Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Coloro che sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello, non possono rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero e non possono istituire norme relative alle cose belle e giuste e buone.

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I farisei sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso! (Matteo, 15, 14)

Pieter Bruegel il Vecchio, La parabola dei ciechiPieter Bruegel il Vecchio, La parabola dei ciechi, 1568.

Platone, Repubblica

Platone, Repubblica

«Dal momento che filosofi sono coloro i quali sono in grado di afferrare ciò che resta sempre invariato nella sua identità, mentre coloro che ne sono incapaci e si limitano a errare nel molteplice e nel mutevole filosofi non sono, chi dei due dovrà essere guida della città? […] Questo poi è chiaro, se si debba scegliere un cieco o un uomo dalla vista acuta per farlo guida di qualunque cosa […] Ti sembra allora che ci sia una qualche differenza fra i ciechi e quanti in realtà sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello e non possono, alla maniera dei pittori, rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero, sempre riferendosi ad esso e osservandolo nel modo più rigoroso possibile, in modo da istituire anche quaggiù le norme relative alle cose belle e giuste e buone?».

Platone, Repubblica, VI, 484c-d.


Platone, «Filebo» – Senza possedere né intelletto né memoria né scienza né opinione vera, tu saresti vuoto di ogni elemento di coscienza
 


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Charles Chaplin (1889-1977) – Ti criticheranno sempre. Quindi vivi, fai quello che ti dice il cuore e vivi intensamente ogni giorno della tua vita prima che l’opera finisca.

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Chaplin, la mia autobiografia

C. Chaplin, La mia autobiografia

«Ti criticheranno sempre, parleranno male di te e sarà difficile che incontri qualcuno al quale tu possa piacere così come sei!
Quindi vivi, fai quello che ti dice il cuore, la vita è come un’opera di teatro, ma non ha prove iniziali: canta, balla, ridi e vivi intensamente ogni giorno della tua vita prima che l’opera finisca».



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Elias Canetti (1905-1994)– Lo scrittore è il custode delle metamorfosi. Questa la sua legge: «Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri. Si indaghi sul nulla con l’unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri ad ognuno».

Elias Canetti 003
La coscienza delle parole

La coscienza delle parole

Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri.

 

 

Si indaghi sul nulla con l’unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri ad ognuno.

 

 

Si perseveri nel lutto e nella disperazione per imparare la maniera di farne uscire gli altri, ma non per disprezzo della felicità, che compete alle umane creature, benché esse la deturpino e se la strappino a vicenda.

[…] Da quando abbiamo affidato alle macchine il compito di predire il nostro futuro, le profezie hanno perso ogni valore. Quanto più ci separiamo da noi stessi, quanto più ci consegniamo a istanze senza vita, tanto meno riusciamo a padroneggiare quello che accade. Il nostro crescente potere su tutto, su ciò che è vivente e su ciò che non lo è, e in special modo sui nostri simili, si è trasformato in un contropotere che solo in apparenza riusciamo a controllare. […]

Forse val la pena di riflettere se esista qualcosa che gli scrittori […] possano fare per rendersi utili nell’attuale situazione del mondo in cui viviamo. […]

Lo scrittore è il custode delle metamorfosi, e lo è in due sensi. Innanzitutto egli farà propria l’eredità letteraria dell’umanità, nella quale le metamorfosi abbondano. Solo oggi ci rendiamo conto di questa ricchezza, dal momento che sono state decifrate le scritture di quasi tutte le antiche civiltà. […].

Di metamorfosi, infatti, che è il tema che qui ci interessa, in queste tradizioni ce n’è un’infinità. Potremmo passare tutta la nostra vita a raccoglierle e a metterle in atto, e non credo affatto che sarebbe una vita mal spesa. Tribù che contano talvolta poche centinaia di esseri umani ci hanno lasciato una ricchezza che certo non meritiamo […]. Essi hanno salvaguardato fino alla fine le loro esperienze mitiche e la cosa strana è questa: quasi nulla ci è utile e quasi niente ci riempie di speranza più di queste antiche e incomparabili creazioni poetiche scritte da uomini che sono finiti nella più amara miseria dopo essere stati da noi cacciati, truffati e rapinati. Gli uomini che noi abbiamo disprezzato per la loro modesta civiltà materiale e che da noi sono stati sterminati ciecamente e spietatamente, sono gli stessi uomini che ci hanno tramandato un’eredità spirituale inesauribile.

[…] La vera salvaguardia di questo patrimonio, la sua resurrezione per la nostra vita, è compito degli scrittori. Li ho già definiti i custodi delle metamorfosi, ma essi lo sono anche in un altro senso. In un mondo impostato sull’efficienza e sulla specializzazione, che altro non vede se non le vette a cui mirano tutti in una sorta di angusta tensione per la linearità, che indirizza ogni energia alla fredda solitudine di queste vette e invece disdegna e cancella le cose più vicine, il molteplice, l’autentico, tutto ciò che non serve ad arrivare in cima, in un mondo che sempre di più vieta la metamorfosi in quanto essa si pone in contrasto con il fine universale della produzione, che non esita a moltiplicare dissennatamente gli strumenti della propria autodistruzione e cerca nel contempo di soffocare quel poco che ancora l’uomo possiede delle qualità ereditate dagli antichi e che potrebbe servirgli a contrastare questa tendenza, in un mondo cosiffatto […] appare di un’importanza addirittura cruciale che alcune persone continuino malgrado tutto a esercitare questa capacità di metamorfosi.

Questo, secondo me, è il vero compito degli scrittori.

Grazie a una capacità che una volta era di tutti e che ora è condannata all’atrofia, capacità che essi ad ogni costo hanno il dovere di conservare, gli scrittori dovrebbero tenere aperte le vie di accesso tra gli uomini. Dovrebbero essere capaci di diventare chiunque, anche il più piccolo, il più ingenuo, il più impotente.

La loro brama profonda di vivere le esperienze degli altri non dovrebbe mai essere orientata dalle finalità che costituiscono la nostra vita normale e per così dire ufficiale, essa dovrebbe essere completamente esente dall’intento di ottenere successi o riconoscimenti, dovrebbe essere una passione a sé stante, la passione appunto della metamorfosi.

È chiaro che gli scrittori dovrebbero essere sempre pronti ad ascoltare, ma questo da solo non basta, perché oggi c’è un numero straripante di persone che quasi non sono più capaci di parlare e che si esprimono con le frasi dei giornali e dei mass media e sempre più dicono tutti le stesse cose, che pure in realtà non sono le stesse cose. Solo grazie alla metamorfosi, assunta nel significato più radicale che qui ho dato a questa parola, sarebbe possibile sentire ciò che un uomo è al di là delle sue parole, la vera sostanza di un essere vivente non è possibile coglierla se non in questo modo. È un processo enigmatico, di cui praticamente non è ancora stata esplorata la natura, eppure non c’è altra maniera di accedere davvero a un’altra persona. Si è tentato di definirlo in vari modi, si è parlato per esempio di empatia o immedesimazione, ma […] preferisco «metamorfosi» […]. Sono dunque incline a ravvisare la vera missione dello scrittore nel suo esercizio ininterrotto della metamorfosi, nel suo bisogno stringente di calarsi nelle esperienze di uomini di ogni tipo, di tutti, ma specialmente di quelli che sono meno considerati, nel far uso di questa capacità senza mai stancarsi e in un modo che non sia intristito o paralizzato da schemi preordinati. […]

Se qui prescindo totalmente da ciò che si suol chiamare successo, e addirittura ne diffido, ciò è legato a un pericolo che ciascuno conosce per averlo sperimentato di persona. L’intenzione di ottenere il successo, così come il successo in sé, hanno un effetto limitante. Chi intraprende una certa strada con l’idea di raggiungere un obiettivo, sente la maggior parte delle cose che non servono ad avvicinarlo alla meta come un’inutile zavorra. Egli se ne libera per essere più leggero, non può preoccuparsi del fatto che forse si sta liberando della parte migliore di sé, ciò che gli importa è il punto a cui è arrivato, da quel punto si libra verso un punto più alto, e il suo progresso lo misura a metri. La posizione per lui è tutto, è stata stabilita dall’esterno, non è lui che l’ha creata, e neanche ha preso parte alla sua genesi. La vede e cerca di raggiungerla, e per quanto un simile sforzo possa essere utile e necessario in molti campi della vita, per lo scrittore come noi lo abbiamo in mente sarebbe solo uno sforzo distruttivo. Questi, infatti, deve prima di tutto far posto in se stesso, sempre più posto. Posto per il sapere, di cui si appropria senza uno scopo preciso, e posto per gli esseri umani che conosce e accoglie in sé mediante la metamorfosi. Per quel che riguarda il sapere, egli potrà conquistarlo solo ripercorrendo nel loro nitido profilo i processi che determinano la struttura più intima di ogni branca del sapere. […]

Lo scrittore è l’essere più vicino al mondo ogni volta che reca in sé il caos, e tuttavia egli sente la responsabilità di questo caos (è il tema da cui siamo partiti), non lo apprezza affatto, nel caos non si trova a suo agio, non si sente un fenomeno perché fa posto in se stesso a tante cose contraddittorie e sconnesse, quel caos lo odia e non rinuncia alla speranza di poterlo dominare per gli altri e dunque anche per sé.

Se vuole dire qualche cosa che abbia un certo valore riguardo al mondo in cui viviamo, lo scrittore non può né scansarlo né allontanarlo da sé. Ma […] non dovrà abbandonarsi alla mercé del caos e anzi […] dovrà saperlo contrastare e opporre ad esso la forza impetuosa della speranza.

Ma che cosa può essere questa speranza, e perché mai essa ha un valore soltanto se trae alimento dalle metamorfosi che lo scrittore attua in se stesso, con gli uomini del passato grazie alle sollecitazioni derivanti dalla lettura, e con i contemporanei grazie alla sua disponibilità per il mondo attuale che lo circonda?

Intanto c’è la potenza delle figure che lo hanno investito e che, una volta insediatesi in lui, non cedono il posto. Sono figure che reagiscono attraverso di lui, come se di esse fosse fatto il suo essere. Queste figure sono la sua molteplicità, articolata e consapevole, e siccome vivono dentro di lui, rappresentano la sua resistenza alla morte. Già appartiene alle qualità dei miti tramandati per via orale che essi siano detti e ridetti. La loro vivacità è pari alla loro determinatezza, ai miti è concesso di non modificarsi. Solo considerandoli uno per uno si può scoprire in che cosa consista la loro vitalità, e forse ci si è soffermati troppo poco sul perché debbano essere continuamente ripetuti.

[…] Intendo sottolineare una cosa sola: il senso di certezza e di perentorietà che si trae dal mito, esso è così e non potrebbe essere che così. Quale che sia il contenuto del mito di cui veniamo a conoscenza, per quanto inverosimile debba apparirci in altri contesti, noi nel mito non lo mettiamo in dubbio, qui esso assume una sua indeformabile e irripetibile configurazione.

Questa riserva di certezze, gran parte delle quali sono giunte fino a noi, è stata adoperata per gli abusi più peregrini. […] Il rifiuto dei miti, che è un tratto caratteristico della nostra epoca, è spiegabile appunto in base ad ogni sorta di abusi che di questi miti sono stati fatti. Essi sono visti come menzogne perché se ne conoscono soltanto le strumentalizzazioni, e scartando queste si scartano anche i miti in quanto tali. Le metamorfosi che ancora essi testimoniano sono ritenute indegne di fede. […]

Ma ciò che a prescindere dai loro specifici contenuti costituisce la peculiarità dei miti è la metamorfosi che in essi si attua. Grazie alla metamorfosi l’uomo è diventato quello che è. […] Ho detto che può essere scrittore solamente colui che sente la responsabilità […]. È una responsabilità per la vita che si sta distruggendo, e non bisogna vergognarsi di dire che questa responsabilità è nutrita dalla pietà. La pietà non ha alcun valore se viene proclamata come sentimento generico e indeterminato. Essa esige la concreta metamorfosi in ogni singolo essere che vive e che c’è. Nel mito e nelle opere letterarie che ci vengono tramandate lo scrittore apprende ed esercita la metamorfosi. Ma egli non vale nulla se non l’applica incessantemente al mondo che lo circonda. La vita che lo pervade mille volte, e di cui egli percepisce separatamente ogni singola manifestazione, non si compendia in lui in un mero concetto, ma gli dà l’energia di contrapporsi alla morte e di attingere così a una sorta di universalità.

Non può essere compito dello scrittore lasciare l’umanità in balìa della morte. Apprenderà con sgomento, lui che non si chiude di fronte a nessuno, che la morte sta assumendo in molti uomini un potere crescente.

Anche se dovesse apparire a tutti un’impresa disperata, egli a questo si ribellerà, e mai, in nessun caso, sarà disposto a capitolare. Sarà suo vanto opporre resistenza ai banditori del nulla, che sempre più numerosi allignano tra i letterati, e suo vanto combatterli con mezzi diversi dai loro. Lo scrittore vivrà, secondo una legge che non è stata tagliata su di lui, ma è lo stesso la sua legge. Eccola:

Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri.

 

 

Si indaghi sul nulla con l’unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri ad ognuno.

 

 

Si perseveri nel lutto e nella disperazione per imparare la maniera di farne uscire gli altri, ma non per disprezzo della felicità, che compete alle umane creature, benché esse la deturpino e se la strappino a vicenda.

Elias Canetti, La missione dello scrittore. Discorso tenuto a Monaco di Baviera nel gennaio 1976, trad. di Renata Colorni, in Id., La coscienza delle parole, Adelphi, 1990, pp. 381-396.

Risvolto di copetina

«In questo volume sono presentati in ordine cronologico i saggi che ho scritto fra il 1962 e il 1974. A un primo sguardo potrà sembrare un po’ strano trovare qui riunite figure come Kafka e Confucio, Büchner, Tolstoj, Karl Kraus e Hitler, catastrofi terrificanti come quella di Hiroshima e considerazioni letterarie sulla stesura dei diari o sulla genesi di un romanzo. Ma io mi sono appunto occupato man mano di queste cose, poiché solo in apparenza esse sono fra loro incompatibili. Il pubblico e il privato non sono più separabili ormai, si compenetrano a vicenda in modi che in passato sarebbero apparsi inauditi. I nemici dell’umanità hanno acquistato potere rapidamente, sono assai prossimi alla meta finale, la distruzione della terra, è impossibile non tener conto di loro e ritrarsi nella esclusiva contemplazione di modelli spirituali che ancora possono avere per noi un certo significato. Questi sono diventati più rari, molti che potevano bastare alle epoche passate non hanno in sé una ricchezza sufficiente, il campo che abbracciano è troppo limitato per poter essere utili anche a noi. Tanto più importante diventa dunque parlare dei modelli che hanno retto perfino alla mostruosità di questo nostro secolo». Così scriveva Elias Canetti presentando la prima edizione di questo volume (1974). E spiegava poi che, unica eccezione, era incluso nel libro il suo discorso su Hermann Broch, tenuto a Vienna nel 1936, soprattutto perché in esso aveva formulato i «tre comandamenti» dello scrittore. Essi ci mostrano, nella loro congiunzione, il nodo inestricabile dei rapporti fra lo scrittore e il suo tempo: esserne «l’umile e devotissimo schiavo», avere la «ferma volontà» di darne una «visione d’insieme» e, infine, opporvisi, essere «contro il suo specifico odore, contro il suo aspetto, contro la sua legge». A distanza di quarant’anni, nel discorso di Monaco che chiude questo volume, Canetti offriva poi una definizione che implica quei «tre comandamenti» e schiude l’accesso a tutta l’opera sua, oltre che a questo libro stesso: lo scrittore come «custode delle metamorfosi», erede della capacità mitica di aprire in sé un vasto spazio dove ospitare le figure più contrastanti. Figure che, per lo scrittore, «sono la sua molteplicità, articolata e consapevole, e siccome vivono dentro di lui, rappresentano la sua resistenza alla morte».

Elias Canetti – Ci sono libri che si posseggono da vent’anni senza leggerli …
Elias Canetti (1905-1994)– L’opera sopravvive perché contiene pura quantità di vita e lo scrittore coinvolge tutti coloro che sono con lui nell’immortalità dell’opera.
Elias Canetti (1905-1994) – È intrinseco alla mia natura rifiutare e odiare ogni morte. L’intima natura del potente consiste nel fatto che costui odia la propria morte, soltanto la propria però, mentre la morte degli altri gli è non solo indifferente, ma perfino necessaria.
Elias Canetti (1905-1994) – Eliot non è un vero poeta, è un giocatore di birilli. Come tanti critici d’arte, come tanti critici-critici. È diventato un poeta solo perché a lui il cuore batte meno che ad altri, e vuole compensare con la chiarezza ciò che gli manca in fatto di passione.


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Mario Quaranta – L’avvincente lettura del libro «Scritti con la mano sinistra» di Mario Vegetti che, per sostenere l’attualità del discorso filosofico, mette in campo alcune cruciali questioni.

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Coperta scritti con la mano sinistra

Mario Vegetti

Scritti con la mano sinistra

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Mario Quaranta

Note filosofiche sulla politica

 

Mario Vegetti ha pubblicato in questo breve volume i suoi scritti di politica nel senso che egli attribuisce al termine: scritti marginali rispetto alla sua attività professionale, e “a sinistra” per indicare la sua collocazione politico-culturale, fondata sulla sua “convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa i nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte”. Nella prima parte – Tra filosofia e politica (1981) –, sono selezionati scritti su problemi filosofici che scaturiscono dalla politica: nell’intervento Per un lavoro filosofico, Vegetti si sofferma sulla discussione dell’eclissi delle ideologie, della crisi della ragione, ritenute non più in grado di fornire “sistemi unitari di spiegazione del mondo”. Attraverso di esse, al vecchio razionalismo si è sostituito il “pluralismo dei segmenti della ragione”, che necessariamente sono locali, strumentali. Alla radice di queste posizioni c’è, secondo Vegetti, l’idea di una fine del marxismo e della tradizione hegeliana e, più in generale, della fine o addirittura dell’impensabilità di una rivoluzione capace di compiere un rinnovamento radicale del mondo.
Di fronte alla crisi della ragione, i filosofi si sono perlopiù dedicati alle diverse pratiche di indagini specialistiche come la sociologia, la politologia, la psicologia e via dicendo. In questo modo, però, per Vegetti la filosofia rischia di diventare un residuo storico, specie nel momento in cui prevale la razionalità scientifica come modello esplicativo della realtà. A suo giudizio, invece, occorre riconoscere che ci sono problemi che richiamano la radicalità d’indagine e la globalità di risposte che può dare solo la filosofia.
Per sostenere l’attualità del discorso filosofico, Vegetti mette in campo alcune cruciali questioni attraverso l’analisi del lessico filosofico che adoperiamo. È il caso delle categorie di sviluppo e di lavoro, presenti in vari ambiti di pensiero, come nel marxismo. La prima categoria ha prodotto una forte giustificazione del mutamento come fine in sé, consentendo di connettere scienza, tecnica, economia, società, e gli stessi valori in un plesso unitario. Un discorso analogo viene fatto sulla categoria di lavoro, generatrice di un’antropologia: l’uomo si sarebbe realizzato e liberato nella misura in cui il suo lavoro avesse trasformato il mondo. In conclusione, sostiene Vegetti, dagli anni Trenta agli anni Sessanta abbiamo assistito a una “impraticabilità” di queste categorie, centrali nel marxismo.
Vegetti si pone, infine, il problema se non si possa ricominciare il lavoro filosofico riappropriandosi di quelle parole che mantengono un senso anche dopo l’eclissi della ragione. È il caso della questione della verità, cui non possiamo rinunciare nella nostra attività discorsiva, come all’uso di un’altra parola “pericolosa e difficile”, quella di “progetto”; esse aprono la via a un terreno a cui non possiamo sottrarci, quello dei valori oggi molto incerto perché è messa in discussione proprio l’universalità dei valori. Nel saggio La polis, i filosofi, i poteri (1992), Vegetti parte dalla considerazione che le forme di vita e di pensiero sono state “tramate dal sistema diffuso dei poteri sociali, dalle istituzioni, dalle strutture dei poteri costituiti”, e sono comprensibili all’interno di quelle scelte istituzionali. Un esempio efficace: se Aristotele afferma che la schiavitù esiste per natura, ciò non vuol dire, precisa Vegetti, che fosse uno “schiavista efferato”, ma che considerava “ontologicamente” fondato tutto ciò che era “normale”, ossia dispiegato nell’esistente. Ciò significa che alla base di tale posizione c’è una scelta: la strategia epistemica dell’ordine del mondo che impone il discorso sulla schiavitù.
Con Un viaggio di mille anni. Tre questioni filosofiche (2001), Vegetti afferma che la globalizzazione, l’omologazione, il “pensiero unico”, la perdita della soggettività progettuale, non vanno imputati ad agenti come la modernità e la tecnica; fenomeni che secondo Hegel sono rinvenibili già nel mondo romano e secondo Platone nella polis greca. Ciò significa solo che siamo di fronte all’approdo, nella nostra epoca, di un lunghissimo processo storico in cui l’imperialismo e la tecnologia hanno offerto dei potentissimi strumenti di accelerazione. In conclusione, Vegetti tende anche a escludere che soffermarsi sulla tecnica e il capitalismo significhi accettarne gli esiti, perché la possibilità del conflitto e l’orizzonte della liberazione permangono come una costante nel processo storico.
La questione centrale, ieri come oggi, rimane quella di “vedere chi comanda”, consapevoli che la risposta è molto più complessa e difficile che ai tempi di Platone, dell’impero romano e di Hegel. Il dato più evidente dell’odierna situazione è il logoramento di quelle strutture di socialità e identificazione sociale che hanno creato processi di disaggregazione sociale, che sono la forma specifica del dominio e dell’assoggettamento. Sono processi che hanno trasformato il produttore in consumatore, determinando il regresso verso forme “sostitutive e arcaiche di identificazione di gruppo”. Una frantumazione, questa, che provoca una riaggregazione per etnie, per forme di religiosità fanatiche, per bande metropolitane. In conclusione, ci troviamo di fronte all’impossibilità di formare figure di soggettività sociale costruite “intorno ad una progettualità antagonista”.
Un possibile punto di ripartenza è, secondo Vegetti, la riapertura del discorso etico, ossia sulla giustizia, sui valori, sui fini, con l’obiettivo di “ricostruire il legame sociale come rapporto comunitario comunicativo e progettuale a partire dai bisogni ricchi di senso”. Egli individua in certi fenomeni di autoaggregazione sociale che sorgono a partire da fini e valori condivisi, come il femminismo, il volontariato, i movimenti anti-globalizzazione, le aggregazioni che si formano in rete; fenomeni parziali sì, ma che sono il segno che c’è un bisogno diffuso di una socialità “il cui vincolo sia formato a partire da un orizzonte comune di senso, di finalità potenzialmente universali”. Si tratta di compiere un “viaggio di mille anni” verso “lo star bene”, come dice Platone nelle ultime righe della Repubblica. Un’utopia? ma come tale legata a richieste, bisogni, progetti, e che comunque consente, secondo il filosofo greco, di “rifondare” noi stessi fin da ora.
La seconda parte del libro è dedicata a testi Tra politica e filosofia, in cui sono delineate le prospettive della politica da un punto di vista filosofico. Nell’intervento Per una politica dei comunisti. Problemi teorici (1993), Vegetti rileva in via preliminare che una teoria per la politica per i comunisti è strettamente legata all’azione organizzata, volontaria, di comunisti, onde senza il partito comunista “non esistono né le richieste di senso, né il luogo di elaborazione, né le condizioni di validazione di una teoria politica dei comunisti”. Egli individua un nesso dialettico tra le conquiste del movimento operaio e lo sviluppo capitalistico; da ciò la natura contraddittoria della socialdemocrazia nel primo Novecento, specie quella tedesca. Lo sviluppo permanente del capitalismo in una direzione poi detta della globalizzazione, ha determinato una riduzione fino alla marginalità della fabbrica, con la conseguente affermazione dei settori terziari (marketing, finanza, informazione). La conseguenza più visibile è l’isolamento sociale e culturale della classe operaia; essa è passata da portatrice di “un senso universale di emancipazione e liberazione, a difendere interessi legittimi ma parziali”. D’altra parte, due dei maggiori partiti comunisti europei, quello francese e quello italiano, hanno espresso due linee alternative: il Pcf. ha rinunciato a una egemonia complessiva e il Pds ha rappresentato un cartello di interessi secondo il modello del partito democratico americano, rinunciando a una radicale opposizione al sistema. Siamo così di fronte a un paradosso: la crisi del capitalismo rende sempre più urgente il bisogno di comunismo, “tanto che il motto di Rosa Luxenburg ‘socialismo o barbarie’ non è mai stato così attuale come oggi”.
Nel successivo intervento – L’Ottobre dopo la sconfitta. Le ragioni della Rivoluzione sovietica agli inizi del XXI secolo –, Vegetti parte da un’affermazione netta: “una sconfitta c’è stata”, e indica in modo sommario alcuni motivi ‘interni’ di fondo, dissociando l’analisi del fallimento della rivoluzione sovietica da quella degli Stati socialisti europei, nella persuasione che serie analisi di questo processo storico possano rendere possibile l’inizio di un “progetto comunista”. Infine, nella terza parte, Tra gli antichi e noi, Vegetti affronta due questioni: da un lato l’uso delle categorie marxiane nell’interpretazione del mondo antico, dall’altro le diverse interpretazioni del pensiero di Platone e la valutazione di quale aspetto di esso è ancora attuale. I progetti di trasformazione della modernità occidentale sono stati perlopiù legittimati da una riappropriazione selettiva della tradizione, ove un ruolo centrale ha avuto il pensiero di Platone, per molte e buone ragioni qui indicate. La tradizione dei testi antichi, afferma conclusivamente Vegetti, “costituisce nel suo insieme, una manifestazione esemplare di libertà e apertura di pensiero, di rifiuto del dogmatismo”.

Nota di commento

Questi scritti costituiscono un’avvincente lettura compiuta dal noto e apprezzato studioso della cultura greca, da poco scomparso, il quale ha elaborato un “programma di epistemologia materialistica”, secondo le sue stesse parole, collocandosi politicamente “a sinistra”, come afferma fin dal titolo. Gli obiettivi principali di questo libro, che raccoglie gli interventi teorico-politici di un trentennio, sono, da un lato, un esame delle ragioni che presiedono alla sconfitta del comunismo e dell’eclissi del marxismo; dall’altro, l’individuazione delle condizioni che consentano di ripristinare il valore filosofico del marxismo e rilegittimare “un’idea di comunismo”. Vegetti nota con acume che la cultura ha messo in atto un vasto apparato logico-linguistico per rendere obsoleto il linguaggio del razionalismo e del marxismo. Da ciò la necessità di ripristinare in termini nuovi il linguaggio filosofico dopo la crisi del marxismo. Egli si sofferma brevemente sull’Ottobre Rosso, consapevole che di lì occorre ripartire, perché il marxismo dominante nel corso degli anni Venti-Trenta è stato, diciamo così, la variante staliniana, indisgiungibile dall’esperienza dell’Unione sovietica. Dobbiamo riconoscere che su questo terreno gli storici e i filosofi hanno fatto poco, troppo poco; e anche le parole di Vegetti esprimono al più l’esigenza di continuare una discussione. Egli accenna più volte a una lettura della globalizzazione, senza andare oltre; a mio parere essa è decisiva per comprendere l’odierna situazione economica e culturale; è la base di ogni possibile discorso “tra politica e filosofia”.
Dopo la fine di quello che lo storico Hobsbawm ha definito il “secolo breve” (1914-1991), è maturata la coscienza di un cambiamento epocale nella storia del mondo. L’epilogo della rivoluzione russa del 1917 nell’Eurasia è stato imprevisto e imprevedibile, almeno nel modo della catastrofe gorbacioviana. Lo sviluppo economico-tecnologico sempre più rapido del mondo capitalistico anglo-americano, europeo occidentale franco-renano e giapponese, è stato il fatto macroscopico che ha sanzionato la fine del “secolo breve” e il trionfo dell’idea dell’eclissi delle ideologie.
In realtà, è avvenuto il tramonto di ideologie storiche rivoluzionarie che nel corso del Novecento erano state attratte nel marxismo-leninismo e alla traduzione pratica di esso nell’organizzazione dell’Unione Sovietica staliniana, nonché di ideologie controrivoluzionarie e totalitarie di destra. Ciò appare una conseguenza destinata ad accentuarsi e a dilatarsi rapidamente dall’enorme e diseguale accelerazione dello sviluppo economico-tecnologico avvenuto nella seconda metà del Novecento, corrispondente ai processi in atto di crescenti concentrazioni finanziario-industriali, multinazionali e sopranazionali, il cui dominio economico, e quindi politico, del mondo, si è intensificato ulteriormente nel primo decennio del nuovo Millennio. È sintomatico che il maggiore studioso della globalizzazione sotto il profilo politico, culturale, filosofico sia stato Zygmunt Bauman, di cui è stata pubblicata in Italia una delle sue prime opere, Lineamenti di una sociologia marxista (Roma, Editori Riuniti), indicando successivamente i limiti di un approccio secondo un marxismo tradizionale. È da questi contributi, a mio parere, che bisogna ripartire.

Mario Quaranta

Mario Quaranta

Mario Quaranta

Mario Quaranta, giornalista pubblicista, vive e lavora a Padova dove per oltre venti anni ha insegnato storia e filosofia nel Liceo classico Tito Livio. Ha collaborato alla Storia del pensiero filosofico e scientifico di Ludovico Geymonat con tre capitoli sulla filosofia italiana dell’Ottocento e del Novecento ed è stato tra i fondatori dell’“Istituto Geymonat per la filosofia della scienza”, dell’“Istituto Giulio Cesare Ferrari per la psicologia”. Per le Edizioni Sapere (Padova) dirige la collana “Gli amanti di Sofia”, e per A. Forni (Sala Bolognese, Bo), Riviste del Novecento (in anastatica). Ha curato l’opera omnia di Giovanni Vailati in tre volumi (Sala Bolognese 1987), e un’antologia di suoi scritti, Gli strumenti della ragione, Padova 2003. Fra i lavori più recenti: Ludovico Geymonat. Una ragione inquieta, Roma 2001; Il positivismo veneto, Rovigo 2003; Geymonat, Koyré, Husserl, Manduria 2004; I mondi di Giulio Cesare Ferrari. Psicologia, psichiatria, filosofia, Padova 2006; Nuovi paradigmi dell’educazione in una società globale, Bologna 2006, Voci del Novecento tra filosofi e scienziati, Padova 2008; Comte epistemologo, Padova 2012; Da Casati a Google. La scuola italiana fra storia e attualità, Padova 2012.

 

Norberto Bobbio un "illuminista pessimista"

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Positivismo e modernità

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Scristianizzare l'Europa

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Un secolo di filosofia

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Cultura e politica

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Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .

Mario Vegetti – Il lettore viene introdotto a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente.

Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.

Mario Vegetti – Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica.

Mario Vegetti (1937-2018) – «Scritti sulla medicina galenica». Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività.

Mario Vegetti (1937-2018) – Il tempo, la storia, l’utopia. Cè il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione della kallipolis attuata. L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile).



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Romano Màdera – Entro le coordinate del capitalismo globale la tendenza a consumare si accoppia con quella a spettacolarizzare ogni aspetto della vita.

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Sconfitta e utopia

Sconfitta e utopia

 

«Entro le coordinate del capitalismo globale la tendenza a consumare si accoppia con quella a spettacolarizzare ogni aspetto della vita (come aveva cominciato a teorizzarla Debord), sia perché attraverso lo spettacolo la tendenza al consumo colonizza un’altra rilevante parte della vita, mettendo al lavoro il tempo di non-lavoro, sia perché lo spettacolo […] tende a sganciare il valore di scambio da un uso qualsiasi, ampliando la scala dello scambio a ogni virtualità immaginabile e, parallelamente, vendendo il necessario non per le sua qualità intrinseche, ma per l’aura che la sua presentazione riesce a evocare»

Romano Màdera, Sconfitta e utopia. Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche, Mimesis, 2018.

 


Quarta di copertina

È all’interno del nodo che lega teoria del feticismo e teoria del valore che risiede la fondazione, secondo Marx, della teoria rivoluzionaria. È proprio a questo fondamento che deve mirare la critica: sotto le vesti della teoria bisogna infatti procedere, ormai, a fare i conti con il fallimento pratico di un progetto di liberazione che, in quanto tale, è rimasto soltanto una vaga intuizione. A cinquant’anni dal 1968, Romano Màdera – filosofo e psicoanalista che di quella sinistra extraparlamentare fu una delle anime (fondatore del gruppo “Gramsci” e redattore di “Rosso”) – riprende e aggiorna le considerazioni formulate in uno dei suoi più noti scritti post-sessantottini (Identità e feticismo, 1977) per osservare dalla giusta distanza cosa è rimasto di quella magnifica illusione. Oggi, in un mondo dominato da una globalizzazione che affossa le classi subalterne, viene da domandarsi se le categorie marxiane non siano divenute radicalmente inadatte, con l’insistere sui concetti di classe e di coscienza di classe, a descrivere i bisogni qualitativi che, in modo confuso, magmatico, hanno comunque risvegliato una speranza di liberazione dentro la storia contemporanea.

Romano Màdera, professore ordinario di Filosofia morale e di Pratiche filosofiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Fa parte delle associazioni di psicologia analitica AIPA e IAAP, del Laboratorio Analitico delle Immagini e della redazione della Rivista di Psicologia Analitica. È fondatore di Philo – Pratiche filosofiche e di SABOF (società di analisi biografica a orientamento filosofico). Tra le sue pubblicazioni: L’animale visionario (1999); La filosofia come stile di vita (con L.V. Tarca, 2003); Il nudo piacere di vivere (2006); La carta del senso (2012); Carl Gustav Jung (2016).



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Christopher Lasch (1932-1994) – Il capitalismo assoluto pone tutto sulla stessa linea d’orizzonte perché tutto dev’essere valore di scambio. La tolleranza diventa indifferenza, il pluralismo culturale, deprivato di giudizio etico, degenera in mero spettacolo estetico e rende inappropriato parlare di impegno etico in qualsiasi senso.

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La ribellione delle elites

La ribellione delle élite

Salvatore Bravo

Recensione al libro di Christopher Lasch,

La ribellione delle élite

 

 

Il capitalismo assoluto è il regno dell’astratto, il regno del rigor mortis contrapposto alla vita. La concretezza è spirito vitale, prassi, trasformazione sociale e personale. Il concreto è pratica antinichilistica, poiché la concretezza è il concrescere dell’universale e del particolare. Il nichilismo è astratto, è la pratica atomistica dell’irrilevanza. L’astratto è separazione: ogni elemento, ogni ente, ogni essere umano è assunto nella sua cesura col mondo. Non può essere altrimenti. Per poter usare, bisogna separare, per poter ridurre tutto a semplice valore di scambio, tra l’usante e l’usato non deve intercorrere relazione alcuna. La violenza ha le sue leggi. La razionalità calcolante astrae il plusvalore, riduce a plusvalore ogni tocco, ogni sguardo. L’impero del valore di scambio, ha trasformato in realtà lo stato di natura posto come ipotesi da Hobbes. L’astratto ha cognizione dell’attività, ma non della prassi, in quanto la seconda implica un processo di trasformazione qualitativa e coscienziale. Nell’astratto non vi è che la riproduzione sempre uguale dei rapporti di produzione alienati, sotto il suo imperio annichiliscono le culture, le lingue, i paesaggi: è un buco nero che pare inarrestabile e minaccioso. La paura della desertificazione, dell’estinzione della vita viva, non è insuperabile. Le parole, il logos sono con noi, dunque possono porci in una condizione di consapevolezza, di distanza domandante, mentre la condizione astratta non ha parole per decodificare le circostanze in cui si è gettati. Il nichilismo è una pratica e non una teoria, affermava Costanzo Preve. Il nichilismo avanza con le sue ideologie, con la scomparsa del mondo autentico per il virtuale. Christopher Lasch, in La ribellione delle élite, descrive il ripiegamento delle classi dirigenti su se stesse, la loro fuga dagli spazi della democrazia e dunque dalle responsabilità sociali. L’astrazione si palesa nel loro dorato isolamento che rende il mondo incomprensibile e nemico. La borghesia scompare e con essa scompare la coscienza infelice, la pratica della contraddizione, del negativo che crea e trasforma; al suo posto solo la squallida difesa ideologica del proprio orticello economico dalle dimensioni globali. Interessi ovunque, ma il cuore come la testa in nessun luogo. L’attività nichilistica ha il suo epifenomeno in una tolleranza che diventa indifferenza, nel multiculturalismo che diviene spettacolo. La discesa agli inferi è lastricata come via del denaro, dello sfruttamento camuffato, dell’assenza di limiti. Il capitalismo assoluto non vuole limiti etici ed estetici, è il regno di una brutale indifferenza che vorrebbe realizzare anche l’impossibile. Esso deve desimbolizzare tradizioni nazionali come paradigmi etici, tutto dev’essere posto sulla stessa linea d’orizzonte perché tutto dev’essere valore di scambio. Non resta dunque che un multiculturalismo da spettacolo, da esibizione in nome della tolleranza, del regno dell’indifferenza:

 

«Ma in assenza di standard comuni la tolleranza diventa indifferenza e il pluralismo culturale degenera in una specie di spettacolo estetico in cui possiamo anche assaporare con il gusto del conoscitore le curiose costumanze dei nostri vicini, ma non ci prendiamo il disturbo di esprimere un qualsiasi giudizio sui nostri vicini in sé, in quanto individui. La sospensione del giudizio etico, secondo la versione corrente del pluralismo, quale che sia, rende inappropriato parlare di impegno etico in qualsiasi senso. Tutto quanto possiamo permetterci, stanti le definizioni correnti di diversità culturale è l’apprezzamento estetico». [1]

 

Il giudizio etico necessita di impegno, ha inevitabili implicazioni dialettiche. La fatica del negativo rende la persona partecipe e propositiva, disegna limiti e con essi pone un confine al mercato, al valore di scambio. La tolleranza che diviene indifferenza spinge invece verso il declino della cittadinanza attiva, motiva alla semplice curiosità senza coinvolgimento. Non ci si conosce che in modo fugace ed epidermico: in tal modo il pluralismo culturale diviene la giustapposizione di persone senza relazioni. L’assenza della comunità, della conoscenza dell’altro, rende lo sradicamento un’abitudine, un comportamento reso ipostasi. Il fine è rendere impossibile ogni concretezza, ogni prassi comunitaria. L’indifferenza non crea nulla, rafforza il valore di scambio, svuota le istituzioni democratiche del loro senso: il nichilismo avanza sostenuto dall’arretramento di ogni senso di civica solidarietà. Il timore di ogni valore comune, della ricerca argomentata della concretezza universale è neutralizzata con lo spauracchio del fascismo e del nazismo in assenza di essi:

 

«La nostra società è stretta dalla morsa di due grandi paure, entrambe paralizzanti: la paura del fanatismo e quella della guerra razziale. Proprio perché abbiamo scoperto in ritardo la contingenza di tutti i sistemi di credenze siamo ossessionati dai timori che nascono quando si considerano universali delle verità parziali. In un secolo dominato dal fascismo e dal comunismo, questo terrore è comprensibile, ma ormai si può sostenere, senza essere accusati compiacenza, che la minaccia totalitaria sta svanendo». [2]

 

La paura del fascismo e del nazismo è sventolata dinanzi a coloro che cercano ed affermano la possibilità dell’universale. Tacciare di intolleranza chiunque non si unisca al coro della facile indifferenza, mostruosizzandolo, è il nuovo mezzo con cui opera la censura. Si resta in una logica dicotomica, da una parte i fascisti dall’altra i buoni e giusti per i quali la condizione attuale è il migliore dei mondi possibili. Ogni dialettica si ritira dal mondo. Il logos – che per natura è comunicazione, dialogo –, nel suo tramonto allunga le ombre sulla democrazia. C. Lasch giudica la democrazia in pericolo in assenza dell’anima che dovrebbe renderla luogo di formazione e partecipazione. La borghesia sostituita dalla finanza è il veleno mortale che la democrazia beve quotidianamente. L’indifferenza diviene livellamento culturale. La finanza non produce classi dirigenti, ma solo servi fedeli. Il livellamento verso il basso rende l’elaborazione di nuovi progetti politici improbabili, il sistema si difende livellando, non chiedendo nulla ai suoi giovani, lascia che l’anomia li formi, che gli analfabeti mediatici possano lasciare ai padroni spazi di potere sempre più ampi:

 

«Ma se si concede a ogni impulso di venire pubblicamente espresso, se si afferma sfacciatamente che “è vietato vietare”, come suonava lo slogan rivoluzionario del ’68, non ci si limita a promuovere l’anarchia: si aboliscono quelle “sacre distanze” da cui dipende in definitiva, la categoria stessa di verità. Quando ogni espressione è egualmente lecita, nulla è vero. Con la creazione di opposti … ideali di verità militanti, si sanziona la terrificante capacità dell’uomo di esprimere qualsiasi cosa». [3]

 

Lasch dunque delinea il pericolo del vuoto creato dalle classi dirigenti, dal loro fanatico culto del nichilismo finalizzato alla sola economia. La verità vuole distanza. Ovvero, affinché la verità possa trovare le condizioni di emergenza è necessario il pensiero. Il cogitare necessita che il soggetto non sia continuamente preda del mercato, sottoposto ad una stimolazione ossessiva che lo riduce a semplice attività biologica. La democrazia esige spazi in cui il mercato non deve entrare altrimenti divora l’essenza stessa della democrazia: la parola, il logos, il pensiero. Il nichilismo avanza nella forma del mercato, non vi sono contrappesi al nuovo Leviatano. La famiglia, quale luogo formativo dove si impara la comunione dei beni e la solidarietà – dunque forma di resistenza critica alla privatizzazione – è invasa dal mercato, come accade per la scuola. In assenza di contrappesi la democrazia è in pericolo:

 

«Invece di fungere da contrappeso al mercato, in sostanza, la famiglia è stata invasa dal mercato, che ne ha minato le basi».[4]

 

Le piattaforme mediatiche non possono certo sostituire i corpi medi che formano il cittadino: la parola vuole vicinanza, concretezza, solo in tal modo la parola dinanzi allo sguardo dell’altro può assumersi la responsabilità del dialogo. Le forme alternative di comunicazione, la democrazia diretta in piattaforma, risponde allo scollamento tra parola, partecipazione e responsabilità. La distanza spaziale, la scomparsa della comunicazione viva, dei corpi viventi che si confrontano senza vie di fughe facili e comode è il volano dello svaporarsi della creatività e della resistenza. Il testo di Lasch è una difesa della democrazia contro il nichilismo che la divora, che svuota le sue istituzioni a favore del deserto che sembra avanzare inesorabile.

Salvatore Bravo

[1] C. Lasch, La ribellione delle élite, Feltrinelli, Milano, 2009, pag. 75.

[2] Ibidem, pag. 77.

[3] Ibidem, pag. 180.

[4] Ibidem, pag. 83.

 



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Richard Bach – Non dar retta ai tuoi occhi e non credere a quello che vedi. Gli occhi vedono solo ciò che è limitato. Guarda con il tuo intelletto, allora imparerai come si vola.

Richard Bach 01

Il gabbiano Jonathan Livingston

 

«Il fatto è che bisogna superarli un po’ alla volta,
i nostri limiti, con un po’di pazienza.
Qui sta il trucco. […]
Non dar retta ai tuoi occhi
E non credere a quello che vedi.
Gli occhi vedono solo ciò che è limitato.
Guarda con il tuo intelletto
e scopri quello che conosci già,
allora imparerai come si vola».

R. Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston.



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Aristotele (384-322 a.C.) – Se l’intelletto costituisce qualcosa di divino rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. Per quanto è possibile, ci si deve immortalare e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi

Aristotele 004
Etica Nicomachea

Etica Nicomachea

 

Sarebbe assurdo se uno non scegliesse il modo di vivere che gli è proprio ma quello di un altro (ἄτοπον οὖν γίνοιτ’ ἄν, εἰ μὴ τὸν αὑτοῦ βίον αἱροῖτο ἀλλά τινος ἄλλου) (Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1178 a 3-4).

«Se quindi l’intelletto costituisce qualcosa di divino rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. D’altro canto, però, non si deve, in quanto esseri umani, limitarsi a pensare cose umane né, essendo mortali, limitarsi a pensare cose mortali, come si consiglia ma, per quanto è possibile, ci si deve immortalare e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi».

Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b 30-34.


Aristotele – Questa è la vita secondo intelletto: vivere secondo la parte più nobile che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – La «crematistica»: la polis e la logica del profitto. Il commercio è un’arte più scaltrita per realizzare un profitto maggiore. Il denaro è l’oggetto del commercio e della crematistica. Ma il denaro è una mera convenzione, priva di valore naturale.
Aristotele (384-322 a.C.) – La mano di Aristotele: più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; la mano costituisce non uno ma più strumenti, è uno strumento preposto ad altri strumenti.
Aristotele (384-322 a.C.) – Da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque. La nascita viene dal seme.
Aristotele (384-322 a.C.) – In tutte le cose naturali si trova qualcosa di meraviglioso.


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Mario Vegetti (1937-2018) – Il tempo, la storia, l’utopia. Cè il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione della kallipolis attuata. L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile).

Vegetti Mario 011

L’avvento della kallipolis nella storia è descritto da Platone come un evento possibile nell’infinità della distensione temporale (502 b I: en panti to chrono), ma non necessario né programmaticamente prevedibile, benché certamente intenzionato e atteso. Esso dipende piuttosto da una sorta di arresto della dialettica storica degenerativa, dall’inserzione subitanea di un asse verticale di valore sul movimento orizzontale di questa dialettica.

 

L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, di arrestare la degenerazione verso la tirannide del tempo storico-umano, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile), e risulterebbe comunque precario, appunto perché si pone in controtendenza rispetto alla dinamica dialettica di questo stesso tempo.

 

Il potere della verità. Saggi platonici

Mario Vegetti

Il potere della verità. Saggi platonici

Carocci, 2018.

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Recensioni

Franco Ferrari, Alias de il Manifesto, 20-05-2018

Alcuni stralci del capitolo 7, dove si parla

di utopia

e di kallipolis

 

Il tempo, la storia, l’utopia

 

 

La struttura compositiva dei libri VIII e IX della Repubblica pone immediatamente un problema: perché la kallipolis – cioè la forma compiuta di una società umana governata secondo giustizia – compaia all’inizio della “storia”, anziché al suo termine, come era accaduto nel primo movimento del dialogo, dal libro II al V. […] perché, dunque, la kallipolis è situata ora all’ inizio e non alla fine dei tempi?» (p. 171).

«[…] per chi attribuisca a Platone la convinzione che il progetto utopico sia in qualche misura praticabile – risulta importante una seconda funzione argomentativa. Nel libro VI Socrate aveva indicato tre possibili dimensioni temporali per l’esistenza della kallipolis: «nell’infinito tempo passato, o anche oggi in qualche regione barbarica […] oppure se accadrà nel futuro» (499C-d). Si trattava ora di proteggere la prima ipotesi – come vedremo tutt’altro che irrilevante – da una possibile obiezione: se la città dell’utopia è esistita nel passato, perché oggi non esiste più? E reciprocamente, la sua attuale inesistenza non è prova che essa non è mai davvero esistita? A questo risponde il libro VIII: se anche fosse esistita nel passato, la kallipolis non avrebbe potuto durare indefinitamente nel tempo, e la sua scomparsa non dimostra quindi la sua impossibilità.
Questo argomento è rilevante perché in 592.a Glaucone avrebbe seccamente respinta la seconda possibilità evocata da Socrate (che la città giusta esista ora in qualche luogo della terra). Quanto alla dimensione futura […] costituisce, come vedremo, uno dei maggiori problemi interpretativi dei nostri due libri.
Torniamo però all’ipotesi di una kallipolis formatasi in un remoto passato, e poi inevitabilmente estinta nel corso del tempo. Essa va situata in un contesto più ampio e trasversale, che riguarda in Platone il tema ricorrente del tempo delle origini» (p. 172).

«Il tempo propriamente umano inizia […] con l’esplosione della crisi, del disordine, del conflitto – insomma, dal punto di vista antropologico, della pleonexia. Solo a partire di qui vengono prodotti i saperi, la filosofia, la politica: insomma le tecniche umane per governare il disordine dopo la catastrofe delle origini. E con esse nascono […] le figure destinate a quesro governo del disordine: appunto il filosofo, il politico, il legislatore.
La kallipolis della Repubblica, in quanto realizzazione compiuta di questo governo del disordine, che consegue finalmente un controllo politico e psicologico sulla pleonexia, appare dunque collocata logicamente non all’inizio ma al termine del processo, come pieno dispiegamenro della condizione storico-umana. Tuttavia, se la si considera dal punto di vista della crisi, essa può anche apparire come un inizio, in quanto questa stessa crisi può venir pensata come un effetto della sua disgregazione, della sua instabilità e del suo fallimento nel compito di governare il disordine. Questo non comporta ancora, almeno per quanto riguarda la Repubblica, una visione ciclica del tempo storico-umano, perché la stessa realizzazione della kallipolis non è che una possibilità bensì latente in questo tempo, ma tutt’altro che necessitata da esso, che potrebbe dunque permanere nel disordine delle sue origini.
Lo spostamento di prospettiva, che disloca la città dell’ordine giusto non alla fine ma all’inizio del tempo umano, diventa invece, nel linguaggio mitico del Timeo, una «verità» (26C7-d I) che colloca senza incertezze una kallipolis, dai tratti simili se pure contraffatti rispetto a quella della Repubblica […] novemila anni prima di Socrate e Crizia (la sua distruzione sarebbe qui stata dovuta a un cataclisma naturale, e non a una instabilità strutturale).
Né l’ambigua collocazione della kallipolis della Repubblica (alla fine ma anche all’inizio del tempo), né la dislocazione mitica di quella del Timeo in un’epoca remota, possono tuttavia fare di entrambe un’imitazione (mimema) del regno di Crono […].
Se mai, c’è un segnale dell’ambiguità della collocazione della kallipolis della Repubblica sul tranquillo crinale che separa precariamente, con il suo controllo etico-politico, due fasi del disordine nella storia umana» (p. 174).

«Nel sorprendente ricongiungimento fra i due estremi del libro VIII, che salda il principio e la fine della “storia” della degenerazione etico-politica, è forse da leggere un’indicazione precisa: il governo del disordine, una volta che sia eventualmente conseguito, reca in sé un fattore di instabilità perché tende a sostituire la tensione “filosofica” verso l’ordine con forme di condizionamento educativo intese certo a favorirne il consolidamento, ma che sono d’altra parte incapaci di riattivarne il senso, e dunque impotenti a controllare il risorgere di quei desideri pleonectici il cui orizzonte compiuto è il massimo disordine della tirannide.
La decisione platonica di collocare la kallipolis nel libro VIII all’inizio del tempo storico-umano ha dunque anche questo significato: di mostrare che la sua eventuale realizzazione, come compimento dello sforzo di governo del disordine, può costituire il fine di questo tempo, ma certamente non la sua fine (non più di quanto un altro operatore d’ordine, il demiurgo del Timeo, possa determinare la fine dell’influenza caotica della “necessità” nel mondo)» (p. 175).

«L’instabilità del governo del disordine è resa inevitabile dal suo stesso inserimento nel continuum spazio-temporale, e la sua deformazione inizia quindi nel momento stesso in cui il progetto utopico – la cui esigenza è d’altronde imposta dallo stesso disordine dei tempi – passa dal piano del logos a quello degli erga. Questo è il senso del discorso delle Muse con cui si apre il libro VIII: un discorso certamente scherzoso, […] ma non per questo privo di due assunti di grande importanza teorica. Il primo è nettamente formulato all’inizio del logos: «è difficile che venga sovvertita una città così costituita, ma poiché per ogni cosa che è nata vi è distruzione, neppure una simile costruzione resisterà per tutta la durata del tempo, ma si dissolverà» (546a).

Il secondo assunto, che chiarisce e giustifica il primo, emerge dal senso complessivo del discorso sul “numero geometrico”: è impossibile imporre alla dimensione spazio-temporale un compiuto controllo perfettamente razionale (quindi matematizzabile), quale invece è possibile per il campo dell’ontologia eidetica (a modello appunto geometrico), il cui ordine ha peraltro una funzione paradigmatica rispetto agli sforzi di governare quella dimensione (cfr. VI 500 c-d).

La deformazione inevitabile […] non riguarda soltanto la qualità etico-politica della società umana, ma anche la stessa qualità “biologica” del suo gruppo dirigente, secondo il nesso circolare di perfettibilità dell’umano che era stato proposto dall’ “eugenetica” del libro V.

Alla luce di questi due assunti generali, il libro VIII descrive in modo più determinato le ragioni che rendono inevitabile la crisi della kallipolis realizzata: una crisi che non può non avere inizio da quella del suo gruppo dirigente, secondo un assioma costante della teoria politica platonica (545d, cfr. III 415c, V 465b). Nonostante la vaghezza del discorso platonico (547a-b) sembra che questa crisi inizi con un conflitto tra il ceto di governo “filosofico” e quello “militare”, o fra elementi degenerati presenti in entrambi. Chiari sono invece i motivi e la soluzione del conflitto: c’è una spinta incoercibile alla riprivatizzazione («spartirsi terra e case privatizzandole»), e all’asservimento del terzo ceto («asservire, riducendoli alla condizione di perieci e di servi, coloro che prima erano da loro difesi come uomini liberi»): il ceto di governo assume dunque il monopolio esclusivo della ricchezza, del potere e della guerra (547c).
Che la crisi della kallipolis assuma questa forma specifica non dipende soltanto dai principi generali formulati nel discorso delle Muse, ma più specificamente […] dalla dinamica logico-genetica della sua formazione. Essa aveva avuto infatti origini violente, fondata com’era sulla rieducazione di un ceto militare comparso nella città della pleonexia; e il suo gruppo dirigente era stato costituito sulla base di un accordo fra l’elemento razionale (logistikon) e quello collerico-aggressivo (thymoeides), la cui fedeltà al primo, nonostante ogni sforzo di condizionamento educativo “indelebile”, non poteva che risultare strutturalmente precaria» (p. 176).

«La tirannide è la forma inevitabile della degenerazione tanto psicologica quanto politica perché essa rappresenta l’espressione limite, la massima potenzialità, di quella pleonexia da cui ha origine la crisi della kallipolis (riappropriazione della proprietà privata, asservimento del terzo ceto, competizione per il potere e la ricchezza). L’orizzonte della tirannide, ancor prima della sua eventuale realizzazione compiuta, è dunque implicito in ogni fase delle costituzioni degenerate, e nei tipi d’uomo loro analoghi, e rappresenta dialetticamente la loro verità, anche se in forma solo incoativa» (p. 180).

«E qual è allora, se non appartiene al ciclo, il tempo proprio dell’utopia? […] Esistono in Platone due distinte concezioni della temporalità, quella cosmica e quella storico-umana, cui se ne aggiunge […] una terza, quella dell’utopia. […] La seconda dimensione è quella del tempo storico-umano, che si instaura a partire dal distacco dalle origini mitiche: è questo il tempo del disordine, della degenerazione (morale, politica e anche biologica), ma al tempo stesso il tempo dell’esigenza dell’ordine, dello sforzo deliberato di ricostruzione. Questa dimensione non è in alcun modo ciclica, ed è strutturata dal movimento dialettico delle contraddizioni latenti nelle forme politiche da un laro, nei tipi psicologici dall’altro.
Cè, infine, il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione del progetto d’ordine, della kallipolis attuata. Va sottolinearo che tuesto tempo non appartiene alla seguenza dialettica del tempo storico-umano, né la Repubblica lo presenta come il telos di questa sequenza (se mai soltanto come l’ipotesi di un’origine che la rende comprensibile). L’avvento della kallipolis nella storia è descritto come un evento possibile nell’infinità della distensione temporale (502bI: en panti to chrono), ma non necessario né programmaticamente prevedibile, benché certamente intenzionato e atteso. Esso dipende piuttosto da una sorta di arresto della dialettica storica degenerativa, dall’inserzione subitanea di un asse verticale di valore sul movimento orizzontale di questa dialettica. Una ricognizione attenta del linguaggio platonico relativo alla temporalità dell’utopia lo può indicare chiaramente.
La prima condizione di realizzabilità dell’utopia è, si sa, l’intervento dei filosofi nella politica della città. Ma che la natura filosofica si salvi nelle città della storia è impossibile “a meno che un dio si trovi a soccorrerla” (492a5), grazie insomma a un “favore divino” (493aI). Che poi i filosofi così salvati siano indotti a occuparsi della politica delle città dipende da “una fortuita necessità” (499b5); questo non accadrà, in altri termini, “a meno che non sopravvenga una qualche sorte divina” (592a8: theia tyche). Anche così, la loro azione politica potrà avere successo solo grazie a “circostanze propizie sopravvenute per una sorte divina” (Ep. VII 327e 3-5).
La condizione di possibilità alternativa (la conversione alla filosofia dei potenti o dei loro figli) viene descritta con lo stesso linguaggio. Essa avrà luogo se “per una gualche ispirazione divina sorga […] un vero amore per la filosofia” […]. In altri termini, i potenti possono diventare filosofi “per una sorte divina” (Ep. VII 326br3). […] Che cosa ci dice questo linguaggio ricorrente di tyche, moira, kairos, ananche, theion? Il suo primo significato è senza dubbio che le condizioni di realizzabilità della kallipolis non appartengono al corso normale della storia, che il suo avvento non ne costituisce il telos predeterminato. Esso può soltanto essere dovuto al verificarsi fortuito e istantaneo di circostanze propizie e cogenti, il cui carattere straordinario ed eccezionale (tanto nel senso della rarità quanto in quello del valore) è sottolineato dal ricorso al termine theion (che non può in alcun caso indicare un disegno provvidenziale, una pronoia divina, perché essa non avrebbe evidentemente il carattere fortuito di tyche). L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, di arrestare la degenerazione verso la tirannide del tempo storico-umano, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile), e risulterebbe comunque precario, appunto perché si pone in controtendenza rispetto alla dinamica dialettica di questo stesso tempo.

Mario Vegetti, Il potere della verità, Carocci editore, 2018.

Il capitolo Il tempo, la storia, l’utopia di questo libro è già stato pubblicato in Platone, La Repubblica, traduzione e commento a cura di M. Vegetti, vol. II, VI-VII, Bibliopolis, Napoli 2003.

 


Coperta 301

 

Mario Vegetti

Scritti sulla medicina galenica

ISBN 978-88-7588-215-0, 2018, pp. 464, Euro 35 .

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Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività. La selezione dei saggi qui pubblicati è stata realizzata dall’Autore negli ultimi mesi della sua vita. A causa della sua morte, avvenuta il giorno 11 marzo 2018, l’Autore non ha potuto rivedere le bozze.

Questo libro, cui l’Autore teneva tanto, ci consente di mantenere vivo il ricordo anche di questa parte della sua opera; ecco dunque il motivo per cui siamo lieti, insieme alla sua famiglia, di offrire ai lettori, soprattutto a quelli più giovani, la presente raccolta. Per la quale, innanzitutto, dobbiamo ringraziare Mario.


Sommario

 

Nota preliminare di Luca Grecchi

 

Galenus

Introduzione a Galeno

***

Tradizione e verità. Forme della storiografia filosofico-scientifica
nel De placitis Hippocratis et Platonis di Galeno

***

I nervi dell’anima

***

Enciclopedia ed antienciclopedia: Galeno e Sesto Empirico

***

Galeno e la rifondazione della medicina

***

L’épistémologie d’Érasistrate et la technologie hellénistique

***

La psicopatologia delle passioni nella medicina antica

***

Historiographical strategies in Galen’s physiology
(De usu partium, De naturalibus facultatibus)

***

De caelo in terram. Il Timeo in Galeno
(De placitis Hippocratis et Platonis, Quod animi mores corporis temperamenta sequuntur)

***

Il confronto degli antichi e dei moderni in Galeno

***

Galeno

***

Corpo e anima in Galeno

***

Corpo, temperamenti e personalità in Galeno

***

Galeno, il “divinissimo” Platone e i platonici

***

Fra Platone e Galeno: curare il corpo attraverso l’anima, o l’anima attraverso il corpo?

***

I nuovi testi di Galeno: tra epistemologia e storia della cultura

***

 

Indice dei nomi


Coperta scritti ippocratici grande

Mario Vegetti

Scritti sulla medicina ippocratica

indicepresentazioneautoresintesi

ISBN 978-88-7588-225-9, 2018, pp. 416, uro 30

I saggi raccolti in questo volume ripercorrono gli ultimi cinquant’anni di ricerca ippocratica. Gli entusiasmi iniziali, ben motivati dalla “scoperta” di un grande territorio del sapere scientifico fino ad allora relativamente inesplorato, dei suoi metodi e della sua efficacia terapeutica, hanno via via ceduto in parte il campo a un più equilibrato atteggiamento critico-storico. Nel suo insieme, una lettura di questi testi può continuare ad offrire un panorama intellettuale utile a comprendere le coordinate metodiche e sociali che hanno consentito la comparsa di uno dei fenomeni più rilevanti dell’antica tradizione scientifica dell’Occidente. I saggi sono disposti in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni al volume ippocratico (1964 e 1973) che sono poste al termine per il loro carattere riassuntivo.

Sommario

 

Introduzione

Technai e filosofia nel perì technes pseudoippocratico

Il De Locis in Homine fra Anassagora ed Ippocrate

Teoria ed esperienza nel metodo ippocratico

La medicina ippocratica nella cultura e nella società greca

Nascita dello scienziato

Legge e natura nel De aëre ippocratico

Kompsoi Asklepiades.
La critica di Platone alla medicina nel III libro della Repubblica

Empedocle “medico e sofista”

Saperi terapeutici: medicina e filosofia nell’antichità

Le origini dell’insegnamento medico

Il malato e il suo medico nella medicina antica

Il pensiero ippocratico

La questione ippocratica

Nuovi orizzonti di ricerca

Indice dei nomi



 
Luca Grecchi – Mario Vegetti: un ricordo personale e filosofico
Silvia Fazzo – Grazie Mario Vegetti! Per la lucidità luminosa delle tue intuizioni. Amavi la vita per tutto ciò che ha di più vero. Hai formato una intera generazione di allievi e di allievi degli allievi.

 

logo casa della cultura

ADDIO A MARIO VEGETTI

Ricordano l’amico e il protagonista della Casa della Cultura: Ferruccio Capelli, Mauro Bonazzi, Fulvio Papi, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Salvatore Veca


Ricordo di Mario Vegetti – Rai Filosofia

 Addio a Mario Vegetti, l’utopia di Platone e i suoi chiaroscuri – La Stampa

Mario Vegetti,  filosofo studioso di Platone – Corriere della Sera


Altri libri

di Mario Vegetti

 

 

 

289 ISBN

Mario Vegetti

Il coltello e lo stilo

Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica

Petite Plaisance, ISBN 978-88-7588-228-0, 2018, pp. 192, Euro 20

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«La stagione culturale cui appartiene Il coltello e lo stilo va certo messa in contesto ma non può venire rimossa né esser soggetta ad alcuna damnatio memoriae; può anzi darsi che essa continui a restarci indispensabile, tanto sul piano intellettuale quanto appunto su quello dell’ethos».

Mario Vegetti

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Premessa alla nuova edizione del 2018

 Il coltello e lo stilo fu pubblicato nella primavera del 1979. Fin dalla sua comparsa, suscitò un vivace interesse, non solo, e non tanto, fra gli specialisti di antichistica, quanto presso un pubblico composito di lettori che frequentavano i territori che allora si chiamavano “cultura critica”: epistemologia, antropologia, psicoanalisi, ed eventualmente movimenti come quello femminista e animalista. Ne uscirono naturalmente diverse interpretazioni del senso e degli intenti del libro (dalla critica irrazionalistica ai fondamenti “violenti” della scienza, a una rivisitazione moderata di Foucault).
Nell’introduzione all’edizione del 1996, riprodotta in questo volume, ho tentato di delineare le coordinate culturali entro le quali Il coltello e lo stilo era stato concepito, e di indicare un punto di vista d’autore sulla collocazione del libro. Ha fatto però bene l’editore a ristampare qui la prima edizione, quella del 1979. Da un lato, questo restituisce ai primi lettori la possibilità di un rinnovato incontro con il testo; dall’altro, e soprattutto, consente a nuovi lettori l’accesso alla forma originale del libro ormai da gran tempo esaurita. Non è immotivato pensare che questa ristampa possa apparire a qualcuno come una riscoperta, e ridestare almeno in parte l’interesse e la discussione così vivaci tanti anni or sono. Se così fosse, potremmo augurare “bentornato” al Coltello e lo stilo.

Mario Vegetti

Febbraio 2018



Quarta di copertina

 

008   Il coltello, makhaira: che incide il corpo dell’animale sull’altare del sacrificio, nella bottega del macellaio, sul tavolo dello scienziato anatomista. La conoscenza dell’animale, ottenuta grazie al coltello anatomico, fonda nella scienza greca al tempo stesso una classificazione, a partire da Aristotele, e una medicina razionale, che culmina in Galeno. La ragione scientifica antica segue il trattato della dissezione anatomica: essa è in grado di classificare le varietà dell’umano – la donna, il barbaro, lo schiavo – con la precisione e la verità di cui l’anatomia è modello. Seguendo il percorso della ragione anatomica, questo libro tenta al tempo stesso di ricostruire un’anatomia della ragione, nei modi della sua genesi e della sua crescita: la traccia di una polarità fra homo sapiens e homo necans, fra il coltello dell’anatomo e lo stilo con cui si scrivono i trattati della scienza. Lo stilo, grapheion – cioè la scrittura, il trattato, la scuola: con questi strumenti e in questi luoghi il sapere della zoologia, dell’anatomia, dell’antropologia si organizza, si accumula, si predispone al commento. Il coltello e lo stilo segnano dunque uno del tragitti lungo i quali si è durevolmente snodata la razionalità scientifica europea.

 

 

Indice

Premessa alla nuova edizione

Introduzione alla seconda edizione

Nota preliminare

Avvertenza

Capitolo I
Animale, vivo o morto
Classificazione e razionalità scientifica

***

Capitolo II
Neutralizzazioni
Verità dell’anatomia, genesi della teoria

***

Capitolo III
Classificare gli uomini
Che cos’è un uomo
Che cos’è un vero uomo
Razze di uomini
Un animale lunare

***



291 ISBN

Mario Vegetti

Tra edipo e Euclide. Forme del sapere antico

ISBN 978-88-7588-227-3, 2018, pp. 208, Euro 20

indicepresentazioneautoresintesi

 

L’Edipo re di Sofocle e gli Elementi di Euclide costituiscono in un certo senso i confini entro i quali si svolge il percorso della razionalità antica. La tragedia del V secolo è anche un conflitto drammatico di saperi: quello profano e indagatore di Edipo, quelli sacri di Apollo e Tiresia, quello critico e sfuggente di Giocasta. All’opposto, il trattato euclideo propone l’idea di una scienza pacificata, senza conflitti e soggettività, tutta affidata al potere della dimostrazione. Tra questi limiti, il libro indaga una costellazione di forme del sapere antico, con i loro valori antropologici: dalle metafore politiche della medicina ippocratica a un oggetto scientificamente disturbante come la scimmia, dal problema del bambino cattivo nell’antropologia stoica alla zoologia immaginaria di Plinio. Il confronto tra l’idealismo di Galeno e la sfida materialistica proposta dalla medicina metodica, e l’indagine sugli stili epistemologici della scienza ellenistica concludono i saggi raccolti nel volume.

 

Sommario

 

Introduzione

Premessa

Avvertenza

La questione dei metodi: una nota preliminare

Forme del sapere nell’Edipo re

Metafora politica e immagine del corpo nella medicina greca

L’animale ridicolo

Passioni e bagni caldi. Il problema del bambino cattivo nell’antropologia stoica

Lo spettacolo della natura. Circo, teatro e potere in Plinio

Modelli di medicina in Galeno

Una sfida materialistica. La polemica di Galeno contro la medicina metodica

La scienza ellenistica: problemi di epistemologia storica

Indice dei nomi

 


Coperta cuore sangre cercello

Paola Manuli – Mario Vegetti

Cuore, sangue e cervello.
Biologia e antropologia nel pensiero antico. In Appendice:
Galeno e l’antropologia platonica.

indicepresentazioneautoresintesi

La questione del ruolo da assegnare nell’organismo al cuore, al sangue e al cervello, e in particolare di stabilire a quale, o quali, di essi tocchi il rango di principio egemone, la signoria nell’organismo stesso, sta al centro di una delle vicende più tormentate della storia della biologia greca. Il suo interesse va oltre quello della genesi di una teoria biologica, l’encefalocentrismo, che pure avrebbe consegnato al sapere occidentale tutta una serie di certezze durevoli e di importanza fondamentale. Questa vicenda è un caso tipico, metodologicamente esemplare delle questioni connesse alla storia della scienza antica, e più in generale alle fasi di gestazione di una teoria scientifica: in essa elementi e vettori exstrascientifici si compongono in un intreccio indissolubile con i “dati” positivi e pilotano la stessa costruzione della teoria.
Qui ogni decisione presa all’interno del discorso biologico circa il “principio” dell’organismo interagisce con le esigenze di una psicologia e di una antropologia le quali, di norma, si costruiscono al di fuori di quel discorso, e in ogni caso rappresentano istanze ideologiche molto più generali, concezioni complessive sull’uomo, sulla società, sul mondo.

Riccardo Chiaradonna – «Cuore, sangue e cervello» è insieme una ricerca sulle teorie mediche antiche e sui loro fondamenti metodologici. ed epistemologici


Coperta scritti con la mano sinistra

Mario Vegetti

Scritti con la mano sinistra

indicepresentazioneautoresintesi

Questi testi si caratterizzano per la loro coerenza, nei suoi aspetti di insistenza e resistenza. Insistenza, nel senso di continuare tenacemente a porre problemi e domande, senza variare disinvoltamente il punto di vista da cui l’interrogazione viene posta, rifiutando la convinzione secondo la quale sconfitte storiche sono di per sé la prova di errori nella teoria. E resistenza: che significa accettare i mutamenti imposti dalla riflessione e dalle cose stesse su cui ci si interroga, ma invece rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”; restare fedeli, insomma, a ciò che di noi hanno fatto la nostra storia intellettuale e morale e la nostra collocazione.
Scritti con la mano sinistra, appunto. Nel doppio senso che si tratta, da un lato, di scritti marginali, parerga, rispetto al mio impegno professionale di studioso della filosofia antica; dall’altro, di scritti che rispecchiano più direttamente la mia collocazione politica, la mia presa di partito (la scelta “da che parte stare”). “A sinistra”, dunque. Una posizione alla quale mi consegnano la mia tradizione familiare, il mio percorso intellettuale e morale, la mia convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa il nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte. E la stessa tensione razionale, lo stesso sforzo di comprensione e argomentazione, ispirano e sorvegliano (o almeno dovrebbero sorvegliare) sia il lavoro di ricerca sia la “presa di partito” che coinvolge l’uomo prima che il ricercatore.
Il libro è diviso in tre parti. Nella prima, Tra filosofia e politica, si discutono alcune problematiche filosofiche rilevanti dal punto di vista di interrogazioni che vengono, in senso lato, dalla politica. Nella seconda, Tra politica e filosofia, l’oggetto di indagine sono le prospettive della politica considerate da un punto di vista filosofico. Nella terza, Tra gli antichi e noi, si torna ad una riflessione sulla società e il pensiero dell’antichità dal punto di vista delle prospettive filosofico-politiche delineate.
Grandi interrogativi, dunque, per piccoli scritti, nell’intento di tenere aperto lo spazio dell’incertezza, di riproporre l’urgenza della riflessione, resistendo sia al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero, sia alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Non si tratta di un compito esclusivo del filosofo, e tanto meno dell’antichista, perché esso coinvolge la responsabilità morale e intellettuale di ognuno.



Marxismo e società antica, Feltrinelli, 1977

Marxismo e società antica, Feltrinelli

Opere di Ippocrate, UTET

Opere di Ippocrate, UTET

Ippocrate, Antica Medicina, Rusconi, 1998

Ippocrate, Antica Medicina, Rusconi

Introduzione alle culture antiche. Vol 2. Il sapetre degli antichi, Bollati Boringhieri 1992

Introduzione alle culture antiche. Il sapetre degli antichi, Bollati Boringhieri

Introduzione alle culture antiche. Vol. 3. L'esperienza religiosa antica, Bollati Borinchieri 1992

Introduzione alle culture antiche. L’esperienza religiosa antica, Bollati Boringhieri

Le opere psicologiche di Galeno, Bibliopolis

Le opere psicologiche di Galeno, Bibliopolis

Platone, La Repubbluca, Bibliopolis

Platone, La Repubblica, Bibliopolis

La Rapubblica di Platone nella tradizione antica, Bibliopolis

La Rapubblica di Platone nella tradizione antica, Bibliopolis

Galeno, Nuovi scritti autobiografici, Carocci

Galeno, Nuovi scritti autobiografici, Carocci

Dialoghi con gli antichi, Academia

Dialoghi con gli antichi, Academia

Platone, La Repubblica (Libri V-VI-VIII), Radar, 1969

Platone, La Repubblica (Libri V-VI-VIII), Radar

Platone, La repubblica, Rizzoli

Platone, La Repubblica, Rizzoli

Platone, Reoubblica, Libro 11, Lettera XIV. Socrate incontra Marx. Lo straniero di Treviri, Guida 2004

Platone, Reoubblica, Libro 11, Lettera XIV. Socrate incontra Marx. Lo straniero di Treviri, Guida

Platone. Las Repubblica, Laterza 2007

Platone. La Repubblica, Laterza

Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore

Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore

Polis e economia nella Grecia antica, Zanichelli

Polis e economia nella Grecia antica, Zanichelli

L'uomo e gli dei, Kindle Edition

L’uomo e gli dei, Kindle Edition

Guida alla lettura della Repubblica di Platone,Laterza, 2007

Guida alla lettura della Repubblica di Platone, Laterza

Quindici lezioni su Platone, Einaudi 2003

Quindici lezioni su Platone, Einaudi

Libertà e democrazia. La lezione degli antichi e la sua attualità, Ed. Casa della Cultura

Libertà e democrazia. La lezione degli antichi e la sua attualità, Ed. Casa della Cultura

Aristotele. Metafisica. Antologia, La Nuova Italia, 2001

Aristotele. Metafisica. Antologia, La Nuova Italia

Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi 2016

Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi

L'etica degli antichi, Laterza, 2010

L’etica degli antichi, Laterza

«Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento, Carocci 2016

«Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento, Carocci

Chi comanda nella città. I greci e il potere, Carocci 2017

Chi comanda nella città. I greci e il potere, Carocci

 


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Salvatore Bravo – Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto, con la sua promessa dell’Eden restituisce soltanto un corpo esausto e violento, come nel mito della caverna di Platone. Si immilla la frustrazione. Il capitalismo oggi esige che l’uomo lotti contro se stesso oltre che contro gli altri.

Platone_Mito della caverna

caverna

Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto


Sommario

Corpo, feticcio idolatrato

Necessità della mediazione simbolica e sua elusione

La promessa dell’Eden restituisce solo un corpo esausto

Si immilla la frustrazione

Il capitalismo oggi esige lotta contro se stessi, rancore rivolto contro di sé

I pensieri devono essere inquieti, pensieri di distruzione e reificazione

La violenza è diventata spettacolo

La violenza è legalizzata

Il corpo dello studente come tempio imprenditoriale

Corpo che vive nel sogno dopato dell’immagine: corpo divenuto violento

Corpo legato ai ceppi come nel mito della caverna di Platone

Körper o Leib


Illustrazione del mito platonico della caverna in un'incisione del 1604 di Jan

Illustrazione del mito in un’incisione del 1604 di Jan Saenredam.
I prigionieri immobilizzati davanti al muro, incapacitati nel guardare indietro,
fissano la parete e vedendo delle ombre,
in realtà modellini proiettati dalla luce di una torcia,
credono che esse siano vere figure umane.


 

 

Corpo,  feticcio idolatrato
Il tramonto del pensiero è il tramonto dell’Occidente. La genealogia del tramonto è la decadenza del corpo. Negli ultimi decenni assistiamo all’esaltazione del corpo, divenuto feticcio idolatrato. Il corpo vissuto è gradualmente anestetizzato dalla violenza delle immagini e degli stimoli: da quelli acustici ai gustativi. È un tripudio di stimolazioni. Non vi è però nulla di dionisiaco nella bacchiche foglie dell’Occidente, ma solo la disintegrazione del corpo vissuto.

Necessità della mediazione simbolica e sua elusione
Gli stimoli, per poter divenire pensiero, come pure processo di buone pratiche politiche, necessitano della mediazione simbolica, del tempo della sedimentazione, tempo in cui il corpo vissuto si ascolta vivere, dà voce umana alle mere stimolazioni nervose, nomina le immagini per concettualizzarle. Sono passaggi lenti e genealogici, che portano alla riconfigurazione del corpo vissuto. Se si parte dall’assunto spinoziano-nietzscheano che il pensiero è il corpo vissuto, per cui ogni appello a ipostasi come l’anima, la coscienza, il corpo, ed annessi dualismi non sono che esemplificazioni rassicuranti, comprendiamo la decadenza teoretica dell’Occidente.

La promessa dell’Eden restituisce solo un corpo esausto
Il corpo dell’Occidente – nell’epoca del capitalismo assoluto – è un corpo tormentatissimo, sottoposto ad una violenza perenne. Il peso di questa continua violenza molto spesso non è avvertito poiché l’azione perenne del potere economico sul corpo non è mai sospesa: si vive inseguiti, agguantati dal mercato, il quale promette l’Eden e restituisce un corpo esausto, spossato per il continuo saccheggio sensoriale.

Si immilla la frustrazione
Corpo efficiente, competitivo, i cui pori sono la porta d’ingresso della violenza capitalistica. Corpo che non deve invecchiare, deve vivere nel sogno dell’eterna giovinezza che si materializza con l’attività cosmetica e chirurgica. Corpo da incubo perché angoscia e toglie il respiro: il paradiso non è mai raggiunto, ma è sempre un nuovo desiderio indotto, spostato in avanti. Corpo che guarda il sogno realizzato degli altri corpi. Lo sguardo diventa bilioso e rancoroso. Le parole che corrono lungo la stimolazione perenne “Godimento infinito” “Senza limiti” sono il sedimento di pensieri anticomunitari e crematistici. Corpo in attività perenne in cui istinti e passioni si frammentano in una temporalità caotica e cronologica. È il tempo della successione-ripetizione. Il corpo – proiettato nell’orizzonte degli istinti e della loro soddisfazione fuori di sé, nel tempo che verrà – vive l’esperienza del godimento frustrato una, dieci, cento, mille volte … Si immilla la frustrazione.

Il capitalismo oggi esige  lotta contro se stessi, rancore rivolto contro di sé
Se il pensiero è esperienza del corpo, in questo contesto, che non necessita dei grafici di sociologi o di altri professionisti dell’analisi del Capitale, i pensieri conseguenti non sono che rabbia, rancore, pensieri non liquidi ma vettori dell’atomismo sociale.
Il ritorno ad una condizione hobbesiana realizzata: tutti contro tutti. Ma, dovremmo aggiungere: ognuno contro se stesso.
La grande novità del capitalismo assoluto, della violenza che si espande, e che pervade capillarmente ogni spazio, è la lotta contro se stessi, il rancore che si rivolge contro se stessi. Non si è mai all’altezza delle richieste del mercato, dell’ideale di perfezione corporale dell’esigente mercato che – mentre promette di venderti il paradiso – in realtà ti fa comprare l’inferno. Non una volta, ma ogni giorno, ogni ora, il tempo diviene il luogo degli inferni quotidiani.

I pensieri devono essere inquieti, pensieri di distruzione e reificazione
Dietro la volgarità, l’aggressività dei cattivi pensieri che abitano la cronaca, non vi è che la violenza del capitale che ha fatto del corpo vissuto un veicolo del corpo violenza, i cui pensieri non sono che il riflesso della caverna del Capitale assoluto in cui vive il corpo, della gabbia d’acciaio che stringe le sue maglie. Gli artigli del capitale stringono ed il corpo – che voleva godere – soffre, diviene esso stesso violenza, non ha che pensieri violenti. L’affermazione secondo cui il corpo non è che la tomba dell’anima, è pienamente realizzata. Il corpo è divenuto caverna, e nel buio della caverna i pensieri non possono che essere inquieti, pensieri di distruzione e reificazione, che si materializzano in atti linguistici, nell’incapacità di accettare la sconfitta, l’errore, il limite, e che tendono a realizzarsi nella soppressione dell’altro.
Corpo vorace eppure fragile, che trasmette al mondo la violenza che ha subito. Le cronache ci presentano lo stupore della violenza diffusa, crimini sempre più sadici: la violenza è distruzione del corpo di coloro che hanno negato la soddisfazione del sogno.

La violenza è diventata spettacolo
Non vi sono analisi teoretiche, non si utilizzano categorie del pensiero filosofico per capire: si invoca sempre più controllo, senza capire.
Anzi, la violenza è diventata spettacolo, attrae telespettatori che vogliono vivere il brivido del sensazionale; si vendono merci per acquietare i corpi squassati dall’eterna insicurezza, dal timore di essere aggrediti. Si guarda il mondo attraverso una feritoia, perché l’alterità è divenuta il potenziale aggressore. Tutto avviene in modo fatale ed esiziale: non vi sono spiegazioni, solo il destino muove la violenza che passa, plasma, organizza i corpi di sudditi senza speranza.

La violenza è legalizzata
La violenza è legalizzata. L’iperattività con cui la formazione è presentata nella offerta formativa delle scuole, non è che violenza organizzata. La formazione della cosiddetta “buona scuola” è l’esperienza del corpo scisso da sé. Le continue attività, lo spostamento da un luogo a un altro per competere, il mostrarsi in selfie pedagogico, sono il file rouge dell’attività formativa pubblica e privata.

Il corpo dello studente come tempio imprenditoriale
Lo studente non deve mai sospendere l’esecuzione della produzione, la sua formazione all’annichilimento del pensiero teoretico, perché il corpo dev’essere educato ad avere pensieri performativi. L’assenza di contenuti è questione ritenuta assai relativa, necessario è il corpo che non può che viversi come corpo teso alla lotta, dunque corpo come tempio imprenditoriale, in cui scrivere ed inscrivere la violenza del Capitale. Il resto è complementare. Il corpo è il supporto del pensiero, e per supporto si devono intendere le pratiche sociali: i linguaggi, le posizioni spaziali a cui il corpo è costretto, la tensione emotiva che lo attraversa perché dev’essere sempre teso all’attacco ed alla difesa.

Corpo che vive nel sogno dopato dell’immagine: corpo divenuto violento
Se si analizzano le pratiche del Capitale assoluto, si possono capire le ragioni della violenza diffusa del corpo divenuto veicolo di morte, luogo dove si mette in atto la logica del Capitale. Le miserie dell’abbondanza passano per le guerre che scuotono il corpo.

Corpo legato ai ceppi come nel mito della caverna di Platone
Il corpo è dunque legato ai ceppi come nel mito della caverna di Platone, costretto a sognare il falso. Un corpo che vive nell’oscurità, nel sogno dopato dell’immagine, non può che divenire violento: non a caso nel mito della caverna lo schiavo liberato è ucciso dagli schiavi. Essi non hanno pensiero teoretico, perché il loro supporto, il corpo, è al centro delle pratiche delle violenze che lo hanno formato e deformato e pertanto i loro pensieri sono puntuti, sciabole rancorose pronte a puntare ed uccidere chiunque smentisca o sia pronto a far vedere loro, improvvisamente, l’avvilimento, l’umiliazione a cui sono stati sempre sottoposti:

«Non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’improvviso dal sole? […] E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? E se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora l’oggetto di riso? E non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?» (Platone, La Repubblica, Libro VII, 517; Mito della caverna).

Körper o Leib
Le parole di Platone ci riportano al compito della filosofia: rifondare il pensiero teoretico nel regno del pensiero che ha come supporto il corpo mercificato. I tempi non possono che essere lunghi, il passaggio non può avvenire in modo improvviso, e non può che essere l’effetto di un lungo percorso. Siamo dinanzi ad un bivio: Körper o Leib. Merleau Ponty definiva il corpo vissuto come carne del mondo senza la quale ogni comunità è disintegrata, persa nell’abbaglio dell’atomismo sociale. Il futuro ed il presente implicano la responsabilità di tutti tra corpo morto o corpo vissuto nella relazione con l’altro e con se stessi. I pensieri ed i modelli sociali con le loro pratiche non saranno che una conseguenza delle scelte a cui tutti siamo chiamati.

Salvatore Bravo

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