Maria Cristina Bartolomei – La tenerezza è reciprocità, paritarietà, assenza di sottomissione, cancellazione della figura del dominio, del padrone e del suddito.

Maria Cristina Bartolomei 01
Dialogo sulla tenerezza

«La tenerezza è reciprocità, paritarietà, assenza di sottomissione, cancellazione della figura del dominio, del padrone e del suddito, scoperta e creazione di rapporti che rinunciano al catartico teatro delle figure dell’inimicus (il nemico privato) e dell’hostis (il nemico pubblico); che rinunciano all’opposizione tra centro e periferia: dove il centro è ogni “io”, e la periferia sono “gli altri”».

 

Maria Cristina Bartolomei, «Il discorso della notte», in: A. Levi, M.C. Bartolomei, D.M. Turoldo, Dialogo sulla tenerezza, Servitium Editrice, Milano 19952, p. 97.

Michail Bachtin (1895-1975) – La vita può essere compresa dalla coscienza solo nella responsabilità concreta. Una filosofia della vita non può che essere una filosofia morale. Si può comprendere la vita solo come evento, e non come essere-dato. Separatasi dalla responsabilità, la vita non può avere una filosofia; separatasi dalla responsabilità, essa è, per principio, fortuita e priva di fondamenta.

Michail Bachtin 08

«[…] Soltanto l’atto responsabile supera ogni ipoteticità, perché esso è […] la realizzazione di una decisione; l’atto è il risultato finale, una complessiva conclusione definitiva; concentra, correla e risolve in un contesto unico e singolare e ormai finale il senso e il fatto, l’universale e l’individuale, il reale e l’ideale, dal momento che tutto viene a far parte della sua motivazione responsabile; l’atto costituisce lo sbocco dalla mera possibilità nella singolarità della scelta una volta e per sempre.
Non si deve affatto temere che una filosofia dell’atto ricada nello psicologismo e nel soggettivismo. […] Dall’interno dell’atto stesso, assunto nella sua integrità, non c’è niente di soggettivo e di psicologico; nella sua responsabilità, l’atto si pone il compito della sua propria verità come verità che unisce entrambi i suoi aspetti, così come unisce l’aspetto dell’universale (la validità universale) e dell’individuale (il reale). Questa verità unitaria e singolare dell’atto va posta come compito in quanto verità di sintesi.
Non meno infondato è il timore che questa verità sintetica unitaria e singolare dell’atto sia irrazionale. L’atto nella sua integrità è più che razionale – è responsabile. […]

[…] Un evento può essere descritto solo in modo partecipe […]: quando ho esperienza diretta di un oggetto, vuol dire che con ciò stesso sto facendo qualcosa in rapporto ad esso, esso rientra nel rapporto con qualcosa che mi pongo come compito, acquista spessore nella mia relazione con esso. Non si può vivere l’esperienza di una datità pura. Nel momento in cui realmente vivo l’esperienza di un oggetto – anche se lo penso soltanto – esso diventa un momento dinamico di quell’evento in corso che è il mio pensarlo-esperirlo; esso acquista, cioè, il carattere di qualcosa che si sta compiendo, o, più precisamente, esso mi è dato nell’ambito dell’evento nella sua unità, di cui sono momenti inscindibili ciò che è dato e ciò che è da compiersi, ciò che è e ciò che deve essere, il fatto e il valore. Tutte queste categorie astratte risultano qui come i momenti di un’unità viva, concretamente tangibile, singolare: l’evento. Analogamente, anche la parola viva, la parola piena, non ha che fare con l’oggetto interamente dato: per il semplice fatto che ho iniziato a parlare di esso, sono entrato con esso in un rapporto che non è indifferente ma interessato-affettivo, e per questo la parola non solo denota un oggetto come in qualche modo presente, ma con la sua intonazione […] esprime anche il mio atteggiamento valutativo riguardo all’oggetto – ciò che in esso vi è di desiderabile e di non desiderabile – e, con ciò stesso, gli conferisce un movimento verso ciò che si deve fare di esso, lo rende momento di un evento vivo. Tutto ciò che rientra nella viva esperienza viene esperito come qualcosa che riguarda insieme il dato e il da farsi, riceve un’intonazione, possiede un tono emotivo-volitivo, entra in un rapporto affettivo con me nell’unità dell’evento che ci abbraccia […]. Il tono emotivo-volitivo è un momento imprescindibile dell’atto, perfino del pensiero più astratto in quanto mio pensiero realmente pensato, cioè in quanto esso realmente viene ad esistere, si incorpora nell’evento. Tutto ciò con cui io ho a che fare mi è dato in un certo tono emotivo-volitivo, giacché tutto mi è dato come momento dell’evento del quale io sono partecipe. In quanto ho pensato un oggetto, sono entrato con esso in un rapporto evenziale. Nella sua correlazione con me, l’oggetto è inscindibile dalla sua funzione nell’evento. Ma questa funzione dell’oggetto nell’unità dell’evento reale che ci abbraccia è il suo valore reale, affermato, vale a dire il suo tono emotivo-volitivo.

In quanto separiamo astrattamente il contenuto dell’esperienza diretta dal suo reale esperire, il contenuto ci si presenta come assolutamente indifferente rispetto al valore in quanto valore reale e affermato; perfino un pensiero sul valore può essere separato da una valutazione reale […].

Nessun contenuto sarebbe realizzato, nessun pensiero sarebbe realmente pensato, se non si stabilisse il legame essenziale tra il contenuto e il suo tono emotivo-volitivo, cioè il suo valore realmente affermato per colui che pensa. Vivere un’esperienza, pensare un pensiero, vuol dire non essere nei suoi confronti assolutamente indifferente, vuol dire affermarlo in modo emotivo-volitivo. Il reale pensiero che agisce è pensiero emotivo-volitivo, è pensiero che intona, e tale intonazione penetra in maniera essenziale in tutti i momenti contenutistici del pensiero. Il tono emotivo-volitivo avvolge l’intero contenuto di senso del pensiero nell’azione e lo riferisce all’esistere-evento singolare. […] In rapporto a tutta l’unità reale, emerge il mio dovere singolare a partire dal mio posto singolare nell’esistere. Io, come unico io, non posso nemmeno per un momento non essere partecipe della vita reale inevitabilmente e necessariamente singolare; io devo avere un mio dovere; in relazione al tutto, di qualsiasi cosa si tratti e in qualsiasi condizione mi sia data, io devo agire a partire dal mio posto unico, anche se si tratta di un agire solo interiormente.

[…]

Certo, si può ignorare l’attività e vivere della sola passività, si può cercare di dimostrare il proprio alibi nell’esistere, si può essere impostori. Si può abdicare alla propria singolarità imperativa (alla singolarità del proprio dovere). L’atto responsabile è appunto l’atto sulla base del riconoscimento di questa singolarità imperativa. Tale affermazione del mio non-alibi nell’esistere è la base del reale e necessitante esser dato e da compiere della vita. Solo il non-alibi nell’esistere trasforma la vuota possibilità in atto responsabile reale […] . È il fatto vivo di un atto ad essere all’inizio dell’atto responsabile e a crearlo […]; è esso la base della vita come atto, poiché essere realmente nella vita significa agire, essere non indifferenti al tutto nella sua singolarità.

Ogni pensiero che non sia correlato con me come qualcosa di imperativamente unico è solo una possibilità passiva; esso potrebbe benissimo anche non esistere, potrebbe essere diverso, il fatto che sia nella mia coscienza non presenta nessuna obbligatorietà, insostituibilità; non incarnato nella responsabilità, anche il tono emotivo-volitivo di tale pensiero è fortuito; è solo il rapporto all’unico e singolare contesto dell’esistere-evento tramite l’effettivo riconoscimento della mia reale partecipazione ad esso, che fa di esso un atto responsabile. E tutto in me – ogni movimento, ogni gesto, ogni esperienza vissuta, ogni pensiero, ogni sentimento – dev’essere un tale atto; è solo a questa condizione che io realmente vivo, non mi sradico dalle radici ontologiche dell’esistere reale. Io esisto nel mondo della realtà ineluttabile, non in quello della possibilità fortuita. […]

La vita può essere compresa dalla coscienza solo nella responsabilità concreta. Una filosofia della vita non può che essere una filosofia morale. Si può comprendere la vita solo come evento, e non come essere-dato. Separatasi dalla responsabilità, la vita non può avere una filosofia; separatasi dalla responsabilità, essa è, per principio, fortuita e priva di fondamenta».

 

Michail M. Bachtin, Per una filosofia dell’atto responsabile, a cura di Augusto Ponzio, Edizioni Pensa Multimedia s.r.l., Lecce 2009, pp. 48-119.

Michail Bacthin (1895-1975) – Il riso autentico non esclude la serietà, ma la purifica dal dogmatismo, dall’unilateralità, dalla sclerosi, dal fanatismo, dalla perentorietà, dalla intimidazione. Il riso è una forma interiore e non esteriore
Michail Bachtin (1895-1975) – Una sola voce non porta a termine nulla e nulla decide. Due voci sono il minimum della vita, il minimum dell’essere. Essere significa comunicare dialogicamente.
Michail Bachtin (1895-1975) – La comprensione creativa non rinuncia a sé. Di grande momento per la comprensione è l’extralocalità del comprendere. Nel campo della cultura, l’extralocalità è la più possente leva per la comprensione. Un senso svela le proprie profondità, se si incontra e entra in contatto con un altro, altrui senso: tra di essi comincia una sorta di dialogo. Senza proprie domande non si può capire creativamente alcunché di altro e di altrui (ma, naturalmente, le domande devono essere serie, autentiche).
Michail Bachtin (1895-1975) – La vera vita della persona è accessibile soltanto a una penetrazione dialogica alla quale essa si apre liberamente in risposta. Nell’uomo vi è sempre qualcosa che solo lui può scoprire nel libero atto dell’autocoscienza e della parola, che non si assoggetta alla determinazione esterna ed esteriorizzante.

Erling Kagge – Solvitur ambulando. Camminare è un gesto sovversivo. È metafora del pensare. Camminare è sapere.

Erling Kagge 01

Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
fa voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.

K. Kavafis

Salvatore Bravo
La metafora del camminare

Camminare, in molte culture, è metafora del pensare. Chi cammina ha una meta, vive un’esperienza, elabora immagini e stimoli: con le immagini si configurano i concetti.
Si cammina con gli altri: il cammino è un incontro, è il rivelarsi dell’altro alla nostra presenza, ci si conosce ed auto-riconosce nello spazio pubblico nel quale si cammina. L’astratto è trasceso dal concreto nell’atto del camminare. Si cammina in uno spazio pubblico, si condivide lo spazio con il camminare e si impara a convivere in uno spazio dato. Nel camminare ci si riappropria dello pubblico spazio, si osserva la vita della propria comunità, si partecipa alle sue metamorfosi.
Camminare non è corsa fugace tra cose ed esseri umani: camminare è conoscenza. La storia di ogni comunità vive nei gesti del quotidiano: imparare a camminare, vivere lo spazio pubblico è esperienza di consapevolezza delle possibilità e delle potenzialità della comunità. In molte culture vivere è camminare. È immagine di un percorso con i suoi bivi. Nella sua dinamicità accade che il caso è sostituito gradualmente dal cammino verso un fine. Camminare svela la multilinearità dei percorsi, rivela la finitudine dinanzi all’immenso: anche Eraclito affermava che per quanto si cammini nella propria anima i confini non saranno mai raggiunti (fr. 45).
Lo spazio ed il tempo, il senso interno ed esterno sono dunque speculari:

«Le lingue create dagli uomini rispecchiano l’idea che la vita sia una lunga camminata. In sanscrito, una delle lingue più antiche al mondo e originaria dell’India, il concetto di passato è espresso con il termine gata, “quel che abbiamo camminato”, mentre il futuro si chiama anagāta “quel che non abbiamo ancora raggiunto”. Il termine gata è imparentato con il norvegese gått (“andato”). Come è naturale, in sanscrito il presente è associato al significato di “quel che si manifesta proprio di fronte a noi”, pratyutpanna».[1]

Mentre si cammina lo spazio ed il tempo seguono il ritmo del passo, se si accelera lo spazio ed in tempo si contraggono in segmenti brevi e tutto sfugge all’attenzione, ma se si rallenta il mondo entra in contatto con noi, i volti degli altri non hanno solo un profilo, comunicano con i loro gesti la loro storia, gli sguardi e i gesti sono simili a testi che invitano alla decodifica, all’ermeneutica senza la quale non vi è che un passaggio veloce in cui inizio e fine del percorso sono uguali. L’accelerazione dei ritmi, la corsa in funzione del “benessere fisico”, il giudizio sprezzante verso la lentezza è indicativo di forme di alienazione che si concretizzano in ritmi sempre più veloci: le tecnologie, le comunicazioni, la brevità dei testi con i msg, rafforzano i poteri che si installano nelle relazioni (Gestell). Il soggetto è cosi una cosa (Ding) dal ritmo veloce. Chi sa camminare sa studiare, sa emanciparsi, e ciò necessita dell’ascolto del proprio e dell’altrui ritmo.

 

L’esperienza del concreto
La cultura dell’astratto insegna la divisione, a parcellizzare senza sintesi. La Filosofia con il suo metodo genetico genealogico non enumera parti, ma le ricongiunge al fine di individuarne il fondamento. Il camminare non si può ridurre ad una semplice azione dipendente da una serie di organi, è piuttosto l’immagine dell’unità, dell’interazione dell’esterno e dell’interno: ogni gesto, ogni parola, ogni passo è relazione biunivoca col mondo, col contesto in cui la vita è in atto. La cultura dell’analisi, dell’atomizzazione non riguarda solo il sociale, ma è struttura cognitiva trasversale per cui ogni comportamento umano è diviso, analizzato nelle funzioni anatomiche, si perde in tal maniera il senso del gesto:

«I piedi sono in comunicazione con gli occhi, le orecchie, il naso, le braccia, il busto e le sensazioni, in un dialogo spesso troppo rapido perché la mente riesca ad afferrarlo. I piedi ci portano avanti con precisione. Percepiscono il suolo e tutto ciò con cui la zona plantare viene a contatto. Registrano impressioni e poi fanno un passo in avanti o di lato. I piedi sono strutture meccaniche forti e complesse. Con ventisei ossa, trentatré articolazioni e più di cento tendini, muscoli e legamenti, tengono il corpo eretto e in equilibrio. Hanno cominciato a svilupparsi prima che i nostri antenati assumessero la posizione eretta. Queste trasformazioni dipendevano dalla necessità di adeguarsi all’ambiente circostante per poter sopravvivere, ma nel corso del tempo – in oltre due milioni di anni – quel che una volta i norvegesi facevano per necessità è diventato un piacere. Non avendo più bisogno di farlo, attraversare un campo a piedi, scalare una montagna, inerpicarsi su una rupe o addentrarsi in un bosco alla ricerca di un posto per accendere un fuoco sono diventate attività di svago. I piedi, che hanno avuto il compito di aiutare l’uomo a sopravvivere e sono ancora importanti per la sopravvivenza in gran parte del mondo, oggi sono diventati i nostri mezzi per trovare una buona postazione in spiaggia, prendere una scorciatoia per tornare a casa, infilarsi in camera da letto o passeggiare per allontanare i problemi».[2]

 Contro ogni cultura dell’astratto, camminare rivela che si pensa con la totalità del corpo vissuto, ogni dualismo si annichilisce dinanzi all’osservazione fenomenologica. Pensare è camminare, i concetti prendono forma al ritmo del passo, al contatto con il mondo, le parole emergono nella concretezza della relazione. Socrate, nel Menone, cammina sulla spiaggia con lo schiavo; mentre camminano dialogano, si fermano: il dialogo sul teorema di Pitagora raffigurato sulla sabbia permette la concettualizzazione della teoria della reminiscenza. Merleau-Ponty nega l’esistenza della diade “esterno interno”, pensare implica la totalità concreta dell’essere umano, le scissioni sono elaborazioni posteriori:

«Socrate fu posto di fronte a un problema simile: “E come cercherai quello che tu ignori pienamente?”. Per duemilaquattrocento anni i filosofi si sono interrogati su questo dilemma – anche chiamato Paradosso di Menone, dal nome del sofista che avrebbe fatto la domanda a Socrate. Nel 1942 il filosofo Maurice Merleau-Ponty propose quella che secondo me è una buona risposta, nella quale può riconoscersi chiunque cammini molto: l’uomo pensa con tutto se stesso. Sia con la testa sia con il corpo. Merleau-Ponty partiva dal presupposto che il corpo non sia solo un insieme di atomi che compongono carne e ossa. Noi conosciamo, custodiamo i ricordi e riflettiamo con le dita dei piedi, i piedi, le gambe, le braccia, la pancia, il petto e le spalle. Non solo con la mente e con l’anima, sulle quali si era soffermato Socrate. Merleau-Ponty aveva afferrato qualcosa su cui in seguito si sono concentrati anche neurologi e psicologi: nella sua interezza l’uomo intrattiene un dialogo costante con quel che lo circonda. “Non v’è uomo interiore: l’uomo è nel mondo, e nel mondo egli si conosce”. Per elaborare quel che stiamo vivendo quando guardiamo, annusiamo o ascoltiamo qualcosa, utilizziamo informazioni che sono già immagazzinate nel corpo».[3]

 Socrate dialogava con tutti nell’agorà, era il tafano che infastidiva con le sue domande, ma le grandi domande esigono il vuoto del tempo, la sospensione dell’homo faber, il camminare è esperienza della lentezza della concettualizzazione. Kierkegaard viveva il pungolo nella carne nelle strade di Copenaghen:

«Quando il filosofo greco Diogene fu messo di fronte al paradosso che il movimento non esiste, rispose solvitur ambulando, ovvero: “Si risolve camminando“. Socrate se ne andava in giro per Atene, poneva domande, dialogava. Charles Darwin si metteva in moto due volte al giorno e aveva persino il suo thinking path, «percorso del pensiero». Come Socrate, anche Søren Kierkegaard era un filosofo della strada. “Camminando ho incontrato i miei pensieri migliori”, scrisse. Vagava per Copenaghen, interrogava i passanti, gli metteva un braccio sulle spalle e li seguiva per un pezzo, aspettava le risposte, poi li lasciava andare e proseguiva per conto suo. Alla fine se ne tornava a casa, dove invece non faceva entrare nessuno, e riversava nei libri le impressioni raccolte fuori». [4]

 

Seduti
Il mondo è organizzato per impedire l’autoriflessione, il pensiero concettualizzato. Dietro l’accelerazione dello spazio e del tempo, nella retorica del viaggio “a qualsiasi costo”, al girovagare interminabile per il pianeta per acquisire immagini da mostrare come trofei di caccia, vi è un valore aggiunto: non è solo l’economicismo a spingere verso il viaggio perenne in cui consumare se stessi ed il pianeta, ma specialmente è il pensiero, il concetto ad essere inibito. Viaggi organizzati contro ogni inconveniente, il mondo smart, è il mondo in cui, mentre ci si muove perennemente si sta seduti, si guarda il mondo, spettatori della società dello spettacolo. Il mondo è un grande spettacolo a cui si assiste passivamente nell’accadere degli eventi, liberi dalla responsabilità etica. Notoriamente lo spettatore è seduto anche quando sgambetta. L’ultimo uomo ha trovato la sua espressione massima nel capitalismo assoluto: deambulare per consumare, il diritto individuale contro ogni universale. Le navi da crociera all’arrembaggio di Venezia testimoniano che ci si può muovere, ma stare seduti, e quindi l’atto del creare concetti rallenta con l’aumentare del velocità:

«Il mondo è organizzato in modo da tenerci il più possibile seduti. L’invito alla posizione seduta è legato, da una parte, al desiderio delle autorità che tutti contribuiamo al prodotto interno lordo e, dall’altra, al bisogno delle imprese che, quando non produciamo, consumiamo».[5]

Camminare invece è rivoluzionario. Si impara a stare al passo con gli altri. Camminare è sintesi di individuo e collettività. La Rivoluzione francese è un camminare teleologico, la trasformazione del reale concettualizzato. Ghandi, con la marcia del sale, dimostra che un popolo in cammino non si può fermare, che il camminare è il concetto che diventa agire ed il potere teme la circolazione delle idee sui piedi molto più delle armi.

Ogni grande azione, trasformazione, prassi, inizia col camminare. Nella storia il camminare significa fendere le resistenze, trascendere le contraddizioni, dare avvio ad un nuovo inizio nel rispetto della memoria storica. Camminare è sapere:

«In sanscrito camminare non è solo una metafora del tempo, ma anche del “sapere”: gati. La metafora resiste anche in norvegese, in cui passare (gjennomgå) per qualcosa significa conoscerla. Chi ha creato la lingua sanscrita, tuttavia, ha voluto che il messaggio fosse ancora più chiaro e ha stabilito una regola: sarve gatyarthā jñānārthāś ca, tutte le parole che cominciano con “andare/camminare”, hanno anche il significato di “sapere”».[6]

 

Camminare con la dialettica

In Marx il rovesciamento della dialettica hegeliana, è riportare al centro il concreto. Ogni essere umano è all’interno di un determinato modo di produzione, appartiene alla sua storia. Le idee che lo attraversano, che lo definiscono, sono la sovrastruttura, ma struttura e sovrastruttura se gli danno concretezza, non esauriscono le possibilità umane. La dialettica è il cammino che trascende il livello ideologico per donargli l’universale. Nel Capitale Marx fa della dialettica il fondamento di una rivoluzione che ha il suo fondamento nella storia:

«Ho criticato l’aspetto mistico della dialettica hegeliana ormai trent’anni fa, quando appunto essa era ancora di moda. Ma Hegel non cessa dall’essere stato il primo ad esporre il movimento complessivo. In Hegel essa (la dialettica) cammina sulla testa; basta rimetterla in piedi per darle una fisionomia completamente ragionevole».

 

Senza cammino non c’è rivoluzione
Il quarto stato (1901) di Pellizza è un dipinto che raffigura la storia in cammino, l’atto del progredire attraverso l’avanzare del popolo non più plebe. Non si deve confondere il movimento con il camminare. Il movimento è il camminare depotenziato di ogni fine e concetto. Se soltanto ci si muove si è eterodiretti. Al movimento bisogna contrapporre l’autonomia del camminare. Le rivoluzioni cominciano con cammini lenti e solitari.
Camminare è un gesto sovversivo, senza il quale non vi è alcun inizio.

Salvatore Bravo

[1] Erling Kagge, Camminare. Un gesto sovversivo, Einaudi, Torino 2018, p. 10.

[2] Ibidem, p. 36

[3] Ibidem, pp. 43-44.

[4] Ibidem, p. 51.

[5] Ibidem, p. 53.

[6] Ibidem, p. 86.

Michail Bachtin (1895-1975) – La vera vita della persona è accessibile soltanto a una penetrazione dialogica alla quale essa si apre liberamente in risposta. Nell’uomo vi è sempre qualcosa che solo lui può scoprire nel libero atto dell’autocoscienza e della parola, che non si assoggetta alla determinazione esterna ed esteriorizzante.

Michail Bachtin 07

«[…] Nella figura del personaggio del Cappotto, Devuskin si vede, per così dire, soppesato, misurato e definito fino in fondo: eccoti, sei tutto qui, e in te non c’è nient’altro, e di te non c’è altro da dire. Egli si sente irrimediabilmente predeterminato e finito, come già morto prima di morire, e al tempo stesso sente anche la falsità di un tale atteggiamento.

[…] Il senso serio, profondo, di questa rivolta si può esprimere così: non si può trasformare l’uomo vivo in muto oggetto di una conoscenza esteriore compiutamente definitoria. Nell’uomo vi è sempre qualcosa che solo lui può scoprire nel libero atto dell’autocoscienza e della parola, che non si assoggetta alla determinazione esterna ed esteriorizzante.

[…] La vera vita della persona è accessibile soltanto a una penetrazione dialogica alla quale essa si apre liberamente in risposta».

 

Michail M. Bachtin [1963], Dostoevskij. Poetica e stilistica, trad. it. di G. Garritano, Einaudi, Torino1968, pp. 66-68.


Michail Bacthin (1895-1975) – Il riso autentico non esclude la serietà, ma la purifica dal dogmatismo, dall’unilateralità, dalla sclerosi, dal fanatismo, dalla perentorietà, dalla intimidazione. Il riso è una forma interiore e non esteriore
Michail Bachtin (1895-1975) – Una sola voce non porta a termine nulla e nulla decide. Due voci sono il minimum della vita, il minimum dell’essere. Essere significa comunicare dialogicamente.
Michail Bachtin (1895-1975) – La comprensione creativa non rinuncia a sé. Di grande momento per la comprensione è l’extralocalità del comprendere. Nel campo della cultura, l’extralocalità è la più possente leva per la comprensione. Un senso svela le proprie profondità, se si incontra e entra in contatto con un altro, altrui senso: tra di essi comincia una sorta di dialogo. Senza proprie domande non si può capire creativamente alcunché di altro e di altrui (ma, naturalmente, le domande devono essere serie, autentiche).

Pierre Zaoui – L’arte della discrezione dipende da un gesto autenticamente metafisico. Fare filosofia oggi significa innanzitutto rinunciare all’apparizione e orientare i propri pensieri su ciò che è vivo, ben lontani dal circo mediatico.

Pierre Zaoui 01

 

Salvatore Bravo

Lo spirito del tempo (Zeitgeist) si rivela solo nella discrezione, nel sospendere l’attività meccanica ed automatica dello stimolo-risposta: il filosofo deve vivere la discrezione, deve essere la parola viva della discrezione che rompe la violenza del circo mediatico dei nuovi oratores.

 

 

La discrezione
La società dei bisogni senza comunità è il luogo dell’eccesso: ogni misura è negata, messa al bando. Il consumatore – come la merce – deve apparire, essere visibile: lo splendore del patibolo (il mercato) non può che essere atto di infinita potenza. La società pornografica deve esporre, vendere, apparire: nulla deve restare implicito, nulla deve sfuggire alle maglie del controllo mediatico. In tale maniera si ottiene un duplice effetto: il mercato, come sovrano assoluto, è sempiterno, si riproduce spinozianamente nei sudditi consumatori; nello stesso tempo il suddito è perennemente sottoposto alla vigilanza del consumo. Il modo di produzione capitalistico si autogenera nei sudditi. La democrazia liturgica, suo sgabello, forma il suddito imprenditore che vota per confermare la condizione di gettatezza di ciascuno. La formazione è minima e veloce come le relazioni umane: nulla deve interrompere il ciclo di produzione ed autoproduzione dell’angloglobalizzazione (Costanzo Preve). L’esporsi continuo al mondo e nel mondo è l’altro volto del declino di una virtù che permette lo spirito di scissione (Gramsci): la discrezione. Per discrezione si intende la virtù dello scomparire, del ritrarsi dal mondo e dai suoi stimoli, per pensare, per appartenersi mediante il concetto (Begriff). L’esperienza del pensare è paragonata da Platone all’esercizio della morte (Fedone, 64A-65A; 65B-E), perché attraverso di essa ci si sottrae al mondo, per pensare, per concettualizzare. Lo scomparire (discrezione) è dunque capacità non solo di pensare, ma è di ausilio al pensiero altrui: ogni comunità solidale ed autentica (Gemeinschaft) non può che apprezzare ed educare alla discrezione, poiché il ritrarsi è lasciare spazio all’altro perché possa elaborare un percorso maieutico. L’apparire continuo, la trasparenza, l’esposizione all’abbaglio mercantile ed all’essere tracciato è un modo per rendere nulla la possibilità del pensare, è la messa in atto, con l’esca del narcisismo, dei processi di alienazione (Entfremdung). L’essere umano estraneo a se stesso ed alla comunità è così più facilmente dominabile:

«La seconda, più profonda, perché l’idea stessa di una discrezione continua costituisce quasi una contraddizione in termini. Nel suo significato etimologico, infatti, discrezione viene dal latino discretio, che significa «discernimento, separazione, distinzione», cosa che si sente ancora nell’inglese discretion, e che ha stabilito il significato matematico di discontinuo. Non potremmo dunque essere costantemente discreti, dal momento che la discrezione stessa presuppone una dialettica più sottile dell’apparizione e della scomparsa, della mostrazione e del riserbo. In ogni caso, è in questo senso che l’arte della discrezione ci sembra dipendere da un gesto autenticamente metafisico, se non addirittura all’origine teologico, che mira a costituire il suo concetto differenziandolo da esperienze prossime ma distinte tra loro: quelle antiche e mondane del tatto, del pudore, del contegno, della cortesia, e quelle religiose dell’umiltà, del distacco o del ritiro dal mondo».[1]

 

Senza discrezione non vi è che la società dei bisogni (Gesellschaft), il regno animale dello spirito nel quale ogni atomo è in preda al desiderio compulsivo di apparire-accumulare per togliere spazio vitale all’altro.

 

Totalitarismi
I totalitarismi sono sistemi in cui alla politica, alla partecipazione, alla decisione da esplicarsi nei luoghi istituzionali si sostituisce l’ossessione del controllo: ogni cittadino è un potenziale oppositore, per cui è necessario individuare modalità con cui tracciare il pensiero, orientarlo verso un obiettivo, deviarlo dal soggetto per muoverlo verso obiettivi “graditi” ed “innocui”: microfisica del controllo, trionfo della tecnocrazia.
Il totalitarismo che stiamo vivendo, il capitalismo assoluto, quantifica ogni gesto, lo misura, lo archivia per studiarne le possibilità di sublimazione mercantile, pertanto invita a parlare, a mettersi continuamente sotto i riflettori, mette in campo la filologia delle espressioni per entrare nella mente ed impiantare il desiderio del sistema capitale (Gestell). Al soggetto non deve restare nulla, solo la liturgia, il velo di Maya della democrazia formale. Senza discrezione lo spazio pubblico, che si definisce tale rispetto alla discontinuità dell’apparire, non è più tale, e dunque non vi è politica, ma solo la violenza dell’atomismo sociale:

«I totalitarismi si sono spinti al punto di dare la caccia ai segreti di ciascuno fin dentro il suo organismo (con tutta una nuova farmacopea: siero della verità ecc.), fin nei suoi sogni (manipolandone il sonno). Certo, sono avvenute cose più terribili: le sevizie passate sotto silenzio, i massacri di massa, Auschwitz e Kolyma. Ma nell’ordine dell’infamia, può essere che questa impossibilità di nascondersi venga subito dopo questi orrori sconvolgenti. Perché una vita senza segreto, senza mistero, senza zone d’ombra, senza spazi interstiziali tra sé e gli altri, così come tra sé e sé, è una vita destinata al terrore assoluto e senza limiti, che alla fine distrugge in noi ogni residuo di umanità. Hannah Arendt l’aveva già capito molto bene sin dalla fine degli anni Quaranta: “Premendo gli uomini uno contro l’altro, il terrore totale distrugge lo spazio tra essi”. Ora, questo «spazio tra», questo Zweiraum, è lo spazio minimo della libertà, che permette di avvicinarsi e allontanarsi in modo alternato, di parlare e tacere, di farsi vedere e nascondersi, ed è uno spazio molto più vitale dell’immondo Lebensraum hitleriano. È in questo senso, d’altronde, che i sistemi totalitari si distinguono dalle semplici tirannie “ordinarie”: queste si accontentavano di eliminare gli oppositori politici palesi e la vita politica libera, ma lasciavano il resto della popolazione in una penombra più o meno tranquilla, mentre i sistemi totalitari fanno di ogni cittadino un potenziale oppositore o traditore, che va quindi sorvegliato e controllato costantemente. Le tirannie distruggevano ogni spazio e ogni tempo pubblico, i totalitarismi colonizzano e distruggono ogni spazio e ogni tempo, di tutti e di ciascuno. Le tirannie obbligano tutti alla discrezione, a ritirarsi dalla vita pubblica, ma i totalitarismi si spingono fino a distruggere la possibilità stessa della discrezione – quella che Hannah Arendt chiama desolazione (loneliness), ovvero una solitudine radicale e senza alcuna apertura possibile al di fuori di sé».[2]

I totalitarismi esigono che vi sia l’olocausto (hòlos, “tutto intero”, e kàiō, “brucio”) della discrezione, puntano sulla colonizzazione della mente, sulla separazione, sulla frammentazione. I processi di individualizzazione e soggettivizzazione sono finalizzati a rendere impossibile l’opposizione, a ridurla ad una presenza marginale e silenziosa, le luci del narcisismo di massa soverchiano lo spirito di scissione, lo rendono un’inutile variabile del sistema capitale.

 

Discrezione e filosofia
L’opposizione, il no concettualizzato, malgrado tutto esiste, perché se si crede nell’essenza della natura umana (Gattungswesen), non si può che agire e sperare, affinché la vita umiliata ed offesa possa riconoscere e razionalizzare lo stato presente. Il filosofo, per essere tale, deve sottrarsi al gioco dell’apparire per coltivare la discrezione, virtù del pubblico; la parola del filosofo e degli amici della conoscenza devono circolare, perché possa formarsi la consapevolezza pubblica, per la quale sono necessarie le contingenze storiche ed i concetti:

«Certo, Deleuze e Hegel sostengono filosofie antagoniste, ma è giocoforza constatare che sono d’accordo almeno su un punto, forse uno solo, però in concordanza assoluta: il grigio è il vero colore della vita dello spirito. Perché non bisogna lasciarsi imbrogliare dalla finta malinconia di Hegel: in verità, non rimpiange nulla degli ori e dei colori del passato, di un’arte del bello che non ha più nulla da dirci, ama il grigio, la secchezza del concetto, la riduzione di ciò che appare variopinto a ciò che scompare nella propria verità. E, altrettanto, non bisogna lasciarsi ingannare dall’apologia di Deleuze e Guattari in favore di tutti i desideri, di tutte le forme di vita: in verità, sono anch’essi sedotti quanto Hegel dall’asciuttezza e dalla spoliazione del pensiero, tanto da arrivare a sostenere, nell’Anti-Edipo, che non sopportano i marginali perché «danno troppo nell’occhio». Il punto è questo: dall’inizio del XIX all’alba del XXI secolo, i filosofi, anche i più distanti tra loro, hanno condiviso la passione per il discreto, l’impersonale, il non appariscente, vale a dire per il pensiero più che per il mostrato, e hanno anche mandato completamente in frantumi il modello antico e medievale che voleva che ogni non-apparizione, discrezione apparente, non lo fosse che in nome di un’apparizione più reale, in sé (ai propri occhi) o a venire (agli occhi di tutti, un giorno, nella posterità). La discrezione ha smesso di essere pensata e vissuta come l’attesa del suo contrario, è diventata affermazione di se stessa. Da un simile punto di accordo, si può trarre forse un unico insegnamento, ma di grande peso: fare filosofia oggi, quali che siano il suo livello e le sue pretese, significa innanzitutto rinunciare all’apparizione. Non tanto perché sarebbe un male in sé, ma perché vorrebbe dire rinunciare a pensare lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, che si trova appunto nella scomparsa, la discrezione. Da questo punto di vista, non bisogna dunque formalizzarsi troppo rispetto a tutti quelli che, ancora oggi, si lasciano reclutare nel circo mediatico o sociale: non sono colpevoli, stanno semplicemente dalla parte di uno spirito che è morto. Si tratta unicamente di orientare i propri pensieri su ciò che è vivo: tutto ciò che si vive, si crea, si pensa, si condivide oggi è ben lontano da un simile circo».[3]

 

Lo spirito del tempo (Zeitgeist) si rivela solo nella discrezione, nel sospendere l’attività meccanica ed automatica dello stimolo-risposta: il filosofo deve vivere la discrezione, deve essere la parola viva della discrezione che rompe la violenza del circo mediatico dei nuovi oratores.

Salvatore Bravo

[1] Pierre Zaoui, L’arte di scomparire. Vivere con discrezione, il Saggiatore, Milano 2015, pag. 18.

[2] Ibidem, pag. 55.

[3] Ibidem, pag. 64.

Andrea Tagliapietra – «La metafora dello specchio». Lo specchio, mostrando ciò che non può essere significato, cioè l’essere riflesso del riflesso, è testimone della verità dell’apparire in quanto darsi veritiero della menzogna.

Andrea Tagliapietra 01

Specchio ed auto-riconoscimento

Riflessioni di Salvatore Bravo


 I miti greci ci parlano, continuano a raccontare di noi, della eterna lotta per trascendere la soglia dalla caverna. I miti, relegati a sapere secondario, se ascoltati ci raccontano della condizione umana e della prassi, dell’agire della coscienza per uscire dal dominio dell’immagine irriflessa. Il testo di Andrea Tagliapietra, La metafora dello specchio, insegue il significato simbolico dello specchio – e dei miti afferenti – per rivelarci i processi di consapevolezza attraverso i significati custoditi nei simboli dei miti. Solo attraverso il processo di auto-riconoscimento allo specchio, colui che guarda può riconoscersi e riscoprirsi in una soggettività non più gettata o situata, ma pensata mediante la chiarezza del concetto e del linguaggio.
Lo specchio è metafora della verità e della necessità: si giunge al logos, alla ragione, mediante un processo concreto che parte dall’immediatezza dell’astratto ed arriva al concreto, nel quale il soggetto che si specchia si scopre implicato nel tutto, nei segni che si riflettono nel soggetto che guarda. Lo specchio è così immagine archetipica e metaforica di una crescita, di un passaggio senza il quale l’astratto prevale, annichilendo il soggetto nella trappola della doxa (δόξα). L’immagine che si mostra dev’essere interpretata, i segni devono essere correlati, la tela del mondo dev’essere ripensata e riscritta dal soggetto: senza tale attività il soggetto vive il silenzio dell’immediatezza, resta sulla soglia del logos. Lo specchio dona all’interpretante che oltrepassa la soglia dell’immagine la consapevolezza dell’illusione ed indica la via che porta alla verità, la svela (ἀλήθεια). Ciò che appare, il fenomeno (ϕαινόμενον), non è la verità, la filosofia è, dunque, attività che toglie all’immagine la sua illusione per restituire la verità. La filosofia guarda dietro l’immagine, non affonda nell’immagine, ma scopre che l’immagine riflessa è parte del soggetto; ogni feticismo cade per donare la complessità relazionale del segno:

«Lo specchio è la presenza del mondo a se stesso e, quindi, quello stesso specchio può solo mostrare la presenza, manifestarla, non dirla secondo i modi della rappresentazione, secondo il gioco dei significanti e dei significati. Lo specchio è la soglia del mondo dei segni e della mediazione, perciò è immediato e non si può significare. Lo specchio restituisce ciò che appare ma, insieme, mostra l’essere di ciò che appare, di ciò che è segno potenzialmente menzognero, indica la verità del suo essere altro da ciò che nel mondo dei segni appare. Nell’esprimere l’illusorietà della conoscenza lo specchio di Dioniso manifesta la conoscenza dell’illusione. Il mondo che appare è altro da ciò che vuole apparire: lo specchio, mostrando ciò che non può essere significato, cioè l’essere riflesso del riflesso, è testimone della verità dell’apparire in quanto darsi veritiero della menzogna».[1]

Lo specchio è anche metafora di una tragica verità, ci parla della regressione ad uno stato mitico nella contemporaneità. Ciò che appare sulla parete della caverna mediatica è accolta non solo come verità, ma specialmente come accade nel mito l’immagine riflessa reca una cesura tra il soggetto e l’oggetto, per cui non resta che il silenzio del logos, ciò che il soggetto guarda, quindi, non ha altro significato che l’immediato accadere. La fatalità ha il sopravvento sui processi di decodifica e responsabilità.

L’autoriconoscimento
L’autoriconoscimento deve passare per il doppio, ci si deve specchiare, guardarsi, riconoscersi, scindersi per arrivare alla consapevolezza di sé; senza lo sdoppiamento ed il pericolo di perdersi in esso, non è possibile attivare la consapevolezza che il soggetto pone il mondo, e dunque è implicato in esso, ne è responsabile con le sue azioni, con il suo agire, con il suo linguaggio. Il soggetto non può effettuare la sua catabasi, la sua discesa (κατάβασις), senza l’esperienza tragica ed emancipatrice del doppio. Se siamo parte del tutto, non ci si può esimere dalla responsabilità etica e politica. La morale emerge all’interno dei processi di rispecchiamento e riflessione su di esso; con la morale si delinea la politica: non siamo essere astratti, avulsi dal tutto, ma siamo all’interno di un mondo di significati che contribuiamo a formare:

«Tuttavia lo specchio di Dioniso insegna l’eccedenza: il dio che si specchia è parte di quel tutto mondo specchiato in cui, appunto, accade anche l’individuazione del dio che si specchia. Davanti allo specchio non più la violenza dell’Uno, non più la pretesa dell’Originale, bensì “tessere spezzate”, semplici metà, in una parola simboli: la metà è insieme l’unità e il doppio, se stessa come Uno e come metà dell’Uno, evocando l’unità della coppia, il maschile/femminile della bisessualità originaria che riunifica Eco la parola senza corpo al corpo del desiderio, al corpo di Narciso, ancora muto come il “segno” di un fiore».[2]

 

La medusa
Nel volto della medusa il mortale (βρότος), l’essere umano vive l’esperienza estrema, nel volto della medusa è riflessa l’alterità assoluta: il nulla. La medusa ha gli occhi cavi, nelle orbite non vi è che il buio del nulla. L’esperienza della medusa mostra al mortale la verità da cui l’essere umano fugge: il limite ontologico della morte. Solo la mediazione del logos può portare fuori il mortale dalla tragedia del nulla, il logos razionalizza il limite, lo ribalta in progetto e prassi pertanto lo trasforma, lo ricrea con il concetto, in tal modo le orbite della medusa non annichiliscono il mortale, ma il linguaggio con cui trascende il nulla gli consente di dare una forma al limite, di attribuire al tempo limitato il suo senso, strappandolo dall’angoscia del nulla che tutto fagocita e che trasforma in statua di sale:

«Il volto della Medusa cattura lo sguardo poiché lo isola dal tutto. Nello specchio di Dioniso il dio-fanciullo vedeva riflesso il mondo, qui, nella maschera della Gorgone, è il mortale che è chiamato all’esperienza più radicale di sé. Nello specchio del volto di Medusa l’uomo appare come mortale, facendo affiorare quell’arcaica esperienza del nulla a cui gli uomini ancora non danno i nomi dell’essere e del non essere».[3]

 

Narciso
Narciso si specchia nelle acque, scambia per corpo ciò che è acqua, ciò che è fugace. Narciso è il simbolo di un’autonomia impossibile, dell’atomizzazione che impedisce i processi di riconoscimento: ci si conosce nello sguardo dell’alterità, nella relazione concreta che ci rende gradualmente consapevoli della nostro sé rispetto all’altro e delle nostra potenzialità: senza l’intenzionalità concreta e reale ci si rinchiude in un vortice di autoreferenzialità che porta alla morte, all’alienazione perenne per cui si vive nell’inautentico, si vive la morte:

«Narciso scambia per un corpo ciò che è acqua (corpus putat esse quod unda est), non si accorge affatto dell’inconsistenza dell’oggetto del suo desiderio (spem sine corpore amat), né tantomeno che l’immagine della sua mira è una proiezione di quel corpo che, all’inizio del mito, si dichiarava interdetto a qualsiasi amante. Così il desiderio, per raggiungere il miraggio di una perfetta autonomia deve chiudersi in una “circolarità viziosa”, dove l’oggetto desiderato fa tutt’uno con il soggetto desiderante, e ciononostante viene simulato un andamento a spirale che impedisce il riconoscimento a vantaggio della peripezia infinita degli specchi». [4]

Il mito di Narciso è tra di noi, alla relazione con l’altro il sistema liberal sostituisce il desiderio immediato, per cui l’altro dev’essere l’eguale, dev’essere riportato al nostro desiderio. La categoria del medesimo di Levinas è il volto operativo della negazione dell’altro e dunque di noi stessi. Il narcisismo è il nulla che entra nel quotidiano e paralizza ogni prassi.

 

Marx e lo specchio
Le produzioni umane sono specchi, sono possibilità di decodificare il mondo in cui siamo, attraverso lo sguardo razionale che riflette e pensa, ciò che è separato è ricostruito nella sua genesi. In quello che produciamo c’è il segno del soggetto che opera, nell’azione produttiva il soggetto si scopre negato, alienato, costretto ad attività che non rispecchiano la sua essenza. Il passaggio è imprescindibile bisogna passare per le nostre produzioni per scoprire la rete relazionale che ci avvolge, i processi di disintegrazione ed alienazione mediante i quali il soggetto può ritrovare se stesso o perdersi:

«Troviamo questa metafora, alla lettera, nel testo marxiano, ove si legge “che le nostre produzioni sarebbero proprio come molti specchi [viele Spiegel], di cui la nostra essenza [Wesen] di rimando verrebbe illuminata [entgegenleuchtete]”. Qui l’essenza specchiata e rispecchiata sul piano degli oggetti mondani che non se ne stanno mai come “nature” isolate al di fuori della relazione teorico-pratica che istituisce il mondo conduce a un gioco tale la metafora da suggerire un oltrepassamento della parzialità che distingue cosa vera e immagine adeguata […]».[5]

Specchio in Marx sono le merci: ogni merce è specchio del plusvalore, il feticismo delle merci in cui l’umanità può alienarsi se non supera la divisione, la scissione, se non strappa la realtà in cui si muove alla naturalizzazione per scoprire che la realtà è posta dal soggetto, solo il soggetto consapevole può mettere in atto processi di liberazione.

 

Le gallerie dei passages
L’abbondanza delle merci si specchia nelle gallerie, le passeggiate non sono esperienza per ritrovarsi, nelle gallerie commerciali la merce si riflette ovunque, esse hanno un loro sguardo, mirano il passeggiatore lo avvinghiano con le luci degli specchi, lo avvolgono, gli tolgono il logos e la parola fino ad avere la potenza di ridurlo ad una appendice dell’abbondanza barocca delle merci, l’eccesso trabocca dalle vetrine e rompe ogni limite per dirigersi verso il passeggiatore:

«Le gallerie di specchi dei passages, che cominciano a disorientare il passante con la vertiginosa figa delle loro prospettive di cristallo e con l’incertezza barocca degli spazi delle strade cittadine, che si fanno interni, e degli interni che si aprono alla dimensione urbana, ospitano un doppio movimento per cui le cose, specchiandosi, sembrano possedere uno sguardo e gli sguardi degli occasionali spettatori di queste fantasmagoriche esposizioni di merci, posandosi sulle superfici riflettenti, vengono restituiti, nell’indifferenza, come oggetti accanto ad altri oggetti. Uomini e merci, esseri viventi e cose inanimate, messi in questo modo sullo stesso piano, vengono coinvolti in un movimento progressivo di dissoluzione ontologica che li trasforma, oltre l’intenzionalità degli sguardi, in una uniforme sequenza di sguardi».[6]

 Si arredano i locali pubblici in modo da farli apparire come superfici riflettenti; si è così avvinti nel bagliore, ogni distinzione tra esterno ed interno diviene labile in modo che il passeggiatore sia sempre all’interno di uno spazio fiabesco in cui l’essere ed il nulla, la verità e la menzogna siano indistinguibili.
Lo specchio nelle considerazioni di Benjamin, prepotentemente, ci parla dell’attualità: l’essere umano nella trappola delle merci rischia di essere egli stesso merce, di essere parte dell’indifferenziato, il regno delle merci è il luogo della quantità, l’essere umano in un mondo di soli merci diviene parte di un tutto da cui non si distingue, precipita tra le merci.

La metafora dello specchio nella sua vitalità significante ci svela il valore della cultura umanistica e la sua autonomia rispetto alla cultura tecno-scientifica, ma specialmente se si vuole vivere in un mondo umano la cultura umanistica è ambito culturale e formativo non contrattabile dei processi di umanizzazione. Il mito ci insegna a difenderci dagli specchi, dalla regressione, dal sonno del logos senza il quale si resta sul limitare dell’umanità.

 

Salvatore Bravo

[1] Andrea Tagliapietra, La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica [1991], Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 33.

[2] Ibidem, p. 131.

[3] Ibidem, p. 59.

[4] Ibidem, p. 90.

[5] Ibidem, p. 330.

[6] Ibidem, pp. 333-334.

Silvia Gastaldi – L’uomo assennato rispetta sempre la corretta gerarchia tra il corpo e l’anima, e cura pertanto l’armonia del proprio fisico solo in funzione della symphonia che deve instaurarsi nella psyche. Il saggio è il vero musico perché sa realizzare l’accordo musicale più perfetto, quello interiore.

Silvia Gastaldi 03

«[…] l’uomo di senno non orienterà la sua vita affidando la responsabilità del nutrimento e del comportamento del suo corpo a un piacere bestiale e privo di ragione, e neppure avrà di mira la salute, né sopravvaluterà il fatto di essere vigoroso, sano e bello, se da ciò non venga anche un incremento della temperanza. Piuttosto, egli apparirà sempre nell’atto di accordare l’armonia del corpo con quella dell’anima per ottenere un’unica consonanza».

Platone, Repubblica, IX, 591 C 5-D 5.

 

«Infatti, tutta la vita dell’uomo ha bisogno di equilibrio e di armonia».

Platone, Protagora, 326 A 6-85.

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«Tra i numerosi esempi disponibili, particolarmente pregnante appare, anzitutto, il passo del IX libro della Repubblica che traccia il ritratto dell’uomo assennato […]. Egli rispetta sempre la corretta gerarchia tra il corpo e l’anima, e cura pertanto l’armonia del proprio fisico solo in funzione della symphonia che deve instaurarsi nella psyche. In tal modo un simile individuo può a buon diritto essere definito mousikos, nella doppia valenza che questo appellativo possiede nella lingua greca, esperto di musica ma anche uomo colto, sapiente: per Platone, il saggio è il vero musico perché sa realizzare l’accordo musicale più perfetto, quello interiore».

 

Silvia Gastaldi, Le immagini della virtù. Le strategie metaforiche nelle Etiche” di Aristotele, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1994, p. 80.

Silvia Gastaldi

 

Laureata nel 1972 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pavia, è stata ricercatrice presso questo Ateneo dal 1980 al 1999. Dal 1991 al 1999 ha tenuto, per affidamento, l’insegnamento di Storia del pensiero politico antico. È stata professore associato di Storia della Filosofia Antica presso l’Università di Messina dal 1999 al 2002 e presso l’Università di Pavia dal 2002 al 2005. A decorrere dal  1/10/2005 è stata nominata professore straordinario di Storia della Filosofia Antica presso l’Università di Pavia e confermata  come professore ordinario il 1/10/2008.

E’ stata presidente della Società italiana di Storia della Filosofia antica (SISFA) nel triennio 2016-2018 ed è membro del comitato direttivo della Collana “Studi di Storia della Filosofia antica”.

Fa parte della Commissione Ricerca del Dipartimento Studi Umanistici dell’Università di Pavia.

È membro del Collegio docenti del dottorato in Filosofia FINO.

È membro del comitato scientifico della Collane “Symbolon. Studi e testi di Filosofia antica e medievale” e della rivista “Lexis”.

Fa anche parte del consiglio direttivo della rivista “Il confronto letterario”.

Le sue ricerche, nell’ambito della storia del pensiero antico, riguardano anzitutto la riflessione etico-politica greca del IV secolo a. C. Ha pubblicato numerosi studi sulla “Repubblica” e sulle “Leggi” di Platone, sulle “Etiche” e sulla “Politica” di Aristotele. Si è occupata anche dei problemi del linguaggio poetico e retorico in Platone e in Aristotele, e delle teorie relative all’educazione nel mondo antico. È autrice di due storie complessive del pensiero politico antico.


Alcuni libri di Silvia Gastaldi

Bibliopolis, 2003

Bios Hairetotatos. Generi di vita e felicità in Aristotele


Laterza, 2008

Introduzione alla storia del pensiero politico antico

Il pensiero politico occupa un posto di grande rilievo nella cultura antica. Le prime elaborazioni sul tema della vita collettiva e sulle sue dinamiche di cui si abbia traccia nascono all’interno della città greca arcaica, nel VI secolo a.C. Attraverso l’opera dei primi legislatori, Solone in testa, si avvia la riflessione sulle modalità di esercizio di un buon governo e sul tema della giustizia. L’evoluzione della città greca nei secoli successivi si accompagna a un costante dibattito politico ed etico, culminante nelle grandi sintesi teoriche platonica e aristotelica. L’età ellenistica raccoglie questa importante eredità ma concede anche spazio ai movimenti di contestazione delle strutture istituzionali e sociali, come il Cinismo, l’Epicureismo e lo Stoicismo. In ambito romano, Cicerone è il primo a recepire l’insegnamento greco in materia di teoria politica.


Storia e Letteratura, 2016

Studi su Platone e il platonismo

Aldo Brancacci, Silvia Gastaldi, Stefano Maso

Secondo volume della collana “Studi di storia della filosofia antica” dopo quello dedicato ad Aristotele e l’aristotelismo, il libro si concentra su Platone e sulla tradizione platonica, privilegiando i settori oggi al centro della ricerca più avanzata: la dimensione etica e l’esegesi platonica in riferimento al mondo antico e contemporaneo.



ETS, 2017

Da Stagira a Roma. Prospettive aristoteliche tra storia e filosofia

Silvia Gastaldi, Cesare Zizza

Le manifestazioni che hanno celebrato, nel 2016, i duemilaquattrocento anni dalla nascita di Aristotele sono state veramente innumerevoli, a testimonianza del grande interesse che il filosofo di Stagira continua a suscitare. Questo volume è nato proprio nel clima di quel fervore di studi cui l’anniversario aristotelico ha dato nuovo impulso e propone una serie di contributi che, come sottolinea il titolo, intrecciano una doppia prospettiva: storica e filosofica. Al centro del dibattito sviluppato nei vari saggi che compongono il libro si pongono le riflessioni che, a partire da una molteplicità di trattati aristotelici – dalla Politica, alla Retorica, alle opere cosmologiche, alla Metafisica – ne esaminano anche gli sviluppi successivi, fino all’età imperiale romana.


Silvia Gastaldi, Una rivoluzione negli studi di antichistica


Pierre Aubenque – L’uomo non richiede di essere superato ma di essere protetto, prima di tutto da se stesso. Il sovrumano è a un passo dal disumano.

Pierre Aubenque01

«Il mondo riscopre oggi ciò che i Greci sospettavano più di duemila anni fa: che le “grandi parole” provocano “grandi dolori”; che l’uomo, questa cosa strana tra tutte, non richiede di essere superato ma di essere protetto, prima di tutto da se stesso; che il sovrumano è a un passo dal disumano; che il bene può essere nemico del meglio; che il razionale non è sempre ragionevole, e che la tentazione d’assoluto, che i greci chiamavano υβρις, è la fonte perenne delle sofferenze umane».

Pierre Aubenque, La Prudence chez Aristote, PUF, Paris 1963; tr. it. a cura di F. Fabbris, prefazione di E. Berti, La prudenza in Aristotele, Edizioni Studium, Roma 2018, pp. 19-20.

Salvatore Natoli – Le parole, prima ancora di pronunciarle, bisognerebbe ascoltarle, ci sono state donate. La sapienza delle parole ha preceduto la filosofia.

Salvatore Natoli 02

«Le parole […] sono sapienti di per sé e per questo, ogni volta, prima ancora di pronunciarle bisognerebbe ascoltarle, come all’inizio. Infatti, non sono nostre, ma ci sono state donate, le abbiamo apprese […]. La sapienza delle parole ha preceduto la filosofia e per molti versi l’ha preparata».

 

Salvatore Natoli, Parole della filosofia o dellarte di meditare, Feltrinelli, Milano 2004, p. 6.

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