«[…] la mia unica speranza è che tutto ciò che si fa rimane».
Pavel Aleksandrovič Florenskij, Non dimenticatemi, 1935
È davvero la «prospettiva» una immagine naturale della essenza del mondo?
[…] È proprio vero che la prospettiva, come sostengono i suoi fautori, esprime la natura delle cose e pertanto deve sempre e dovunque essere considerata come presupposto assoluto di veridicità artistica? O è piuttosto solo uno schema (e per di più uno dei possibili schemi di rappresentazione) che corrisponde non alla percezione del mondo nell’insieme, ma solo a una delle possibili interpretazioni del mondo, legata a un ben determinato modo di sentire e di comprendere la vita? O ancora: è forse la prospettiva, l’immagine prospettica del mondo, l’interpretazione prospettica del mondo, un’immagine naturale, della stessa essenza del mondo e da esso scaturita, autentica parola del mondo, o piuttosto è soltanto una particolare ortografia, una costruzione fra le tante, caratteristica di coloro che l’hanno creata, appartenente al secolo e alla concezione di vita di coloro che l’hanno inventata, e che esprime il loro stile, ma che non esclude affatto la possibilità di altre ortografie, di altri sistemi di trascrizione, che corrispondano alla concezione di vita e allo stile di altri secoli? E per di più, forse, sistemi di trascrizioni più legati alla sostanza più vera di questa, perché, in ogni caso, la trasgressione di quella trascrizione prospettica, alla fine turba così poco la verità artistica della rappresentazione, quanto gli errori di grammatica nella scrittura di un santo turbano la verità vitale dell’esperienza da lui riportata.[…] Gli appiattiti rilievi babilonesi ed egiziani non rivelano segni di prospettiva, come non rivelano del resto neppure ciò che propriamente conviene definire prospettiva rovesciata; la stessa policentricità delle raffigurazioni egiziane, come è noto, è estremamente ampia ed è canonica nell’arte egiziana; chiunque si ricorda che il volto e i piedi nei rilievi e nei murali egizi sono di profilo, mentre le spalle e il petto sono ruotati . Ma in essi non c’è comunque prospettiva diretta, mentre la stupenda veridicità delle sculture egizie di ritratti e di genere dimostra il grandissimo istinto di osservazione dei pittori egizi .
Se le regole della prospettiva veramente penetrano in modo così essenziale nella verità del mondo, come credono fermamente i loro fautori, allora non si potrebbe assolutamente capire come l’occhio raffinato del maestro egizio non si accorgesse della prospettiva e come avesse potuto non accorgersene. D’altra parte il noto storico-matematico Moritz Cantor rileva che gli egizi possedevano già le prime nozioni geometriche delle rappresentazioni prospettiche. In particolare, essi conoscevano il sistema di proporzioni geometriche ed inoltre da questo punto di vista si spinsero così lontano da poter applicare dove necessario una scala ingrandita o rimpicciolita. […]
La mancanza di una prospettiva lineare negli egiziani come, anche se in un altro senso, nei cinesi, è più una dimostrazione della fioritura, anzi della «sfioritura» senile della loro arte, che di inesperienza infantile; è la liberazione dalla prospettiva o il rifiuto a priori del suo potere […].
Vitruvio attribuisce ad Anassagora l’invenzione della prospettiva
È notevole che proprio ad Anassagora Vitruvio attribuisca l’invenzione della prospettiva e per di più nella skigraphia (così chiamata dagli antichi), cioè nella pittura delle scenografie teatrali. Secondo la notizia di Vitruvio, quando, più o meno attorno al 470 a.C., Eschilo rappresentò le sue tragedie in Atene, e il noto Agatarco gli allestì le scenografie e vi scrisse un trattato, il Commentarium, proprio per questo Anassagora e Democrito furono stimolati a scrivere scientificamente sullo stesso argomento: la pittura delle scenografie. […]
Quindi, la prospettiva non nasce all’interno dell’arte pura e non rappresenta affatto, come era il suo scopo iniziale, una viva percezione artistica della realtà; viene invece scoperta nel campo dell’arte applicata, o più esattamente nel campo della tecnica teatrale che assume al suo servizio la pittura e la sottomette ai suoi scopi. Corrispondono questi fini al fine dell’arte pura?
È questa una domanda che non ha bisogno di risposta.
La scenografia vuole sostituire la realtà con la sua apparenza
Il fatto è che la pittura ha il compito non di duplicare la realtà, ma di offrire la più profonda comprensione della sua «architettonica», del suo materiale, del suo significato; e la comprensione di questo significato, di questo materiale della realtà, della sua «architettonica», viene offerta all’occhio contemplativo del pittore nel «contatto vitale» con la realtà, nell’immedesimazione e nella empatia con la realtà. Fra l’altro la scenografia vuole, per quanto possibile, sostituire la realtà con la sua apparenza […].
La scenografia è «inganno», l’arte pura è innanzi tutto, verità della vita
La scenografia è «inganno», anche se seducente; mentre l’arte pura è, o per lo meno vuole essere, innanzi tutto, verità della vita, che non sostituisce la vita, ma si limita ad indicarla simbolicamente nella sua più profonda realtà. La scenografia è uno schermo che coglie la mondanità dell’essere, mentre la pittura pura è una finestra spalancata sulla realtà. […] Fino a quel momento la scena greca era contrassegnata solo da «quadri e drappi»: poi cominciò a farsi sentire il bisogno di illusione. Ecco, supponiamo che lo spettatore, oppure lo scenografo-pittore, sia veramente incatenato, come il prigioniero della spelonca di Platone, alla poltrona teatrale, e non possa o comunque non debba avere un immediato rapporto vitale con la realtà, come se fosse separato dalla scena da una barriera di vetro ed esistesse un unico occhio immobile che guarda, senza penetrare nell’essenza stessa della vita […]: questi metodi di rappresentazione prospettica hanno realmente un loro significato, per un’illusione ottica così morbosa e priva, in gran parte, di umanità, nel senso più ampio.
Nel V secolo a.C. la «prospettiva» era nota
Perciò dobbiamo riconoscere come un fatto stabilito che, perlomeno, nella Grecia del V secolo a.C., la prospettiva era nota, e se in qualche caso, nonostante tutto, non veniva applicata, non si trattava evidentemente di una ignoranza dei suoi princìpi, ma di altre e più profonde motivazioni derivanti da «superiori esigenze artistiche» […]. Sarebbe molto difficile mettere in dubbio il fatto che, quando essi non applicavano le regole della prospettiva, era semplicemente perché non volevano applicarle, perché le ritenevano inutili e antiartistiche.
[…] È possibile immaginare che […] fossero sconosciuti i semplici metodi di prospettiva lineare? E, in effetti, dove abbiamo a che fare con le illusioni scenografiche, usate per estendere ingannevolmente lo spazio della scena teatrale […] ci imbattiamo necessariamente in un uso della prospettiva lineare corrispondente allo scopo stabilito. Lo si può osservare soprattutto nei casi in cui la vita, allontanandosi dalle sue sorgenti profonde, scorre attraverso le acque poco profonde del facile epicureismo, scorre nell’atmosfera del superficiale spirito borghese degli […] omuncoli che avevano perso la profondità del noumeno del genio greco […].
La radice della «prospettiva» è il teatro
La radice della prospettiva è il teatro, non solo per la ragione storico-tecnica, delle origini necessariamente teatrali della prospettiva, ma anche in virtù di un impulso più profondo: la teatralità della rappresentazione prospettica del mondo. In questo impulso coesiste anche una percezione inerte del mondo, priva della sensazione della realtà e del senso di responsabilità, cioè che, per essa, la vita è solo spettacolo […].
Tuttavia la questione è seria. Significa forse […] che le leggi della prospettiva realmente erano sconosciute agli antichi? […]
Non è questo il luogo per definire o semplicemente spiegare il legame tra le dolci radici del Rinascimento e gli amari frutti kantiani.
[…] tutti gli spauracchi che ci hanno divisi dal Medioevo sono stati inventati dagli storici stessi; abbiamo capito che nel Medioevo scorre copioso e pregnante il fiume della vera cultura, con la sua scienza, la sua arte, il suo apparato statale, in genere con tutto quello che appartiene alla cultura, ma appunto con ciò che è suo, non solo, ma prossimo allo spirito autentico dell’antichità.
La «prospettiva» dell’uomo rinascimentale costruisce una realtà fantasmagorica
[…] Il pathos dell’uomo nuovo [rinascimentale] è di sfuggire ad ogni realtà, perché l’«io voglio» detti di nuovo legge attraverso la ricostruzione di una realtà fantasmagorica, anche se imprigionata in uno schema grafico. Invece, il pathos dell’uomo antico, come quello dell’uomo medioevale, è l’accettazione, il generoso riconoscimento, l’affermazione di ogni genere di realtà come un bene, perché l’essere è il bene e il bene è l’essere. Il pathos dell’uomo medioevale è l’affermazione della realtà in sé è fuori di sé, e perciò è l’obiettività. Al soggettivismo dell’uomo nuovo [rinascimentale] appartiene l’illusionismo: al contrario non c’è niente di tanto lontano dai pensieri e dalle intenzioni dell’uomo medioevale, le cui radici risalgono all’antichità, come la creazione di simulacri, e la vita tra i simulacri. Per quanto riguarda l’uomo nuovo, dalla bocca dei filosofi della Scuola di Marburgo prendiamo la sincera dichiarazione che la realtà esiste soltanto quando, e nella misura in cui, la scienza si degna di autorizzarne l’esistenza, dando questo permesso nella forma di uno schema fittizio […]. Il brevetto sulla realtà viene legittimato solo nella cancelleria di H. Cohen ed è nullo senza la sua firma e il suo timbro. Ciò che a Marburgo viene affermato apertamente costituisce l’essenza del pensiero rinascimentale […].
Ma è degno di attenzione e di un profondissimo riso interiore il fatto che l’uomo nuovo contrabbandi con insistenza come un ritorno alla realtà naturale e come una liberazione dalle pastoie impostegli da qualcuno, questo travisamento, questo deterioramento della naturale capacità umana di sentire e pensare, questa rieducazione nello spirito del nichilismo. Perciò, in effetti, quando si sforza di raschiare via dall’anima umana i caratteri della storia, strappa via l’anima stessa.
L’uomo antico e medioevale sa che per volere è necessario essere
L’uomo antico e medioevale, invece, sa innanzi tutto che per volere è necessario essere, essere una realtà e stare dentro la realtà a cui bisogna appoggiarsi: egli è profondamente realistico e sta ben saldo sulla terra, a completa differenza dell’uomo nuovo, che considera soltanto se stesso e i suoi desideri e quindi, inevitabilmente, i mezzi più diretti per realizzarli e soddisfarli. Di qui si capisce che le premesse di una concezione di vita realistica sono state e saranno sempre le seguenti: esistono delle realtà, cioè esistono dei centri dell’essere, dei grumi di essere, soggetti a leggi proprie, e perciò aventi ciascuno la propria forma; perciò nulla di ciò che esiste può essere considerato come materiale indifferente e passivo, utilizzabile per riempire un qualsiasi schema […]; infatti le forme devano essere comprese secondo la loro vita, devono essere rappresentate attraverso se stesse, conformemente a come sono concepite, e non negli scorci di una prospettiva predisposta in anticipo. […]
Ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica
La nostra tesi […] consiste in questo, che in quei periodi storici della creazione artistica in cui non si nota l’uso della prospettiva, gli artisti figurativi non è che ‘non sappiano’, ma non vogliono usarla, o più precisamente, vogliono servirsi di un altro principio di rappresentazione che non sia la prospettiva, e vogliono così perché il genio del tempo comprende e sente il mondo in un modo cui è immanente anche questo mezzo di rappresentazione. Invece, in altri periodi, si dimenticano il senso e il significato della raffigurazione non-prospettica, si perde decisamente l’intuizione di essa, perché la concezione di vita del tempo, diventata completamente diversa, porta a un quadro prospettico del mondo. E in un caso e nell’altro c’è una consequenzialità interiore, una propria logica rigorosa, in sostanza primaria, e, se questa logica tarda ad apparire in tutta la sua forza, questo avviene non per la sua complessità, ma per l’ambigua incertezza dello spirito del tempo tra le due autodefinizioni che si escludono a vicenda.
In definitiva, ci sono solo due esperienze del mondo: l’esperienza umana in senso lato e l’esperienza ‘scientifica’, cioè ‘kantiana’, come ci sono solo due tipi di rapporto con la vita: quello interiore e quello esteriore, come ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica.
Pavel Aleksandrovič Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti, a cura di Nicoletta Misler, Edizione Casa del Libro Editrice, Roma, 1983; di nuovo pubblicato nel 2005 da Gangemi Editore.
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