«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Alessandra, hai intitolato la tua Tesi di Dottorato “Ricucirsi con Dioniso. La lectio tragica come esperienza genealogica di cura e di umanità”. Perché occuparsi oggi del dionisiaco nella nostra società?
Grazie Diego. La risposta per me è molto semplice: per nutrire la nostra tensione alla felicità. Vedi, siamo abituati a vedere Dioniso come il dio degli eccessi, della promiscuità sessuale, della trasgressione e dell’ebbrezza, ma questa è una visione molto riduttiva, dettata da una lettura parziale o superficiale delle fonti. Nella mia Tesi di Dottorato mi avvicinavo già a questo tema: cosa succederebbe, nelle accademie, se tornassimo a leggere i testi come se la lettura fosse davvero una pratica filosofica, disciplinata e trasformativa, in poche parole, un esercizio spirituale? E, nota importante, spirituale non significa religioso. Ogni umano, che lo voglia o meno, è un ricercatore, cioè va in cerca di se stesso. Nel suo ri-cercare sta già nutrendo, formando e inseguendo – a volte senza saperlo davvero – la propria intima possibilità di realizzazione personale, il proprio sentiero individuativo. Noi viviamo in un mondo scisso, diviso, frammentato politicamente e psichicamente. Individuarsi significa non-dividersi, essere integrati, tenere insieme i pezzi, in quel costante lavoro da funamboli, da palombari, da sarti che è il ricercare la propria umanità. Hadot afferma che il grande Goethe, in tarda età, si chiedesse: sono capace di leggere, di leggere per davvero? Non è, in fondo, la vita stessa una grande opera di lettura, ri-lettura, scrittura e ri-scrittura di narrazioni originarie, ramificate, genealogiche – mie, tue, dei nostri cari, del pezzo di mondo che abbiamo vissuto? Diego, iniziamo da un testo o da un autore. Quale sceglieresti? Il mio testo sacro sono state le Baccanti di Euripide. Un testo che ho interrogato e da cui mi sono lasciata interrogare per molto tempo, legittimandomi le metamorfosi a cui mi sentivo chiamata. Non è stato facile, sai? Ci è voluto coraggio. Da qui credo che sia abbastanza intuitivo e immediato il collegamento con il contemporaneo. Comprendere questi simboli, oggi, per la loro incredibile attualità, senza appiattirli od oggettificarli è fondamentale. Stiamo vivendo una delle più grandi crisi spirituali mai viste, l’etica non è purtroppo un modo di vivere che alimenta il nostro psichismo individuale e collettivo. Eudaimonia, felicità in greco, è proprio questo, l’etica in atto: sentire il daimon orientato e armoniosamente accordato al bene. Una tensione costante, che segue un sentiero ben preciso però, e questo sentiero è filosofico. E questo sentiero è dionisiaco, perché ci insegna a lasciar andare e a essere chi si è davvero.
Cosa si intende per filosofia del tragico e quale importanza ha la figura di Dioniso (lo straniero, l’androgino, l’irrazionale, l’addolorato)?
Dioniso è una divinità antichissima, addirittura cretese. In quanto archetipo di zoe, la vita indistruttibile non riducibile al bios (il segmento vita-morte), Dioniso è e deve essere travolgente e inarrestabile, infatti indica sempre una rinascita come simbolo della vibrante circolarità vita-morte-nuova vita. Dioniso è, più di tutti, un daimon, un essere intermedio tra il dio e l’umano. Il suo compito è quello di orientare, offrire una mappa del senso, una direzione nella vita. Ma bisogna imparare ad ascoltare e per ascoltare bisogna saper stare nel silenzio – cosa che oggi pare impossibile non solo perché del silenzio abbiamo paura, ma anche perché siamo costantemente calati nell’attività produttiva e performativa. Al contrario Dioniso ci chiama all’ascolto di noi stessi: chi siamo? Cosa desideriamo? Come ci portiamo nel mondo, ovvero come ci com-portiamo? Dioniso ci chiede di rinunciare agli ingombri dell’io, alle derive individualistiche, alle prospettive antropocentriche, alle logiche del potere e del guadagno o dell’accumulo fine a se stesso, al fine di celebrare la vita nella sua forza inarrestabile. Ci chiede, pertanto, di risvegliarci alla vita, di vivere e non meramente sopravvivere. Ancora, Dioniso ci chiede di allenare i sensi, la corporeità, di andare oltre noi stessi ma proprio a partire dal nostro sentire. La trascendenza si compie nell’immanenza. In questo senso la trance estatica si compie qui e ora e coinvolge necessariamente corpi e anime in un comune senso di appartenenza. Dioniso è, infatti, maestro delle cose umili e semplici, insegna a godere dell’istante ma non costringe nessuno a seguire i suoi culti. In quanto dio meticcio, dio del tutto e del suo contrario, dio del paradosso, Dioniso insegna il superamento del pensiero dualistico, frammentato, dicotomico. Insegna a seguire, ad affidarsi ad altri registri del sapere non meno degni di quello razionale, quale la sapienza artigiana del corpo, l’intuito, il presentimento. La filosofia del tragico è, di conseguenza, una filosofia che si inscrive nel culto di questa complessità ecologica, simbolica e non-dualistica. Intendo qui la filosofia, richiamandomi a Luce Irigaray, come quel portare alla luce “la saggezza nelle cose dell’amore” oltre che come “l’amore per la saggezza”. Inoltre l’accezione che do al termine tragico è etimologica: in greco, infatti, il termine tragedia rimanda a un rituale sacro, fatto di canti e balli sfrenati che accompagnano il pianto di un capro sacrificale. Il tragico, dunque, è prima di tutto un’opera di contemplazione e di partecipazione al dolore – il dolore di un altro essere che riflette, ricorda, evoca e rappresenta sempre anche il mio. Ecco il teatro tragico. La filosofia del tragico è quella filosofia che celebra la vita senza negarne gli aspetti più oscuri e traumatici, anzi imparando a danzare insieme a questi, poiché è grazie all’andare giù, in profondità, a fondo, entrando in contatto con le parti oscure di noi stessi, che non solo non affondiamo ma riusciamo anche a trasformare il dolore in un atto creativo, vitale e foriero di luminosità.
Nel dibattito e nella comunità scientifica quale può/deve essere secondo te il ruolo della filosofia?
La filosofia deve sporcarsi le mani, uscire dalla torre d’avorio dell’elucubrazione fine a se stessa, smuovere le coscienze, formare le persone, prendere posizioni scomode e portarle avanti, stimolare il dialogo e occuparsi delle emergenze politiche, etiche, ecologiche dei nostri tempi. Il tutto con una sensibilità sinestetica e simbolica che integri e non dis-integri. Nel gruppo di Filosofia Morale, guidato prima da Romano Màdera e poi da Claudia Baracchi, i miei maestri, o ancora presso l’Associazione Philo-Pratiche Filosofiche è ormai da decenni che diffondiamo un modo di fare filosofia che sia concreto, reale, in dialogo con il contemporaneo. Proponiamo da moltissimi anni i Seminari Aperti di Pratiche Filosofiche, che sono appunto aperti a tutti, dentro e fuori l’Università, e sono assolutamente gratuiti. Io penso che la filosofia e le scienze umane siano fondamentali per un Ateneo come il nostro, che si fonda sulla ricerca scientifica in senso stretto.
Su cosa si stanno concentrando ora i tuoi studi e quali saranno i tuoi prossimi progetti?
Torno di recente da un’esperienza di Visiting in America dove ho insegnato al fianco del Prof. Gordon Cappelletty, in North Carolina. A novembre parteciperò a Bookcity, insieme alla Dott.ssa Sara Bergomi, con un incontro sul Dioniso delle profondità marine e melmose – un incontro a cui siete ovviamente invitati. Sicuramente, non posso negartelo, caro Diego: come ricercatrice precaria mi sento sempre un po’ sul filo del rasoio. Ad oggi spero comunque di continuare a lavorare in Bicocca con Claudia Baracchi, perché sento che questo è il mio posto e perché la Bicocca mi ha conosciuto fin da giovane. Oltre ai maestri, le persone che ho incontrato qui sono state tutte preziosissime per la mia vita e per la mia crescita professionale, soprattutto il mio collega Luca Grecchi, da cui ho appreso tanta umanità e sapienza filosofica. Ho una vita piuttosto ricca, molti progetti in mente e molti fronti di collaborazione aperti, come quello con il CSTG guidato da Riccardo Zerbetto, che mi ha invitato alla conferenza che hai segnalato in apertura, o quello con la Dott.ssa Giusi Negroni, con cui porto avanti il gruppo di Danzare le Tragedie. In prospettiva c’è una collaborazione aperta con l’ANPI e – in ultimo, ma non per importanza – anche con l’Associazione Felicita, presieduta da Alessandro Azzoni, a cui tengo molto perché si occupa dei diritti degli anziani nelle RSA e dei loro familiari, specie a fronte degli scandali di malasanità e dell’ingiustificabile ecatombe legata alla diffusione della pandemia. La filosofia, come Antigone ci insegna, deve essere coraggiosa, politica, e rispondere sempre alle leggi del cuore.
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Il «metodo tipico della conoscenza umana» consiste, per Alcmeone, nel «tekmairesthai», ovvero nel «procedere appunto per indizi, congetture, prove»: egli, in tal modo, «non faceva che teorizzare la sua stessa prassi di medico, abituato a interpretare l’esperienza per ritrovare in essa un significato, un valore di sintomo, e risalire così all’unità della malattia e delle sue cause». Sotto questo profilo, con Alcmeone «si apriva una nuova via verso il sapere, una via che passava pur sempre attraverso l’osservazione».
I saggi raccolti in questo volume ripercorrono gli ultimi cinquant’anni di ricerca ippocratica. Gli entusiasmi iniziali, ben motivati dalla “scoperta” di un grande territorio del sapere scientifico fino ad allora relativamente inesplorato, dei suoi metodi e della sua efficacia terapeutica, hanno via via ceduto in parte il campo a un più equilibrato atteggiamento critico-storico. Nel suo insieme, una lettura di questi testi può continuare ad offrire un panorama intellettuale utile a comprendere le coordinate metodiche e sociali che hanno consentito la comparsa di uno dei fenomeni più rilevanti dell’antica tradizione scientifica dell’Occidente. I saggi sono disposti in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni al volume ippocratico (1964 e 1973) che sono poste al termine per il loro carattere riassuntivo.
[1]MarioVegetti, Scritti sulla medicina ippocratica, Petite Plaisance, Pistoia 2018, pp. 330-333.
Ad Alcmeone di Crotone toccò, quasi un secolo prima di Ippocrate, il compito di raccogliere l’oscura eredità di ricerca di generazioni di medici, e anche il ricco patrimonio di osservazioni naturalistiche che si era venuto costituendo pur nell’involucro della physiologia: ed egli per primo intuì che questa eredità e questo patrimonio costituivano un campo relativamente autonomo del sapere, che richiedeva una sua specifica consapevolezza e suoi propri metodi di comprensione. Ad un’autonoma presa di coscienza della techne, Alcmeone fu spinto del resto dalle sue stesse conquiste di medico e di biologo, dagli stessi problemi teorico-pratici che la sua scienza veniva ponendogli ogni giorno e che certamente non trovavano risposta alcuna nelle semplificazioni e nella dogmatizzazione dell’empirico operate dalla physiologia. Certo, in questo suo lavoro di costruzione di una consapevolezza scientifica Alcmeone fu agevolato dal diffuso clima di ricerca che il pitagorismo propagava nella stessa Crotone e in Magna Grecia; ma è altrettanto certo che i suoi rapporti con il pitagorismo furono su una base di autonomia, di “dare ed avere”; e del resto non ci sembra una coincidenza occasionale che la fioritura di Alcmeone avvenisse proprio quando, ad opera di Ippaso e comunque dello sviluppo stesso della ricerca matematica, l’edificio sistematico della scuola pitagorica incominciava per altra via a vacillare (a partire dal 510 a.C.).
Alcmeone non attaccò le dottrine dell’arché: semplicemente le ignorò, come quelle che non trovavano corrispondenza alcuna nell’esperienza criticamente osservata. In quell’esperienza, egli riconosceva invece una indefinita molteplicità, non già di princípi sostanziali, bensì di princípi attivi o “qualità”, vale a dire di stimoli capaci di determinare nell’organismo una certa reazione fisiologica (l’amaro, il freddo e così via); di conseguenza, non v’è continuità fra organismo e physis, ma il rapporto fra l’uno e l’altra è un rapporto di stimolo e reazione (come testimonia anche Teofrasto attribuendo ad Alcmeone, in contrasto con Empedocle, la formula della «sensazione per contrari»).
Parallelamente, Alcmeone scopriva, grazie alla pratica spregiudicatamente scientifica della dissezione, che la funzione del percepire è nell’uomo bensì diffusa nei vari organi di senso, ma che essa viene poi coordinata e «interpretata» (per usare un termine dello stesso Ippocrate, che dipende qui da Alcmeone), da un organo centrale, e precisamente dal cervello. La scoperta di tale funzione del cervello spezzava di fatto il legame ombelicale fra uomo e mondo, fra conoscenza e realtà: e Alcmeone poteva rendere esplicita questa rivoluzionaria conseguenza dichiarando che, se la “sensibilità” è una proprietà di tutti gli organismi viventi, la funzione del “comprendere”, cioè di ridurre a sintesi significativa l’esperienza, e di “prender coscienza” della sensibilità stessa, è propria esclusivamente dell’uomo.
Il solco, che così si apriva fra l’uomo e la realtà che egli vuol comprendere e trasformare, era profondo e definitivo. Il mondo dell’esperienza riacquistava la sua concretezza e la sua datità, e l’esperienza stessa veniva riconosciuta incapace di dare spontaneamente conto di sé. Così, l’uomo e lo scienziato riconquistavano un’autonomia e una possibilità di comprensione e di controllo sul mondo, scoprendosi ad esso eterogenei e, nella tensione del conoscere e dell’agire, alla polarità opposta di esso. Ma Alcmeone si avvide di una conseguenza decisiva di tutto questo: la realtà si faceva ad un tratto opaca agli occhi dello scienziato; la verità e la realtà non si palesavano più tutt’intere all’interrogante; la sapienza, intesa come perfetta trasparenza e immanenza di tutto il mondo al frammento di mondo che è l’uomo, restava ormai solo una proprietà degli dèi (ed Empedocle, ispirato e taumaturgo, poteva ben dirsi simile a un dio).
In termini scientifici, la sapienza doveva venir sostituita dall’indagine, la rivelazione dalla congettura. Il metodo dell’analogia, basato sull’immanenza dell’arché a physis e di physis a ogni osservazione, doveva essere sostituito da quello dell’indizio e della prova. Quando Alcmeone poneva il tekmairesthai, il procedere appunto per indizi, congetture e prove, a metodo tipico della conoscenza umana, egli non faceva che teorizzare la sua stessa prassi di medico, abituato a interpretare l’esperienza per ritrovare in essa un significato, un valore di sintomo, e risalire così all’unità della malattia e delle sue cause. In questo modo si apriva una nuova via verso il sapere, una via che passava pur sempre attraverso l’osservazione, ma non più mitizzata bensì indagata per il suo valore di “segno”; e questa era la via che conduceva ad Ippocrate.
Il relativo isolamento di Alcmeone, in quanto puro scienziato, dalle grandi correnti filosofiche, gli agevolava certamente questa spregiudicata presa di coscienza metodologica; e tuttavia gli impediva di esplicitarne tutto il valore, e di generalizzarla fino a determinare chiaramente il rapporto fra teoria e osservazione, fra pensiero e realtà, fra verità e fatto. In altri termini, la zona dell’esperibile veniva bensì restituita alla concretezza che sola rendeva possibile l’indagine scientifica, e di quest’indagine veniva indicato il metodo tipico; ma poi Alcmeone lasciava in ombra la sfera del “pensabile” e insomma la struttura, la funzione, i procedimenti della ragione scientifica, che a quell’indagine era parimenti indispensabile.
Così la portata eversiva del pensiero di Alcmeone nei riguardi della physiologia non veniva immediatamente in luce, ed anzi ancora Empedocle poteva largamente ispirarsi ai singoli spunti di esso nella propria riduzione a sistema della physiologia. Solo dopo che un attacco frontale alla physiologia fosse stato portato in nome dell’autonomia e dell’intrinseca validità della ragione, l’eredità di Alcmeone avrebbe potuto essere raccolta in tutta la sua potenziale fecondità.
MarioVegetti, Scritti sulla medicina ippocratica, Petite Plaisance, Pistoia 2018, pp. 330-333.
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L’uomo deve scegliere se essere storia o avere storia, se identificarsi con la propria situazione o farne un tramite per attingere l’origine, se rinunciare alla verità o darne una rivelazione irripetibile.
Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia editore, Milano 2005, p. 116.
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Voici, pour la première fois édité et traduit, un texte grec antique perdu dans la langue originale et conservé en arabe. Il s’agit d’une lettre rédigée par un mystérieux Ptolémée, philologue aristotélicien actif à Alexandrie autour de l’an 200 après J.-C., dans laquelle celui-ci rapporte la Biographie et le Testament d’Aristote, ainsi qu’un Catalogue d’une centaine de titres inconnu par ailleurs. Ce vestige est l’une de nos meilleures sources d’information – et la seule qui soit interne à l’école péripatéticienne – sur la vie d’Aristote. Elle permet de reconstituer les liens entre Aristote et le pouvoir macédonien – Philippe, Alexandre le Grand et le général Antipatros – ainsi que l’émancipation progressive d’Aristote à l’égard de Platon. C’est aussi notre seul témoignage sur la première édition, dans l’Antiquité, des écrits savants du Philosophe. Instantané pris sur le vif de l’état de la philologie aristotélicienne, à Alexandrie, à la fin du IIe siècle, ce texte est une lecture essentielle pour quiconque s’intéresse à la question de savoir ce que nous lisons quand nous lisons Aristote.
Ptolémée « al-Gharib »
Ptolémée « al-gharīb » est un philologue aristotélicien de l’Antiquité, sans doute actif à Alexandrie autour de l’an 200 ap. J.-C.
Marwan Rashed
Après avoir été professeur de philologie grecque à l’Ecole normale supérieure, Marwan Rashed est aujourd’hui professeur de philosophie à la Sorbonne, où il enseigne l’histoire de la philosophie grecque et arabe.
Marwan Rashed vous présente une découverte exceptionnelle pour l’histoire de la philosophie ancienne : l’Épître à Gallus sur la vie, le testament et les écrits d’Aristote, de Ptolémée « Al Gharīb », qu’il a édité et traduit.
Introduction 1. État de la question 1.1. Trace de l’épître dans l’Antiquité 1.2. La redécouverte moderne de Ptolémée
2. Le texte et l’auteur 2.1. Structure de l’Épître à Gallus 2.1.1. Prologue 2.1.2. La Biographie d’Aristote 2.1.3. Le Testament d’Aristote 2.1.4. Le Catalogue des écrits d’Aristote 2.2. L’auteur 2.2.1 Ptolémée le Péripatéticien cité par Longin 2.2.2. Ptolémée le Platonicien 2.2.3. Ptolémée le Péripatéticien cité par Sextus Empiricus 2.2.4. Une attribution fautive à Ptolémée Philadelphe 2.2.5. Ptolémée Chennos 2.2.6. Ptolémée l’adultère
3. Ptolémée et les Pinakes d’Andronicos de Rhodes 3.1. État de la question 3.2. Sept points remarquables de la liste de Ptolémée 3.2.1. Absence de l’Éthique à Nicomaque 3.2.2. Une Métaphysique en treize livres 3.2.3. Présence du De interpretatione 3.2.4. Position des Topiques 3.2.5. Le titre des Premiers et des Seconds Analytiques 3.2.6. Le titre des Réfutations Sophistiques 3.2.7. Le titre du traité Du ciel 3.2.8. Conclusion : Ptolémée et l’érudition alexandrine autour de l’an 200
4. L’histoire ancienne du corpus 4.1. Les récits anciens : Strabon, Plutarque, Athénée … et al-Fārābī 4.1.1. La contradiction entre le récit de Strabon et de Plutarque et l’indication d’Athénée 4.1.2. Al-Fārābī : une version favorable au rôle d’Alexandrie ? 4.2. Les six données positives 4.2.1. Les listes anciennes 4.2.2. Le testament de Théophraste 4.2.3. Le renseignement de Posidonius 4.2.4. Rouleaux et traités : Porphyre et Ptolémée 4.2.5. Ptolémée et « la bibliothèque d’Apellicon » 4.2.6. Ptolémée et la découverte d’Andronicos 4.3. Retour sur le texte d’al-Fārābī 4.4. L’histoire ancienne du corpus Aristotelicum
5. La transmission du texte 5.1. Un texte arabe traduit du syriaque 5.2. Tradition directe et tradition indirecte 5.2.1. La tradition indirecte arabe 5.2.2. La tradition directe arabe 5.2.3. Établissement du texte
Sigla
Texte arabe et traduction مقالة لرجل يسمّى بطلميوس فيها وصية أرسطوطاليس وفهرست كتبه وشيء من أخباره الى رجل يسمّى غلس Traité d’un nommé Ptolémée contenant le testament d’Aristote, le catalogue de ses écrits et sa biographie, adressé à un nommé Gallus
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La musica […] dà anima all’universo, ali al pensiero, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla gioia e vita a tutte le cose. Essa è l’essenza dell’ordine, ed eleva ciò che è buono, giusto e bello, di cui è la forma invisibile ma tuttavia splendente, appassionata ed eterna. Platone
Salvatore Bravo
Il nichilismo musicale dei Måneskin con «I Wanna Be Your Slave».
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Nichilismo musicale In questi giorni nelle TV di Stato, e in quelle del “mercato libero”, si esalta il successo della musica italiana. I Måneskin con I Wanna Be Your Slave sono i primi nelle classifiche mondiali ed in particolare inglesi. Si esalta il genio canoro italiano che riesce a scalare le classifiche dei paesi anglofoni. Ancora una volta il commento dei giornalisti è rivolto in primis al risultato. Si omette che il testo è rigorosamente in inglese, e che pertanto è un successo di cantanti italiani che si adattano ai parametri della globalizzazione, che esige che i “contenuti” debbano negare le lingue nazionali e debbono essere espressi nel nuovo esperanto imposto dai poteri globali: il più forte impone con la lingua il pensiero. Il testo esalta la libertà, ma la libertà si può declinare in una pluralità di semantiche. La libertà dei Måneskin è in “armonia” con l’attuale sistema: liberi nel corpo, nessuna identità, nessun impegno per cambiare le contraddizioni sociali ed economiche della globalizzazione. Il successo arriva, se i testi sono organici al potere che esige consumatori senza volto, senza genere, senza identità. La libertà non dev’essere libertà critica e propositiva, in cui la teoria e la prassi fondano aperture per nuovi orizzonti. I testi omologati e conformisti non devono denunciare i modelli economici e culturali che logorano la comunità per trasformarla in un immenso mercato di individui che cambiano identità nella stessa maniera con cui scelgono e cambiano prodotti. La loro libertà è regressiva, ed è urlata, in un arrogante “io voglio”. L’accento è posto sull’io, sulla brama onnipotente di essere tutto e di avere diritto a ogni desiderio, per cui si può essere in un momento gangster e subito dopo un bravo ragazzo. Si può essere tutto solo se si è niente. Il gioco narcisistico e capriccioso non deve avere limite. L’altro è cancellato dalla relazione, perché l’identità personale è solo una prigione, e pertanto si fugge da essa come da un peso gravido di responsabilità. Nessuna comunicazione affettiva ed erotica è possibile tra identità pronte ad evaporare nel gioco del desiderio che diviene il nuovo “giogo” non riconosciuto. Il sistema esalta questa “canora” libertà dei Måneskin in quanto non fa paura: soggetti senza identità, soggetti “liquidi”, creature camaleontiche pronte ad inseguire il prurito di ogni smania, dominate da pulsioni libidiche, si lasciano dominare senza che il potere imponga loro il dominio. Nei Måneskin non ci sono contenuti o ideologie, sono personalità che inseguono il mondo, si adattano al mondo fino ad essere il niente, ed il nulla non fa paura, anzi è accarezzato dal potere. In un passaggio del testo si afferma di voler usare l’altro come il telecaster, una chitarra versatile: non più persona, ma ente, un oggetto multiuso. L’odio verso l’identità ed il logos non potrebbe essere più loquace. Anche gli oggetti devono essere nell’ottica della liquidità senza forma e stabilità. La relazione è sempre nell’ottica del padrone e dello schiavo, mai paritaria, e dunque in linea con il sistema attuale che divide l’umanità in schiavi e padroni. Il testo dei Måneskin, presentato come trasgressivo, è il volto, la maschera della contemporaneità, del cattivo gusto, che ammicca e rappresenta la verità del sistema: violenza e nichilismo. Il verbo volere ripetuto ossessivamente è il segno della regressione infantile. Il volere incondizionato è una forma di aggressività in cui è avviluppata la società intera. La derealizzazione ha come punto cardine il desiderio illimitato che sospinge adulti e giovani in uno stato di frustrazione e mortificazione continua, perché il principio di realtà e razionalità confligge con il desiderio assoluto di metamorfosi. La sostituzione del principio di realtà con il principio di piacere indebolisce le personalità, le rende prossime alla loro rovina. La fuga dalla realtà sociale e politica favorisce le oligarchie che usano la musica leggera e di facile consumo come strumento di colonizzazione delle menti, e nella propaganda idolatra i mediocri artisti sono servi del sistema:
Voglio essere il tuo schiavo Voglio essere il tuo padrone Voglio far battere il tuo cuore Correre come le montagne russe
Voglio essere un bravo ragazzo Voglio essere un gangster
Perché tu puoi essere la bellezza E io potrei essere il mostro Voglio renderti silenzioso Voglio renderti nervoso Voglio lasciarti libera
Ma sono troppo fottutamente geloso Voglio tirare i tuoi fili Come se tu fossi il mio telecaster E se vuoi usarmi potrei essere il tuo burattino
Perché sono il diavolo Che sta cercando la redenzione E io sono un avvocato Che sta cercando la redenzione E sono un assassino Che sta cercando la redenzione Sono un fottuto mostro Che sta cercando la redenzione
Voglio essere il tuo schiavo Voglio essere il tuo padrone”.
Musica e senso Lo sguardo filosofico dev’essere capace di concettualizzare la tragedia quotidiana, di farla emergere nei suoi aspetti più banali e veri. La filosofia è anche impegno politico, e come tale deve, senza moralismi, essere interprete del presente, in modo da permettere il passaggio dall’uso passivo dei messaggi ideologici alla fruizione attiva e critica, in modo che la cultura emancipatrice possa far scorgere la valenza ideologica dei contenuti che circolano per smascherane la complicità con il sistema. Alla musica che depotenzia le personalità facendole evaporare nelle pulsioni, favorendo i fini imposti dalla società del mercato che ordina la libertà del corpo di consumare illimitatamente, ed impedisce la pratica del pensiero critico e del conosci te stesso, si può opporre Platone con le sue osservazioni sulla musica. Quest’ultima deve metter le ali al pensiero, deve portare ad un viaggio interiore, in cui il logos fonda la verità in un “io” che incontra il “noi”, e persegue il bene come fine di ogni vita pienamente vissuta. Platone nei suoi dialoghi delinea il senso della musica:
“La Musica è una legge morale: essa dà anima all’Universo, ali al pensiero, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla gioia e vita a tutte le cose. Essa è l’essenza dell’ordine ed eleva ciò che è buono, giusto e bello, di cui è la forma invisibile, ma tuttavia splendente, appassionata ed eterna”.
Sorge la domanda se la musica che invade i nostri vissuti sia motore della dialettica dei buoni fini o neghi l’umanità nella sua capacità di elevarsi verso mete che la rendono degna di se stessa. Si assiste, invece, ad una decadenza che ha consumato il suo punto di caduta, e pertanto propina solo trasgressioni omologate e conformiste fino alla noia. Si attende la vera trasgressione la quale ha come fondamento il logos e la ricerca della verità.
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Nell’epitaffio di Sicilo (II-I sec a.C.) alcune delle parole sulla stele sono accompagnate dalla notazione musicale; chi legge può cantare contemporaneamente.
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Per ricordare Massimo Bontempelli attraverso alcune parole-concetto che hanno segnato la sua elaborazione filosofica
Impegno ed esilio interiore Il 31 luglio del 2011 veniva a mancare Massimo Bontempelli[1] nella sua città d’origine: Pisa. Non è un dettaglio secondario. Massimo Bontempelli ha vissuto la sua esistenza nella sua comunità, l’ha servita da docente e da filosofo. Il filosofo è funzionario dell’umanità, ma lo può essere solo nella concretezza dell’universale, ovvero radicandosi nella comunità nella quale si è deciso di vivere per partecipare all’universale. In Bontempelli hanno convissuto due realtà parallele: l’impegno e l’esilio. La sua filosofia ha guardato la notte del nichilismo, l’ha ricostruita all’interno della storia della filosofia ed ha elaborato un percorso d’uscita. Il suo esilio interiore ed intellettuale è stato segnato dall’aver deviato dalla filosofia accademica e di sistema: filosofia nichilistica e di sostegno al capitale; ha pagato la sua scelta con la marginalità che ha trasformato in un mezzo per capire il presente. La sofferenza può diventare concetto, ma lascia sul suo fondo asprezze che faticosamente bisogna poi gestire. La vita di un filosofo è attraversata da una pluralità di tonalità emotive, la ricerca filosofica è totalità del logos, non è razionalità astratta, ma l’intera vita che si sublima in logos. Massimo Bontempelli con lo sguardo della civetta filosofica ha attraversato il buio dell’irrazionale e dell’ideologia per donare uno sguardo nuovo al mondo. Era consapevole che la critica al capitalismo rischia di essere vuota parola, se non coinvolge il problema dei fondamenti veritativi. Ogni proposta alternativa deve confrontarsi con il problema dei fondamenti, la critica dev’essere radicale, deve toccare e ripensare il problema nella sua “vastità” metafisica, altrimenti il cambiamento è solo epidermico, ed è esposto a facili regressioni. Per poter pensare il presente è necessario comprendere il passato in cui siamo situati. Siamo parlati dal passato nel presente. La filosofia deve condividere processi di consapevolezza per trascendere la trappola del contingente senza speranza. È stato un filosofo che ha cercato di riattualizzare la metafisica in un clima di avversione ideologica che tuttora persiste. Il suo esilio è stato, si può certo supporre aspro, ma proficuo. Al momento è poco conosciuto, benché abbia numerosi estimatori, e una notevole e qualitativamente valida e varia produzione filosofica. Ma il tempo è un grande scultore, ed eliminerà ciò che abbaglia, ma che non ha profondità, per lasciare emergere il valore dell’essenziale e dei pensatori che hanno saputo camminare sulla linea dell’orizzonte. Si spera, dunque, che il tempo storico possa riconoscere la profondità del suo lavoro, e che tutti possano confrontarsi con i suoi concetti. L’azione del tempo non avviene fatalmente, ma vive del contributo piccolo e grande dei cercatori della verità.
Totalitarismo della quantità Vorrei ricordarlo attraverso alcune parole concetto che hanno segnato la sua produzione. Le parole per un filosofo non sono flatus vocis, ma concetti vivi di cui bisogna esplorare la profondità. L’opera di Massimo Bontempelli ha ricostruito la genetica del nichilismo nella sua forma crematistica. Il capitalismo è trionfo dell’integralismo della quantità, è linguaggio unico e pervasivo, in cui la quantità è divenuta paradigma unico ed irrazionale. Dietro la maschera razionale della tecnocrazia vi è l’irrazionale, poiché la quantità non dà misura a se stessa, si nutre del suo accrescimento illimitato. Le risorse del pianeta sono limitate, mentre la quantità senza fondamento veritativo spinge verso l’infinita crescita. Massimo Bontempelli ha pensato il problema nella sua radicalità e nella consapevolezza che bisogna rifondare la logica con cui si ricostruiscono le esperienze storiche ed individuali nella loro fatticità complessa. Da studioso della Scienza della logica di Hegel, ha analizzato la logica hegeliana per capire la crisi in cui siamo implicati per una nuova teoretica dei fondamenti[2]:
«Quantità, dice Hegel, significa qualità tolta, ovvero indica l’essere reso indifferente alle sue determinazioni. Grandezza significa quantità limitata dal limite qualitativamente indifferente, ripetizione identica di una medesima identità astratta. La matematica è la conoscenza delle relazioni necessarie della grandezza, secondo una necessità puramente tautologica nei suoi gradi più elementari, e secondo la necessità della mediazione sintetica costruita tra diversi elementi di un oggetto quantitativo nei suoi gradi superiori. Essa ha dunque una base obiettiva universale nella logica della quantità, mediante la quale elabora le sue costruzioni. Le scoperte matematiche sono indipendenti dalle contingenze storiche semplicemente perché l’oggetto del lavoro matematico è dato da entità astratte da ogni qualità contingente. La matematica è dunque una scienza. Ma la quantità, nella cui logica essa ha la sua base ontologica, è soltanto una delle sfere logico-ontologiche che il pensiero possiede nella sua interna strutturazione. Essa non può quindi avere in se stessa la misura della propria verità, perché la verità della quantità si compie soltanto nella sua connessione dialettica con tutte le altre sfere della realtà. L’isolamento della sfera logico ontologica della quantità è la ragione per cui la matematica non può fondare se stessa. Negli spazi vuoti delle pure grandezze quantitative tace, scrive Hegel, ogni esigenza che possa ricollegarsi all’individualità vivente: qui sta la mancanza di verità della matematica».
La sola quantità non può dare misura al vivente, essa necessita della razionalità filosofica che possa tracciare il confine del limite all’interno dei fini e del bene, in modo che la quantità possa essere riportata “al servizio” della storia e dell’umanità. La sola quantità è l’astratto che fagocita il concreto con le sue risorse e specialmente nei suoi bisogni autentici. Senza il soggetto che astrae dalla contingenza la sua verità, la quantità non può che essere una tirannica presenza che minaccia la vita e la sua qualità. Da tale perverso cammino si può deviare con il soggetto che razionalizza la vita economica e sociale pensandola nella sua realtà. L’essere umano è pensante, per cui la coscienza è condizionata, ma mai determinata dalle condizioni materiali. Il totalitarismo della quantità vorrebbe sottrarre la qualità del pensiero per favorire il solo calcolo immediato. Senza pensiero teoretico e con la sola capacità calcolante l’essere umano è oggetto delle forze fatali e letali del modo di produzione capitalistico. L’umanità pone le condizioni per la trasformazione della natura, determina i modi di produzione, la coscienza si forma nell’interazione della trasformazione della natura, ma può pensare la sua attività poietica, determinandone i fini[3]:
«Il lavoro, infatti, trasforma il modo di essere di chi lo esplica, e determina, data la sua natura intrinsecamente cooperativa, i rapporti tra gli uomini. Nasce cosi il modo di produzione, cioè il modo con cui gruppi sociali si sono organizzati in funzione della produzione economica per garantire la riproduzione biologica del gruppo stesso. Essendo per sua natura sociale, il lavoro implica la comunicazione tra gli uomini, quindi il linguaggio, e perciò la coscienza: “il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con gli altri uomini”. La coscienza, però, perviene a uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriore in virtù dell’accresciuta produttività, dell’aumento dei bisogni e dell’aumento della popolazione».
Il regno della sola quantità è l’irrazionale che avanza, in essa la realtà è dispersa ed incompresa. La quantità è il feticcio effetto della destrutturazione della verità. L’urgenza è riportare l’essere umano al fondamento veritativo, al logos con cui stabilisce i fini buoni e mette in atto la “buona vita”. Nel regno della quantità non vi è qualità di vita, poiché gli scopi sono stabiliti dal dominio e dalle oligarchie. L’umanità è estraniata da se stessa, in modo che possa essere abilmente usata dall’ideologia dell’impero della sola quantità. Senza la cura per i buoni fini l’edonismo acquisitivo si ribalta in cultura della morte, della soggettività senza vincoli[4]:
«L’essenza del bene sta nella cura della capacità di avere scopi, cioè nella protezione dalla morte di quella vita che è più propriamente mortale, in quanto si rappresenta se stessa, e alle altre vite simile ad essa, come destinata alla scomparsa. Soltanto, quindi, attraverso la conoscenza della morte si entra nella conoscenza del bene e del male. Come infatti concepire il bene, che è la protezione degli scopi della vita dalla morte che li sovrasta, senza sapere appunto che la morte sovrasta ogni vita che tesse i suoi scopi? La cura, di cui il bene consiste, ha dunque senso solo di fronte alla morte».
Arbitrarismo – intercosalità L’arbitrarismo è la concretizzazione del nichilismo, se il soggetto non ha vincoli etici, se persegue la sola logica quantitativa ed acquisitiva rompe ogni ormeggio dalla sua umanità per essere preda del delirio acquisitivo. Ogni spazio pubblico, soglia di incontro e di manifestazione del logos, è acquisito all’uso privato. La cancellazione degli spazi pubblici coincide con la sostituzione del logos con il semplice calcolo acquisitivo. La libertà diviene aggressività mercantile legalmente riconosciuta, in cui il male (irrazionale) governa le sorti dell’umanità e del pianeta. L’analisi del traffico veicolare con l‘occupazione dello spazio pubblico offre ai lettori di Bontempelli un saggio della sua capacità di problematizzare, “il noto è sconosciuto” come affermava Hegel, per farne strumento di verità[5]:
«Basta ragionare, per capire quale sia questo presupposto: è quella forma di nichilismo che abbiamo chiamato arbitrarismo, qui espressa nella concezione secondo cui è un diritto della persona libera quello di usare a piacere lo spazio pubblico per spostarvisi con un proprio privato abitacolo semovente».
L’irrazionalità dell’arbitrarismo diviene intercosalità, neologismo di Massimo Bontempelli: le relazioni umane senza qualità e fini decadono in semplice transazione, in strumentalizzazione reciproca, ed ogni contatto comunicativo è sostituito dal plusvalore che diviene un’autentica barriera tra le persone, ne determina l’isolamento per debilitare il senso critico e la capacità progettante.
Massimo Bontempelli ha vissuto la filosofia come esperienza veritativa umanizzante. Al totalitarismo crematistico e dello spettacolo ha opposto l’esperienza filosofica quale attività di riflessione sul “bene”, perché senza fini buoni non vi è comunità umanizzante, ma il regno dell’intercosalità nel quale a nessuno è dato vivere secondo la natura comunitaria e razionale dell’umanità.
Derealizzare Lo scopo ultimo e primo del potere è derealizzare, ovvero scindere la relazione tra razionalità filosofica e realtà, in tal modo il soggetto si derealizza, si astrae dalla realtà storica. Il dominio si perpetua nella derealizzazione nella quale il soggetto è solo parte di un immenso automatismo[6]:
«Ma se non si capiscono le zone ormai ontooccultanti dell’esperienza, non si può neanche capire attraverso quali esperienze sia oggi possibile manifestare la realtà, e costruire quindi un cammino di uscita dalla derealizzazione umana del sentiero della notte».
La notte oscura in cui siamo, è la notte della realizzazione, nella quale il soggetto perde se stesso, e si disperde in un’esistenza inautentica. I processi di derealizzazione sono le punte avanzate dei processi di dominio e negazione dell’umanità. La derealizzazione inibisce la prassi per eternizzare l’attuale modo di produzione. La derealizzazione è nell’aziendalizzazione della vita, in cui il soggetto si autopercepisce come un’azienda, si sfrutta in nome di obiettivi stabiliti dalle oligarchie: si derealizza, costruisce una falsa immagine di sé e della storia. Uscire dalla derealizzazione significa ricostruire la complessa genesi in cui il soggetto è ingabbiato con il calcolo, l’arbitrarismo e l’intercosalità. Massimo Bontempelli è il filo d’Arianna che consente di uscire dalla prigione del “politicamente corretto”. Leggere e cercare le opere di Massimo Bontempelli è un gesto di consapevolezza e specialmente è un atto che ha in sé la potenza di pensare la realtà nei suoi tragici fondamenti per poter uscire dal sentiero della sola quantità.
Salvatore Bravo
[1] Massimo Bontempelli (Pisa, 26 gennaio1946– Pisa, 31 luglio 2011)
[2] Massimo Bontempelli, Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea, Petite Plaisance Pistoia, 2018, p. 15
[3] Massimo Bontempelli, introduzione a Marx (ed Engels), in Associazione Culturale Punto rosso, Libera università popolare, p. 32
[4] Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, edizione C.R.T., Pistoia 1998, p. 26.
[5] Massimo Bontempelli, L’arbitrarismo della circolazione autoveicolare ,C.R.T., Pistoia 2001, p. 7.
6] Massimo Bontempelli, Filosofia e Realtà, Petite Plaisance. Pistoia 2020, p. 225.
Storia e coscienza storica (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1983.
Storia (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1984. [Per il triennio]
Civiltà e strutture sociali dall’antichità al medioevo (2 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1984.
Antiche civiltà e loro documenti (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1993.
Civiltà storiche e loro documenti (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1994
Storia e coscienza storica. (nuova edizione, 3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1998. [Per il triennio]
Filosofia:
Il senso dell’essere nelle culture occidentali (3 voll.), con Fabio Bentivoglio, Milano, Trevisini, 1992.
Il tempo della filosofia (3 voll.), con Fabio Bentivoglio, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS, 2011. [riedito nel 2016 in versione aggiornata dalle edizioni Accademia Vivarium Novum]
Saggi e monografie:
Eraclito e noi, Milazzo, Spes, 1989.
Percorsi di verità della dialettica antica, con Fabio Bentivoglio, Milazzo, Spes, 1996.
Nichilismo, verità, storia, con Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 1997.
Gesù. Uomo nella storia, Dio nel pensiero, con Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 1997.
La conoscenza del bene e del male, Pistoia, CRT, 1998.
La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, Pistoia, CRT, 1998.
Tempo e memoria, Pistoia, CRT, 1999.
Filosofia e realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo, con prefazione di Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 2000. [ristampato nel 2020 dalla casa editrice Petite Plaisance]
L’agonia della scuola italiana, Pistoia, CRT, 2000.
Per conoscere Hegel. Un sentiero attraverso la foresta del pensiero hegeliano, Pistoia, CRT, 2000.
Eraclito e noi. La modernità attraverso il prisma interpretativo eracliteo, CRT, 2000.
Diciamoci la verità, “Koiné” n.6, Pistoia, CRT, 2000.
Le sinistre nel capitalismo globalizzato, Pistoia, CRT, 2001.
Un nuovo asse culturale per la scuola italiana, CRT, Pistoia 2001.
L’arbitrarismo della circolazione autoveicolare, Pistoia, CRT, 2001.
Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull’ambiente di Bin Laden e su quello di Bush, con Carmine Fiorillo, Pistoia, CRT, 2001 [ristampato nel 2017 dalla casa editrice Petite Plaisance]
Diciamoci la verità, CRT, Pistoia 2001.
Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo. 1914-1945, Pistoia, CRT, 2002.
Il mistero della sinistra, con Marino Badiale, Genova, Graphos, 2005.
La Resistenza Italiana. Dall’8 settembre al 25 aprile. Storia della guerra di liberazione, Cagliari, CUEC, 2006.
La sinistra rivelata, con Marino Badiale, Bolsena, Massari, 2007.
Il Sessantotto. Un anno ancora da scoprire, Cagliari, CUEC, 2008. [ristampato nel 2018]
Civiltà occidentale, con Marino Badiale, prefazione di Franco Cardini, Genova, Il Canneto, 2010.
Marx e la decrescita, con Marino Badiale, Trieste, Abiblio, 2011.
Platone e i preplatonici. Morale e paideia in Grecia, con Fabio Bentivoglio, introduzione di Antonio Gargano, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS, 2011.
Un pensiero presente. 1999-2010: scritti di Massimo Bontempelli su Indipendenza, Roma, Indipendenza – Editore Francesco Labonia, 2014.
Capitalismo globalizzato e scuola, con Fabio Bentivoglio, Roma, Indipendenza – Editore Francesco Labonia, 2014.
La sfida politica della decrescita, con Marino Badiale, prefazione di Serge Latouche, Roma, Aracne, 2014.
Gesù di Nazareth, con prefazione di Marco Vannini, Pistoia, Petite Plaisance, 2017.
Saggi in opere collettanee:
Il respiro del Novecento, “Koiné” n. 6, Pistoia, CRT, 1999
Metamorfosi della scuola italiana, “Koiné” n. 4, Pistoia, CRT, 2000
(Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri, “Koiné” n. 5, Pistoia, CRT, 2000
Scienza, cultura, filosofia, “Koiné” n. 8, con Lucio Russo e Marino Badiale, Pistoia, CRT, 2002.
I cattivi maestri, in I Forchettoni Rossi, a cura di Roberto Massari, Bolsena, Massari, 2007.
Diciamoci la verità, “Koiné” n. 6, Pistoia, CRT, 2000.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
«[…] soltanto attraverso l’intero svolgimento oggettivo della ricchezza dell’essere umano, viene in parte educata, in parte prodota la ricchezza della sensibilità soggettiva dell‘uomo, e parimenti un orecchio per la musica, un occhio per la bellezza della forma, in breve i soli sensi capaci di un godimento umano, quei sensi che si confermano come forze essenziali dell‘uomo. Infatti non solo i cinque sensi, ma anche i cosiddetti sensi spirituali, i sensi pratici (il volere, l’amore, ecc.), in una parola il senso umano, l’umanità dei sensi, si formano soltanto attraverso l’esistenza dell’oggetto loro proprio, attraverso la natura umanizzata. L’educazione dei cinque sensi è un’opera di tutta la storia del mondo fino ad oggi […] e così la società già formata produce l’uomo in tutta questa ricchezza del suo essere, produce l’uomo ricco e profondamente sensibile a tutto come sua stabile realtà».
Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 2004, pp. 114-115.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
Videor ergo sum Intellettuali e necessità della verità metafisica
Derealizzazione ed impotenza La reificazione e l’atomocrazia nel capitalismo assoluto si struttura con un diffuso scollamento tra realtà storica e vita del soggetto, la condizione schizoide è la normalità dello stato presente. Tali processi sono consustanziali alla sostituzione della verità con il paradigma dell’utile. Le filosofie scettiche fungono da sovrastruttura al dominio globale del mercato. In tale contesto i soggetti “addomesticati” al solo conteggio del PIL non possono che ritirarsi dalla storia e rinunciare alla comprensione dell’orizzonte in cui sono “gettati”. La verità non è che “un mito” del passato, pertanto si rinuncia a capire “il proprio tempo nel pensiero” e la verità della natura umana, senza di essi è improbabile la partecipazione alla prassi. Il cittadino diviene suddito globale, si rifugia nella realtà virtuale (tecnologie e realtà aumentata) limitandosi all’uso delle stesse e specialmente sostituisce la verità con il calcolo dell’utile. Gradualmente la realtà diviene estranea e straniera, si vive in una contingenza a cui ci si adatta, ma non si comprende. Si precipita in un irrazionalismo insidioso, si scambia il virtuale e l’ideologia annessa per realtà, e dunque, la scissione tra pensiero e realtà consolida il capitalismo assoluto, fino a rendere gli esseri umani “accidenti” che appaiono nella storia come elementi complementari del sistema. Costanzo Preve con l’ontologia dell’essere sociale ha l’obiettivo di fondare la comunità e la politica su un principio veritativo capace di veicolare il discernimento tra vero e falso. Per uscire dalla caverna della derealizzazione Costanzo Preve utilizza l’ontologia dell’essere sociale e la deduzione sociale delle categorie, con la prima fonda la verità della natura umana nel logos, nella pratica comunitaria del pensiero, nella sua capacità di astrarre la verità storica del tempo in cui è immerso, tale operazione comporta l’uso della deduzione trascendentale delle categorie con cui discernere il contingente dall’eterno che si manifesta nella storia. Il soggetto non rispecchia la realtà storica, ma la pensa con la mediazione del logos all’interno delle istituzioni, per cui per “natura” l’essere umano è attività pensante che si materializza nella storia. L’eterno è la consapevolezza che alcune conquiste della razionalità non sono contingenti, ma appartengono all’umanità. L’ontologia dell’essere sociale si oppone allo storicismo alleato dell’economicismo, poiché insegna che tutto è storia, e dunque, non vi è verità, ma l’essere umano è solo storia. La verità è sostituita dall’utile e dalla infinita manipolazione. L’essere umano è il niente che appare nella storia, a cui “enti esterni” danno la forma:
“Il punto di vista dell’ontologia dell’essere sociale è il solo che può realmente fronteggiare le due patologie complementari dello storicismo e del sociologismo, formazioni ideologiche entrambe impotenti di fronte alle smentite storiche. E questo perché l’ontologia dell’essere sociale non nega affatto la crucialità decisiva della storia, e non nega neppure il ruolo indispensabile dei soggetti sociali organizzati, ma inserisce questi due fattori “materiali” in una “forma” senza la quale questi due fattori non possono trovare alcun fondamento[1]”
L’essere sociale esige che sia il pensiero che l’essere (sociale e comunitario) siano esaminati da un punto di vista concreto nel rispetto della natura umana, la quale è pensante e comunitaria e si manifesta nella storia, non secondo un’illimitata plasticità, ma secondo forme che rispettino il carattere del logos, il quale calcola il limite e con esso dà forma all’umanità e determina il suo “esserci”:
“Il genere stesso, inoltre, non è pura vuota potenzialità riempibile all’infinito in modo relativistico (dynamis), ma è la realizzazione in atto di questa potenzialità (energheia) in quanto la realizzazione in atto di questa potenzialità, allude ad un contenuto, il contenuto antropologico dell’uomo come animale sociale, politico e comunitario (politikòn zoon), e dell’uomo come animale dotato di ragione, linguaggio e capacità di calcolo geometrico delle proporzioni applicato alle proporzioni sociali e comunitarie (zoon logon echon)[2]”.
Il successo delle filosofie anti-ontologiche lo si può comprendere con la deduzione sociale delle categorie, esse sono organiche all’economicismo crematistico che vuole rappresentare l’essere umano come privo di fondamento veritativo per poterlo spingere verso l’illimitato consumo e l’illimitata manipolazione rendendo l’umanità fragile e disorientata. La negazione della natura umana comporta un robinsonismo generalizzato che ha l’effetto di deviare la vita dei singoli in un mondo virtuale, al quale si chiede una vita sociale e un’impossibile identità. Dietro le forme tragicomiche di narcisismo mediatico vi è una implicita speranza di vivere “una vita umana”, continuamente disattesa, la qualcosa ha l’effetto di provocare un’aggressività diffusa ed incontrollata. L’impotenza generalizzata comporta la fuga dalla comunità e dal sociale abbandonato alle fatali e letali leggi dell’economia. L’individuo è resecato dalla storia, diviene ente astratto nell’impotenza generalizzata. La persona è rappresentata come in-dividuo, ovvero come essere astratto dal suo fondamento comunitario e veritativo. La solitudine dell’individuo astratto è l’inizio dei processi di derealizzazione, in cui l’utile si sviluppa in modo parossistico, invade ogni campo del sapere e della vita comunitaria fino a fagocitarli. Il logos attraverso i processi dialettici può ricucire la scissione tra realtà e logos con l’attività razionale del soggetto. L’Idealismo hegeliano ha insegnato che la realtà diviene razionale, solo se il soggetto “pensa il reale”, per pensare si intende la capacità di coglierla olisticamente per decodificarne la verità storica, in tal modo è possibile capire il progetto, in cui si è implicati per assumere una prospettiva responsabile e progettuale. Costanzo Preve è stato libero discepolo di Hegel, Marx ed Aristotele, ne ha colto i nuclei “eterni” per capire il presente ed elaborare una teoretica della verità che affonda il suo senso nella tradizione da ripensare plasticamente. La realtà è razionale, se il soggetto la trasforma in esperienza pensata e condivisa, ma affinché ciò possa essere è necessaria la chiarezza del fondamento veritativo dell’essere umano. Verità e storia non sono antitetiche, ma la verità della natura umana si rivela nella storia. Senza verità metafisica la menzogna non è più tale, è sola una declinazione del nichilismo, l’indifferenza sostituisce ogni senso etico, se la verità è messa al bando, di conseguenza non resta che il calcolo acquisitivo e l’utile empirico a governare i destini dei popoli. Il cittadino non ha ragione di agire contro le menzogne conosciute, perché non ha paradigmi etici per comprenderle. Tutto è indifferente ed omologato, la verità vale quanto una menzogna, non resta che ritirarsi dalla storia e compensare il senso di nullità quotidiana con l’onnipotenza dell’apparire che nasconde l’impotenza di sistema. L’Umanesimo comunitario in Preve ha lo scopo di trascendere il dualismo tra verità e storia. La derealizzazione aggira il travaglio del negativo, è la grande vittoria del modo di produzione capitalistico sull’umanità. Il capitalismo assoluto, in tal maniera, non si specchia nella sua verità, produce menzognej per potersi espandere senza limiti. L’inclusione nel mercato si realizza per mezzo della derealizzazione: i soggetti sono “educati” alla sola registrazione degli eventi storici. Lo sguardo registra l’accadimento, guarda ed osserva l’evento storico come una realtà su cui non ha potere alcuno. Il pregiudizio metafisico è uno dei mezzi con cui le Accademie e il circo mediatico favoriscono i processi di derealizzazione:
“Il reale è dunque razionale solo se la sua razionalità può svilupparsi attraverso l’esperienza storica. […] Hegel non è un sostenitore del giustificazionismo storico, ed ancora una volta non lo è perché difende la realtà razionale ed ontologica di un orizzonte trascendentale di tipo logico[3]”.
La derealizzazione favorisce l’irrazionale imperio della ragione strumentale, la quale è prassismo senza fondamento, è attivismo acquisitivo, nel quale il soggetto scambia il pragmatismo utilitarista come attività e partecipazione. In realtà il soggetto è passivizzato ed atomizzato, in quanto subisce le decisioni del mercato e della “politica” senza poter orientare il senso della propria esistenza. Vive in un mondo impersonale che accetta fatalmente, poiché “così è” e non può che adattarsi. Le filosofie scettiche e il pensiero debole promuovono con la “morte di dio”, ovvero della verità, l’obiectum, anziché il Gegenstand. Il soggetto e le comunità hanno dinanzi ad essi il mercato con le sue logiche e lo percepiscono come intrascendibile, pertanto lo si accetta come un dato naturale incontestabile ed eterno. La realtà storica non è posta dal soggetto comunitario, per cui l’io comunitario non può che attraversare la storia come una comparsa, ciò comunica a tutti i membri della comunità un senso di inutilità, il quale disorienta ed annichilisce. La cultura è l’anticorpo più vigoroso contro le forme tossiche di derealizzazione, la cultura come paideia, formazione globale, consente di sviluppare l’identità della persona con le sue potenzialità, e di affinare il senso critico, ovvero di pensare “il proprio tempo” per poterlo trasformare. La storia della cultura ci consente di individuare il paradigma per distinguere la cultura dall’ideologia. La prima è cultura dell’universale, i suoi fondamenti sono universali, poiché la formazione e la lettura olistica dei fenomeni culturali e storici, già forma ad una disposizione all’universale, in cui il pensiero ritorna su se stesso per individuare parzialità e rigidità e confrontarsi con esse. L’ideologia è la rappresentazione del reale falsata dall’illusione dell’universale, ovvero si scambia la parzialità per universale, sostenuta dall’assenza della capacità e della motivazione a tornare sulla rappresentazione per liberarla dalle trappole della falsa coscienza. L’ideologia vive di ipostasi, essa necrotizza il tempo storico, divide senza mai unire, mentre la cultura distingue il temporale dall’universale. La cultura è orientamento verso la verità, è trascendere l’immediato per astrarre dalla storicità l’universale in cui ciascuno può ritrovarsi, sentirsi nella propria casa, poiché l’universale è posto in modo corale.:
“Il termine di cultura, nel significato che intendo dargli, non significa solo “alta cultura”, la cultura scritta e visiva dei grandi scrittori e dei grandi pittori, e neppure cultura in senso antropologico come insieme dell’attività lavorativa, linguistica e simbolica dell’uomo, ma significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento (e di autoaccrescimento) della coscienza umana che dura tutta la vita. La cultura è dunque un termine che connota sia l’individuo, sia i gruppi ristretti, sia l’intera società[4]”.
La formazione esclusivamente “specialistica” è già pratica di derealizzazione, in quanto la complessità del reale storico e dei saperi è atomizzato in parti non riconducibili all’unità. La separazione, isola e rinchiude in nuove torri d’avorio, il mondo storico si liquefa nell’iperspecializzazione, al suo posto vi è solo il disegno egemonico-specialistico che si esplica su rappresentazioni virtuali del reale che non sono più tali, è il robinsonismo dei saperi. La razionalità strumentale si sostituisce alla razionalità oggettiva. Si è solo gli esecutori del mercato globale, che si è autofondato escludendo ogni riferimento metafisico ed umano. Il mercato è la sostanza aurea a cui ci si inginocchia, poiché nella percezione generale non dipende dalle generazioni che si susseguono nella storia, non è stato posto dal soggetto comunitario, ma si è autofondato ed autofecondato. I sudditi globali sono i tristi spettatori di tale processo, così Preve argomenta a Luigi Tedesco, in un’intervista, sul tema dell’inutilità e dei processi di derealizzazione:
“(Preve) Sono veramente felice che tu abbia scelto come concetto principale di questa nostra conversazione (destinata probabilmente a chiudere il secondo volume della raccolta delle nostre conversazioni, che risalgono alla fine del 2003) il tema della “inutilità”, per meglio dire il tema della sensazione del crescente aumento dell’ “inutilità” in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale. Sulla base degli stimoli delle tue considerazioni svolgerò alcune autonome riflessioni. In primo luogo, utilizzando la concezione hegeliana del rovesciamento dialettico di una costellazione teorico-pratica nel suo contrario complementare, possiamo ipotizzare che l’inutilità sia il coronamento temporale dello sviluppo dell’utilitarismo individualistico, messo a punto per la prima volta da Smith e Hume nella seconda meta del Settecento scozzese-inglese. Ma come è possibile che l’inutilità sia il coronamento temporale dialettico del suo contrario, e cioè dell’utilitarismo? Nulla di più semplice, se si è abituati all’applicazione del pensiero dialettico. Il cuore dell’utilitarismo è l’autofondazione del meccanismo riproduttivo globale del mercato capitalistico su se stesso, togliendo di mezzo le tre fondazioni tradizionali della filosofia politica, l’esistenza di Dio (non importa se cattolica, protestante o ortodossa variamente secolarizzata e già da tempo privata di ogni promessa messianica), il contratto sociale (non importa se nella forma di “destra” di Hobbes, di “centro” di Locke o di “sinistra” di Rousseau (mi scuso con il lettore intelligente per avere usato queste improprie categorie, da lasciare a Bersani, Casini ed Alfano), ed infine il diritto naturale, concetto che rimanda pur sempre alla natura umana comunitaria associata come principio di legittimazione filosofica di ultima istanza. Con l’utilitarismo di Hume e di Smith, curiosa ed a suo modo geniale ed originale mescolanza di empirismo e di scetticismo, il mercato capitalistico si autofonda sulla propensione allo scambio ed alla mercificazione universale. A distanza di più di due secoli, siamo in grado ormai di fare un vero bilancio storico-filosofico serio, che presuppone probabilmente il raggio temporale minimo di duecento anni, possiamo dire che il principio dell’utilità generale si è rovesciato nella sensazione diffusa ed inquietante della inutilità generale. Siamo arrivati ad avere popoli inutili, generazioni inutili, e più in generale alla sensazione che non vale neppure più la pena argomentare, svelare, dimostrare, eccetera, perchè di fronte allo spread ed al “giudizio dei mercati” ogni discorso sensato appare inutile[5]”.
La derealizzazione, la fuga dalla storia, è favorita da una temporalità senza progettualità, il soggetto “intuisce” nel quotidiano di essere soltanto funzione di un meccanismo, che non ha scelto, e specialmente, può essere sostituito, in ogni tempo: l’utile si trasforma in una spada di Damocle che minaccia potenti e deboli, poiché rende ogni essere umano sostituibile in una perversa uguaglianza che entifica l’umanità.
Videor ergo sum Il linguaggio utilitarista, apparentemente concreto, in realtà è la dose di “quotidiano avvelenamento delle speranze”. L’utilitarismo insegna che il mercato può sostituire con enorme facilità qualsiasi soggetto. L’entificazione è assoluta, pertanto, ogni soggetto senza identità e verità è solo parte dell’automatismo dell’utile. Il linguaggio contribuisce attivamente alla derealizzazione, il codice orwelliano con cui il circo mediatico rappresenta la realtà è anch’esso uno dei mezzi mediante il quale la derealizzazione diviene “normalità alienante”. Le parole non corrispondono a nessun reale storico, sono solo un trucco retorico degli intellettuali asserviti (giornalisti, professori universitari) per giustificare dinanzi al pubblico lo spettacolo dell’osceno[6]. Gli intellettuali non sono dei creatori, ma il mezzo di legittimazione e diffusione capillare dei processi di derealizzazione. Le loro competenze linguistiche sono al servizio del “padrone”. Il linguaggio orwelliano è flatus vocis, pertanto le parole non sono che mezzi per il dominio, con cui indurre alla condizione di “plebe” che dissipa il proprio tempo in attività organizzate da un potere invisibile. Tutto è reso pubblico, ogni gesto, ogni parola, ma il potere resta celato ed irraggiungibile. Se la verità è solo una chimera metafisica non resta che adattarsi, in quanto la resistenza presuppone un’alternativa fondata sulla verità e sulla razionalità oggettiva. La verità nel circo mediatico è associata alla violenza del totalitarismo, per cui si “scoraggia” ogni riflessione su di essa, in quanto foriera di violenza fascista. Le violenze del capitalismo assoluto sono rimosse mediante il velo di Maya del linguaggio mediatico[7]. L’ossimoro (bombardamento etico, missioni di pace) e la reductio ad Hitlerum (Slobodan Milošević, Saddam Hussein, Mu’ammar Gheddafi) sono gli artifici retorici con cui strappare il consenso. Le controriforme che erodono i diritti sociali sono denominate “riforme”, e sono evocate in lingua inglese (jobs act). Il consenso è ottenuto con parole che seducono, ma al cui interno vi sono provvedimenti contro i popoli. L’offuscamento semantico con la neolingua ha lo scopo di mettere in atto un delicato e progressivo lavaggio del cervello con cui trasformare il cittadino in spettatore-consumatore. La neolingua santifica l’apparire, anziché l’essere. La cultura dell’apparire, il bisogno generalizzato indotto a ritagliarsi un cono di luce per sembrare, a qualsiasi costo, connota la società attuale come pornografica. Se il soggetto è perennemente alla ricerca dei riflettori, è sotto la lente di ingrandimento dei meccanismi della società dello spettacolo, non si appartiene, non ha il tempo qualitativo per pensarsi e riflettere sul mondo che, mentre lo espone in vetrina, lo annichilisce: gli sottrae il tempo del pensiero e specialmente la derealizzazione è orchestrata dai poteri pubblici e privati che stabiliscono le leggi dell’apparire. Si coltiva un’immagine pubblica decisa da altri. Nulla è sotto il controllo del soggetto che si trasforma in oggetto del sistema, e si rifugia in un’esistenza virtuale destinata ad essere perennemente sotto scacco. Il soggetto è perennemente pro-vocato, ovvero è “chiamato fuori”, deve essere sotto l’abbaglio della stimolazione, in modo che il pensiero rallenti la sua attività e non pensi la sua condizione storica, ma la subisce, in tal modo l’io è derealizzato, è disabitato dall’io pensante per essere ad immagine e somiglianza del mercato. L’io inseguito, catturato ed umiliato, non agisce, ma reagisce rifugiandosi in un mondo delirante che scambia per realtà. L’io si derealizza, in quanto è resecato da se stesso, dalle sue potenzialità creative e dalla comunità. L’in-dividuo[8] è l’effetto del taglio, dei processi di resecazione-alienazione, pertanto è scisso dalla storia, non resta che il competitore vuoto di se stesso, ma abitato da una realtà violenta e virtuale. Non a caso l’in-dividuo coincide con l’affermarsi del privato che persegue i soli interessi personali, e ciò è un’ulteriore resecazione dalla vita comunitaria. Al termine di tali dinamiche di resecazione non resta che un atomo che ha perso il contatto con la realtà storica, fino a non riconoscerla e a disinteressarsi di essa, il soggetto si ripiega sui soli interessi privati decretando con la solitudine la sua sconfitta. L’io si indebolisce, l’identità diviene liquida fino a disperdersi nelle maschere della società del videor ergo sum:
“Viviamo in un’epoca il cui fondamento non è più il cogito ergo sum di cartesiana memoria criticato da Husserl, ma è il videor, ergo sum. Il termine latino videor è particolarmente adatto a quanto intendiamo qui dire, perché significa sia “sono visto” al passivo, sia “sembro” come verbo intransitivo. Più esattamente “sono visto” (al video) e “sembro” (attraverso il video). Sembra che la visibilità sia la condizione minima di esistenza. Se non si è visti, non si esiste. Ma questa è un’illusione[9]”.
Il linguaggio, in questo contesto, è depotenziato delle sue possibilità creative e critiche, è stereotipato e ripetitivo, in quanto la derealizzazione desertifica il pensiero, e quindi il linguaggio è solo il riflesso del circo mediatico. Senza identità veritativa e comunitaria il linguaggio diviene “chiacchiera” senza fondamento, e qualora si debba far accettare dal pubblico “l’inaudito”, si usa un linguaggio addomesticato ed evirato della sua intensità concettuale. L’eufemismo è orchestrato dai media, a seconda delle circostanze si usano parole che possano “tranquillizzare” lo spettatore. É l’artificio linguistico con cui il sistema protegge se stesso, in modo che si possa far accettare anche l’impossibile allo spettatore-consumatore. il politicamente corretto è l’architrave di un sistema che produce menzogna, edulcora il logos, in modo da trasformare i popoli in armenti belanti disponibili alla democrazia procedurale. Senza logos, verità e linguaggio non vi può che essere la derealizzazione organizzata sul mito del piacere assoluto, della regressione e fuga da ogni condizione emotiva adulta. Coloro che denunciano lo stato presente sono rappresentati come nemici della gioia di vivere e dei diritti individuali. In questo clima di violenza verbale e fattuale si vuole eliminare la speranza, poiché quest’ultima presuppone un “soggetto forte” che pone il reale storico, per cui “sperare” è dimensione della trasformazione sociale indissolubilmente legata all’agire storico del soggetto che pone la storia e ne scorge tra le pieghe le potenzialità di cambiamento. La speranza è la dimensione dell’esodo dal presente. L’inutilità strutturata si palesa con forme compensatorie dell’io, dietro cui si nasconde la perdita della speranza. L’ipertrofia dell’io narcisistico palesa la derealizzazione indotta. È vietato vietare qualsiasi comportamento o scelta tranne lottare per una società diversa:
“Non ci sono più identità, ma fantocci televisivi intercambiabili che si pronunciano nei talk-show per individui del tutto passivizzati. In questa società in cui è vietato vietare qualsiasi cosa, e la sola cosa vietata è il battersi per una società diversa, la vecchia religione invasiva dei costumi familiari e sessuali dev’essere smantellata e delegittimata […][10]”.
Il soggetto può perdersi tra realtà virtuale e pulsionale, gli è concesso ogni appetito, l’importante è che non metta in discussione il presente e che non si occupi del suo futuro. Il tempo è puntiforme, non vi è temporalità progettuale e condivisa, cade così, la motivazione a capire la realtà storica, perché è religiosamente e dogmaticamente difesa dal politicamente corretto. Non resta che ritagliarsi spazi illusori di azione, in cui dimenticare la quotidiana passività con il giogo che diventa sempre più greve fino a schiacciare i sudditi. Il calcio, la rete, la pornografia sono forme di derealizzazione, il soggetto si ritira in fantasie, in sogni puerili di dominio e piacere assoluto, per non guardare con gli occhi della mente la sua riduzione a semplice “ente” tra gli “enti”. La corporeità vissuta nella distanza con la rete, deforma la percezione del proprio corpo vissuto, l’illimitato si consolida nelle aspettative, pertanto il soggetto non regge la relazione duale e comunitaria: l’astratto sostituisce il concreto. L’illusione di essere soggetto attivo è traslata nel nuovo “oppio dei popoli: il tifo, la pornografia, l’ossessione del viaggio e dello spostamento veicolare. I media deviano l’attenzione dei cittadini dai reali problemi sociali e storici con la chiacchiera, che nega il logos ed il linguaggio con forme stereotipate ed anonime di comunicazione. La derealizzazione diviene un dispositivo di controllo sociale, dinanzi al quale il cittadino-suddito ed il popolo-plebe sono senza difese:
“24. Inizierò con alcune osservazioni di superficie su alcuni fenomeni molto noti ma anche poco compresi come il tifo sportivo, la pornografia, la circolazione autoveicolare ipertrofica ed asfissiante, ed infine la televisione e la sua centralità comunicativa, o meglio escludente. Si tratta di quattro fenomeni ben noti, ma come dice giustamente Hegel, il noto in quanto noto non è ancora conosciuto. Per poter portare la comprensione di questi quattro fenomeni sociali al livello della conoscenza teorica occorre abbandonare ogni visione moralistica, snobistica ed elitaria di questi fenomeni, per comprendere che si tratta di quattro fenomeni di individualizzazione artificiale, e pertanto di socializzazione adattativa, del suddito-consumatore di questa nuova terza età del capitalismo. Il tifo sportivo è spesso visto con disprezzo dalle cosiddette “persone colte”. Vi sono anche persone di cultura, come lo scrittore inglese Tim Parks, tifoso degli “ultra” del Verona, che invece ne rivalutano gli aspetti ludici e comunitari. Io sono totalmente privo di snobismo, la gente comune non mi fa per niente schifo, e tendo dunque a prendere sul serio Tim Parks. Ma Tim Parks, ed i molti come lui, parlano anche di calcio, non solo di calcio. C’è una sottile differenza, che non dovrebbe sfuggire neppure a Parks. Quando lo spettacolo sportivo satura ogni comunicazione mediatica, le squadre vengono quotate in borsa, l’ossessiva chiacchiera calcistica ed automobilistica sostituisce nei bar il precedente “parlare di donne” (forse a causa di una diminuzione del desiderio dovuto all’inquinamento atmosferico), ecc., non siamo più di fronte ad un fenomeno sportivo, ma ad una sostituzione della virtualità alla precedente sportività stessa. È bene ribadire che non intendo affatto sostenere che i nuovi tifosi vengono “distratti” dai loro veri interessi sociali o dalla organizzazione della prossima rivoluzione proletaria. Questo modo inattendibile di vedere le cose era tipico dell’ideologia di sinistra, per cui già nell’antica Roma i giochi dei gladiatori e più in generale i circenses avevano il compito di distrarre le masse dalla lotta contro il modo di produzione schiavistico. In realtà, come ha a suo tempo chiarito lo storico francese Paul Veyne, i circenses non avevano lo scopo di “distrarre” le masse da una improbabile rivoluzione, che in forma cristiana avvenne poi comunque, ma di affermare simbolicamente il potere senatorio o imperiale, e poi esclusivamente imperiale. Del resto questo avviene anche oggi, da Agnelli a Berlusconi. Il discorso sportivo socializza in modo artificiale, contrapponendo agonisticamente tifosi socialmente del tutto omogenei, ed in questo modo individualizza in modo adattativo queste stesse persone che vengono teatralmente fatte scannare per Totti e Ronaldo. La pornografia è anch’essa un fenomeno per molti aspetti nuovo ed inedito, e sbaglia chi parla soltanto del mestiere più antico del mondo, o fa notare che l’eccitazione erotica per gli organi sessuali fa parte del corredo biologico della riproduzione umana..[11]”.
La derealizzazione ha lo scopo di strutturare un senso di “superfluità” diffuso. Se il soggetto “sente” che la sua esistenza è inutile, ciò gli comunica un senso profondo di superfluità: non gli resta che rifugiarsi nella realtà virtuale, la quale prende prepotentemente il posto della realtà storica. Il consenso è estorto mediante una rappresentazione parziale e falsata degli accadimenti storici, non a caso “i bombardamenti etici” sono preceduti da un’esposizione morbosa e dettagliata dei crimini del dittatore di turno per strappare il consenso al bombardamento. Il concreto è sostituito dall’immagine astratta, la razionalità critica con l’emozione che sarà presto archiviata. La normalità diviene patologia non riconosciuta, al punto che gli apparati istituzionali curano i sintomi del male per evitare di incidere sul sistema.
Intellettuali e necessità della verità metafisica La verità del capitalismo assoluto va resa “nota”, va tradotta in un linguaggio che rompe la continuità tra struttura e sovrastruttura. Gli intellettuali possono e devono defatalizzare la condizione presente riportando la parola al centro, parola di senso, parola progettante e politica. Il capitalismo assoluto può essere avviato al suo trascendimento con la teoria e la prassi, le quali necessitano di categorie di significato collettive senza la quali la passività dei popoli è il volto concreto della feticizzazione della storia. L’intellettuale è ad un bivio: può contribuire, affinché il sistema possa perpetuare se stesso o devertere dal suo esiziale cammino. L’intellettuale deve riportare la prassi mediante la teoretica del rovesciamento dell’in sé col per sé nelle condizioni storiche date, solo in tal modo il misticismo economico che ci minaccia e reifica può deviare dal cammino nichilistico, dal silenzio della parola e della politica mediando l’immediato con la ragione dialettica. Gli intellettuali devono vivere la doppia temporalità della critica al capitalismo nel presente con lo sguardo rivolto verso la passione per la verità che riconcilia le temporalità storiche in un nuovo ordine. Il ruolo degli intellettuali ed il loro destino sono indissolubilmente legati alla democrazia, nella fase attuale del capitalismo assoluto la palese decadenza degli intellettuali, ormai organici alla società dello spettacolo, coincide con la fase regressiva ed autoritaria della “democrazia della finanza”. La democrazia nel suo significato ideale è attività decisionale e consapevole dei popoli, è pensiero condiviso, attività creatrice e dialettica mediante la quale i popoli si riconoscono ed autoriconoscono nelle reciproche differenze rispettose dei comuni principi: comunità, giustizia sociale, consapevole limitazione dei processi crematistici, riconoscimento delle differenze all’interno di una cornice assiologica comune. La democrazia è misura e senso del limite senza i quali non è che la parodia di se stessa, dove vige la dismisura, la cattiva distribuzione delle ricchezze e dei poteri non vi è che la sudditanza della politica all’economia. È evidente che la democrazia dei nostri giorni agonizza sotto i colpi del liberismo, delle conseguenti mercificazioni e della derealizzazione. La fase imperiale del capitalismo nella sua furiosa volontà di potenza, conquista e vendita omologa le parole, le svuota del loro significato per renderle frecce uncinate per la perenne televendita. La decadenza delle parole, il loro essere organiche alla lingua del capitale è forse il risultato più alto che il capitalismo assoluto ha potuto ottenere. Il pensiero è costituito di parole, la loro funzionalizzazione alla sola vendita ha reso possibile l’attacco alle coscienze; la penetrazione violenta nella mente dei popoli è un’operazione imperiale nuova ed inaudita: i popoli senza lingua e linguaggi indotti a parlare la lingua unica del mercato, possibilmente l’inglese commerciale, vivono la profondità della loro crisi politica nella forma dell’attività-passiva, ovvero apparentemente si fa appello ai popoli ed ai singoli, li si spinge verso un attivismo perpetuo nel campo della produzione, dei desideri e del consumo, ma nel contempo si organizza la loro passività. L’attività perenne senza spazi temporali e fisici per poter dialettizzare il tempo immediato dell’economicismo favorisce la passività, si è presi all’interno di una spirale che invita alla ripetizione del medesimo senza sosta, senza possibilità di far emergere nell’incontro con sé e la comunità la parola che ridisegna l’ordito dei giorni. Il capitale ha reso le parole vuoti ronzii con l’effetto che ogni attività intellettuale legata alla parola è stata anestetizzata. Se il linguaggio è stato divorato dalla struttura economica, le nuove forme espressive e spettacolarizzate divenendo la normalità dello stato presente hanno reso la scissione tra intellettuale e popolo profondissima, la faglia sembra incolmabile, poiché si uccide la parola-pensiero sul nascere con l’effetto di un’assoluta estraneità tra intellettuali e popoli. La decadenza dell’intellettuale è espressione di questi processi in atto, non a caso è concesso all’intellettuale di presenziare nei dibattiti mediatici solo se le sue parole o anche le sue critiche fatalmente confermano il sistema. Vi sono intellettuali che incarnano la cultura dell’eccesso, del narcisismo logorroico fine a se stesso, ed intellettuali che in quanto “pessimisti tragici” descrivono l’apocalisse presente ed insegnano agli ignari ascoltatori che ogni speranza non è che illusione, mentre la prassi è solo un residuo di epoche storiche tramontate. Non resta che adeguarsi al mondo, inseguirlo per imitarlo ed avanzare celati dietro maschere di vuote parole “larvatus prodeo”. Essere spettatori è una condizione, ma non un destino, la condizione attuale non è senza uscita, solo con l’uscita dal ruolo di spettatore e del consumo è possibile ridare senso e consistenza qualitativa alle istituzioni che come gusci vuoti sopravvivono alla società dello spettacolo. Resistere significa donarsi, trasgredire il comandamento dell’utile, e testimoniare che la violenza (Gewalt) è un accidente storico e non la verità dell’essere umano. La quarta guerra mondiale in atto, è una nuova forma di totalitarismo, una nuova forma di violenza che fa convivere “bombardieri e menzogna palese”. Si tratta di svelare non solo la relazione tra i due elementi del binomio, ma specialmente di dimostrare che una simile realtà è “innaturale”, perché non corrisponde alla verità umana. Si instaura una società ideologica, che nega l’ideologia imperante, dichiarando la fine di tutte le ideologie per entrare nel regno irenico della pace a suon di cannonate e menzogne. Costanzo Preve lontano dal circo mediatico e dagli “eunuchi” del potere, ha riportato al centro la verità metafisica. Solo ripartendo dal sentiero interrotto della verità sarà possibile, non solo svelare la menzogna palese nella sua realtà, ma specialmente solo la fede argomentata e dialettica nella verità può riportare la comunità con i suoi individui al centro della storia, perché capaci di pensare la verità e di agire in nome della verità:
“La menzogna palese rappresenta a mio avviso un grado superiore, darwinianamente parlando, della precedente menzogna occulta. La menzogna occulta dava infatti luogo a strategie di smascheramento o di “demistificazione” (come si diceva negli anni Sessanta) e queste strategie nutrivano gruppi appositi di intellettuali che si qualificavano come smascheratori e demistificatori, secondo il modello di quelli che il filosofo francese Ricoeur aveva chiamati “maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche, Freud). La menzogna palese svuota completamente questa funzione critica e si pone come strumento bellico diretto. La menzogna palese, lungi dall’essere “sciocca”, riflette, invece la dura realtà dei rapporti di forza[12]”.
La sola critica non è sufficiente, è necessaria la fondazione metafisica della verità. I rapporti di forza sono senza equilibrio, per cui i dominatori possono rappresentare come verità ciò che i deboli sanno essere menzogna. L’insostenibile causa la fuga nel virtuale come nella malattia mentale. La società attraversata da rapporti di forza insostenibili si disintegra nella derealizzazione: i sudditi nella loro impotenza “fingono di credere alle menzogne”, si ritraggono dall’ostilità nella storia stordendosi in mondi immaginari, in speranze illusorie, in forme di rimozione collettiva delle violenze subite. La nostra è un’epoca che necessita di testimonianza attiva per smentire gli imperativi del turbocapitalismo. I principi di ogni civiltà sono negati in nome della finanza: è l’anno zero della civiltà, è l’epoca della grande dispersione, dopo il diluvio della società dello spettacolo. Dinanzi al diluvio della storia si ha il dovere di attraversare il negativo per ritrovare il fondamento onto-assiologico senza il quale non vi è che il male di vivere. Costanzo Preve ha testimoniato la sua lotta contro i processi di derealizzazione con la sua testimonianza e la sua vita. Riappropriarsi del reale storico è possibile con la fondazione metafisica della verità, poiché essa motiva alla lotta ed induce a pensare: le rivoluzioni e le riforme sono possibili solo nella verità, l’alternativa è una lunga agonia a cui non ci si può opporre. Costanzo Preve ha avuto il coraggio di deviare dal nichilismo per la fondazione metafisica della verità senza la quale non vi è futuro, ma solo il lento consumarsi dei giorni. Per poter riconnettersi con la realtà storica e concettualizzarla è necessario “dire addio” alle appartenenze che sono forme sofisticate di derealizzazione. L’appartenere ad un gruppo, ad un partito, ad un movimento rischia di trasformarsi in difesa ideologica dell’appartenenza e dunque, in allontanamento dalla verità e dall’impegno etico.. Costanzo Preve non si considerava un intellettuale, poiché ne constatava la normale pratica di difesa delle lobby di appartenenza, pertanto è stato fedele al suo destino, è stato filosofo che ha pensato il reale storico senza asservimento derealizzante:
“Con tutti i miei difetti soggettivi, psicologici e caratteriali, e con tutte le mie insufficienze oggettive, scientifiche e filosofiche, rivendico però a mio onore l’avere capito fino in fondo che l’autoidentificazione illusoria e fantasmatica con il gruppo sociale degli “intellettuali”, impegnati e/o organici che siano, non poteva che svilupparsi dialetticamente verso la rovina e l’autodissoluzione, che sono comunque sotto i nostri occhi (Veltroni, Sarkozy, eccetera). Gli intellettuali sono una forma moderna e postmoderna di clero, sia pure un clero non tenuto al celibato ma anzi invitato alla libera scopata postfamiliare. Eretico o ortodosso, giornalistico o universitario, celibe o scopatore, un clero rimane clero. Non dico che un clero non sia talvolta necessario. A volte lo è. Ma oggi il problema non è quello di aggregarsi per produrre collettivamente (inesistenti) profili ideologici articolati e sistematizzati per uso politico, ma di differenziarsi dai greggi esistenti per tentare di avanzare ipotesi teoriche radicalmente nuove. Questo è impossibile se si intende compatibilizzare l’avanzamento di questa ipotesi con l’appartenenza a gruppi intellettuali oggi esistenti, il cui conservatorismo è tale da produrre automaticamente l’esclusione del reo. Termino allora qui questa modesta autocertificazione. Il signor Costanzo Preve è stato a lungo un “intellettuale”, sia pure di seconda fila e non di prima. Ma oggi non lo è più, e chiede di essere giudicato non più sulla base di illusorie appartenenze di gruppo, ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche. E di queste cominceremo finalmente a parlare[13]”.
Per trascendere i processi di derealizzazione necessitiamo di strumenti cognitivi per capire il presente, ma specialmente, necessitiamo non di una Filosofia da “Accademia”, in cui si dibatte sulla “definizione” della stessa, ma della testimonianza di una vita filosofica che mostra e dimostra la possibilità di vivere pienamente la propria umanità nella verità. La testimonianza di Costanzo Preve dev’essere associata a Massimo Bontempelli con cui ha collaborato e che nel testo “Filosofia e Realtà” ha attraversato “il negativo” del sentiero della notte (derealizzazione), mediante la logica hegeliana:
“D’altra parte, per concepire un’uscita dal sentiero della notte, ovvero per individuare un varco nell’attuale orizzonte storico nichilistico, è assolutamente indispensabile identificare la storia che ha materializzato quel sentiero, che ha chiuso il nostro orizzonte. Senza andare con il pensiero a questa radice, infatti, non è possibile capire quali settori ed ambiti dell’attuale esperienza umana ne siano i germogli, e siano intrinsecamente ontooccultanti. Ma se non si capiscono le zone ormai ontooccultanti dell’esperienza, non si può neanche capire attraverso quali esperienze sia oggi possibile manifestare la realtà, e costruire quindi un cammino di uscita dalla derealizzazione umana del sentiero della notte[14]”.
La derealizzazione conduce, secondo l’efficace espressione di Massimo Bontempelli “all’intercosalità”. Se il logos non comprende il proprio tempo, se i soggetti sono reificati non resta che un mondo senza umanità, in cui l’unico legame è lo scambio di “merci”, fino al punto di non riconoscersi ed autoriconoscersi come persone, ma come “merci” da esporre nel mercato delle transazioni. L’intercosalità è il punto apicale dell’alienazione, in cui non si riconosce più la propria umanità.
Ricostruzione genetica, fondazione veritativa, prassi sociale e testimonianza vissuta sono il quadrifarmaco contro il sentiero della notte. L’essere umano è un essere pensante, per cui tutti siamo chiamati a dare nel rispetto delle differenze il nostro contributo testimoniale contro il sonno della razionalità oggettiva e l’incubo della sola razionalità strumentale.
Salvatore Bravo
[1] Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia, Petite Plaisance, Pistoia, 2013, 18.
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