L. A. Seneca (4 a.C. – 65) – La filosofia si divide in sapere e disposizione d’animo. chi ha imparato e compreso che cosa si deve fare e che cosa si deve evitare non è ancora saggio, se il suo animo non si è trasformato in base a quanto ha appreso

Lucio Anneo Seneca006
«Che cos’è la filosofia? (Τὶ γὰρ ἐστι φιλοσοφία;)».
 
«La filosofia, dice Aristone, si divide in sapere e disposizione d’animo (scientiam et habitum animi); infatti chi ha imparato e compreso che cosa si deve fare e che cosa si deve evitare non è ancora saggio (non dum sapiens est), se il suo animo non si è trasformato in base a quanto ha appreso».
 
Seneca, Epistola 94, 48, trad. it. di G. Reale, Lucio Anneo Seneca, Tutti gli scritti in prosa. Dialoghi, trattati e lettere, Rusconi, Milano 1994, pp. 1218-1219.

Seneca – De brevitate vitae. Non è breve la vita, ma tale la rendiamo
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) – Da quando il denaro ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito. Gli uomini consacrano il denaro come espressione massima delle cose umane.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – Quale è la natura specifica dell’uomo? La ragione, che quando è retta e perfetta dà all’uomo la pienezza della felicità. Una tale ragione perfetta prende il nome di virtù, e altro non è che la coerenza morale.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – La filosofia non è un’arte di cui si possa fare ostentazione: essa non consiste nelle parole, ma nelle azioni. La filosofia forma e foggia l’animo, regola la vita, governa le azioni, insegna ciò che si deve fare e ciò che si deve evitare, sta al timone e dirige il corso delle navi.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Numenio di Apamea (II sec. d.C.) – Di ciò che è donato in spirito, beneficia colui che riceve, senza che essa abbandoni colui che dà. Così è questa ricchezza, la conoscenza, che si dona e si riceve, che rimane in colui che dona ed è sempre la stessa in chi riceve.

Numenio di Apamea

«Ogni oggetto donato, una volta lasciato dal donatore, passa al donatario […]; questo per quanto riguarda le cose mortali e umane; le cose divine, invece, sono tali che, una volta comunicate, una volta che sono passate da lì a qui, non risultano separate da lì; giunte qui, esse avvantaggiano il donatario senza danneggiare il donatore; quello trae anzi ulteriore vantaggio dalla reminiscenza di ciò che sapeva. Ora questa bella ricchezza è la bella scienza (ἐπιστήμη ἡ καλή), della quale beneficia colui che riceve, senza che essa abbandoni colui che dà; allo stesso modo si può vedere un lume possedere luce accesa da un altro lume: quello non l’ha sottratta a questo, ma la materia che è in esso si è accesa a contatto col fuoco dell’altro. Così è questa ricchezza, la scienza, che si dona e si riceve, che rimane in colui che dona ed è sempre la stessa in chi riceve. […] Ecco perché anche Platone [Filebo, 16 c 6-7] dice che la saggezza venne agli uomini da Prometeo insieme a un fuoco splendente».

Numenio di Apamea, in Eusebio, Praep. ev., XI, 18, 15-19.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Alessandro Dignös – Il saggio Per una filosofia della potenzialità ontologica di Alessandro Monchietto. Un’esortazione alla «defatalizzazione» del mondo attuale sul fondamento di un’ontologia della «possibilità»

Alessandro Dignös04 Monchietto

Alessandro Monchietto
Per una filosofia della potenzialità ontologica
indicepresentazioneautoresintesi

Alessandro Dignös

Il saggio Per una filosofia della potenzialità ontologica

di Alessandro Monchietto

Un’esortazione alla «defatalizzazione» del mondo attuale
sul fondamento di un’ontologia della «possibilità»

Senso comune e filosofia – si sente dire – viaggiano su binari paralleli, che quasi mai, se non per errore, arrivano ad intersecarsi. Che quest’asserzione non raffiguri uno stato di cose, ma una delle tante opinioni correnti, è quanto Alessandro Monchietto, con il suo saggio Per una filosofia della potenzialità ontologica, si propone di far emergere. In questo breve scritto, il giovane filosofo mette in evidenza come sia il senso comune sia la filosofia degli ultimi decenni si reggano, a ben vedere, sul medesimo principio assurto a dogma, e cioè sull’idea che il mondo attuale, nelle sue strutture portanti – economica, politica, sociale, culturale –, costituisca un orizzonte immodificabile e intrascendibile. È questa la rappresentazione della realtà che generalmente orienta il pensiero e la vita tanto dell’“uomo comune” quanto dell’“uomo di cultura” a partire dagli ultimi anni dello scorso millennio.

Contrariamente a ciò che si è indotti a credere, la condizione dell’uomo di oggi non appare segnata dalla “fine delle ideologie”, bensì dal dominio assoluto di un’unica grande ideologia, secondo cui il mondo attuale rappresenta una sorta di compimento di un processo storico plurimillenario. Secondo questa “narrazione”, mentre le società del passato erano caratterizzate dal dominio di miti, ideologie e modelli di pensiero infondati, destinati dunque a crollare col passare delle epoche, il mondo contemporaneo costituisce un’eccezione, poiché riproduce delle dinamiche e delle strutture che appaiono, per molti aspetti, connaturate nella stessa realtà. In considerazione di ciò, due sono gli atteggiamenti che è possibile assumere di fronte al mondo: accettare di buongrado lo stato di cose presente, interpretato come una meta verso cui l’umanità è da sempre in cammino; denunciarne le contraddizioni e gli orrori, tenendo però a mente l’impossibilità di qualsiasi alternativa ad esso.

 

Monchietto osserva come il ruolo esercitato dalla filosofia nella costruzione di quest’ideologia sia stato decisivo. A partire dagli anni Settanta, la filosofia occidentale, tanto nella sua declinazione “postmoderna” quanto nella sua variante “analitica”, ha progressivamente abbandonato la propria funzione critico-costruttiva per approdare all’idea che il mondo sia essenzialmente intrasformabile, ragione per cui può soltanto essere descritto, interpretato o, tutt’al più, stigmatizzato e rifiutato. La filosofia ha finito così per rinunciare a trovare una risposta ai problemi fondamentali del proprio tempo, rassegnandosi ad accettare la realtà così com’è. È questa la concezione della filosofia che domina il panorama culturale degli ultimi decenni. Tutte le correnti di pensiero dominanti, per quanto possano apparire differenti, si caratterizzano, per Monchietto, come vere e proprie «filosofie dell’impotenza»: esse, infatti, predicano egualmente l’immodificabilità del mondo, legittimando in questo modo la rinuncia alla critica volta alla trasformazione dell’esistente. E come spiegano il fatto che, per molto tempo, il mondo sia stato considerato trasformabile dalla prassi umana? Secondo un gran numero di pensatori attuali, quest’idea non è che una delle molte “illusioni” di cui l’umanità è stata vittima e dalla quale ha saputo affrancarsi solo al prezzo di grandi sofferenze. Chiunque si ostini ad intendere il mondo come qualcosa di trasformabile, persevera dunque nel diffondere vane illusioni, mentendo sulla vera “natura” della realtà. In tal modo, afferma l’autore, la filosofia, da esercizio del dubbio e critica dell’esistente, si riduce alla legittimazione dogmatica del presente, che viene «trasfigurato ideologicamente in condizione “naturale ed eterna” dell’esistenza umana» (p. 35).

Questa Weltanschauung necessitaristica e fatalistica ha come naturali conseguenze il venir meno del pensiero critico, l’atrofizzazione del senso di ingiustizia e l’avvento di un clima dominato da sottomissione e indifferenza. «Ci si adatta all’ingiustizia. Si perde l’abitudine ad indignarsi. E ci si inibisce a priori la possibilità di cambiare lo stato di cose presente. Di fatto, tutti quanti si piegano perché nessuno crede più alla possibilità di un’alternativa; la vita sociale viene oramai condotta esclusivamente nella prospettiva della fatalità» (p. 38). «La disoccupazione, la mortalità infantile, la povertà sono oggi trattate come il risultato di forze impersonali che agiscono ad un livello globale, e contro cui non si può fare nulla; i mali che affliggono la nostra società e il nostro tempo ci sembrano un destino» (pp. 41-42). E così, «di fronte ad eventi percepiti come naturali, inevitabili, fatali, l’inerzia, la rassegnazione e l’apatia divengono gli unici atteggiamenti ragionevoli» (p. 43).

Ora, com’è possibile, per Monchietto, ovviare a tale situazione e scardinare questa rappresentazione della realtà? Che fare affinché la filosofia abbandoni ogni apologetica dell’esistente e si riponga sulla “retta via” del dubbio e della critica trasformatrice? Ciò che si deve fare, segnala il filosofo, è cambiare la propria «immagine del mondo» (Weltbild), ovvero l’idea che ognuno si fa del mondo. «Le immagini del mondo», infatti, «perimetrano un orizzonte di possibilità» (p. 42), rappresentano cioè ciò «che spiega e organizza l’esistente, che seleziona e delimita i confini di ciò che rientra nel nostro raggio d’azione, di ciò che si può modificare e di ciò che, viceversa, assume i tratti della fatalità» (p. 43). Quanto più si crea una rappresentazione del mondo le cui strutture fondamentali sono pensate come elementi su cui non è possibile esercitare alcuna forma di controllo, tanto più si diviene vittime e schiavi di tale autoinganno. Ciò che si deve fare è dunque compiere un lavoro su se stessi al fine di modificare la propria rappresentazione e la propria percezione del mondo. Solo liberandosi dall’illusione che il mondo attuale sia intrasformabile e intrascendibile diviene possibile recuperare la dimensione critico-costruttiva che definisce ogni autentica filosofia e risvegliare negli uomini il desiderio di un mondo migliore. «La “speranza”», rileva il filosofo, «non è un principio bensì un effetto: fino a quando il mondo sembrerà fatale, essa potrà giocare un ruolo esclusivamente marginale» (p. 44), rivelandosi incapace di sollecitare gli uomini ad agire e a cambiare le loro sorti.

Il compito che la filosofia è oggi chiamata a svolgere, per Monchietto, è dunque «defatalizzare il mondo, liberandosi […] di ogni prospettiva fatalistica e necessitaristica» (ivi). Per riuscire in tale impresa, essa non può (più) pensare la storia in senso deterministico e finalistico, come se fosse un movimento che si protende meccanicamente verso un «fine»; si tratta, invece, di elaborare una filosofia della storia che poggi su presupposti affatto diversi: che sia cioè «costruita non per “telos”, non per “compimento” ma […] per “alternative”, succedersi di alternative, succedersi di opportunità e di occasioni che al tempo stesso aprono e chiudono nuove possibilità. Una Geschichtsphilosophie senza una trazione anteriore, senza un’attrazione del fine, […] dove vi sia spazio per la contingenza e per un orizzonte di possibilità» (p. 45). In breve, una filosofia della storia che rinunci all’illusione (o mito) del «progresso», «senza rinunciare al progetto dell’emancipazione dell’umanità» (ivi).

In generale, ciò che si deve fare è ripensare la realtà e la storia non più sulla base di un’ontologia della «necessità» – qual è quella che domina il senso comune e la cultura di oggi –, bensì di un’ontologia della «possibilità». Sostituendo ad un’ontologia intesa come «presa d’atto di ciò che c’è» un’ontologia intesa come «mobilitazione di ciò che è attuale al fine di ricondurre l’attualità alla possibilità» (p. 46), la realtà attuale non appare più come una «necessità» ineluttabile, bensì come uno dei possibili modi d’essere del mondo, come una delle possibili configurazioni che il reale può assumere. Una concezione siffatta costringe così a pensare in modo radicalmente diverso la società umana, portando l’attenzione non più solo su come essa sia, ma anche su come sarebbe potuta essere e, dunque, su come potrebbe essere e diventare. In conclusione, è solo concependo il mondo come «possibilità» che diviene possibile defatalizzare la realtà e indicare un orizzonte di senso alla prassi umana, consentendole di riaprire le porte a un avvenire che non sia la mera dilatazione del presente.
Il saggio di Monchietto mira a rinvenire alcuni strumenti che consentano alla filosofia di recuperare il proprio ruolo di “bussola” e “guida” nel difficile e spinoso sentiero che ha come meta la radicale trasformazione dell’esistente e l’emancipazione del genere umano. L’autore mette in luce come il raggiungimento di questo obiettivo sia possibile solo dopo aver cambiato la propria immagine del mondo, ovvero solo dopo aver messo in discussione la rappresentazione della realtà che, per effetto dei condizionamenti ideologici vigenti, è incisa nella coscienza della stragrande maggioranza degli individui. Facendo tesoro della riflessione e delle indicazioni di alcuni tra i maggiori pensatori degli ultimi secoli – come Fichte, Hegel, Marx, Sorel e Heidegger –, la proposta filosofica di Monchietto costituisce un’esortazione a ripensare la realtà attuale – e, più in generale, lo statuto del mondo – sul fondamento di una diversa visione dell’«essere», che permetta di scorgere «quelle possibilità che nella storia sono rimaste inesplicate» (p. 46) e che indichi all’uomo la via verso nuovi mondi possibili.

Alessandro Dignös

Alessandro Dignös – Discorso e verità nella Grecia antica, di Michel Foucault. Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca
Alessandro Dignös – Il libro di Luciano Canfora «Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci». Un’interessante indagine sul carattere pratico della filosofia.
Alessandro Dignös – Il contributo di Costanzo Preve ad una «riscrittura integrale» della storia della filosofia contemporanea alla luce del concetto di padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Michel Foucault (1926-1984) – Parlare significa fare qualcosa, significa fare un gesto complicato e costoso. Un cambiamento presuppone non un po’ di invenzione e di creatività, ma una mentalità diversa, trasformazioni in una pratica.

Michel Foucault 01

«Si tratta di far apparire le pratiche discorsive nella loro complessità e nel loro spessore; far vedere che parlare significa fare qualcosa, qualcosa di diverso che esprimere quello che si pensa, tradurre quello che si sa, qualcosa di diverso anche che far funzionare le strutture di una lingua; far vedere che aggiungere un enunciato a una serie preesistente di enunciati, significa fare un gesto complicato e costoso, che implica delle condizioni (e non soltanto una situazione, un contesto, dei motivi) e che comporta delle regole (diverse dalla regole logistiche e linguistiche di costruzione); far vedere che un cambiamento, nell’ordine del discorso, non presuppone delle “idee nuove”, un po’ di invenzione e di creatività, una mentalità diversa, ma delle trasformazioni in una pratica, eventualmente in quelle che le sono vicine e nella loro articolazione comune. Non ho negato, e me ne guardo bene, la possibilità di cambiare il discorso: non ho tolto il diritto esclusivo e istantaneo alla sovranità del soggetto».

Michel Foucault, Archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura [L’archéologie du savoir, 1969], Rizzoli,1999.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) – Ciò che è l’educazione per il singolo uomo, è la rivelazione per l’intero genere umano. A costituire il valore dell’uomo è non la verità di cui chicchessia sia in possesso, o pretenda di esserlo, bensì l’impegno sincero che l’uomo ha profuso per scoprirla. È attraverso la ricerca della verità, e non col possesso di essa, che le sue forze si fanno più grandi.

Gotthold E. Lessing 01

Ciò che è l’educazione per il singolo uomo,

è la rivelazione per l’intero genere umano.

Gotthold E. Lessing, L’educazione del genere umano, a cura di Luciano Canfora, Postfazione di Angelo Semeraro, Sellerio, Palermo 1997.

***

«A costituire il valore dell’uomo è non la verità di cui chicchessia sia in possesso, o pretenda di esserlo, bensì l’impegno sincero che l’uomo ha profuso per scoprirla. È attraverso la ricerca della verità, e non col possesso di essa, che le sue forze si fanno più grandi, e solo in questo consiste la sua sempre progrediente perfezione».

Gotthold E. Lessing, Eine Duplik.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Johann Gottfried Herder (1744-1803) – Se la filosofia deve servire agli uomini, deve fare dell’uomo il suo fulcro. Umanità è il carattere della nostra specie. L’educazione all’umanità è un’opera che deve essere continuata incessantemente.

Herder Johann Gottfried 01
Se la filosofia deve servire agli uomini, deve fare dell’uomo il suo fulcro.
Che cosa è rappresentabile attraverso l’uomo?
Tutto. La natura, la società umana, l’umanità.

Johann Gottfried Herder

 

Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità (1774) e, il suo grande capolavoro, le Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-1791).

***

«Il mio cammino è il percorso dell’universo: per questo per me brilla ogni stella, per questo risuona per me, nei concetti spirituali e nelle relazioni, l’armonia degli astri».

Johann G. Herder, Sulla metempsicosi.

***

Il sentimento è la misura della nostra sensibilità; la vera origine del vero, del buono, del bello.

Johann G. Herder, Studi e progetti.

«Tutti quanti siamo uomini, e come tali rechiamo in noi il genere umano, ovvero al genere umano noi apparteniamo. […] Umanità è il carattere della nostra specie; ma esso ci è innato solamente come predisposizione, e propriamente richiede di venir educato. Eppure è necessario ch’esso sia, nel mondo, la meta delle nostre aspirazioni, la somma delle nostre azioni, il nostro valore: non conosciamo infatti nessuna angelicità insita nell’uomo, e se il demone che ci governa non è un demone umano, allora noi diventiamo tormentatori degli uomini. L’elemento divino che c’è nel nostro genere è dunque l’educazione all’umanità. […] Umanità è il patrimonio e il risultato di tutti gli sforzi umani, è per così dire l’arte della nostra specie. L’educazione all’umanità è un’opera che deve essere continuata incessantemente; altrimenti tutti noi, che si appartenga ai ceti superiori o a quelli inferiori, ripiombiamo nella rozza animalità, nella brutalità».

Johann G. Herder, Lettere per il promuovimento dell’umanità

Opere

Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità (1774) e, il suo grande capolavoro, le Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-1791).

  • Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità, Torino, Einaudi, 1971
  • Idee per la filosofia della storia dell’umanità, Bologna, Zanichelli, 1971
  • Giornale di viaggio 1769, Milano, Spirali, 1984
  • La pietra grezza – I dialoghi per massoni di Lessing e Herder, traduzione di Teresina Zemella, Milano, 1984
  • Ernst e Falk Dialoghi per liberi muratori, Milano, Cisalpino Goliardica, 1984
  • Dialogo intorno a una società invisibile-visibile, Milano, Cisalpino Goliardica, 1984
  • Fama Fraternitatis – Sullo scopo della Framassoneria, come essa appare dall’esterno, Milano, 1984
  • L’anello del sigillo di Salomone – Una continuazione del precedente dialogo, Milano, Cisalpino Goliardica, 1984,
  • Dio, Dialoghi sulla filosofia di Spinoza, Milano, Franco Angeli, 1992
  • Metacritica: passi scelti, Roma, Editori Riuniti, 1993
  • Saggio sull’origine del linguaggio, Parma, Pratiche Editrice, 1993
  • Plastica, Palermo, Aesthetica, 1994
  • Dialogo su una società invisibile-visibile, Milano, Bompiani, 2014
  • Massoni, Milano, Bompiani, 2014
  • Fama Fraternitatis o Sullo scopo della Libera Muratoria, come essa appare dall’esterno, Milano, Bompiani, 2014.
  • L’anello con sigillo di Salomone, Milano, Bompiani, 2014
  • Iduna, o il pomo del ringiovanimento, Pisa, ETS, 2019.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Aristotele (384-322 a.C.) – In qualunque campo si raggiungerebbe la migliore visione della realtà, se si guardassero le cose nel loro processo di sviluppo e fin dalla prima origine.

Aristotele, la prima origine

«Natura di cose altro non è che nascimento di esse».

G.B. Vico, La Scienza nuova,  I, sez. 2, XIV.

«In qualunque campo
si raggiungerebbe la migliore visione della realtà,
se si guardassero le cose nel loro processo di sviluppo
e fin dalla prima origine».

Aristotele – Questa è la vita secondo intelletto: vivere secondo la parte più nobile che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – La «crematistica»: la polis e la logica del profitto. Il commercio è un’arte più scaltrita per realizzare un profitto maggiore. Il denaro è l’oggetto del commercio e della crematistica. Ma il denaro è una mera convenzione, priva di valore naturale.
Aristotele (384-322 a.C.) – La mano di Aristotele: più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; la mano costituisce non uno ma più strumenti, è uno strumento preposto ad altri strumenti.
Aristotele (384-322 a.C.) – Da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque. La nascita viene dal seme.
Aristotele (384-322 a.C.) – In tutte le cose naturali si trova qualcosa di meraviglioso.
Aristotele (384-322 a.C.) – Se l’intelletto costituisce qualcosa di divino rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. Per quanto è possibile, ci si deve immortalare e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – Se uno possiede la teoria senza l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il particolare che vi è contenuto, più volte sbaglierà la cura, perché ciò cui è diretta la cura è, appunto, l’individuo particolare.
Aristotele (384-322 a.C.) – Diventiamo giusti facendo ciò che è giusto. Nessuno che vuol diventare buono lo diventerà senza fare cose buone. Il fine deve essere ipotizzato come un inizio perché il fine è l’inizio del pensiero, e il completamento del pensiero è l’inizio di azione. ⇒ Una Trilogia su Aristotele: «Sistema e sistematicità in Aristotele». «Immanenza e trascendenza in Aristotele». «Teoria e prassi in Aristotele».
Aristotele (384-322 a.C.) – Le radici della ‘paideia’ sono amare, ma i frutti sono dolci. Il modello più razionale di ‘paideia’ abbisogna di tre condizioni: natura, apprendimento, esercizio.
Aristotele (384-322 a.C.) – La virtù è uno stato abituale che orienta la scelta, individua il giusto mezzo e lo sceglie. Il male ha la caratteristica dell’illimitato, mentre il bene ha la caratteristica di ciò che è limitato.
Aristotele (384-322 a.C.) – Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. L’intelletto è quanto di più elevato si possa pensare, è il «toccare» il vero, rappresenta la realtà più divina ed eccellente che c’è in noi.
Aristotele, La mano è azione: afferra, crea, a volte si direbbe che pensi. La mano ha fatto l’uomo, è l’uomo stesso, è lo strumento degli strumenti. In verità il pensiero si impone come artigianale così come la mano.
Aristotele (384-322 a.C.) – La poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia. La poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Arnold Schönberg (1874-1961) – Tendiamo al futuro: ci dev’essere nel nostro futuro una perfezione sovrana. Uno dei compiti più nobili della teoria è di risvegliare l’amore per il passato e di aprire, nello stesso tempo, lo sguardo verso il futuro.

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Manuale di armonia, I

Manuale di armonia, I


Manuale di armonia, II

Manuale di armonia, II

«Credo […] che il nuovo sia quanto di buono e di bello noi bramiamo involontariamente e irresistibilmente con il nostro essere più interiore, così come tendiamo al futuro: ci dev’essere nel nostro futuro una perfezione sovrana, a noi ancora ignota, dal momento che tutto il nostro essere associa ad essa le sue speranze. Forse questo futuro è uno stadio d’evoluzione superiore del nostro genere in cui si adempie quello struggimento che oggi non ci dà pace […]: il futuro reca con sé il nuovo, e per questo il nuovo è per noi così spesso e a ragione identico al bello ed al buono».

Arnold Schönberg, Manuale di armonia, Il Saggiatore, 1963, voI. II, p.302

«L’impulso più nobile, quello della conoscenza, ci impone il dovere della ricerca; e una erronea dottrina che sia frutto di una onesta ricerca sta sempre più in alto della sicurezza contemplativa di chi la rinnega, perché crede di sapere senza aver cercato di persona. È addirittura nostro dovere meditare continuamente sulle cause misteriose di ogni risultato artistico, senza mai stancarci di cominciare da principio, sempre osservando e sempre cercando un nostro ordine […].
Uno dei compiti più nobili della teoria è di risvegliare l’amore per il passato e di aprire, nello stesso tempo, lo sguardo verso il futuro: in tal modo essa può essere storica, stabilendo legami tra ciò che è stato, ciò che è e ciò che presumibilmente sarà. Lo storico può svolgere un compito fecondo quando presenta non delle date ma una concezione della storia, e quando non si limita ad enumerare, ma si adopera a leggere nel passato il futuro. […]
Abbiamo il diritto e l’obbligo di dubitare, ma farsi indipendenti dall’istinto è difficile quanto pericoloso, perché accanto alle cose giuste e sbagliate, accanto alle esperienze e alle osservazioni dei nostri padri, accanto a ciò che noi dobbiamo alla loro e alla nostra tradizione, abbiamo forse nell’istinto una capacità in divenire, che è la conoscenza del futuro; e forse ne possediamo anche altre, di cui l’uomo acquisterà un giorno coscienza, e che oggi può al massimo presentire e intravedere senza poterle però mettere in azione».

Arnold Schönberg, Manuale di armonia, Il Saggiatore, 1980.

Arnold Schönberg, Autoritratto, 1910

A. Schônberg, Autoritratto, 1910

CPG5XE Schoenberg, Arnold 13.9.1874 - 13.6.1951, Austrian composer, half length, writing, at the blackboard, writing notes, male, man,

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Trattato di Armonia

Trattato di Armonia


Funzioni strutturali dell'armonia

Funzioni strutturali dell’armonia



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J. W. Goethe (1749-1832) – Possiamo e dobbiamo godere delle vere forze attive della vita terrena. Quanto più siamo aperti a questi godimenti, tanto più ci sentiamo felici. Se non vi partecipiamo, si manifesta la più grande malattia: considerare la vita come un peso nauseante.

Johann Wolfgang Goethe 15x

«Ogni piacere della vita è fondato sopra un regolare ritorno delle cose del mondo esterno. L’alternarsi del giorno e della notte, delle stagioni, dei fiori e dei frutti, e di tutto quello che ci si presenta da un’epoca all’altra, perché noi possiamo e dobbiamo goderlo, sono le vere forze attive della vita terrena.
Quanto più siamo aperti a questi godimenti, tanto più ci sentiamo felici; ma se la varietà di questi fenomeni si alterna davanti a noi senza che vi partecipiamo, se non siamo sensibili a tante graziose profferte, allora si manifesta il più grande male, la più grande malattia, si considera la vita come un peso nauseante»

Johann Wolfgang Goethe, Aus meinem Leben. Dichtung und Wahrheit (1808-1831), libro XIII [trad. it. Poesia e verità, in ID., Opere, a cura di L. Mazzucchetti, 5 voll., Sansoni, Firenze 1963, vol. I, p. 1138].

Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Non si può chiedere al fisico di essere filosofo; ma ci si può attendere da esso che abbia sufficiente formazione filosofica
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Qualunque sogno tu possa sognare, comincia ora.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Questa è l’ultima conclusione della saggezza: la libertà come la vita si merita soltanto chi ogni giorno la dovrà conquistare.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Ma le notti Amore mi vuole intento a opere diverse: vedo con occhio che sente, sento con mano che vede.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Nell’uomo vi è una scintilla più alta, la quale, se non riceve nutrimento, se non è ravvivata, viene coperta dalle ceneri della necessità e dell’indifferenza quotidiana.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Ciascun momento, ciascun attimo è di un valore infinito. Noi esistiamo proprio per rendere eterno ciò che è passeggero.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Per non rinunciare alla nostra personalità, molte cose che sono in nostro sicuro possesso interiore non dobbiamo esteriorizzarle.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – La mente deve essere addestrata, calzata e stretta in stivali spagnoli, perché s’incammini con prudenza sulle vie del pensiero, e non sfavilli come un fuoco fatuo.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Questo cuore è sempre costante, turgido come il più giovanile fiore. Io non voglio perderti mai! L’amore rende l’amore più forte. La vita è l’amore, e lo spirito è la vita della vita.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Chi è nell’errore vuol supplire con violenza a ciò che gli manca in verità e forza.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Theodor L. W. Adorno (1903-1969) – È fondamentale compiere esperienze personali, non delegate dall’apparato sociale. La felicità si dà soltanto dove c’è il sogno, ed è preclusa a chi non sa più sognare, incapace di concepire scopi.

Theodor Ludwig Adorno 04
Theodor Ludwig Adorno, La crisi dell’individuo, a cura di Italo Testa, Diabasis, 2010.

«La convenzionalizzazione della psicanalisi determina la sua propria castrazione […]. L’ultimo grande teorema dell’autocritica borghese è diventato un mezzo per assolutizzare, nella sua ultima fase, l’alienazione borghese, e per vanificare anche il sospetto dell’antichissima ferita, in cui si cela la speranza di qualcosa di meglio nel futuro».

T.L.W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, 1954.


È fondamentale compiere esperienze personali, non delegate dall’apparato sociale. La felicità si dà soltanto dove c’è il sogno, ed è preclusa a chi non sa più sognare, incapace di concepire scopi.


 

La trasformazione dell’ambiente, di cui abbiamo estrapolato alcuni esempi che tenevano già conto delle rispettive implicazioni psicologiche, rimandano a un nuovo tipo umano in corso di formazione. La si è denominata con espressione felice radio-generation, generazione radiofonica.
È il tipo dell’uomo la cui essenza è definita dall’incapacità di compiere esperienze personali, un uomo che si lascia imbandire le esperienze dall’apparato sociale, fattosi strapotente e impenetrabile, e che proprio per questo non riesce a spingersi fino allo stadio della formazione dell’io, fino alla «persona».
Secondo le teorie della psicanalisi ortodossa un tipo umano che fallisce a tal punto nella formazione dell’io sarebbe da classificare come nevrotico. Il concetto di nevrosi, però, implica determinati conflitti con la realtà. Dal momento che però la generazione radiofonica si priva della possibilità di formarsi un io proprio, adeguandosi passivamente alla realtà, e dal momento che proprio in virtù della mancanza di un «io» essa sembra integrarsi senza alcun conflitto nella realtà, il concetto di nevrosi non può essere applicato senza alcune riserve.
Se tutti costoro sono malati – e ci sono ottimi motivi per crederlo – essi non sono in ogni caso più malati della società in cui vivono. Al tempo stesso è dalla loro conformazione che dobbiamo partire per tentare di cambiare le cose.
Abbiamo ragione di credere che l’atrofizzazione si accompagni alla liberazione di alcune facoltà che mettono queste persone in grado di operate trasformazioni che i vecchi «individui» non avrebbero mai saputo realizzare.
L’apertura di una breccia nella parete monadologica che nell’era liberale imprigionava ogni individuo in se stesso è motivo di grandi speranze. La generazione radiofonica è stata definita «bidimensionale». La mancanza di continuità nell’esperienza rende loro quasi impossibile provare felicità e dolore.

Nessuna felicità, perché essa si dà soltanto dove c’è il sogno, ed essi non sanno più sognare.
Sono pressoché incapaci di concepire scopi che vadano al di là del loro ambito d’azione abituale, e tali da trascendere l’adattamento alle sue condizioni.
Felicità significa per loro adeguarsi, poter fare quello che fanno tutti, fare ancora una volta quello che fanno tutti. […]
Vedono il mondo così com’è, ma a costo di non poterlo più vedere come potrebbe essere. Per questo sono carenti anche dal punto di vista del dolore. Sono «induriti» in senso fisico e psicologico.
La freddezza è uno dei loro tratti più spiccati: sono freddi nei confronti del dolore altrui, ma anche nei confronti di se stessi.
[…] A questa freddezza risponde una complicità segreta con le cose, alle quali si cerca di assimilarsi. […] Il mondo delle cose diventa il sostituto delle immagini. Professano la religione dell’automobile. Il rapporto con i prodotti della tecnologia mette capo a una quanto mai curiosa mescolanza tra capacità di improvvisazione e obbedienza, tra «iniziativa» autonoma (mentalità da truppe di assalto) e rinuncia a un pensiero autonomo, una miscela che racchiude in sé la possibilità di entrambi gli estremi.
[…] Pensare di più, cioè spingersi per mezzo del pensiero al di là delle esigenze immediate poste dall’ambiente circostante, equivale oggi per la maggior parte degli individui a turbare quel processo di adattamento che requisisce la totalità delle loro energie psichiche.
Pensare di più significa ormai di per sé mettere a rischio le proprie chance di carriera, se non addirittura la propria immediata sicurezza.
Al tempo stesso, però, la perdita di ogni illusione intorno alla realtà, la quantificazione dei processi lavorativi che in teoria può consentire a ciascuno di svolgere qualunque mansione, e la relativa immediatezza con la quale le forze della società si affermano fanno sì che proprio il mondo oggettivo delle cose venga incontro a quella conoscenza che esso contemporaneamente reprime.
Quegli stessi uomini che si vietano il pensiero (e comportamenti affini come leggere libri, discutere di problemi teorici, ecc.) si sono fatti «scaltriti» e non si lasciano più abbindolare da nessuno.
Questa contraddizione ci sembra delimitare il problema veramente centrale di un’educazione riflessiva nell’attuale fase storica.

 

Theodor Ludwig Adorno, La crisi dell’individuo, a cura di Italo Testa, Diabasis, 2010.

Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – L’idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto attinge a quel concetto che è servito sempre a sancire la violenza sociale come immodificabile.
Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – Una società emancipata è la realizzazione dell’universale nella conciliazione delle differenze. Una politica a cui questo stesse veramente a cuore dovrebbe richiamare l’attenzione sulla cattiva eguaglianza di oggi […] e concepire uno stato di cose migliore come quello in cui si potrà essere diversi senza paura.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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