticas constantes en el pensamiento de Platón, como la propuesta del carácter educativo de las leyes (pp. 447-449); o el nexo (problemático pero que debe ser encontrado) entre vida virtuosa y felicidad (pp. 461-468); o la apertura a la vida más allá de la muerte, a la escatología como horizonte necesario para la comprensión del sentido y de la finalidad de la aceptación de la justicia como criterio para el propio actuar (pp. 468-471). El tema de la amistad (philía), con sus diversos matices, ocupa la atención del capítulo décimo. Tras una breve descripción de los diversos significados que tiene el término en Platón (pp. 475-477), el Autor subraya la dimensión política y educativa que puede darse a la amistad (pp. 477-482), para luego fijarse en dos diálogos más concretos, el Critón y el Lisis, con algunas breves relaciones con lo que también se dice sobre la philía en las Leyes. El capítulo concluye comparando los planteamientos diferentes pero no totalmente incompatibles de Platón y de Aristóteles sobre el argumento. Va más allá de la filosofía antigua el capítulo undécimo, que analiza el paradigma griego de afrontar el tema de la inmortalidad, y luego el paradigma bíblico centrado en la resurrección de los muertos. Migliori presenta al inicio las ideas sobre la muerte y el alma en el antiguo mundo griego, en Platón y en Aristóteles. A continuación, hace un rápido resumen de lo que la Biblia y la cultura hebraica pensaban sobre la unidad del hombre, sobre la vida tras la muerte, sobre el pecado y sobra la resurrección. Con los datos expuestos, puede destacar las diferencias profundas entre la visión griega y la bíblica sobre el hombre y sobre el más allá, con la ayuda (no exenta de dificultades) de algunas tesis de O. Culmann (pp. 529-531). El último capítulo podría considerarse como una especie de síntesis de la propuesta interpretativa de Migliori, al poner como centro de atención la conveniencia de un acercamiento multifocal a la hora de interpretar el pensamiento platónico y el aristotélico. El Autor considera que el modelo evolutivo, que tanta difusión tuvo durante el siglo XX, no ha sido capaz de explicar adecuadamente los textos de los grandes autores del mundo griego, y por eso propone, sobre todo a la hora de interpretar a Platón y a Aristóteles, un acercamiento multifocal (multifocal approach), respetuoso sea de la complejidad de los textos, sea del mismo planteamiento que el fundador de la Academia expone en algunos Diálogos (cf. especialmente pp. 555-559). Al final se ofrece un índice de nombres y, tras el índice, un elenco de obras de Maurizio Migliori. Falta una sección que refleje en su conjunto la bibliografía citada en el volumen. Como parte de un largo camino de investigaciones sobre Platón y sobre otros argumentos de la filosofía griega, esta publicación sirve para profundizar en temas fundamentales de la reflexión humana que, desde las primeras etapas del pensamiento racional, siguen siendo objeto de interés al ofrecernos caminos para conseguir un mayor acercamiento a la verdad.
Fernando Pascual, L.C.
Fernando Pascual, Professore Ordinario della Facoltá di Filosofia, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma.
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