Günther Anders – L’essere umano è tale soltanto se qualcuno lo chiama in causa, se si preoccupa di lui. Diversamente dal cartesiano «cogito ergo sum», la prova dell’esistenza valida, di fatto, nella vita dovrebbe recitare: «cogitor ergo sum», “Mi si pensa, dunque sono”.

L’essere umano è tale soltanto
se qualcuno lo chiama in causa,
se si preoccupa di lui.


Diversamente dal cartesiano
«cogito ergo sum»,
la prova dell’esistenza valida, di fatto, nella vita,
dovrebbe recitare:
«cogitor ergo sum»,
Mi si pensa, dunque sono”.

 

Günther Anders, L’emigrante, Introduzione di Orlando Franceschelli, Postfazione di Florian Grosser, Traduzione di Elena Sciarra, Donzelli Editore, Roma 2022.

Scheda libro

«Io non ho avuto una vita. Non ricordo. Gli emigranti non ci riescono. Di quel singolare, “la vita”, noi, incalzati dalla storia universale, siamo stati defraudati».

Ogni emigrazione è una rottura fondamentale nella vita. Sradica una persona, la rende priva di voce, sola e invisibile. Con spietata onestà, Günther Anders racconta la vergogna sperimentata nella propria esistenza da esule, vittima della persecuzione nazista, costretto a emigrare perché ebreo. Il suo brillante saggio – uscito su rivista nel 1962, pubblicato ora per la prima volta in volume e mai tradotto in italiano – getta nuova luce sulla principale «miseria morale» del XX secolo. Come mostra programmaticamente il titolo, la figura al centro è quella del soggetto migrante, che non vede se stesso come «immigrato», dunque proiettato su un luogo di arrivo, ma sempre in relazione alla propria origine e al proprio passato perduto. Nonostante le differenze di circostanze storiche tra l’emigrazione indotta dai regimi totalitari del Novecento e quella del nostro mondo globalizzato, questo breve e folgorante scritto ci porta direttamente al presente, un tempo in cui – osserva Anders – la fuga e l’esilio non sono più casi isolati o estremi ma si configurano come un’«esperienza generale». Nel saggio l’autore si rivolge a un «tu» che, ovviamente, rimane indefinito. Il testo assume così il carattere di una conversazione con chiunque sia disposto ad ascoltare il vissuto di qualcuno che è «incalzato dalla storia». Il carattere dialogico e quello testimoniale rendono evidente quanto Anders sia alla ricerca di una scrittura che «raggiunga la gente di oggi». Nel suo insieme, l’attenzione alla «sostanza» dell’esperienza dell’emigrante e ai destinatari conferisce al testo una straordinaria attualità. Felicemente a cavallo tra letteratura e riflessione filosofica, il testo di Anders sa andare direttamente al cuore dei problemi più significativi connessi alla «miseria» dell’emigrazione: di quella che i migranti subiscono e di quella a cui non dovrebbe essere indifferente chi si ritrova nelle mani il potere di concedere loro il «permesso di vita».

 

Günther Anders
Günther Anders è uno dei filosofi più importanti del XX secolo. Nato a Breslavia nel 1902, si laureò in filosofia nel 1923 ed emigrò per ragioni razziali nel 1933, trasferendosi prima a Parigi e poi negli Stati Uniti. Nel 1950 tornò in Europa e si stabilì a Vienna. Fu tra i promotori del movimento internazionale contro la bomba atomica e tra gli oppositori alla guerra in Vietnam. Morì nel 1992. Tra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo: La coscienza al bando. Carteggio del pilota di Hiroshima Claude Eatherly e di Günther Anders (Einaudi, 1962; Mimesis, 2016), Opinioni di un eretico (Theoria, 1991), Noi, figli di Eichmann (Giuntina, 1995), L’uomo è antiquato (Bollati Boringhieri, 2003, 2 voll.), Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia (Bollati Boringhieri, 2008), La battaglia delle ciliegie. La mia storia d’amore con Hannah Arendt (Donzelli, 2012), Kafka. Pro e contro. I documenti del processo (Quod libet, 2020).


Alessio Cernicchiaro

Günther Anders, la Cassandra della filosofia

indicepresentazioneautoresintesi


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Alla ricerca dello sguardo in una realtà senza “vero” sguardo. Ogni soggetto umano chiede, per sentirsi vivo, lo sguardo della tenerezza: essere accolti e guardati nella propria totalità. La plenitudo vitae non necessita di esperienze estetiche estreme (che stanno fuori), ma richiede di sentire, vivere e realizzare la propria indole, e la gioia di tale condizione conduce alla semplicità e sobrietà della vita esteriore come alla profondità della vita interiore.


Salvatore Bravo

Alla ricerca dello sguardo in una realtà senza “vero” sguardo

 

Se non si è visti con lo sguardo della tenerezza si cerca, in modo travisato, ciò che ogni soggetto umano chiede per sentirsi vivo: essere accolti e guardati nella propria totalità. Se ci si sente guardati nella propria singolarità irripetibile non si cercheranno formule estetiche estreme (“che stanno fuori”), in quanto si è nella pienezza della propria natura. La plenitudo vitae non necessita di esperienze estetiche estreme, ma richiede di sentire, vivere e realizzare la propria indole, e la gioia di tale condizione conduce alla semplicità e sobrietà della vita esteriore come alla profondità della vita interiore. Tale affinamento è possibile solo in una comunità a misura di essere umano e non dell’albagia del business.

 

***

La filosofia è l’arte di produrre concetti veritativi. Ma i concetti appaiono a condizione che ci poniamo domande sull’ovvio, che è percepito normalmente in quanto tale, ma che di solito è passivamente accettato nella sua ovvietà, e dunque non è conosciutopensato in quanto meramente ovvio. «Il noto non è conosciuto»,1 la rinuncia a concettualizzare il noto è il segnale della decadenza del tempo presente e del ritrarsi dello sguardo dell’anima. Il solo sguardo anatomico può scorgere forme e colori ma non il concetto.

Si può pensare ovunque, il linguaggio vivo è concetto, capacità di rompere lo spazio tempo in cui si è incapsulati per ricostruirlo, trascenderlo, guardarlo da altre prospettive.

Passeggiando per le vie della città non si possono non notare corpi che si manifestano con estensioni sempre più invadenti di tatuaggi che li avvolgono in una ragnatela, e li trasformano fino a renderli secondari rispetto all’ordito e ai colori del tatuaggi. Corpi vissuti solo in quanto sostrato che serve a mostrare in giro per la città disegni sempre più arditi, a volte volgari. Si può liquidare il tutto affermando che è solo questione di moda; oppure ci si può soffermare e chiedersi il “perché”. La filosofia comincia con i “perché”, minuscoli e grandi: deve svelare il non detto, ciò che si nasconde dietro l’abbagliante presenza dell’empirico, lo deve attraversare per renderlo razionale. Senza immaginazione concettuale nulla è possibile.

Occorre chiedersi cosa desiderano quelle folle di giovani e meno giovani che sovente riducono il proprio corpo ad oggetto da offrire in pasto agli sguardi altrui, giovani e meno giovani che cercano sguardi quasi mendicando solo un po’ di attenzione e di essere finalmente visti. I tatuaggi sempre più estesi svelano che viviamo in una realtà senza “vero” sguardo. È quella una richiesta, implicita ed esplicita, che passa attraverso un corpo vetrinizzato, agghindato in ermetiche forme e colori. Si chiede di essere visti. Lo si chiede disperatamente, non pensando che con il passare degli anni il tatuaggio si degraderà con l’invecchiamento del corpo al punto da divenire un marchio che racconterà della propria solitudine.

Se non si è visti con lo sguardo della tenerezza si cerca, in modo travisato, ciò che ogni soggetto umano chiede per sentirsi vivo: essere accolti e guardati nella propria totalità. Il capitalismo, nella sua fase apicale, colonizza le menti con la sua oscura e perversa metafisica narcisistica. Le soggettività sono rese schiave di un violento automatismo che le induce a proposi sul mercato della vita, in quanto ogni realtà vissuta, in questo contesto sociale, è tragicamente e malinconicamente esperienza di mercato.

Si cerca di essere visti, ma non si è disponibili a guardare e a donare attenzione. Il risultato è la disperazione, da anoressia d’amore. In questo humus degradato la moda acquista illimitata potenza: al fine di indurre gli altri a guardare per sentire di esistere diviene esperienza tragicomica. La solitudine quotidiana, la difficoltà e/o l’incapacità di tessere relazioni stabili in cui soddisfare il naturale bisogno di sentirsi parte di un gruppo, di una comunità o di sentirsi semplicemente in coppia, porta a vestire il proprio corpo di tatuaggi per colpire ed indurre lo sguardo a posarsi e a sostare sul proprio “io” anoressico e/o bulimico. Anoressia emotiva in quanto ci si sta asciugando nel corpo e nell’anima, in quanto si è affamati di pensieri e sentimenti, bulimia in quanto si vuole assorbire l’attenzione di tanti, ma senza essere parte di un comune progetto, si divora e si vomita in un ciclo disperato senza senso ed incompreso. L’abitudine all’autopromozione sviluppa personalità incapaci di comunicare e progettare. L’emancipazione da tali perversi giochi di dominio che impoveriscono i popoli fino a renderli plebi (nel gusto e nella dimensione estetica) è estremamente difficile, in quanto il sistema agisce con forza su ciascuno, non lascia scampo, non concede il tempo per pensare e formare un autonomo giudizio. Non vi sono leggi che tutelino dalla punzonatura che rimarrà impressa nei corpi a segnare la normalità del male di vivere prodotto dal capitalismo. Chiunque ponga il problema è tacciato come bacchettone, il business non deve avere limiti, deve cannibalizzare i clienti.

 

Oscurità capitale

L’oscuramento della razionalità e dei sentimenti denuncia la violenza del capitale a cui le vittime rispondono con reazioni capaci soltanto di mostrare il problema, che però non è pensato, non deve essere pensato. Chi osa pensarlo è fatto oggetto di micro e macro bombardamento etico. Il bombardamento etico è una modalità d’azione che bisogna riconoscere nel quotidiano per comprenderlo nelle sue manifestazioni più eclatanti. Ci si appella alla libera scelta e ai diritti individuali per tacitare i dissenzienti ed occultare il condizionamento mediatico e la cattiva vita quotidiana a cui si è sottoposti. L’abbrutimento generale è il volto della vita nella violenza del modo di produzione capitalistico che sostituisce la parola ed il logos con la speranza di attenzioni da ricercare con gesti estremi e con mode il cui fine è incidere sempre più profondamente nella carne dei singoli per disarticolarne le personalità. La forza del capitale è nell’attaccare frontalmente la vita razionale ed etica dei soggetti umani.

Senza lo sguardo che accoglie ed educa, l’essere umano rompe gli ormeggi verso fenomeni sempre parossistici per attrarre attenzione. In tutto questo disastro emerge ancora una volta la natura comunitaria dell’essere umano che necessita dell’altro per sentirsi semplicemente umano. Il capitale disumanizza e cerca di rendere impotente e perversa la natura umana, la piega per neutralizzare l’incontro amicale in cui dagli sguardi e dalle parole fioriscono i concetti e gli affetti. Se ci si sente guardati nella propria singolarità irripetibile non si cercheranno formule estetiche estreme (“che stanno fuori”), in quanto si è nella pienezza della propria natura. La plenitudo vitae non necessita di esperienze estetiche estreme, ma richiede di sentire, vivere e realizzare la propria indole, e la gioia di tale condizione conduce alla semplicità e sobrietà della vita esteriore come alla profondità della vita interiore. Tale affinamento è possibile solo in una comunità a misura di essere umano e non dell’albagia del business. Il capitale ha l’obiettivo di ridurre la persona a semplice esteriorità disperata e mendace: in tal modo si rafforza il suo perverso dominio. Il nostro “no” deve partire dai gesti quotidiani per elevarsi in progetto politico e in paziente assedio di lunga durata al capitale.

1 «Ciò che è noto, non è conosciuto. Nel processo della conoscenza, il modo più comune di ingannare sé e gli altri e di presupporre qualcosa come noto e di accettarlo come tale» (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito).


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Byung-Chul Han – Lo smartphone potenzia l’autoreferenzialità, acuisce l’ipercomunicazione che livella, pialla e alla fin fine irreggimenta ogni cosa, è il principale infoma del nostro tempo, … lo smartphone derealizza il mondo.

«Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa,
poiché da esso provengono le sorgenti della vita».
Proverbi, 4: 23.

 

«È una cosa che ormai non si usa più …”creare legami”. Tu diventeresti per me unico al mondo. Io diventerei per te unica al mondo … È molto semplice: si vede bene soltanto col cuore. L’essenziale non lo vedono, gli occhi».

A. de Saint-Exupéry, Il piccolo principe.

 

Lo smartphone potenzia l’autoreferenzialità,
acuisce l’ipercomunicazione che livella, pialla
e alla fin fine irreggimenta ogni cosa,
è il principale infoma del nostro tempo
… lo smartphone derealizza il mondo

 

Il costante digitare e strisciare delle dita sullo smartphone è un gesto quasi liturgico […] Il mondo deve orientarsi interamente verso di me. Per cui lo smartphone potenzia l’autoreferenzialità. […] Il mondo mi dà l’impressione di una totale disponibilità nell’apparenza digitale. […] Il touch screen generalizza l’impulso aptico di rendere ogni cosa a portata di mano. Nell’epoca dello smartphone, persino la vista si sottomette all’impulso aptico e perde il proprio lato magico. Smarrisce ogni stupore. […] Nella comunicazione digitale, l’Altro è sempre meno presente. Mediante lo smartphone ci ritiriamo in una bolla che ci protegge dall’Altro. […] La comunicazione via smartphone è senza corpo né sguardo. La comunità ha invece una dimensione corporea. Già a causa della corporeità assente, la comunicazione digitale indebolisce la comunità. Anche lo sguardo consolida la comunità. La digitalizzazione fa scomparire l’Altro come sguardo. L’assenza dello sguardo è corresponsabile della perdita d’empatia nell’epoca digitale. […] Lo smartphone «fa» il mondo, cioè se ne impadronisce creandolo in forma di immagini. Lo smartphone è smart poiché sottrae ogni carattere riottoso alla realtà. Basta la sua superficie liscia a trasmettere un senso di resistenza assente. Sul suo levigatissimo touch screen ogni cosa appare docile e gradevole. Con un clic o un colpo di polpastrello tutto diventa disponibile, a portata di mano. I media digitali riescono a superare con successo ogni resistenza spazio-temporale, ma è proprio la negatività della resistenza a essere costitutiva dell’esperienza autentica. L’assenza digitale di resistenze e l’ambiente smart portano a una carenza di mondo e di esperienze. Lo smartphone è il principale infoma del nostro tempo. Esso non rende solo superflue molte cose, bensì derealizza il mondo riducendolo a informazioni. […] Lo smartphone acuisce l’ipercomunicazione che livella, pialla e alla fin fine irreggimenta ogni cosa. […] Non avviene alcun contatto fisico con la realtà, derubata della propria presenza … lo smartphone derealizza il mondo.

 

Byung-Chul Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Einaudi, Torino 2022, pp. 28-33.

 


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Fernanda Mazzoli – Recita di fine anno. Giù la maschera! Il volto è condizione primaria di riconoscimento dell’Altro e dunque di sé.


Recita di fine anno

Il potere ha calato la maschera e mostrato il suo volto, che sia il ghigno da pescecane del Primo Ministro,
o il faccione curiale e mellifluo del titolare del MIUR.
Fattezze che si combinano l’un l’altra alla perfezione e che campeggiano al centro delle fotografie
che li ritraggono senza mascherina in mezzo a classi ed insegnanti naturalmente plaudenti, naturalmente imbavagliati.

Immagini che ci consegnano, con irrefutabile evidenza, lo stato delle cose, l’abissale differenza fra noi e loro, il nostro statuto di sudditi contenti di esserlo. Non solo: esse sottolineano, a conclusione di un anno scolastico contrassegnato da pesanti, incostituzionali ed inedite discriminazioni nei confronti di alunni e personale non vaccinato, che la scuola è il terreno di elezione per la fabbrica dell’obbedienza, il terminale di un’articolata catena di comando, l’humus più fertile per il condizionamento delle condotte, con buona pace per chi ha pensato, come chi scrive, che essa possa e debba trasformarsi in luogo di messa in discussione dell’esistente, in virtù della centralità che vi dovrebbero occupare le sovversive arti dell’argomentare razionalmente e del conoscere criticamente. Ad essere messa in discussione, invece, è la scuola come luogo di formazione alla libertà intellettuale e civile e all’eguaglianza, se non altro formale, dei cittadini, categoria storica, politica e giuridica della quale, d’altra parte, le misure di contrasto alla pandemia hanno accelerato il dissolvimento, a vantaggio di una cittadinanza condizionata, autorizzata e a scadenza.

Le mascherine, il cui valore simbolico è stato non a caso rimarcato da diversi esponenti governativi di fronte alle numerose perplessità espresse in merito alla loro effettiva efficacia e sicurezza da parte di tanti medici e scienziati, investono un aspetto fondamentale della nostra relazione con il mondo che è quello del nostro rapporto con l’Altro, a partire dal volto che incontrandone un altro sprigiona domande che sollecitano risposte.


Il legame tra alterità e volto è, come è noto, al centro della riflessione filosofica di Emmanuel Lévinas che in Totalità e infinito identifica il volto con il modo in cui si presenta l’Altro. Questo volto non è la somma di ciò che lo caratterizza, non si riduce a pura anatomia, tanto meno a maschera; la sua vera natura risiede piuttosto nella domanda che mi rivolge che è al contempo richiesta di aiuto e minaccia, non solo implica la relazione, è relazione. Nell’epifania del volto dell’Altro si scopre che il mondo è proprio nella misura in cui si può condividerlo con l’Altro.

Il volto, che è condizione primaria di riconoscimento dell’Altro e dunque di sé, apertura verso la comunicazione e l’assunzione di responsabilità che essa comporta, si espone a rischi, come tutto ciò che va oltre la mera conservazione di se stesso, che esce dalla autoreferenzialità.

Ora, è questo volto che la mascherina sottrae allo sguardo dell’Altro e rinserra in un universo solitario dominato dalla paura, dalla diffidenza, dall’istinto di autoconservazione spacciato per patto di reciproca sicurezza. Alla mirabile e sorprendente diversità dei volti che incontrandosi fanno esperienza dell’Identico e del Diverso, si oppone l’uniformità dei volti mutilati. Unica differenza ammessa – d’altronde, al consumatore la libertà di scelta in qualche modo va sempre garantita – quella del colore della mascherina.

Non è casuale che il suo uso, limitato per il momento, per benevola concessione dei governanti, a determinati contesti sia invece rimasto obbligatorio a scuola, a dispetto del gran caldo del mese di maggio e della mancata installazione dei sanificatori d’aria. (Quanto ai condizionatori, essendo tutti gli studenti e i docenti schierati per la pace, non è nemmeno il caso di parlarne …).

Le nuove generazioni, infatti, non solo vanno educate al conformismo e alla sudditanza, pure con massicce dosi di pedagogia della paura, la quale occhieggia dietro la mordacchia messa sul viso, ma rappresentano anche la carne viva di una vera rottura antropologica. Esse sono deputate a realizzare appieno la medicalizzazione dell’esistenza (spendibile, all’occorrenza, come formidabile ricatto di fronte ad eventuali conflitti politici e sociali) e la trasformazione dell’Altro da fondamento vitale e crocevia di senso a incubatore e diffusore di virus, incarnazione post-moderna dell’homo homini lupus che già ha corso ringhiante le inospitali praterie neoliberiste, sbranando vincoli comunitari, solidarietà di classe, legami affettivi.

Nell’universo indistinto delle mascherine, dove la sola differenza ammessa è quella della United Colors alla Benetton, c’è però qualcuno più uguale degli altri che il proprio volto lo può esibire, anche se farebbe molto meglio a nasconderlo.

I sovrani francesi nel Medioevo erano ritenuti depositari di sovrannaturali poteri taumaturgici attraverso l’imposizione delle mani, ciò che richiedeva, perlomeno, uno sporadico contatto fisico con i sudditi; i nostri regnanti, invece, danno l’impressione di essere in possesso di una miracolosa immunità, non tanto rispetto al virus con cui hanno continuato a bombardarci per due lunghi anni, ma alla decenza, o meglio a quella che George Orwell chiamava common decency che non è semplicemente rispetto del decoro.

Infatti, la maschera arrogante e predatrice del potere e la sua controfigura compassata e sermoneggiante del munus conoscono solo l’esenzione dal vincolo e dalla responsabilità, non certo la disponibilità al dono che istituisce reti di reciprocità, uno scambio paritario faccia a faccia.

 

Fernanda Mazzoli


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Gravidanza e dono. La legge sulla «gravidanza solidale» tra donne in Parlamento. Si codifica che la maternità non è dono, ma diritto. Ma il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto, è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica. Si genera nella mente prima che nel corpo: la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva.

Salvatore Bravo
Gravidanza e dono

La legge sulla «gravidanza solidale» tra donne in Parlamento.
Si codifica che la maternità non è dono, ma diritto.
Ma il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto,
è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica.
Si genera nella mente prima che nel corpo:
la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva.



In Parlamento è stata depositata una proposta di legge per regolamentare la così detta e codificata «gravidanza solidale» tra donne. Il ministero orwelliano della verità è continuamente operante: non solo si mutila la storia delle verità disorganiche al sistema, ma anche le parole sono orientate al relativismo semantico.
Il semanticidio è l’ultima frontiera del dominio. Le parole sono curvate ai bisogni delle nuove classi dirigenti globali. Non più madre surrogata: l’ordine del discorso liberista governa con le parole l’immaginario critico dei singoli e dei popoli per neutralizzarlo, si deve dire «madre solidale». Quest’ultima ospita il feto, “senza scopo di lucro”, sviluppato secondo le tecniche della fecondazione in vitreo. In tal modo coppie di ogni orientamento acquisiscono il diritto alla maternità-paternità.
La maternità è, in tal modo, oggetto di giurisprudenza: si codifica il diritto alla maternità e alla paternità. Non più dono, ma diritto!
Il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto, è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica. Si genera nella mente prima che nel corpo, nel sentire l’assenza dell’alterità verso cui ci si dispone in modo integrale: la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva. Il bisogno di incontrarsi per completarsi pone il senso ontologico dell’esistenza di ogni essere umano. Il dono codificato nella gabbia della legge è negato nella sua verità ontologica per essere merce a disposizione del compratore. Si riproduce la logica dell’azienda: la giurisprudenza codifica i doveri e i diritti del compratore e del venditore. La madre incubatrice, il cui ruolo è ideologicamente edulcorato dal termine “solidale”, vende il “nuovo prodotto” alla madre che lo acquisisce. L’esperienza della maternità/paternità è trasformata in “aziendalizzazione della vita sin sul nascere”.
Il capitalismo non può tollerare il dono autenticamente tale, deve monetizzare ogni respiro, gesto e scelta dell’esistenza. La nascita di un nuovo essere (e dunque la maternità donativa) quale dono che offre allora un nuovo sguardo con cui contemplare la vita, non può essere tollerata dal modo di produzione capitalistico: il dono è uno scandalo dove regna solo il profitto, per cui è soffocato sul nascere.
La «gravidanza solidale» – con annessa menzogna semantica – è esperienza assoluta del capitale. Se la maternità da dono diviene un contratto che stabilisce i compensi e gli obblighi delle protagoniste, si cancella l’idea stessa di dono dall’orizzonte percettivo, immaginativo e concettuale dei popoli e dei singoli. Si cancella l’amore donativo e disinteressato di cui la maternità è l’archetipo. L’interesse personale e la tracotanza del denaro divengono le uniche leggi che devono governare la vita.
In maniera analoga a quanto accade per la scelta degli studi fino alle relazioni affettive, tutto dev’essere regolamentato dall’unica legge dell’interesse privato, in cui a prevalere è il diritto del più forte. L’autentica maternità solidale ritrova la sua verità nelle relazioni che rifuggano dalla quantificazione. La maternità solidale tra donne è, d’altronde, un’esperienza antica. Non era raro in passato nelle famiglie allargate meridionali, che una madre consentisse ad un’altra madre che non poteva avere figli di crescere il proprio figlio. Ciò accadeva su un fondo di solidarietà, in cui le due donne non si contendevano il figlio, ma ciascuna contribuiva alla sua crescita secondo modalità diverse. I padri non erano esclusi, ma si inserivano in tali scelte all’interno di convenzioni e valori non codificati. L’unione non era e non dev’essere nella legalità del contratto, ma dev’essere condizione etica orientata al bene che si autoregola.

Monetizzazione della vita
Il sistema globale con le sue oligarchie nichilistiche produce diritti universali sempre in funzione dei diritti individuali e, in particolare delle classi più abbienti: il diritto è in astratto universale, nei fatti è un privilegio di classe. Siamo innanzi ad un episodio della lotta di classe: coppie benestanti si rivolgeranno a donne precarie e bisognose di denaro per usare il loro corpo come incubatrice, in cambio di denaro, da corrispondere in svariate modalità non rintracciabili.
In un contesto generale nel quale l’interesse privato e il profitto sono la legge aurea che tutto guida l’uso del termina “solidale” si svela nella sua ipocrisia manipolatrice. Si manipolano le parole per determinare il modo di pensare e di agire dei subalterni che le impiegano nel loro dire quotidiano. Una donna ricca può comprare il corpo di un’altra donna per soddisfare un proprio desiderio, una “voglia” di maternità (possessiva), senza dover vivere il rischio della gravidanza che “deforma” il corpo femminile conformato su canoni estetizzanti (la gravidanza mette in gioco molteplici aspetti nella persona e nel corpo della donna che dovrà accogliere dentro di sé l’alterità di un altro corpo, altro da sé, e per lunghi nove mesi, per non parlare della maternità che si esprimerà nel periodo dell’allattamento). Oppure pone rimedio alla sua biologica impossibilità di generare (sterilità) col potere che le deriva dal censo. La predazione, legge del modo di produzione capitalistico, affonda i suoi denti vampireschi nella maternità riducendola ad un affare.
La solidarietà diviene nuovo business, ammantato di stucchevole “buonismo”. Il sistema produce menzogne con la patina delle belle parole per vincere le ultime resistenze etiche. Dietro il paravento della gravidanza solidale non è difficile pensare che giovani donne migranti e precarie disperate possano trovare un mezzo per sopravvivere vendendo non solo il loro corpo, ma soprattutto il significato profondo di questa esperienza nella vita di donna e di madre.
La “gravidanza solidale”, inoltre, permetterebbe a donne in carriera che hanno scelto la professione quale obiettivo primo di pianificare la gravidanza usando il corpo delle perdenti della globalizzazione. La maternità diviene un obiettivo individualistico: non più vita che esce alla luce spontaneamente e liberamente.
Altro punto doloroso: la gravidanza è gestita solo da donne. Siamo all’eliminazione della paternità. La gravidanza diviene un affare tra donne, gli uomini sono solo un dettaglio biologico. Si sperimenta una nuova formula della procreazione: la gravidanza tra sole donne.

Femminismo liberista
I parlamentari che hanno proposto la legge sono in linea con il nuovo femminismo liberista che inneggia all’inclusione nel mercato, ma che in realtà produce esclusione sociale. La “maternità solidale” esclude e ridimensiona il ruolo della paternità. La logica implicita in tale proposta di legge è l’individualismo proprietario, per cui il bambino appartiene alle donne, in quanto hanno la potenzialità di produrlo – come fosse merce – per soddisfare un desiderio codificato e legittimato dalla cultura astratta del diritto.
Il femminismo fa un nuovo salto di qualità, si orienta verso la volontà di potenza e di dominio. Se la tecnica consente di rendere il ruolo degli uomini secondario, la gestione della vita e della comunità politica passa al nuovo femminismo in salsa transumana.
Si prepara con parole “buone” e con gradualità una rivoluzione antropologica, in cui il maschio è solo biologia: il resto è un affare tra donne. Il diritto alla maternità tra donne valuta i bisogni della sola madre: il bambino, con il suo naturale diritto ad una identità, è secondario. Non ci si pone dalla parte del bambino, il più debole in queste relazioni di potere. Cosa potrà provare nel sapere da adulto che è il risultato di una tecnica e di un contratto nessuno lo sa e nessuno si pone tale problema.
Non vi è immaginazione empatica, ma solo desiderio di acquisto e conquista.
In ultimo una società atomizzata e senza capacità spirituali non è nelle condizioni culturali di comprendere che la maternità non è solo una condizione del corpo, ma è un atto emotivo e mentale. Si dovrebbe favorire la cultura del dono e del volontariato, in quanto ogni adulto può vivere maternità o paternità nella cura senza possesso delle persone che incontra sul proprio cammino di vita.
La maternità e la paternità sono al plurale nelle loro espressioni, così come è la vita stessa. Naturalmente tale possibilità è colpevolmente ignorata, taciuta, poiché lo scopo è sempre il possesso individualistico e il business.
I “progressisti” arcobaleno continuano nella loro opera di disintegrazione della comunità, e si fanno braccio armato legislativo del relativismo liberista che tutto riduce a tecnica e a possesso personale. In Inghilterra una madre surrogata può richiedere legalmente fino a 15.000 sterline di rimborso spese, ovvero lo stipendio medio di un anno di una donna a basso reddito. Pertanto il denaro e la tecnica sono le palesi chiavi di lettura della “gravidanza solidale” sotto l’arcobaleno del “progressismo” liberista. L’egoismo e lo sfruttamento della vita sono l’unica legge a cui risponde il liberismo arcobaleno, la nuda vita della maternità è ridotta ad ovaie, embrioni e spermatozoi rigorosamente perfetti, e solo per chi se lo può permettere

… In attesa di tempi più umani rileggiamo la poesia Maternità di Tagore:

«Da dove sono venuto?
Dove mi hai trovato?
Domandò il bambino a sua madre.
Ed ella pianse e rise allo stesso tempo
e stringendolo al petto gli rispose:
tu eri nascosto nel mio cuore, bambino mio,
tu eri il suo desiderio.
Tu eri nelle bambole della mia infanzia,
in tutte le mie speranze,
in tutti i miei amori, nella mia vita,
nella vita di mia madre,
tu hai vissuto.
Lo Spirito immortale che presiede nella nostra casa
ti ha cullato nel Suo seno in ogni tempo,
e mentre contemplo il tuo viso,
l’onda del mistero mi sommerge
perché tu che appartieni a tutti,
tu mi sei stato donato.
E per paura che tu fugga via
ti tengo stretto nel mio cuore.
Quale magia ha dunque affidato
il tesoro del mondo nelle mie esili braccia?».


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Judith Schalansky – La rovina è un luogo utopico in cui passato e futuro diventano una cosa sola. È dolorosa la consapevolezza di essere mortali, e comprensibile il desiderio vanaglorioso di resistere alla fugacità e di lasciare delle tracce a una posterità sconosciuta, non solo di essere ricordati, ma di esserlo “in perpetuo”… Anche se nulla dura per sempre, ci sono cose che si mantengono più a lungo di altre …

Judith Schalansky, Inventario di alcune cose perdute, Nottetempo, 2020.

Judith Schalansky 

La rovina è un luogo utopico in cui passato e futuro diventano una cosa sola. È dolorosa la consapevolezza di essere mortali, e comprensibile il desiderio vanaglorioso di resistere alla fugacità e di lasciare delle tracce a una posterità sconosciuta, non solo di essere ricordati, ma di esserlo “in perpetuo”…
Anche se nulla dura per sempre, ci sono cose che si mantengono più a lungo di altre …

Descrizione

La Storia del mondo è piena di cose che sono andate perdute, smarrite nel corso del tempo o distrutte intenzionalmente, a volte semplicemente dimenticate – o magari, come si racconta nell’Orlando furioso, volate in un archivio sulla Luna. Inventario di alcune cose perdute è una raccolta di dodici storie, ciascuna dedicata a una cosa che non c’è più: narrazioni sospese in un delicato equilibrio tra presenza e assenza, fotografie ben a fuoco ma stampate con inchiostro scuro su carta scura, piccole realtà che solo l’immaginazione è in grado di riportare alla memoria. Si va da Tuanaki, un’isoletta indicata su vecchie mappe che ormai giace sotto il livello del mare, alla tigre del Caspio, il cui ultimo esemplare impagliato andò distrutto in un incendio; dallo scheletro di un presunto unicorno, nascosto chissà dove, a Kinau, un selenografo tedesco dell’800 di cui pare nessuno sappia nulla, fino alle misteriose lacune dei carmi amorosi di Saffo, che custodiscono ipotesi e segreti. Come aveva già fatto nel suo Atlante delle isole remote, in questo libro Judith Schalansky gioca a ricreare mondi del passato a partire da pochi frammenti, si cala nei contesti, nei linguaggi, coglie di volta in volta gamme di colori e sensazioni, restituendo a ogni cosa anche il più piccolo dettaglio, storico o visionario che sia.



Judith Schalansky, nata a Greifswald nel 1980, si è laureata in Storia dell’Arte e in Design e lavora a Berlino come scrittrice e designer, oltre a tenere corsi di tipografia. Il suo Atlante delle isole remote è uscito in Italia per Bompiani nel 2013. Lo splendore casuale delle meduse, pubblicato da nottetempo nel 2013 e tradotto in più di venti lingue, ha vinto nel 2012 il Premio Buchkunst Stiftung per il libro più bello dell’anno e nel 2013 il Premio Salerno Libro d’Europa. Inventario di alcune cose perdute, pubblicato da nottetempo nel 2020, ha vinto in Germania numerosi premi, tra cui il Wilhelm Raabe-Literaturpreis 2018, e in Italia il Premio Strega Europeo 2020.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Karel Čapek (1890-1938) – Chi fiorisce e porta il frutto non sa nulla della decadenza, ma della germogliazione. Questa è la vera primavera; quello che non è pronto ora, non sarà pronto nemmeno in aprile. Il futuro non è davanti a noi, poiché è già qui, sotto foglia di germoglio; è già tra di noi; e ciò che non è tra di noi, non ci sarà nemmeno in futuro. La cosa migliore di tutte è essere una persona viva; ovvero una persona che cresce.

«Per tutto l’anno è primavera e per tutta la vita è gioventù; sempre qualcosa fiorisce.

È solo un modo di dire che è autunno; noi intanto fioriamo di altri fiori, cresciamo sotto terra, fondiamo sui nuovi virgulti; c’è sempre qualcosa da fare.

Solo quelli che tengono le mani in tasca dicono che il tempo volge al peggio; ma chi fiorisce e porta il frutto, anche se fosse novembre, non sa nulla dell’autunno, bensì dell’estate d’oro; non sa nulla della decadenza, ma della germogliazione. Aster autunnale, amico mio, l’anno è tanto lungo che non ha nemmeno fine».

«Diciamo che la primavera è l’epoca della germogliazione; in realtà l’epoca della germogliazione è l’autunno. Per quanto riguarda la natura, è vero sì che l’autunno è la fine dell’anno, ma è ancor più vero che l’autunno è l’inizio dell’anno. È opinione corrente che in autunno cadano le foglie, e davvero non lo posso negare, affermo solo che in un certo senso, più profondo, l’autunno è l’epoca in cui effettivamente germogliano. Le foglie si seccano perché arriva l’inverno: ma si seccano anche perché già arriva la primavera; perché già si creano i nuovi germogli, piccoli come capsule esplosive, da cui scoppierà la primavera. È un’illusione ottica che gli alberi e i cespugli siano spogli in autunno; infatti, sono cosparsi di tutto ciò che si aprirà e si svilupperà in primavera. È solo un’illusione ottica che il fiore in autunno appassisce; giacché in realtà nasce. Diciamo che la natura riposa, mentre penetra impetuosamente sempre più avanti. […]

Gente, questa è la vera primavera; quello che non è pronto ora, non sarà pronto nemmeno in aprile.

Il futuro non è davanti a noi, poiché è già qui, sotto foglia di germoglio; è già tra di noi; e ciò che non è tra di noi, non ci sarà nemmeno in futuro.

Non vediamo i germogli, perché sono sotto terra; non conosciamo il futuro, perché è in noi.

A volte ci sembra di puzzare di decomposizione, ingombri dei residui secchi del passato; ma se potessimo guardare quanti grassi e bianchi virgulti si aprono la strada in quel vecchio terreno di coltura che si chiama l’oggi; quanti semi germogliano segretamente; quante vecchie piante si raccolgono e si concentrano in una gemma viva, che un giorno esploderà in una vita fiorente; se potessimo guardare il segreto formicolio del futuro tra di noi, evidentemente ci diremmo che grande sciocchezza sono la nostra malinconia e la nostra sfiducia; e che la cosa migliore di tutte è essere una persona viva; ovvero una persona che cresce».

Karel Čapek, L’anno del giardiniere, a cura di Daniela Galdo, Sellerio, Palermo 2021, pp. 112 e 149.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Robert P. Harrison – … l’anima umana si presta alla coltivazione morale, spirituale e intellettuale, come il giardino … La storia senza i giardini è un deserto. Un giardino staccato dalla storia è superfluo. I giardini che abbelliscono questo nostro Eden mortale sono la prova inconfutabile della ragion d’essere dell’umanità sulla Terra.

Robert Pogue Harrison, Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, Fazi Editore, Roma 2009.

«… l’anima umana si presta

alla coltivazione morale,

spirituale e intellettuale come il giardino …»

«La storia senza i giardini è un deserto.

Un giardino staccato dalla storia è superfluo.

I giardini che abbelliscono questo nostro Eden mortale sono la prova inconfutabile

della ragion d’essere dell’umanità sulla Terra».

Robert Pogue Harrison, Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, tr. it. di M. Matullo e V. Nicolì, Fazi, Roma 2009, p. 90 (cap. 7: «Il Giardino di Epicuro», p. 90) e Prefazione.

Prefazione

Gli esseri umani non sono fatti per guardare troppo a lungo la testa di Medusa sfoggiata dalla storia, la sua rabbia, la morte e la sofferenza infinita. Non è per un difetto nostro, al contrario, la riluttanza a farci pietrificare dalla realtà della storia è alla base di molte di quelle cose che rendono la vita umana tollerabile: l’impulso religioso, l’immaginazione poetica e utopica, gli ideali morali, le proiezioni metafisiche, l’arte narrativa, le trasfigurazioni estetiche del reale, la passione per il gioco, l’amore per la natura. Albert Camus una volta ha detto: «La miseria mi impedì di creder che tutto sia bene sotto il sole e nella storia; il sole mi insegnò che la storia non è tutto». Si potrebbe aggiungere che se la storia diventasse tutto sprofonderemmo nella pazzia.

Per Camus era il sole, ma spesso nella cultura occidentale è stato il giardino, reale o immaginario, a costituire un rifugio dalla frenesia e dal tumulto della storia. Il lettore scoprirà in questo libro giardini remoti come il giardino degli dèi di Gilgamesh, le Isole dei Beati dei greci, il giardino dell’Eden di Dante in cima al monte del Purgatorio; oppure giardini ai margini della città terrena, come l’Accademia di Platone, il giardino di Epicuro e le ville del Decameron di Boccaccio; o ancora giardini che sbocciano nel bel mezzo della città come il Jardin du Luxembourg a Parigi, Villa Borghese a Roma e i giardini dei senzatetto di New York. Ma tutti questi giardini, in un modo o nell’altro, per come sono stati concepiti e per il fatto di essere ambienti creati dalla mano dell’uomo, sono una sorta di rifugio, se non addirittura di paradiso.

Eppure, per quanto riparati, i giardini umani hanno sempre un posto nella storia, se non altro come forze che si contrappongono alle spinte deleterie della storia stessa. Nella celebre frase con cui si conclude il Candide di Voltaire, «Il faut cultiver notre jardin» (‘Dobbiamo coltivare il nostro giardino’), il giardino in questione deve essere interpretato sullo sfondo delle guerre, della pestilenza e delle catastrofi naturali raccontate nel romanzo. Questo porre l’accento sulla coltivazione è fondamentale: è proprio perché siamo gettati nella storia che dobbiamo coltivare il nostro giardino. In un Eden immortale non c’è bisogno di coltivare, poiché tutto è già dato spontaneamente. I giardini umani possono apparirci come piccole aperture sul paradiso nel cuore di un mondo caduto, ma il nostro dover creare, mantenere e prenderci cura dei giardini tradisce la loro origine postlapsaria. La storia senza i giardini è un deserto. Un giardino staccato dalla storia è superfluo.

I giardini che abbelliscono questo nostro Eden mortale sono la prova inconfutabile della ragion d’essere dell’umanità sulla Terra. Quando la storia scatena le sue forze distruttrici e annichilenti, per non cedere alla pazzia e preservare la nostra umanità dobbiamo agire contro e nonostante quelle forze. Dobbiamo ricercare le forze curative e redentrici, lasciandole crescere dentro di noi. Ecco cosa significa prendersi cura del nostro giardino. L’aggettivo possessivo usato da Voltaire – “notre” – si riferisce al mondo che condividiamo. È il mondo della pluralità che pian piano prende forma grazie al potere dell’agire umano. “Notre jardin” non è mai un giardino di interessi esclusivamente individuali in cui rintanarsi per sfuggire al reale: è quel pezzo di terreno sulla Terra, dentro se stessi o all’interno della collettività, in cui vengono coltivate le virtù culturali, etiche e civili che salvano la realtà dai suoi istinti peggiori. Quelle virtù sono sempre nostre.

Aggirandosi per questo libro il lettore attraverserà diversi tipi di giardino – reali, mitici, storici, letterari –, tutti però facenti parte, chi più chi meno, della storia di questo “notre jardin”. Se la storia è in ultima analisi il conflitto terrificante, costante e infinito tra forze di distruzione e forze di coltivazione, allora il mio libro si schiera dalla parte di queste ultime. E cerca in tal modo di partecipare alla vocazione del giardiniere alla cura.




Indice

Prefazione

  1. La vocazione alla cura
  2. Eva
  3. Il giardiniere umano
  4. Giardini dei senzatetto
  5. Mon jardin à moi
  6. Academos
  7. Il giardino di Epicuro
  8. I racconti del giardino di Boccaccio
  9. Giardini monastici, repubblicani e principeschi
  10. Una nota su Versailles
  11. Sull’arte perduta del vedere
  12. Miracoli simpatici
  13. Lo spartiacque del paradiso: islam e cristianesimo
  14. Uomini non distruttori
  15. Il paradosso di un’epoca
  16. Epilogo

Appendice I

Appendice II

Appendice III

Appendice IV


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Paulo Coelho – Gli uomini si dividono in quelli che costruiscono e quelli che piantano. I costruttori concludono il loro lavoro e, presto o tardi, sono colti dalla noia. Quelli che piantano sono soggetti a piogge e tempeste, ma il giardino non cesserà mai di crescere.

Gli uomini si dividono

in quelli che costruiscono

e quelli che piantano.

I costruttori concludono il loro lavoro

e, presto o tardi, sono colti dalla noia.

Quelli che piantano

sono soggetti a piogge o tempeste,

ma il giardino non cesserà mai di crescere.

Paulo Coelho


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Clifford Geertz (1926-2006) – La Cultura deve essere intesa come una cornice fondatrice di senso. Questo significa un atteggiamento critico verso modi di pensare che riducono le cose a uniformità, omogeneità, concordanza di vedute e consenso.

Clifford Geertz 01

«La Cultura deve essere intesa come una cornice fondatrice di senso, all’interno della quale gli uomini vivono e danno forma alle loro convinzioni ed al loro sé, e come una forza regolatrice in fatto di questioni di convivenza umana. […] Questo significa un atteggiamento critico verso modi di pensare che riducono le cose a uniformità, omogeneità, concordanza di vedute e consenso».

Clifford James GeertzAntropologia e filosofia: frammenti di una biografia intellettuale, il Mulino, Bologna 2001.

 

«[…] senza l’aiuto di modelli culturali, l’uomo sarebbe funzionalmente incompleto […] una specie di mostro informe senza meta né potere di autocontrollo, un caos di impulsi spasmodici e vaghe emozioni. […] L’uomo ha bisogno di […] fonti simboliche di illuminazione per trovare la sua strada nel mondo, perché quelle di tipo non simbolico, inserite nel suo corpo costituzionalmente, gettano una luce troppo soffusa. […] All’uomo sono date capacità innate di reazione estremamente generali che lo lasciano regolato con molta minore precisione: […] non diretto da modelli culturali – sistemi organizzati di simboli significanti – il comportamento dell’uomo sarebbe praticamente ingovernabile, un puro caos di azioni senza scopo e di emozioni in tumulto, la sua esperienza sarebbe praticamente informe. La cultura, la totalità accumulata di questi modelli, non è un ornamento dell’esistenza umana ma – base principale della sua specificità – una condizione essenziale per essa».

Clifford James Geertz, Interpretazione di culture [The Interpretation of Cultures, 1973], traduzione di E. Bona, il Mulino, Bologna 1987.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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