Carmine Fiorillo – Delicatezza è sostantivo femminile. Lascia l’impronta con lo stile del proprio sentire in una scrittura capace di esprimere l’essenziale con la forza della gentilezza.

Delicatezza e stile

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Spirto gentil, che quelle membra reggi.

Francesco Petrarca

 

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Lo stilo è una piccola verghetta (di osso, di avorio, di legno duro e anche di metallo, ad una estremità appuntita, piatta e maneggevole dall’altra) con cui gli antichi scrivevano su tavolette cerate, trasferendo il segno eidetico nell’impronta materica.

La conoscenza di sé. Scritti e lettere (1939-41), Adelphi, 1986

Così René Daumal (1908-1944), giungeva a scrivere a proposito dello stile (in La conoscenza di sé. Scritti e lettere, Adelphi, 1986): «Lo stile è l’impronta di ciò che si è in ciò che si fa».

In effetti, nell’antichità, le due forme verbali – stile e stilo – venivano usate indifferentemente.

Dante scrivevà «Qual di pennel fu maestro o di stile Che ritraesse …?»; a lui si accompagnava Boccaccio parlando di Giotto: «Niuna cosa dà la natura … che egli [Giotto] con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse». E ancora Dante: «Deporrò giù lo mio soave stile, Ch’i’ ho tenuto nel trattar d’amore», con il Petrarca a parlar d’amore: «dir d’amore in stili alti et ornati».

«Lo stile è l’uomo», scriveva Georges-Louis Leclerc de Buffon (1707-1788) in Histoire naturelle de l’homme.

Delicatezza

Delicatezza

«Lo stile è la donna», io preferisco dire qui, in questi brevi appunti di diario, dedicati proprio ad una donna, al suo stile, e alla delicatezza con cui sa esprimersi, perché, come scriveva appunto Arthur Schopenhauer (1788-1860) in un suo libro che qui non è “galeotto” (Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, La Vita Felice, 2008): «Lo stile è la fisionomia dello spirito».

Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, La Vita Felice, 2008

Con tale «fisionomia» la persona di stile si manifesta agli altri nella sua delicatezza. Stile e delicatezza si uniscono a definire la personalità di chi ricerca la finezza (l’esprit de finesse del pensoso Pascal) e lascia l’impronta del proprio sentire in una scrittura capace di esprimere l’essenziale con la forza della gentilezza, in uno stile privo di ostentazioni, per niente affettato, o inutilmente ricercato.

Delicatezza è appunto sostantivo femminile.

Anche il maschile delicato, delicatus, è direi solo un derivato del femminile deliciae, «delizia».

La delicatezza denota finezza interiore, gentilezza di modi, capacità di nobili sentimenti, sensibilità per le più impercettibili finezze di suoni, profumi, luci, della bellezza in generale. Lo stile della delicatezza si esprime nella levità della carezza, e nell’intensa sua capacità di ascolto della parola: la forza della delicatezza rende il proprio stile invincibile, ammaliatrice di api. Conosce la lotta del quotidiano impegno il cui stile si manifesta per la correttezza e l’affidabilità nei rapporti umani.

Il vecchio e il mare, Mondadori, 2016

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Ernest Hemingway (1899-1961) scriveva «Lo stile non è un concetto vano, è la giusta maniera di fare», e con Santiago, il suo personaggio di Il vecchio e il mare, ci dice ancora: «L’uomo [e la donna] non sono fatti per la sconfitta. Un uomo [e una donna] possono essere distrutti, ma non possono essere sconfitti. È stupido non sperare. E credo che sia peccato».

Edward Hopper, Automat, olio su tela, 1927. Des Moines Art Center

Edward Hopper, Automat, olio su tela, 1927. Des Moines Art Center


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Democrito (460 – 370 a.C. circa) – Si deve essere veraci, non loquaci. Chi si compiace nel contraddire e chiacchiera molto non ha attitudine ad apprendere ciò che è necessario. Né arte né scienza si può conseguire da chi non apprende.

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Massime

Massime

«Si deve essere veraci, non loquaci».

Democrito, fr. 10 = DK68B44.

***

«Chi si compiace nel contraddire e chiacchiera molto
non ha attitudine ad apprendere ciò che è necessario».

Democrito, fr. 85.

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«Né arte né scienza si può conseguire da chi non apprende».

Democrito, fr. 24 = DK68B59

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«Agli stolti non il ragionamento è maestro, ma la sventura».

Democrito, fr. 20 = DK68B54

 


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Salvatore A. Bravo – Plebe e popolo: rivoluzione passiva e tecnologie. Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata. Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio. Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato. Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere.

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Salvatore A. Bravo

Plebe e popolo: rivoluzione passiva e tecnologie

 

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***
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Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata

La rivoluzione passiva delle tecnologie

Ecco l’inglese globale

Schiacciare la lingua sull’indicativo, riducendo a nulla il congiuntivo

Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio

Il popolo, per essere davvero tale, deve essere comunità

Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato

Popolo e ragione (Vernunft)

La plebe intelletto (Verstand)

La plebe non ha agorà

Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere

 

***

Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata

Vi è popolo dove vi è sovranità partecipata, dove le politiche sociali ed economiche non cadono come un destino ineluttabile, come catene fatali sul popolo. Oggi siamo oltre la Rivoluzione passiva descritta da Cuoco e da Gramsci. La Rivoluzione passiva presuppone una borghesia affetta da coscienza infelice, capace di sentire l’universalità dei valori fondanti della Rivoluzione francese e dell’Umanesimo. Il popolo, ancora plebe, deve ancorarsi alla classe motrice della coscienza nazionale per poter essere protagonista, defilato, perché agito. La condizione attuale ha sostituito alla rivoluzione delle coscienze, dell’idea che diventa Spirito (Geist) nel movimento della storia, la sola rivoluzione permanente delle tecnologie, del mercato della produzione e del lavoro, una nuova trinità senza salvezza.

La rivoluzione passiva delle tecnologie

La rivoluzione tecnologica appare scissa dalla storia dell’umanità, essa avviene… È un evento che plana nella storia e modifica le esistenze. Rivoluzione anonima: la scienza – quale sostanza astratta dalla realtà contingenze – detta i suoi ordini, riconfigura le comunità, le travia fino a fessurare il loro essere, la loro identità culturale, per annientarle. Le comunità passivizzate perdono – con la coesione – sincronicamente anche le parole. La rivoluzione passiva delle tecnologie senza finalismo, smantellano non solo lo stato sociale, ma con esso anche il linguaggio.

Ecco l’inglese globale

Ed ecco l’inglese globale, lingua che ha la stessa funzione della materia omogenea, ovvero far scivolare le merci e gli scambi mercantili per il pianeta ed abbattere ogni limite linguistico e culturale, purchè l’economia – alleata delle tecnologie – possa trionfare senza limiti e confini. Le lingue nazionali – a parte pochissime eccezioni (Francia, Spagna) – sono gradualmente smantellate dalle nuove generazioni che, educate alla cultura imprenditoriale, corrono verso la rivoluzione che subiscono: il sistema scolastico asservito all’economia non consente senso critico e con esso lo sviluppo di empatica appartenenza “ruere in servitium”.[1]

Schiacciare la lingua sull’indicativo, riducendo a nulla il congiuntivo

Si corre verso l’asservimento, lo si abbraccia, si risponde all’appello della rivoluzione passiva dell’economia secondo logiche adattive: si amano le proprie catene. Affinchè il declino dello spirito critico, del pensiero connettente sia neutralizzato, si favorisce – con l’angloitaliano – la riduzione della lingua nazionale ad una manciata di parole pronte per l’uso. Ci si limita ad una lingua che deve limitarsi a soddisfare le esigenze individuali particolari ed immediate. Si schiaccia la lingua sull’indicativo riducendo a nulla il congiuntivo, il modo del dubbio, della possibilità, della complessità: non è un caso che si favorisca la lingua inglese, la quale praticamente ha il congiuntivo solo alla prima persona del verbo essere al passato, e spesso non è utilizzato, specie nell’americano. Devono esserci solo certezze e pensieri semplici per radicarsi nel presente. Pertanto bisogna congelare il congiuntivo, in quanto il dubbio introduce visioni critiche che rompono con l’atteggiamento adattivo al presente.

Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio

Il popolo diventa plebe non solo quando è minacciata la sua sopravvivenza materiale, quando lo si ricatta attraversa la precarietà. È plebe in assenza di pensiero, di linguaggio che eccede l’utile del tempo immediato. Senza il pensiero connettente e la ragione filosofica, non vi è che lo schiacciamento verso il basso, la riduzione del popolo a plebe consumante, brulicante a testa bassa. La plebe, non è una classe sociale, non si definisce mediante il censo: la plebe è la popolazione in cui prevale la condizione spaziale sulla condizione temporale. Il linguaggio è relazione, è memoria, esperienza riflessa, conoscenza di sé, dunque è movimento, temporalità concreta che riallaccia e trascende le divisioni.

Il popolo, per essere davvero tale, deve essere comunità

Ancora una volta la Filosofia ci è di ausilio per definire il popolo. Hegel, nella parte sesta della Fenomenologia dello Spirito, descrive il popolo come comunità. Il popolo è la comunità culturale di appartenenza, non tribale, che pensa se stesso come un tutto in cui convivono le parti. Il popolo è l’umanizzazione del singolo, che – non più atomo, non più astratto dal tutto – liberamente rinuncia al proprio egoismo per aprirsi all’altro, per riconoscere se stesso attraverso la relazione comunitaria.

Il popolo è tale se la condizione del tempo è vissuta nella pienezza della coscienza. Il popolo è storia, attività che pone progetti e dunque non vive scollato dalla sua contingenza storia, dal suo immediato, ma esso è il suo tempo pensato nell’estensione del pensiero che riannoda le fila del passato e del futuro passando per il presente:

«Nella misura in cui lo spirito è la verità immediata, esso è la vita etica d’un popolo: l’individuo che è un mondo. Lo spirito deve allora procedere fino alla coscienza di ciò che esso è immediatamente; deve levare la bella vita etica e raggiungere, attraverso una serie di figure, il sapere di se stesso. Queste figure però si differenziano dalle precedenti perché si tratta di spiriti reali, realtà effettive vere e proprie, e anziché essere figure solamente della coscienza, sono figure d’un mondo».[2]

 

Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato

Il popolo è comunità manifesta, la coscienza di un popolo è progetto partecipato e di conseguenza palese. Dove vi è il popolo la politica ha la sua massima espressione nei corpi medi partecipati. Il linguaggio diventa così condizione imprescindibile della partecipazione, non è limitato al solo utile immediato, ma si declina ed arrichisce nei contesti della partecipazione. Un popolo senza linguaggio, senza cultura è solo plebe, è oggetto della storia. Popolo e etica coincidono, vi è etica dove vi è comunità consapeole che agisce nella storia, si fa storia trasformando in prassi le verità eterne che l’esperienza storica custodisce:

«La comunità – la legge suprema, la cui validità pubblica si manifesta alla luce del sole – ha la propria vitalità effettiva nel governo, inteso come ciò in cui essa è individuo. Il governo è lo spirito effettivo riflesso entro di sé, è il Sé semplice della sostanza etica nella sua totalità. Questa forza semplice consente certamente all’essenza di espandersi nell’articolazione dei suoi membri, e di dare a ogni parte una sussistenza e un proprio essere-per-sé. In ciò, lo spirito ha la propria realtà ossia il proprio esistere, e l’elemento di questa realtà è la famiglia».[3]

Popolo e ragione (Vernunft)

Nel popolo non vi sono atomi, individui separati, astratti dalla comunità, dalla storia, da se stessi e pertanto alienati. Nel popolo ogni individuo è parte consapevole di un comune e condiviso progetto politico, per cui il soggetto umano trova la sua ragion d’essere, il suo destino. Nella comunità non vi è che la vita della ragione che unisce i destini, pone limiti, struttura processi di autoriconoscimento mediato dalla relazione con l’alterità. La relazione non è solo l’incontro dello sguardo, l’empatia immediata, ma è specialmente linguaggio quale figura universale dell’incontro e dell’unione. La lingua patria non è nazionalismo escludente, ma è consapevolezza nella differenza. L’autoriconoscimento dei popoli avviene nell’incontro delle differenze:

«In un popolo libero, la ragione s’è perciò data vera effettuazione; essa è presenza dello spirito vivente, in cui l’individuo non soltanto trova la propria determinazione destinale – vale a dire, la propria essenza universale e singola – enunciata e data al modo della cosalità, ma anzi è egli stesso tale essenza, e ha anche raggiunto quella propria determinazione».[4]

 

La plebe intelletto (Verstand)

La plebe è il popolo animalizzato, non necessariamente ridotto in miseria, anzi vi può essere popolo e nel contempo deficienza di beni, perché la verità di un popolo è la sua consapevolezza comunitaria. La plebe è la pratica della specialistica, senza capacità di cogliere la totalità, è la pratica dell’intelletto (Verstand).
La plebe è anche la cultura specialistica senza struttura, e pertanto facilmente oggetto di manipolazione. La plebe è disinformata, o meglio la sua informazione è costituita dall’accettazione acritica delle fonti informative. È belante, ripetitiva, automatica nelle parole e nei comportamenti, ma specialmente difetta di coscienza di sé e di coscienza pubblica. La plebe non crede di poter cambiare il proprio tempo, per cui non lo pensa, lo subisce. Regredisce ad uno stato superstizioso, crede nel potere magico del grande leader, crede nella sua lingua, nelle sue parole, si deresponsabilizza dinanzi alla storia, dinanzi a se stessa, è carne da cannone per il consumo:

«Nella tradizione della filosofia politica occidentale, che è di origine greca, il “popolo” (demos) si distingue dalla mera aggregazione popolare (laos) proprio perché è “informato”, ed è informato nello spazio pubblico (demosion), spazio pubblico che è presupposto alla sua sovranità (kyriarchia) che del suo potere (exousia)».[5]

La plebe non ha agorà

La plebe dunque non ha agorà. Dove vigono le oligarchie finanziarie, non vi sono spazi pubblici, ma solo luoghi per l’ortopedia del consumo: ipermercati e luoghi del divertissiment. Tutto deve indurre alla fuga dal proprio tempo, non bisogna pensare, rappresentarsi il reale, il pensiero non deve porre l’essere, ma lo deve subire mediante l’esercizio e la pratica dell’ideocrazia.
Non si nasce servi, lo si diventa mediante l’addestramento quotidiano all’ideocrazia, al pensiero unico: poche parole tutte funzionali alla valorizzazione del capitale senza limiti. L’ideocrazia del mercato, del modello unico del pensiero e della lingua non è un destino. La storia è il luogo della vita degli esseri umani, del possibile. Nella storia le faglie liberano potenzialità impensabili. La condizione di plebe può ribaltarsi in popolo, se si mettono in atto pratiche virtuose del pensiero.

Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere

La resistenza di un popolo non può che iniziare con il pensare il proprio tempo, con il rilevare il tragico non come un destino, ma come una circostanza posta da più soggetti responsabili popoli annessi: il riconoscimento delle proprie responsabilità dinanzi alla storia ed a se stessi è già prassi, uscita dalla caverna del nichilismo programmato da altri. La storia è Wirchliche Historie. Nessuna provvidenza verrà a salvarci. Ma, come l’Angelus Novus di Klee nel commento di Benjamin, non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere dal destino del Regno animale dello Spirito.

Salvatore A. Bravo

[1] «At Romae ruere in servitium consules, patres, eques» (A Roma intanto si precipitavano in gesti servili consoli, senatori, cavalieri), Tacito, Storie, I, 7.

[2] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Einaudi, Torino, p. 293.

[3] Ibidem, p. 300.

[4] Ibidem, p. 239.

[5] Costanzo Preve, L’Ideocrazia Imperiale Americana, Roma, p. 58.


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Sergio Arecco – La durevole passione per il cinema con i miei libri in questi ultimi cinquanta anni.

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Il cinema breve

Il cinema breve

Sergio Arecco

Il cinema breve.
Da Walt Disney a David Bowie.
Dizionario del cortometraggio (1928-2015)

Editore Cineteca di Bologna, 2016

 

Oltre duecento corto e mediometraggi esemplari, selezionati e analizzati dalla perizia critica di Sergio Arecco, compongono nelle pagine di questo libro un’autentica storia parallela del cinema. Una storia che parte dalle origini del sonoro e senza soluzione di continuità arriva fino a noi, una corrente continua di multiformi invenzioni che ci conduce dallo Steamboat Willie di Walt Disney al Blackstar di David Bowie. Film d’avanguardia, film narrativo, film d’animazione, autobiografia, provocazione intellettuale, opera prima e pezzo unico, esordio ed epitaffio, contaminazione estrema e cinema puro. Concentrazione, divagazione, episodio, appunto, colpo d’occhio. Truffaut e Warhol, Antonioni e Park Chan-wook, D.A. Pennebaker e Björk, Shirley Clarke e Dino Risi, Buñuel e Tex Avery, Pasolini e Justin Lin, Mishima e Scorsese, Beckett e Monicelli, Lynch e Miyazaki. Certo, il cinema breve vive spesso di vita segreta. Compaiono nel repertorio anche nomi poco frequentati, titoli misteriosi, e sta forse qui il più forte richiamo di questo dizionario: nel suo proporsi come miniera di scoperte, di film così ben raccontati che avremo voglia di cercarli e di vederli, e che entreranno a far parte del nostro bagaglio cinefilo, della nostra storia personale.


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Pier Paolo Pasolini

 

Sergio Arecco

Pier Paolo Pasolini

Partisan Edizioni , 1972

Dedicato alle opere di Pier Paolo Pasolini. Pubblicato nel 1972 dalla casa editrice romana «Partisan» in una collana che ospitava, tra l’altro, un saggio di Bordiga su Lenin, un libello di Cabral intitolato Guerriglia: il potere delle armi, una monografia su Godard di Moscariello e Dibattito su Rossellini a cura di Gianni Menon. Il volume comprende una Conversazione con Pier Paolo Pasolini a cura di Sergio Arecco.

Indice

In limine
Staticità dei contenuti: un mondo a metà?
La cultura e la sua rivalsa estetica
Vita come pretestualità della morte: la tecnica fondante e globale
«Tutto il mio folle amore…»: l’io epico
La cronaca ideologica e quella filmica
Biofilmografia


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Thodoros Anghelopulos

Sergio Arecco

Thodoros Anghelopulos

Il Castoro Cinema, La Nuova Italia , 1978

Storia e mitologia, metafora ed emozione si fondono nell’opera di un grande regista dallo stile rigoroso: La recita (1975), Il volo (1986) e il Leone d’argento Paesaggio nella nebbia (1988).


Nagisa Oshima

Nagisa Oshima

Sergio Arecco

Nagisa Ōshima

Il Castoro Cinema, La Nuova Italia , 1979

Regista scomodo, non solo in patria, per il radicalismo ideologico ed espressivo. Dei suoi film duri e violenti, i più noti sono La cerimonia (1971) ed Ecco l’impero dei sensi (1976).


John Cassavetes

John Cassavetes

Sergio Arecco

John Cassavetes

Il Castoro Cinema, La Nuova Italia , 1981

John Cassavetes (New York, 1929 – Los Angeles, 1989) ha “inventato” l’idea stessa di cinema indipendente. La sua produzione, così coerente e refrattaria a ogni compromesso, ha rappresentato un’inesauribile fonte d’ispirazione per cineasti di tutto il mondo. Il suo stile asciutto, diretto e nervoso gli ha permesso di scavare meglio di chiunque altro tra le emozioni e i turbamenti dei suoi personaggi.
Tra i suoi film: Ombre (1959), Volti (1968), Una moglie (1975), La sera della prima (1977), Gloria – Una notte d’estate (1980).

 

John Cassavetes

John Cassavetes

Sergio Arecco

John Cassavetes

Il Castoro Cinema, 2009

 


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George Lucas

Sergio Arecco

George Lucas

Il Castoro Cinema, 1995

Nasce a Modesto, California, nel 1944. Regista e produttore di genio. Ha dato vita a una scuola di effetti speciali, divenuta centro di produzione: la Industrial Light and Magic. Con le sue Guerre stellari (1977-1983) la fantascienza ha scoperto nuovi confini.

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George Lucas


1997_Alain Resnais

Alain Resnais

Sergio Arecco

Alain Resnais o la persistenza della memoria

Le Mani-Microart’S, 1997, 2014


1998_Rober Bresson

Robert Bresson

Sergio Arecco

Robert Bresson. L’anima e la forma

Le Mani-Microart’S, 1998


2000_Igmar Bergman. Segreti e magie

Igmar Bergman

Sergio Arecco

Igmar Bergman. Segreti e magie

Le Mani-Microart’S, 2000


2002_Il paesaggio del cinema

Il paesaggio del cinema

Sergio Arecco

Il paesaggio del cinema. Dieci studi da Ford ad Almodovar

Le Mani-Microart’S, 2002


2003_Il vampiro nascosto

Il vampiro nascosto

Sergio Arecco

Il vampiro nascosto. Suggestioni e dipendenza nel cinema

Le Mani-Microart’S, 2003, 2014


2004_Anche il tempo sogna

Anche il tempo sogna

Sergio Arecco

Anche il tempo sogna. Quando il cinema racconta la storia

ETS, 2004

Trenta film considerati esemplari del rapporto tra cinema e storia. Dai primi capolavori di Griffith – “Nascita di una nazione” – Ejzenstejn – “Ottobre” o Chaplin – “Il grande dittatore” – il volume traccia un itinerario completo, dal cinema classico al cinema contemporaneo, passando per esperienze anche eccentriche come “Hitler” di Syberberg o “Heimat” di Reitz. L’autore studia le forme e le modalità di realizzazione dei primi kolossal, le loro dinamiche interne, il loro impatto sul pubblico e le loro possibili valenze propagandistiche.


2005_Marlene Dietrich

Marlene Dietrich

Sergio Arecco

Marlene Dietrich. I piaceri dipinti

Le Mani-Microart’S, 2005


2007_Marlon Brando

Marlon Brando

Sergio Arecco

Marlon Brando. Il delitto di invecchiare

Le Mani-Microart’S, 2007


2009_Cinema e paesaggio

Cinema e paesaggio

Sergio Arecco

Cinema e paesaggio. Dizionario critico da “Accattone” a “Volver”

Le Mani-Microart’S, 2009, 2014

Dizionario critico in cento film, dalla A alla Z; dalle origini del cinema a oggi; da Il dottor Mabuse (Fritz Lang, 1922-23) a Gomorra (Matteo Garrone, 2008), passando per Via col vento (Victor Fleming, 1939) o Hiroshima, mon amour (Alain Resnais, 1959). Il filo conduttore del libro è il paesaggio del cinema che non è mai sfondo o contorno illustrativo, ma presenza viva, interlocutore privilegiato e speculare ai personaggi, complemento insostituibile alla loro articolazione narrativa e alla loro storia. Il paesaggio con i suoi punti fermi e i suoi punti di fuga, i suoi margini e i suoi sconfinamenti. Il suo filo più segreto e più intimo, è quello delle frontiere del visibile che si spostano, dei confini che non si lasciano definire, che fanno avanzare sempre un po’ di più i loro margini e le loro soglie. In una parola, è quello dello sconfinamento. Un concetto che, pur traendo ispirazione dal cinema di paesaggio, investe il cinema in sé, la sua dinamica, la sua grammatica e la sua sintassi: il paesaggio come una componente intrinseca, peculiare, del cinema, comparabile, per la sua funzione essenziale, alla recitazione degli attori o alla costruzione delle sequenze o alla dinamica del montaggio, vale a dire a quei fondamentali che fanno, materialmente e idealmente, un film. Qualcosa di più, dunque, di una nozione estetica. Quasi una filosofia (se la parola non fosse troppo grossa). Qualcosa che ha a che fare con la vita, con il suo perenne divenire.


2010_Le città del cinema

Le città del cinema

Sergio Arecco

Le città del cinema. Da Metropolis a Hong Kong

L’Epos, 2010

Metropolis e Hong Kong: due città, due icone, una vera e una immaginaria, che solo il cinema ha reso effettivamente reali; paradigmi del moderno e di sé stesse, reinventate dalla mitologia cinematografica e riplasmate come metropoli “assolute”; città virtualmente invisibili o inesistenti chiamate a vivere e a essere sé stesse solo dall’occhio della telecamera che ne legittima l’esistenza e concede loro uno statuto di visibilità.


2013_Le anatomie dell'invisibile

Le anatomie dell’invisibile

Sergio Arecco

Le anatomie dell’invisibile. Il cinema raccontato con il cinema

Città del silenzio, 2013

Sullo sfondo di un cinema che riflette su se stesso – attraverso i generi, gli interpreti o i registri espressivi – l’autore prende in esame alcuni temi, ricomposti in una struttura unitaria e omogenea: la voce fuori campo, il sogno, la favola, la dimensione urbana contrapposta a quella extraurbana, la sessualità. Con una nota di René de Ceccatty.




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Giovanni Reale (1931-2014) – Si è filosofi solo se e finché si è totalmente liberi, ossia solo se e finché si cerca il vero come tale. Conoscendo in modo disinteressato, l’uomo si accosta alla verità e in questa maniera realizza la sua natura razionale al più alto grado.

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«Anche in questo i Greci sono stati e restano maestri: si è filosofi solo se e finché si è totalmente liberi, ossia solo se e finché, in assoluta libertà, si contempla o si cerca il vero come tale, senza ulteriori ragioni predeterminanti.

[…] Conoscendo in modo disinteressato, l’uomo si accosta alla verità, e in questa maniera realizza la sua natura razionale al più alto grado, e di conseguenza raggiunge la felicità».

Giovanni Reale, Storia della filosofia greca e romana, 10 voll., Bompiani, pp. 2.816, 2018

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Susanna Berger – The Art of Philosophy: Visual Thinking in Europe from the Late Renaissance to the Early Enlightenment

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The Art of Philosophy copia

The Art of Philosophy

 

Susanna Berger

The Art of Philosophy:
Visual Thinking in Europe from the Late Renaissance to the Early Enlightenment

Princeton University Press, Princeton e Oxford 2017, pp. 315

The first book to explore the role of images in philosophical thought and teaching in the early modern period
Delving into the intersections between artistic images and philosophical knowledge in Europe from the late sixteenth to the early eighteenth centuries, The Art of Philosophy shows that the making and study of visual art functioned as important methods of philosophical thinking and instruction. From frontispieces of books to monumental prints created by philosophers in collaboration with renowned artists, Susanna Berger examines visual representations of philosophy and overturns prevailing assumptions about the limited function of the visual in European intellectual history.
Rather than merely illustrating already existing philosophical concepts, visual images generated new knowledge for both Aristotelian thinkers and anti-Aristotelians, such as Descartes and Hobbes. Printmaking and drawing played a decisive role in discoveries that led to a move away from the authority of Aristotle in the seventeenth century. Berger interprets visual art from printed books, student lecture notebooks, alba amicorum (friendship albums), broadsides, and paintings, and examines the work of such artists as Pietro Testa, Léonard Gaultier, Abraham Bosse, Dürer, and Rembrandt. In particular, she focuses on the rise and decline of the “plural image,” a genre that was popular among early modern philosophers. Plural images brought multiple images together on the same page, often in order to visualize systems of logic, metaphysics, natural philosophy, or moral philosophy.
Featuring previously unpublished prints and drawings from the early modern period and lavish gatefolds, The Art of Philosophy reveals the essential connections between visual commentary and philosophical thought.

Susanna Berger
is assistant professor of art history at the University of Southern California.

The Art of Philosophy: Visual Thinking in Europe from the Late Renaissance to the Early Enlightenment Book Trailer

 

 


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Michel Quoist (1921-1997) – Fino a quando non avrai veramente accettato i tuoi limiti, non potrai costruire nulla di solido.

Michel Quoist 01
La ville et l'homme

La ville et l’homme

«Fino a quando non avrai veramente accettato i tuoi limiti, non potrai costruire nulla di solido perché sciupi il tuo tempo a desiderare gli strumenti che sono nelle mani degli altri e non ti accorgi di possederne anche tu, differenti, è vero, ma altrettanto utili».

Michel Quoist, La ville et l’homme, Les editions ouvrières, Paris 1952.

 


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Jacques Rancière – L’attività politica è quell’attività che sposta un corpo dal luogo che gli è stato assegnato, che fa sentire un discorso laddove ne risuonava solo l’eco.

Jacques Rancière001
Il disaccordo

Il disaccordo

 

«L’attività politica è quell’attività che sposta un corpo dal luogo che gli è stato assegnato, o che cambia la destinazione di un luogo; fa vedere ciò che non aveva modo di essere visto, fa sentire un discorso laddove ne risuonava solo l’eco, fa sentire come discorso ciò che era inteso soltanto come rumore».

J. Rancière, Il disaccordo, tr. it., Meltemi, Roma 2007, p. 43.

 

Quarta di copertina

La filosofia politica esiste? Una domanda simile sembrerebbe inopportuna: innanzitutto perché la riflessione sulla comunità, sulla legge e sul suo fondamento si trova all’origine della nostra tradizione filosofica, e non ha mai smesso di animarla; e poi perché, da qualche tempo, la filosofia politica va affermando a gran voce il suo ritorno. Ma questa filosofia politica “ritrovata” non sembra affatto spingere la sua riflessione al di là di ciò che gli amministratori dello Stato possono argomentare sulla democrazia e sulla legge, sul diritto e sullo Stato di diritto. In sostanza, tutto quello che sembra in grado di garantire è la comunicazione tra le dottrine classiche e le ordinarie forme di legittimazione degli Stati democratico-liberali. L’espressione “filosofia politica”, sostiene Jacques Rancière, non definisce un ambito specifico della filosofia. Piuttosto, designa il terreno di un incontro polemico in cui si manifesta il vero paradosso della politica: l’essere priva di un fondamento autonomo. C’è politica solo perché nessun ordine sociale è fondato in natura e nessuna legge divina può mettere ordine nelle società umane. Questa è la lezione offerta da Platone. La politica nasce infatti nel momento storico in cui il popolo mette in crisi l’ordine naturale del dominio e include nella legge il principio di uguaglianza. Ma è intorno a questa uguaglianza che matura il dissenso. In cosa vi è o non vi è uguaglianza? E tra chi e chi? È qui, su questa logica del disaccordo, lontana tanto dalla discussione consensuale quanto dal torto assoluto, che si forma la filosofia politica: essa inizia nel momento in cui la filosofia accoglie la difficoltà, l’aporia, o il disagio della politica, inizia con il ripudio platonico dell’apparenza, del disinganno e delle controversie caratteristiche della democrazia, e la rivendicazione di una politica “fondata sulla verità”. Bisognerà allora chiedersi quali trasformazioni abbia subito il regime della verità dall’archi-politica platonica alla meta-politica marxista, e quali siano stati gli effetti di tali mutamenti sulla pratica politica fino ai nostri giorni.


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AA.VV., Teoria e prassi in Aristotele

Aristotele, Teoria e prassi in Aristotele

311 ISBN

Claudia Baracchi, Enrico Berti, Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Luca Grecchi, Silvia Gullino, Alberto Jori, Giulio A. Lucchetta, Lucia Palpacelli, Luigi Ruggiu, Mario Vegetti, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta

Teoria e prassi in Aristotele

indicepresentazioneautoresintesi

Teoria e prassi in Aristotele è il terzo di una serie di collettanei ari­stotelici, cominciata nel 2016 con Sistema e sistematicità in Aristotele, e proseguita nel 2017 con Immanenza e trascendenza in Aristotele, tutti editi a cura di Luca Grecchi per i tipi di Petite Plaisance. Il presente volume nasce con l’intento di esaminare alcune distanze, spesso rilevate dagli studiosi, fra la teoria e la prassi nel pensiero aristotelico.

L’apertura del volume, come da tradizione, è costituita da un dialogo generale tra Luca Grecchi e Carmelo Vigna. A questo dialogo, sempre come da tradizione, fa seguito un commento di Enrico Berti, caratterizzato da notazioni profonde ed essenziali. Di seguito, interventi assai puntuali inerenti principalmente il piano etico (Marcello Zanatta), politico (Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Alberto Jori), teoretico (Claudia Baracchi, Mario Vegetti), economico (Silvia Gullino, Luigi Ruggiu), sociale (Giulio Lucchetta) e scientifico (Lucia Palpacelli).


«[…] diventiamo giusti facendo ciò che è giusto» (Etica Nicomachea, 1103a37).

 

«[…] è bene dire che è dal fare ciò che è giusto o temperato che un essere umano diventa rispettivamente giusto o temperante; e nessuno che deve diventare buono lo diventerà senza fare cose buone. Eppure la maggior parte degli esseri umani non fa così, ricorrono invece al parlare (λóγoν) di tali cose e pensano di stare filosofando e che facendo così diventano eccellenti, comportantandosi insomma un po’ come i pazienti che ascoltano i loro medici con attenzione, ma non fanno nulla di quello che gli vien loro prescritto. E proprio come questi pazienti non curano il proprio corpo comportandosi in questo modo, così coloro che filosofano in questo modo non miglioreranno la loro anima» (Etica Nicomachea, 1105b5-18).

 

«[…] il fine deve essere ipotizzato come un inizio […] il fine è l’inizio del pensiero (νοησεως αρχη), il completamento (τελευτη) del pensiero è l’inizio di azione» (Etica Eudemia, 1227b23-34).

Aristotele

Trilogia AristoteleGiampaolo Abbate – Claudia Baracchi – Enrico Berti- Barbara Botter
Matteo Cosci – Annabella d’Atri – Andrea Falcon – Silvia Fazzo
Arianna Fermani – Silvia Gastaldi – Giovanna R. Giardina
Luca Grecchi – Silvia Gullino – Alberto Jori – Giulio A. Lucchetta
Lucia Palpacelli – Diana Quarantotto – Luigi Ruggiu – Monica Ugaglia
Mario Vegetti – Carmelo Vigna – Marcello Zanatta

Logo-Adobe-Acrobat-300x293   Brochure per la Trilogia su Aristotele (pp. 32)   Logo-Adobe-Acrobat-300x293


Prometeo legato alla colonna con Atlante che regge il cielo, VI a.C. colore***

 

260 ISBN

Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter, Matteo Cosci, Silvia Fazzo, Arianna Fermani, Giovanna R. Giardina, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta

indicepresentazioneautoresintesi


282 ISBN

Giampaolo Abbate, Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter, Matteo Cosci, Annabella D’Atri, Andrea Falcon, Arianna Fermani, Luca Grecchi, Alberto Jori, Diana Quarantotto, Monica Ugaglia, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta

indicepresentazioneautoresintesi

 


311 ISBNindicepresentazioneautoresintesi

Claudia Baracchi, Enrico Berti, Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Luca Grecchi, Silvia Gullino, Alberto Jori, Giulio A. Lucchetta, Lucia Palpacelli, Luigi Ruggiu, Mario Vegetti, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta

 


Aristotele – Questa è la vita secondo intelletto: vivere secondo la parte più nobile che è in noi

Aristotele (384-322 a.C.) – La «crematistica»: la polis e la logica del profitto. Il commercio è un’arte più scaltrita per realizzare un profitto maggiore. Il denaro è l’oggetto del commercio e della crematistica. Ma il denaro è una mera convenzione, priva di valore naturale.

Aristotele (384-322 a.C.) – La mano di Aristotele: più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; la mano costituisce non uno ma più strumenti, è uno strumento preposto ad altri strumenti.

Aristotele (384-322 a.C.) – Da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque. La nascita viene dal seme.

Aristotele (384-322 a.C.) – In tutte le cose naturali si trova qualcosa di meraviglioso.

Aristotele (384-322 a.C.) – Se l’intelletto costituisce qualcosa di divino rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. Per quanto è possibile, ci si deve immortalare e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi


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Salvatore A. Bravo – Le metafore nella filosofia. La metafora è bussola concettuale per guardare oltre l’orizzonte dell’angusto presente.

Le metafore nella filosofia

«Noi apprendiamo soprattutto dalle metafore»,
in quanto esse hanno il ruolo fondamentale di

«portare l’oggetto sotto gli occhi».
Aristotele, Retorica, III, 10, 1411a,
in Opere, vol. 10, Laterza, Bari 1977.

 

310 ISBN

Salvatore A. Bravo

Le metafore nella filosofia

indicepresentazioneautoresintesi

La metafora assume una polisemia di significati formativi: è l’immagine che porta al concetto; è configurazione di tensioni concettuali dal forte contenuto emozionale, non estranee alla razionalità nella sua processualità radicata in piani differenti. È totalità umana: fantasia, sentimento e razionalità sono un trittico imprescindibile per l’uomo teoretico. La metafora “trasporta” il concetto, è libertà antitetica alla riduzione dell’essere umano ad ente senza autentica progettualità, è l’affacciarsi dell’essere umano fuori dal corpo. La metafora educa al possibile. La metafora è bussola concettuale per guardare oltre l’orizzonte dell’angusto presente. Creare e ripensare concetti con la metafora rompe la successione sempre eguale della linea del tempo. «Noi apprendiamo soprattutto dalle metafore», in quanto esse hanno il ruolo fondamentale di «portare l’oggetto sotto gli occhi» (Aristotele, Retorica, III, 10, 1411a).


Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?
Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.
Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.
Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.
Salvatore Antonio Bravo – L’epoca del PILinguaggio. Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità.
Salvatore Bravo – Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati assumendo la libertà di vivere i poliedrici colori del possibile.
Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.
Salvatore Antonio Bravo – Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile. Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale.
Salvatore Antonio Bravo – Le miserie della società dell’abbondanza. La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione.
Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.
Salvatore Antonio Bravo – «Le vespe di Panama» di Z. Bauman. La filosofia perde la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva se vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici, dove campeggia l’uomo economico: turista della vita, vagabondo tra le mercificazioni.
Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.
Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.
Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.
Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.
Salvatore Antonio Bravo – Il libro di Norman G. Finkelstein, «L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».
Salvatore Antonio Bravo – Il mercato e l’asservimento della Scuola: il mito dell’orientamento consapevole. Ciò che occorre invece è tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali.
Salvatore Antonio Bravo – Marx poeta nel suo anelito all’universale: «Non rimaniamo immobili Senza volere né fare niente. Non subiamo passivamente il giogo ignominioso. Il desiderio, la passione, l’azione sono parte di noi».
Salvatore Antonio Bravo – L’industria culturale capitalistica utilizza solo autori che interpretino K. Marx in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria.
Salvatore A. Bravo – Il collare e le catene delle navi negriere, sono ora sostituiti dal controllo digitale, un panopticon che controlla per spezzare sul nascere la possibilità di un pensiero che voglia progettare un mondo altro.
Salvatore Bravo – Estetiche del turbocapitalismo. La paideia negativa e nichilistica dell’immagine. Contrapporre alla notte delle immagini la cultura dell’impegno, sottraendosi alla violenza dell’incultura dell’immagine.
Salvatore Bravo – Il flâneur, passeggiatore annoiato, è l’uomo massa della società dell’abbondanza che vive nella distanza dallo sguardo altrui. Essere astratto e distratto vive l’esperienza senza simbolizzarla in prassi, al servizio del sistema mediante le protesi tecnologiche, che esigono automatici comportamenti.
Salvatore Bravo – L’assenza di futuro è il nichilismo dell’assoluto presente. Il trionfo dell’immediato-astratto forma individui e non persone. Il radicamento nell’attimo fa del soggetto un ente che si piega alle circostanze.
Salvatore Bravo – Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto, con la sua promessa dell’Eden restituisce soltanto un corpo esausto e violento, come nel mito della caverna di Platone. Si immilla la frustrazione. Il capitalismo oggi esige che l’uomo lotti contro se stesso oltre che contro gli altri.
Salvatore Bravo – Il disorientamento gestaltico e le parole valigia. Le parole valigia e lo spettacolo sempre in scena reificano il soggetto umano riducendolo a semplice funzione del gioco perverso della produzione.
Salvatore Bravo – Il modello Marchionne trasforma gli uomini in soldati dell’efficienza, inibisce ogni discussione sul senso e sulla dignità del lavoro, il cui scopo non è la sopravvivenza biologica, ma l’espressione di sé, della propria identità, la conoscenza di se stessi, come afferma la Costituzione. Il lavoratore è persona, non un servo dell’azienda.
Salvatore Bravo – L’umanesimo del lavoro in Marx. Il lavoro dell’«uomo macchina» distrugge il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi perché il lavoro coatto brucia la creatività e inibisce la possibilità di costruire e produrre secondo le leggi della bellezza.
Salvatore Bravo – Tecnica e cultura classica. La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Cultura classica come formazione alla libertà consapevole.
Salvatore Bravo – Lo sradicamento è vita fuori dalla storia, dalla coscienza, dalla comunità in cui la vita fiorisce. Lo sradicamento massimo è la riduzione di tutto sulla linea della quantità, è associare il bene solo alla quantità. Ma se il bene è la quantità, il male è per tutti.
Salvatore Bravo – ll presente non è tutto, lo diviene in assenza di domande. La domanda è già utopia concreta. Per pensare l’utopia concreta l’immaginazione è imprescindibile, essa è operazione critica, domanda radicale e filosofica, è una diversa rappresentazione del presente: mentre configura il futuro, opera nel presente investendolo di nuova vita. Un mondo senza pensiero ed immaginazione empatica è solo distopia.
Salvatore Bravo – L’epoca dello straniamento. Se ignoriamo che cosa mai noi siamo come potremo conoscere l’arte per render migliori noi stessi? Dalla peccaminosità assoluta alla colpevole innocenza. La vera trasgressione è il pensiero critico contro l’attività perenne senza consapevolezza.
Salvatore A. Bravo – Il bisogno di filosofia è un bisogno autentico, in quanto filosofare è proprio dell’essere umano. Nulla è facile, ma tutto diventa più difficile in un mondo senza teoretica.
Salvatore A. Bravo – Vogliamo ricordare Costanzo Preve, l’uomo e il filosofo che, con la sua resistenza al capitalismo speculativo, ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dal nietzschiano “ultimo uomo”. È sceso nelle profondità sistemiche della nostra epoca e scandagliato filosoficamente la genesi dell’odierno economicismo nichilistico.

 


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