Gabriele Guzzi, Diego Melegari, 
Alessandro Monchietto, Bruno Segre, Marco Veronese Passarella – Idee sottosopra. La sfida della pianificazione: controllo sociale o società del controllo?

Quando ci domandiamo se un altro mondo è possibile,
ci stiamo innanzitutto chiedendo:
esiste 
un metodo alternativo per ripartire le risorse?
Come distribuiremo le cose in modo diverso?

E chi deciderà come vengono distribuite?

 

Per quanto possa sembrare futuristico, la visione di individui e gruppi considerati come entità da tracciare continuamente ha una storia lunga. È cominciata circa sessant’anni fa alle Galapagos, dove una tartaruga si trovò ad ingoiare un succulento boccone nel quale uno scienziato aveva amorevolmente inserito un sensore.
L’aspetto interessante è che le soluzioni adottate all’epoca da chi studiava alci, tartarughe e oche sono oggi adottate dai capitalisti della sorveglianza e presentate come una caratteristica inevitabile della vita nel Ventunesimo secolo.
Quel che è cambiato è che ora gli animali da tracciare siamo noi.

In fin dei conti, cosa fanno Facebook e Google? Ci stimolano – delicatamente e con il nostro consenso – a rivelare informazioni su noi stessi. Gli utenti di queste piattaforme non devono pagare un prezzo in denaro, devono solo lasciare che i loro dati vengano estratti. Per ora, i dati accumulati sono perlopiù usati per vendere prodotti o spazi pubblicitari, ma le possibilità sono molto più ampie.
Come sottolinea Shoshana Zuboff, una delle grandi domande del XXI secolo sarà: chi possiede e controlla i dati che stanno rapidamente diventando una risorsa economica chiave? Il loro uso servirà a favorire processi democratici, o si rivelerà il propellente di un nuovo capitalismo della sorveglianza?

È possibile che pezzi di un mondo migliore stiano lentamente spuntando, e che il capitalismo abbia infine creato i propri becchini (solo che saranno algoritmi, non lavoratori)?

Gli incalcolabili miliardi di gigabyte che Amazon raccoglie – e le meraviglie dei software utilizzati per analizzare questi dati – forniscono un quadro incredibilmente dettagliato di ciò che la gente desidera. Come ogni società Dot-com, Amazon raccoglie quantità improbabili di dati sui suoi consumatori: un negozio convenzionale non sa quali prodotti osservate, quanto tempo passate a guardarli, quali mettete nel carrello e poi riponete sullo scaffale prima di arrivare alla cassa, o anche quali “vorreste” avere. Ma Amazon lo fa. 
Nel frattempo, l’integrazione delle operazioni con i fornitori gli assicura che i prodotti possano essere pronti in quantità sufficienti e in tempi rapidi, così da poter esser consegnati in 24 ore.

Considerata l’enorme scala di questa economia, vediamo affiorare una riorganizzazione rivoluzionaria della produzione capitalista, che potrebbe indurci a porre domande audaci: e se Jeff Bezos si stesse in realtà rivelando un maestro della pianificazione, avvicinandosi nelle sue pratiche molto più al pensiero dei padri del socialismo che ai mentori dell’epoca neoliberale?

I capitalisti dell’epoca IoT (Internet of Things) pianificano quotidianamente più di quanto non si riesca ad immaginare, ma se la buona notizia è che la pianificazione evidentemente funziona, la cattiva è che attualmente si esercita entro i confini di un sistema di profitto che limita ciò che può essere prodotto a ciò che è redditizio.

È tuttavia lecito domandarsi se i piani che i campioni del capitalismo di piattaforma usano ogni giorno per portare beni e servizi nelle mani di coloro che possono pagarli, possano un giorno esser trasformati per assicurare che ciò che produciamo arrivi a coloro che ne hanno più bisogno. Detto diversamente, potremmo conquistare le attuali centrali logistiche e di pianificazione – i Google e le Amazon del mondo – e riconvertirle per costruire civiltà egualitarie ed ecologicamente sostenibili?
Trasformando il modo in cui distribuiamo le cose, potremmo forse iniziare a trasformare tutto il resto dell’economia – da quali cose produciamo e come, a chi lavora e per quanto tempo?

È giunto il momento di riconoscere che il capitalismo è inadeguato a risolvere i problemi che ha creato, dall’ambiente alle diseguaglianze sociali. E che sia ormai impossibile rimettere il dentifricio nel tubetto.
Quello che si può – e si deve – fare, è ridurre progressivamente il campo in cui è il meccanismo impersonale del mercato a regolare i nostri rapporti, ed estendere il campo in cui sono le nostre volontà coscienti a riunirsi su basi paritetiche nel formare una scelta collettiva. Realizzare una società in cui siano i bisogni degli individui e della collettività a muovere la produzione e l’allocazione delle risorse, e non la semplice e inarrestabile sete di profitto.

Di queste ed altre questioni discuteranno – sabato 27 novembre a partire dalle ore 14.30, presso il Polo del ‘900 di Torino – Gabriele Guzzi, Diego Melegari e Marco Veronese Passarella. 
Presiede: Bruno Segre. Modera: Alessandro Monchietto. 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Gli uomini saggi sono sempre veritieri, sia nella loro condotta, sia nei loro discorsi. Non dicono tutto quello he pensano, ma pensano tutto quello che dicono.

Gli uomini saggi sono sempre veritieri,

sia nella loro condotta,

sia nei loro discorsi.

 

Non dicono tutto quello he pensano,

ma pensano tutto quello che dicono.

 

Gotthold E. Lessing, L’educazione del genere umano, Sellerio.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Piero Di Giovanni – Platone direbbe: finché vive, l’uomo deve cercare la verità, così come Socrate la seppe cercare. Conoscere è un guardare in alto, verso la luce del sole: ed è anche un agire, ma un agire che presuppone il miglioramento, se non il cambiamento radicale, delle condizioni dell’uomo nei suoi rapporti con gli altri. Non è vuoto conoscere privo di contenuti.

Platone e l’antiplatonismo di oggi

Il significato allegorico dello splendore della luce del sole non rimanda ad un altro mondo. Platone direbbe: finché vive, l’uomo deve cercare la verità in questo mondo così come Socrate la seppe cercare […].

Per Platone la possibilità del conoscere dipende dal sapere volgere lo sguardo non verso le tenebre ma verso la luce del sole perché solo la luce del sole consente che la verità venga fuori. Ed anche perché la luce del sole […] coincide con l’idea di sommo bene, rappresenta il fondamento costitutivo della conoscenza umana. «Ora – dice Platone –, questo elemento che agli oggetti conosciuti conferisce la verità e a chi conosce dà la facoltà di conoscere, di’ pure che è l’idea del bene; e devi pensarla causa della scienza e della verità, in quanto conosciute» (Repubblica, 508 d-e).

[…] Per Platone la luce e la vista sono «simili» al sole, ma non sono il bene, così come la scienza e la verità sono simili al bene ma non sono il bene; giacché il sole, cioè il bene, consente mediante la luce la vista al soggetto, ossia la conoscenza dell’oggetto in sé e per sé. Per esprimere tale concetto, Platone si serve di una metafora-similitudine, definendo «il sole prole del bene, generato dal bene a propria immagine» (Repubblica, 508 b-c). Il sole, in quanto generato dal bene, consente la vista del bene, poiché ogni azione dell’uomo dovrebbe essere finalizzata al bene. Solo chi non vuol vedere o preferisce tenere gli occhi chiusi non riesce a scorgere, mediante la luce del sole, il bene. […]

Non è operazione facile quella degli uomini: cogliere l’essenza della verità è arduo, perché si tratta di abituarsi ad una luce che in un primo momento acceca provocando un disorientamento generale; un arretramento e uno sbigottimento dinanzi allo splendore del sole. Così accade che, se per caso un uomo arriva a cogliere il senso autentico della realtà, non è detto che anche gli altri uomini sappiano recepirla, perché impreparati a tal punto da non credere a quanto suggerito da chi invece, per primo, ha colto la verità.

Conoscere è un guardare in alto, ma un guardare in alto metaforicamente parlando, perché l’uomo non resti schiavo della sua ignoranza e della sua condizione sociale. Il guardare in alto sta per volgere il viso alla chiara luce del sole per fuggire dalle tenebre della schiavitù. Il conoscere è un agire, ma un agire che presuppone il miglioramento, se non il cambiamento radicale, delle condizioni dell’uomo nei suoi rapporti con gli altri. Non è un vuoto conoscere privo di contenuti banalmente proiettato verso l’aldilà, così come testimonierebbe la figura del saggio Talete mediante l’aneddoto del Teeteto; è invece il conoscere per cambiare questo stato di cose.

Il filosofo, propugnato da Platone, non sta con la testa tra le nuvole completamente distaccato e disinteressato dalle cose di questo mondo. E ciò anche se alcune posizioni «politico-ideologiche» espresse da Platone non lascerebbero dubbi su una certa sua visione dei mondo in cui si muoveva. Egli riteneva tra l’altro che il vero filosofo non fosse interessato ai beni materiali; eppure conferiva ai filosofi il compito e la capacità di guidare lo Stato. […] Platone non pensava ad uno Stato fondato sulla conflittualità e tanto meno sul dominio di una classe sulle altre, ma […] assume a fondamento del sistema socio-politico l’idea di bene nella sua concezione universale di bene da realizzare per tutti quanti i cittadini.

Piero Di Giovanni, Platone e l’antiplatonismo di oggi, Palumbo, Palermo 1982, pp. 131-135.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Luca Grecchi – L’umanesimo della antica filosofia cinese. «Il denaro può comprare una casa ma non un focolare. Può comprare un letto ma non il sonno. Può comprare un orologio ma non il tempo. Può comprare un libro ma non la conoscenza e la saggezza. Può comprare una posizione ma non il rispetto. Può pagare il dottore ma non la salute. Può comprare il sesso ma non l’amore».

Luca Grecchi

L’umanesimo della antica filosofia cinese

ISBN 88-7588-030-1, 2009, pp. 128, Euro 15. Collana “Il giogo”

indicepresentazioneautoresintesi invito alla lettura


«Il denaro può comprare una casa ma non un focolare.

Può comprare un letto ma non il sonno.

Può comprare un orologio ma non il tempo.

Può comprare un libro ma non la conoscenza e la saggezza.

Può comprare una posizione ma non il rispetto.

Può pagare il dottore ma non la salute.

Può comprare il sesso ma non l’amore».



«Il denaro può comprare una casa ma non un focolare.

Può comprare un letto ma non il sonno.

Può comprare un orologio ma non il tempo.

Può comprare un libro ma non la conoscenza e la saggezza.

Può comprare una posizione ma non il rispetto.

Può pagare il dottore ma non la salute.

Può comprare il sesso ma non l’amore».


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Costanzo Preve (1943-2013) – In ricordo di Costanzo Preve. Un libro e un articolo di Salvatore Bravo.

Salvatore Bravo

Pratica filosofica e politica in Costanzo Preve

ISBN 978-88-7588-293-8, 2021, pp. 216, Euro 20 – Collana “Divergenze” [77].

indicepresentazioneautoresintesi


In copertina: Immagine “straniante” di Erwin Piscator che entra nel Teatro Nollendorf, Berlino, 1929.Straniamento è il concetto – legato al teatro di Piscator e di Brecht – adottato da Preve come metafora dell’operazione filosofica per eccellenza e dello scopo della propria opera: mettere in moto un «riorientamento gestaltico», uno “scuotimento” associato a un mutamento radicale di prospettiva, alla trasformazione dello sguardo con cui ci si accosta al mondo, inteso innanzitutto come mondo dei rapporti sociali. Invitare a fare ingresso nel pensiero di Preve significa invitare a familiarizzare con lo straniamento, a prendere confidenza con la problematizzazione del proprio tempo.


I filosofi e l’idra del dominio


 

La verità si svela nel tempo, ci sono filosofi che vivono e pensano il travaglio del proprio tempo storico, hanno il coraggio di “pensare il noto del proprio tempo” e di non arretrare. Concettualizzare il proprio tempo è attività filosofica e politica, il filosofo pensa il proprio tempo per astrarne l’universale concreto, per porre in tensione universale e particolare.

Senza verità non vi è filosofia, non vi è filosofo: non resta che un accademico uso di linguaggi specialistici che non comportano effetti trasformativi della realtà sociale.

Senza verità non vi è politica, ma solo conservazione e comportamento ideologico. La filosofia è giudizio riflettente che prepara la prassi, la trasformazione di sé e del contesto sociale. La prassi necessita della teoria: si costituisce così una relazione feconda tra teoria e prassi che conduce alla responsabilità politica. La prassi filosofica è vita comunitaria che ha cura del singolo nella comunità, in modo che le soggettività possano vivere pienamente la propria indole singolare senza scindere la relazione con l’universale. L’attività filosofica è, dunque, dialettica, deve attraversare la contraddizione del proprio tempo, deve ricondurre alla pubblica ragione ciò che la pigrizia emotiva e cognitiva rimuovono in nome del quieto vivere. Il tafano con cui Socrate simbolizzava il filosofare è verità sempre attuale, in quanto è la sostanza della filosofia, la quale è dialogica, ma non conosce manierismi o recite di ruoli, ma solo interlocuzione umana a tutto raggio con cui capire il proprio tempo in vista della sua assiologica trasformazione.

Negli ultimi decenni dominati dalla filosofia analitica e dagli specialismi la filosofia è diventatasolo una presenza da salotto, da utilizzare in modo strategico nel circo mediatico per sostenere le oligarchie, è divenuta parte della sovrastruttura che sorregge e vela la struttura economica, come ci ha insegnato Marx. In un’epoca perversa la filosofia da passione per il sapere si è tramutata in uno dei tanti veli dell’ignoranza con cui il dominio perpetua se stesso fino a ridurre i popoli a plebi belanti.

Eppure, anche se la cornice socio-economica è tale, non bisogna disperare, poiché l’essere umano è certo condizionabile, ma non determinabile come un semplice oggetto. Vi sono persone che più di altre sfuggono alle maglie dei condizionamenti per pensare il proprio tempo. Il dominio vorrebbe ostracizzare i pensatori, sfiancarli con la forza degli innumerevoli tentacoli dell’idra del potere, ma i veri filosofi non cadono sotto i colpi tentacolari, e malgrado l’idra appaia invincibile la sfidano con la forza del concetto. Da tale lotta non si esce indenni, si pagano evidentemente dei prezzi, e la vittoria consiste unicamente nell’essere stati fedeli alle proprie scelte di vita e di pensiero. Siamo responsabili, pertanto, non solo della memoria del passato, ma anche dell’arduo compito di far continuare a vivere nel presente in modo plastico e creativo i filosofi che si sono lasciati attraversare dalle contraddizioni del loro tempo storico.

 

Costanzo Preve filosofo del nostro tempo

Il filosofo non è mai presenza atomistica, ma creatura concreta, non è l’anima bella che si ritira nella turris eburnea, ma è intessuto del mondo di relazioni con cui ha interagito. Costanzo Preve è stato non solo filosofo di calibro metafisico, ma anche politico. Potrebbe sembrare un’eccezione nel clima specialistico dei nostri tempi, in realtà ha testimoniato “la normalità della postura filosofica”, la quale è prassi che presuppone la metafisica senza la quale la politica si degrada a società dei bisogni, ad utile dell’ultimo uomo. Senza fondazione metafisica la filosofia è addomesticata, è il cucciolo ai piedi del potere pronto a ringhiare contro i dissenzienti.

La lettura degli innumerevoli testi di Costanzo Preve è esperienza di “straniamento”: il lettore deve inoltrarsi nei propri stereotipi, deve gradualmente abbandonarli per mettersi in ascolto di una visione filosofica che non conosce purismi, ma solo ricerca inesorabile e dura della verità. Nei suoi testi riecheggia la maieutica socratica, che non è un’eco lontana, ma vivida presenza sempre attuale.

Ricordare Costanzo Preve, quindi, non è un’operazione di circostanza, ma è un’assunzione di responsabilità verso il proprio tempo storico e verso la tradizione filosofica. Ci ha insegnato che non bisogna intimorirsi dinanzi ai poteri sempre più pervasivi che confinano la filosofia in un passato mitico che mai più ritornerà, perché il pensiero nella forma del logos – e non del solo calcolo quantitativo – è parte essenziale della natura umana e nessun totalitarismo riuscirà a cambiare il bisogno di pensare proprio della natura umana che si determina nella storia.

Costanzo Preve ha testimoniato fina alla fine della sua via tale verità. Filosofo della politica ha anticipato ciò che oggi è verità lapalissiana: destra e sinistra sono affette dallo stesso morbo: il nichilismo crematistico, per cui sono indistinguibili, si sorreggono l’un l’altra pur fingendo di essere diverse. Se Costanzo Preve è riuscito ad anticipare nei suoi scritti il tempo presente non è certo per suoi celati poteri paranormali, ma in quanto ha usato il metodo filosofico per capire il presente e delineare il futuro.

La filosofia è pratica olistica: pertanto, se si ha la pazienza di riportare le parti al tutto con onestà intellettuale e con capacità critica e documentata, si scorgono non solo le tendenze in atto, ma con esse si svelano i problemi e le urgenze del proprio tempo. In un periodo storico in cui regna la sola quantità, la filosofia e i filosofi sono trasgressivi, poiché sono in movimento verso la verità. Costanzo Preve ha trasgredito le leggi del politicamente corretto, ed ha mostrato che è possibile testimoniare l’esperienza filosofica anche in un’epoca assuefatta all’utile e alla prostituzione intellettuale. Ciò presuppone una profonda passione disinteressata, vera forza erotica di elevazione che può conoscere cadute, arresti improvvisi, ma è sempre orientata alla verità immanente.

Costanzo Preve è stato tutto questo.

Nel mese in cui ricorre la sua scomparsa, il modo migliore per rammentarlo è leggere i suoi scritti, avventurarsi in un’Odissea filosofica dalla quale non si tornerà eguali. Naturalmente il dissenso critico dev’essere parte imprescindibile dell’ascolto delle sue parole, non vi sono presenze totemiche in filosofia, ma autori che incarnano un’epoca e aspettano di essere superati senza essere dimenticati. Se è maturata la necessità di un riorientamento gestaltico Costanzo Preve può favorire questo ripensamento metafisico e assiologico di cui non pochi sentono il bisogno, ma non hanno punti di riferimento da cui iniziare un nuovo percorso veritativo che sembra impossibile. Per riorientarsi si dev’essere disponibili al disorientamento, a rimettere in discussione categorie sclerotizzate da automatismi sostenuti dal clero mediatico.

Non è semplice nascere a nuova vita, perché si tratta di partorire tra le doglie un nuovo esserci, ma è l’unico modo per umanizzare la propria esistenza. Leggere i testi di Costanzo Preve provoca uno stato di epochè, dal quale poter risemantizzare la propria prassi, comprendendo che fino a quel momento si è stati all’interno di un meccanismo autoreferenziale, in cui gesti e parole appartenevano al dominio.

Senza verità non vi è futuro, ma solo un lungo logorarsi nelle miserie e nelle complicità di un’abbondanza senza qualità e concetto.

Per non lasciarci cannibalizzare da un tempo così pericoloso, con le sue vuote e vane illusioni, può essere benefico ricominciare dai pensatori che hanno negato criticamente il loro tempo per affermare una nuova prospettiva politica e filosofica.

La filosofia, in quanto amore del sapere senza possesso, è comunitaria, è la disciplina per eccellenza che può guidarci fuori dalla palude in cui annaspiamo.

Costanzo Preve ha guadato la palude del nichilismo, il suo impegno attende uomini e donne disponibili a riprendere il suo cammino. Ricominciamo a riaprire la catena dei perché, come ci ha insegnato, per poter ripensare le parole e i pensieri che ci chiudono nella weberiana gabbia d’acciaio delle appartenenze senza concetto. Può essere l’incipit per una nuova e buona vita. Sta a ciascuno di noi cominciare l’esodo che non può che concretizzarsi in compagnia di pensatori fuori dal nostro tempo empirico, ma sempre presenti con la loro meditata testimonianza:

«Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione è tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido».1

Salvatore Bravo

1 C. Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance, Pistoia 2004, p. 6

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Indice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autori al 30-07-2021)Scarica

Giovanni Casertano – Una filosofia degli uomini per gli uomini. Venticinque studi su Platone.


Giovanni Casertano

Una filosofia degli uomini per gli uomini.
Venticinque studi su Platone

Presentazione di Luca Grecchi

ISBN 978–88–7588–328–7, 2021, pp. 752, Euro 40 – Collana “Il giogo” [139]

indicepresentazioneautoresintesi


Giovanni Casertano è stato professore ordinario di Storia della Filosofia Antica nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. È stato Visiting Professor in varie Università dell’Europa e dell’America del Sud. Ha ricevuto la cittadinanza onoraria dell’antica città di Elea per i suoi studi su Parmenide, e il Dottorato in Filosofia honoris causa dall’Università di Brasilia, con la quale collabora in qualità di Permanent fellow dell’Archai UNESCO Chair (Filosofia Antiga); è Enseignant-chercheur, Professeur des Universités, Membre statutaire rattaché à l’«Unité de Recherche Institut d’histoire de la philosophie» (E.A. 3276) de l’Université de Provence (Aix-Marseille 1). Il suo campo di ricerca sono principalmente i Presocratici e Platone, ed ha al suo attivo più di trecento pubblicazioni, tra volumi, articoli, saggi. Tra i suoi volumi: Parmenide il metodo la scienza l’esperienza, Napoli 1989 (1978); Il nome della cosa. Linguaggio e realtà negli ultimi dialoghi di Platone, Napoli 1996; Morte, Napoli 2003; Sofista, Napoli 2004; La nascita della filosofia vista dai Greci, Pistoia 2007; Paradigmi della verità in Platone, Roma 2007; I Presocratici, Roma 2009; O prazer, a morte e o amor nas doutrinas dos Pré-socráticos, São Paulo 2012; Da Parmenide di Elea al Parmenide di Platone, Sankt Augustin 2015; Giustizia, filosofia e felicità. Un’introduzione alla Repubblica di Platone, Roma 2015; Platone, Fedone, o dell’anima. Dramma etico in tre atti (traduzione, commento e note di G.C.), Napoli 2015; I proverbi di Platone, Napoli 2019; Venticinque studi sui preplatonici, Pistoia 2019.


Premessa

Su gentile invito dell’amico Luca Grecchi, ripubblico qui un insieme di alcuni dei miei studi sui dialoghi platonici. Spero che da essi risulti chiara (e documentata) la prospettiva della mia lettura di Platone, così come si è venuta costruendo negli ultimi decenni. Tesa a dare un’immagine non convenzionale del grande filosofo/drammaturgo, che costituisce una figura unica nei secoli della nostra cultura.

Un Platone non metafisico, né dispregiatore della sensibilità di contro alla razionalità, o del corpo rispetto all’anima, ma sempre attento a scovare tutti i risvolti (psicologici, morali, politici) dei personaggi che mette in scena, nel costruire (o nel tentativo di costruire) dialogicamente una filosofia che sia la più rispondente ai concreti problemi dell’essere umano. Il dialogo, per Platone, è appunto il segno di una filosofia degli uomini e per gli uomini, senza presupposti né “aiuti” trascendenti; e sono appunto dialoghi che in originali drammi filosofici tentano di fondare una ricerca che si trova di fronte a problemi che riguardano la concretezza della posizione nel mondo degli uomini, come singoli individui e come comunità, che affronta difficoltà di vario tipo nel determinare il senso delle cose e della vita, che si trova di fronte ad impasses apparentemente insuperabili, che conosce anche sconfitte e fallimenti, che raggiunge mete e conclusioni importanti, ma sempre con la coscienza di non doversi mai contentare dei risultati raggiunti, e di dover sempre tendere al meglio. Filosofia dunque come via da seguire, quella via della quale il personaggio Socrate (il simbolo della filosofia, sapientemente e appassionatamente costruito da Platone), in un bellissimo passo del Filebo, dichiara di essere da sempre innamorato, e alla quale è sempre rimasto fedele, anche a costo di rimanere solo.

Ringrazio Graça, che come sempre mi è stata vicina e mi ha aiutato nell’allestimento del volume, e Silvio, che mi è stato di aiuto nella correzione delle bozze. E, naturalmente, ringrazio ancora Luca per l’opportunità che mi ha offerto di ripresentare qui alcuni risultati (ovviamente provvisori) delle mie ricerche su Platone.

G. Casertano

Presentazione

Da alcuni anni, Petite Plaisance si è impegnata in riedizioni di testi – spesso arricchite da introduzioni, con notevole cura dei dettagli: mai mere riproduzioni fotostatiche – di grandi antichisti (Rodolfo Mondolfo, Marino Gentile, Diego Lanza, Mario Vegetti, Giovanni Casertano, Livio Rossetti, solo per citare alcuni nomi). Inoltre, ha raccolto in volume articoli di importanti studiosi, presenti in riviste o testi collettanei assai difficilmente reperibili. Questi articoli, presentando una prospettiva di insieme, risultano ancor più apprezzabili, se riuniti, nella loro significatività complessiva. Per questo motivo si è deciso di realizzare, di Enrico Berti, Incontri con la filosofia contemporanea; di Mario Vegetti Scritti sulla medicina ippocratica, Scritti sulla medicina galenica e Scritti con la mano sinistra; di Maurizio Migliori La bellezza della complessità, e di Diego Lanza Nous e thanatos. Scritti su Anassagora e sulla filosofia antica, di imminente pubblicazione.

Per quanto concerne Giovanni Casertano, già nel 2019 avevamo pubblicato Venticinque studi sui preplatonici. Abbiamo ritenuto però, per il grande valore dell’opera di questo studioso in merito anche all’interpretazione di Platone, che i suoi testi su questo argomento, che coprono un arco di anni assai ampio, dovessero essi pure essere raggruppati in un unico volume. Ciò, infatti, non solo, come detto, ne agevola la fruizione, ma contribuisce in certo modo, in una ideale libreria dei grandi interpreti del pensiero antico, a tenere l’opera di questi grandi studiosi più vicina. Questa si presenta, almeno per me – ma credo di non essere l’unico a pensarla così: chi ama i classici ama anche gli interpreti che meglio se ne sono occupati, nonché i libri che ne raccolgono le riflessioni –, come una cosa bella, il che mi fa particolarmente piacere, in quanto sono, o sono stato (alcuni, purtroppo, sono mancati), amico di molti di loro.

I testi qui esposti sono numerosi, sicché una sintesi dei medesimi, nel breve spazio di questa presentazione, non è sicuramente possibile. Una rapida scorsa dell’indice mostra del resto che essi si occupano di pressoché tutti i campi dell’opera platonica, prendendo in considerazione vari dialoghi, con la consueta attenzione al testo che ha sempre caratterizzato il nostro studioso. Pur nella grande cura, anche filologica, che emerge dagli studi di Casertano, il presente volume risulta facilmente leggibile anche dal lettore non specialista, perché lo stile dell’amico Gianni è sempre chiaro ed essenziale. I riferimenti alla letteratura secondaria, nelle note, certo non mancano, ma essi risultano realmente – come accade quasi sempre nella “vecchia scuola” degli antichisti – come un contorno volto a far assaporare meglio la portata principale, non come l’unico piatto, come invece talvolta accade in alcune pubblicazioni recenti. Ciò deriva da un approccio filosofico concreto che cerca di far risaltare, pur senza tacerne le problematicità, le singole argomentazioni di Platone, nella convinzione che il filosofo ateniese abbia ancora molto da dire anche al nostro tempo.

Il volume che qui si pubblica risulta già molto corposo, e lo studioso che lo ha composto, per la sua notorietà, non abbisogna di ulteriori presentazioni. Lascio pertanto il lettore godersi tutto ciò che l’amico Gianni, in questi anni, ha preparato, non prima di essere io, ancora una volta, a ringraziarlo, sia per il fatto di avere accettato l’invito di Petite, e sia, soprattutto, per come ha fatto fruttare a beneficio di tutti, nelle opere, la sua vita di studioso.

Luca Grecchi


Indice

Presentazione

Premessa

L’amicizia, qualcosa che non si può spiegare

La struttura del dialogo (o di quando la filosofia si fa teatro)

Mηχαν πειθος: metodo e verità nel Gorgia

Il (in) nome di Eros. Una lettura del discorso di Diotima

In cerca dell’anima nel Simposio platonico

La difficile analogia tra poesia e amore

La linea e la caverna: tra analogia, immagine,

conoscenza e prassi

L’idea, il letto e la virtù

Caratteristiche e funzioni del logos.

Sulla forma e la struttura del Teeteto

Teeteto 201d8: perché «un sogno in cambio di un sogno»?

Ogni uno di fronte a gioventù e vecchiaia

Il falso: un’esistenza che non esiste tra cose esistenti

Il Politico di Platone: o della distinzione, in politica,

tra sembrare ed essere, tra costituzione vera e sue imitazioni

Vero e corretto nel Politico

Il piacere falso nel Filebo

Scrivere e dipingere nell’anima. Sullo statuto di λόγος nel Filebo

La ricostruzione dei ricordi. Funzionalità e verità

del discorso che interpreta la realtà: Plat. Tim. 19c6-29d2

Causa (e concausa) in Platone

Le parti, le forme ed i nomi del tempo nel Timeo platonico

L’istante: un tempo fuori del tempo, secondo Platone

Nome, discorso e metodo nelle Leggi

Dialettica

Il ridicolo in Platone

Tragedia e commedia nella (della) vita umana

nei dialoghi platonici

Il vino di Platone


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Presentazione del libro «Dolcezza» di Luca Grecchi, in dialogo con Claudia Baracchi e Silvia Vegetti Finzi.

V. Van Gogh, Primi passi.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Alessandra Filannino Indelicato – Ritrovare noi stessi (e la felicità) grazie a Dioniso, la filosofia concreta che smuove le coscienze. Una ricerca che non sia profondamente connessa con la spiritualità del ricercatore è una ricerca sterile.

Alessandra Filannino Indelicato 02

L’intervista ad Alessandra Filannino Indelicato, condotta da Diego Di Donato,
è già stata pubblicata su «Bnews», Notizie dal Campus Bicocca,
il blog dell’Università Bicocca di Milano, il 28-07-2021.

Alessandra, hai intitolato la tua Tesi di Dottorato Ricucirsi con Dioniso. La lectio tragica come esperienza genealogica di cura e di umanità”. Perché occuparsi oggi del dionisiaco nella nostra società?

Grazie Diego. La risposta per me è molto semplice: per nutrire la nostra tensione alla felicità. Vedi, siamo abituati a vedere Dioniso come il dio degli eccessi, della promiscuità sessuale, della trasgressione e dell’ebbrezza, ma questa è una visione molto riduttiva, dettata da una lettura parziale o superficiale delle fonti. Nella mia Tesi di Dottorato mi avvicinavo già a questo tema: cosa succederebbe, nelle accademie, se tornassimo a leggere i testi come se la lettura fosse davvero una pratica filosofica, disciplinata e trasformativa, in poche parole, un esercizio spirituale? E, nota importante, spirituale non significa religioso. Ogni umano, che lo voglia o meno, è un ricercatore, cioè va in cerca di se stesso. Nel suo ri-cercare sta già nutrendo, formando e inseguendo – a volte senza saperlo davvero – la propria intima possibilità di realizzazione personale, il proprio sentiero individuativo. Noi viviamo in un mondo scisso, diviso, frammentato politicamente e psichicamente. Individuarsi significa non-dividersi, essere integrati, tenere insieme i pezzi, in quel costante lavoro da funamboli, da palombari, da sarti che è il ricercare la propria umanità. Hadot afferma che il grande Goethe, in tarda età, si chiedesse: sono capace di leggere, di leggere per davvero? Non è, in fondo, la vita stessa una grande opera di lettura, ri-lettura, scrittura e ri-scrittura di narrazioni originarie, ramificate, genealogiche – mie, tue, dei nostri cari, del pezzo di mondo che abbiamo vissuto? Diego, iniziamo da un testo o da un autore. Quale sceglieresti? Il mio testo sacro sono state le Baccanti di Euripide. Un testo che ho interrogato e da cui mi sono lasciata interrogare per molto tempo, legittimandomi le metamorfosi a cui mi sentivo chiamata. Non è stato facile, sai? Ci è voluto coraggio. Da qui credo che sia abbastanza intuitivo e immediato il collegamento con il contemporaneo. Comprendere questi simboli, oggi, per la loro incredibile attualità, senza appiattirli od oggettificarli è fondamentale. Stiamo vivendo una delle più grandi crisi spirituali mai viste, l’etica non è purtroppo un modo di vivere che alimenta il nostro psichismo individuale e collettivo. Eudaimonia, felicità in greco, è proprio questo, l’etica in atto: sentire il daimon orientato e armoniosamente accordato al bene. Una tensione costante, che segue un sentiero ben preciso però, e questo sentiero è filosofico. E questo sentiero è dionisiaco, perché ci insegna a lasciar andare e a essere chi si è davvero.

 

William Adolphe Bouguereau, La giovinezza di Bacco (1884)

Cosa si intende per filosofia del tragico e quale importanza ha la figura di Dioniso (lo straniero, l’androgino, l’irrazionale, l’addolorato)?

Dioniso è una divinità antichissima, addirittura cretese. In quanto archetipo di zoe, la vita indistruttibile non riducibile al bios (il segmento vita-morte), Dioniso è e deve essere travolgente e inarrestabile, infatti indica sempre una rinascita come simbolo della vibrante circolarità vita-morte-nuova vita. Dioniso è, più di tutti, un daimon, un essere intermedio tra il dio e l’umano. Il suo compito è quello di orientare, offrire una mappa del senso, una direzione nella vita. Ma bisogna imparare ad ascoltare e per ascoltare bisogna saper stare nel silenzio – cosa che oggi pare impossibile non solo perché del silenzio abbiamo paura, ma anche perché siamo costantemente calati nell’attività produttiva e performativa. Al contrario Dioniso ci chiama all’ascolto di noi stessi: chi siamo? Cosa desideriamo? Come ci portiamo nel mondo, ovvero come ci com-portiamo? Dioniso ci chiede di rinunciare agli ingombri dell’io, alle derive individualistiche, alle prospettive antropocentriche, alle logiche del potere e del guadagno o dell’accumulo fine a se stesso, al fine di celebrare la vita nella sua forza inarrestabile. Ci chiede, pertanto, di risvegliarci alla vita, di vivere e non meramente sopravvivere. Ancora, Dioniso ci chiede di allenare i sensi, la corporeità, di andare oltre noi stessi ma proprio a partire dal nostro sentire. La trascendenza si compie nell’immanenza. In questo senso la trance estatica si compie qui e ora e coinvolge necessariamente corpi e anime in un comune senso di appartenenza. Dioniso è, infatti, maestro delle cose umili e semplici, insegna a godere dell’istante ma non costringe nessuno a seguire i suoi culti. In quanto dio meticcio, dio del tutto e del suo contrario, dio del paradosso, Dioniso insegna il superamento del pensiero dualistico, frammentato, dicotomico. Insegna a seguire, ad affidarsi ad altri registri del sapere non meno degni di quello razionale, quale la sapienza artigiana del corpo, l’intuito, il presentimento. La filosofia del tragico è, di conseguenza, una filosofia che si inscrive nel culto di questa complessità ecologica, simbolica e non-dualistica. Intendo qui la filosofia, richiamandomi a Luce Irigaray, come quel portare alla luce “la saggezza nelle cose dell’amore” oltre che come “l’amore per la saggezza”. Inoltre l’accezione che do al termine tragico è etimologica: in greco, infatti, il termine tragedia rimanda a un rituale sacro, fatto di canti e balli sfrenati che accompagnano il pianto di un capro sacrificale. Il tragico, dunque, è prima di tutto un’opera di contemplazione e di partecipazione al dolore – il dolore di un altro essere che riflette, ricorda, evoca e rappresenta sempre anche il mio. Ecco il teatro tragico. La filosofia del tragico è quella filosofia che celebra la vita senza negarne gli aspetti più oscuri e traumatici, anzi imparando a danzare insieme a questi, poiché è grazie all’andare giù, in profondità, a fondo, entrando in contatto con le parti oscure di noi stessi, che non solo non affondiamo ma riusciamo anche a trasformare il dolore in un atto creativo, vitale e foriero di luminosità.

Penteo squartato dalle Baccanti, Casa dei Vettii, Pompei, I secolo d.C.

Nel dibattito e nella comunità scientifica quale può/deve essere secondo te il ruolo della filosofia?

La filosofia deve sporcarsi le mani, uscire dalla torre d’avorio dell’elucubrazione fine a se stessa, smuovere le coscienze, formare le persone, prendere posizioni scomode e portarle avanti, stimolare il dialogo e occuparsi delle emergenze politiche, etiche, ecologiche dei nostri tempi. Il tutto con una sensibilità sinestetica e simbolica che integri e non dis-integri. Nel gruppo di Filosofia Morale, guidato prima da Romano Màdera e poi da Claudia Baracchi, i miei maestri, o ancora presso l’Associazione Philo-Pratiche Filosofiche è ormai da decenni che diffondiamo un modo di fare filosofia che sia concreto, reale, in dialogo con il contemporaneo. Proponiamo da moltissimi anni i Seminari Aperti di Pratiche Filosofiche, che sono appunto aperti a tutti, dentro e fuori l’Università, e sono assolutamente gratuiti. Io penso che la filosofia e le scienze umane siano fondamentali per un Ateneo come il nostro, che si fonda sulla ricerca scientifica in senso stretto.  

Su cosa si stanno concentrando ora i tuoi studi e quali saranno i tuoi prossimi progetti?

Torno di recente da un’esperienza di Visiting in America dove ho insegnato al fianco del Prof. Gordon Cappelletty, in North Carolina. A novembre parteciperò a Bookcity, insieme alla Dott.ssa Sara Bergomi, con un incontro sul Dioniso delle profondità marine e melmose – un incontro a cui siete ovviamente invitati. Sicuramente, non posso negartelo, caro Diego: come ricercatrice precaria mi sento sempre un po’ sul filo del rasoio. Ad oggi spero comunque di continuare a lavorare in Bicocca con Claudia Baracchi, perché sento che questo è il mio posto e perché la Bicocca mi ha conosciuto fin da giovane. Oltre ai maestri, le persone che ho incontrato qui sono state tutte preziosissime per la mia vita e per la mia crescita professionale, soprattutto il mio collega Luca Grecchi, da cui ho appreso tanta umanità e sapienza filosofica. Ho una vita piuttosto ricca, molti progetti in mente e molti fronti di collaborazione aperti, come quello con il CSTG guidato da Riccardo Zerbetto, che mi ha invitato alla conferenza che hai segnalato in apertura, o quello con la Dott.ssa Giusi Negroni, con cui porto avanti il gruppo di Danzare le Tragedie. In prospettiva c’è una collaborazione aperta con l’ANPI e – in ultimo, ma non per importanza – anche con l’Associazione Felicita, presieduta da Alessandro Azzoni, a cui tengo molto perché si occupa dei diritti degli anziani nelle RSA e dei loro familiari, specie a fronte degli scandali di malasanità e dell’ingiustificabile ecatombe legata alla diffusione della pandemia. La filosofia, come Antigone ci insegna, deve essere coraggiosa, politica, e rispondere sempre alle leggi del cuore.


Alessandra Filannino Indelicato

Per una filosofia del tragico

Tragedie greche, vita filosofica e altre vocazioni al dionisiaco

Prefazione di Claudia Baracchi

Mimesis Edizioni, Milano 2019, pp. 216, Euro 20


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Maria Timpanaro Cardini (1890–1978) – Anima, vita e morte in Alcmeone.

Maria Timèanaro Cardini - Alcmeone - Vegetti

Il «metodo tipico della conoscenza umana» consiste, per Alcmeone, nel «tekmairesthai», ovvero nel «procedere appunto per indizi, congetture, prove»: egli, in tal modo, «non faceva che teorizzare la sua stessa prassi di medico, abituato a interpretare l’esperienza per ritrovare in essa un significato, un valore di sintomo, e risalire così all’unità della malattia e delle sue cause». Sotto questo profilo, con Alcmeone «si apriva una nuova via verso il sapere, una via che passava pur sempre attraverso l’osservazione».

Mario Vegetti,
Scritti sulla medicina ippocratica.
[1: leggi l’estratto di M. Vegetti su Alcmeone dopo il saggio di M. Timpanaro Cardini]


Mario Vegetti

Scritti sulla medicina ippocratica

indicepresentazioneautoresintesi

ISBN 978-88-7588-225-9, 2018, pp. 416, euro 30

I saggi raccolti in questo volume ripercorrono gli ultimi cinquant’anni di ricerca ippocratica. Gli entusiasmi iniziali, ben motivati dalla “scoperta” di un grande territorio del sapere scientifico fino ad allora relativamente inesplorato, dei suoi metodi e della sua efficacia terapeutica, hanno via via ceduto in parte il campo a un più equilibrato atteggiamento critico-storico. Nel suo insieme, una lettura di questi testi può continuare ad offrire un panorama intellettuale utile a comprendere le coordinate metodiche e sociali che hanno consentito la comparsa di uno dei fenomeni più rilevanti dell’antica tradizione scientifica dell’Occidente. I saggi sono disposti in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni al volume ippocratico (1964 e 1973) che sono poste al termine per il loro carattere riassuntivo.


[1] MarioVegetti, Scritti sulla medicina ippocratica, Petite Plaisance, Pistoia 2018, pp. 330-333.

Ad Alcmeone di Crotone toccò, quasi un secolo prima di Ippocrate, il compito di raccogliere l’oscura eredità di ricerca di generazioni di medici, e anche il ricco patrimonio di osservazioni naturalistiche che si era venuto costituendo pur nell’involucro della physiologia: ed egli per primo intuì che questa eredità e questo patrimonio costituivano un campo relativamente autonomo del sapere, che richiedeva una sua specifica consapevolezza e suoi propri metodi di comprensione. Ad un’autonoma presa di coscienza della techne, Alcmeone fu spinto del resto dalle sue stesse conquiste di medico e di biologo, dagli stessi problemi teorico-pratici che la sua scienza veniva ponendogli ogni giorno e che certamente non trovavano risposta alcuna nelle semplificazioni e nella dogmatizzazione dell’empirico operate dalla physiologia. Certo, in questo suo lavoro di costruzione di una consapevolezza scientifica Alcmeone fu agevolato dal diffuso clima di ricerca che il pitagorismo propagava nella stessa Crotone e in Magna Grecia; ma è altrettanto certo che i suoi rapporti con il pitagorismo furono su una base di autonomia, di “dare ed avere”; e del resto non ci sembra una coincidenza occasionale che la fioritura di Alcmeone avvenisse proprio quando, ad opera di Ippaso e comunque dello sviluppo stesso della ricerca matematica, l’edificio sistematico della scuola pitagorica incominciava per altra via a vacillare (a partire dal 510 a.C.).

Alcmeone non attaccò le dottrine dell’arché: semplicemente le ignorò, come quelle che non trovavano corrispondenza alcuna nell’esperienza criticamente osservata. In quell’esperienza, egli riconosceva invece una indefinita molteplicità, non già di princípi sostanziali, bensì di princípi attivi o “qualità”, vale a dire di stimoli capaci di determinare nell’organismo una certa reazione fisiologica (l’amaro, il freddo e così via); di conseguenza, non v’è continuità fra organismo e physis, ma il rapporto fra l’uno e l’altra è un rapporto di stimolo e reazione (come testimonia anche Teofrasto attribuendo ad Alcmeone, in contrasto con Empedocle, la formula della «sensazione per contrari»).

Parallelamente, Alcmeone scopriva, grazie alla pratica spregiudicatamente scientifica della dissezione, che la funzione del percepire è nell’uomo bensì diffusa nei vari organi di senso, ma che essa viene poi coordinata e «interpretata» (per usare un termine dello stesso Ippocrate, che dipende qui da Alcmeone), da un organo centrale, e precisamente dal cervello. La scoperta di tale funzione del cervello spezzava di fatto il legame ombelicale fra uomo e mondo, fra conoscenza e realtà: e Alcmeone poteva rendere esplicita questa rivoluzionaria conseguenza dichiarando che, se la “sensibilità” è una proprietà di tutti gli organismi viventi, la funzione del “comprendere”, cioè di ridurre a sintesi significativa l’esperienza, e di “prender coscienza” della sensibilità stessa, è propria esclusivamente dell’uomo.

Il solco, che così si apriva fra l’uomo e la realtà che egli vuol comprendere e trasformare, era profondo e definitivo. Il mondo dell’esperienza riacquistava la sua concretezza e la sua datità, e l’esperienza stessa veniva riconosciuta incapace di dare spontaneamente conto di sé. Così, l’uomo e lo scienziato riconquistavano un’autonomia e una possibilità di comprensione e di controllo sul mondo, scoprendosi ad esso eterogenei e, nella tensione del conoscere e dell’agire, alla polarità opposta di esso. Ma Alcmeone si avvide di una conseguenza decisiva di tutto questo: la realtà si faceva ad un tratto opaca agli occhi dello scienziato; la verità e la realtà non si palesavano più tutt’intere all’interrogante; la sapienza, intesa come perfetta trasparenza e immanenza di tutto il mondo al frammento di mondo che è l’uomo, restava ormai solo una proprietà degli dèi (ed Empedocle, ispirato e taumaturgo, poteva ben dirsi simile a un dio).

In termini scientifici, la sapienza doveva venir sostituita dall’indagine, la rivelazione dalla congettura. Il metodo dell’analogia, basato sull’immanenza dell’arché a physis e di physis a ogni osservazione, doveva essere sostituito da quello dell’indizio e della prova. Quando Alcmeone poneva il tekmairesthai, il procedere appunto per indizi, congetture e prove, a metodo tipico della conoscenza umana, egli non faceva che teorizzare la sua stessa prassi di medico, abituato a interpretare l’esperienza per ritrovare in essa un significato, un valore di sintomo, e risalire così all’unità della malattia e delle sue cause. In questo modo si apriva una nuova via verso il sapere, una via che passava pur sempre attraverso l’osservazione, ma non più mitizzata bensì indagata per il suo valore di “segno”; e questa era la via che conduceva ad Ippocrate.

Il relativo isolamento di Alcmeone, in quanto puro scienziato, dalle grandi correnti filosofiche, gli agevolava certamente questa spregiudicata presa di coscienza metodologica; e tuttavia gli impediva di esplicitarne tutto il valore, e di generalizzarla fino a determinare chiaramente il rapporto fra teoria e osservazione, fra pensiero e realtà, fra verità e fatto. In altri termini, la zona dell’esperibile veniva bensì restituita alla concretezza che sola rendeva possibile l’indagine scientifica, e di quest’indagine veniva indicato il metodo tipico; ma poi Alcmeone lasciava in ombra la sfera del “pensabile” e insomma la struttura, la funzione, i procedimenti della ragione scientifica, che a quell’indagine era parimenti indispensabile.

Così la portata eversiva del pensiero di Alcmeone nei riguardi della physiologia non veniva immediatamente in luce, ed anzi ancora Empedocle poteva largamente ispirarsi ai singoli spunti di esso nella propria riduzione a sistema della physiologia. Solo dopo che un attacco frontale alla physiologia fosse stato portato in nome dell’autonomia e dell’intrinseca validità della ragione, l’eredità di Alcmeone avrebbe potuto essere raccolta in tutta la sua potenziale fecondità.

 

MarioVegetti, Scritti sulla medicina ippocratica, Petite Plaisance, Pistoia 2018, pp. 330-333.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Luigi Pareyson (1918-1991) – L’uomo deve scegliere se essere storia o avere storia, se identificarsi con la propria situazione o farne un tramite per attingere l’origine, se rinunciare alla verità o darne una rivelazione irripetibile.

Luigi Pareyson 02
L’uomo deve scegliere se essere storia o avere storia, se identificarsi con la propria situazione o farne un tramite per attingere l’origine, se rinunciare alla verità o darne una rivelazione irripetibile.
Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia editore, Milano 2005, p. 116.

Luigi Pareyson (1918-1991) – L’esistenza dell’opera musicale non è quella inerte e muta dello spartito, ma quella viva e sonora dell’esecuzione, che è vita e possesso dell’opera.

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