Silvia Fazzo – La concezione aristotelica dei principi trova nel libro Lambda della Metafisica la sua esposizione più completa ed esauriente. La comprensione del libro però non è un processo lineare: richiede, fra l’altro, che si faccia in qualche modo tabula rasa della tradizione esegetica.

Silvia Fazzo 01

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Il libro Lambda della Metafisica di Aristotele

 

Il libro Lambda della Metafisica di Aristotele

Il libro Lambda della Metafisica di Aristotele

 


Commento al libro Lambda della Metafisica di Aristotele

Commento al libro Lambda della Metafisica di Aristotele

Commento al libro Lambda della Metafisica di Aristotele

Bibliopolis

La concezione aristotelica dei principi trova nel libro Lambda della Metafisica la sua esposizione più completa ed esauriente. La comprensione del libro però non è un processo lineare: richiede, fra l’altro, che si faccia in qualche modo tabula rasa della tradizione esegetica. Di qui, la scelta di aderire al dettato preciso del testo, dopo averlo restituito in edizione critica nel corso del precedente volume (LXI-1, 2012). Su questa base, il commento si è svolto quanto possibile ex novo. Come esito, il libro Lambda acquista compiutezza formale, dal primo all’ultimo capitolo e si valorizza l’unità di svolgimento, Si evidenzia poi fin dall’inizio la coerenza d’intenti con altri dei libri che oggi chiamiamo Metafisica, cui Lambda si connette in una trama di continuo ripensamento: Lambda appare così, non bozza ante litteram, né percorso alternativo, ma parte integrante e compimento di uno stesso progetto scientifico, in concorrenza con le teorie accademiche e presocratiche dei principi.

 


Aporia e sistema.

La materia, la forma, il divino nelle Quaestiones di Alessandro di Afrodisia

 

Aporia e sistema. La materia, la forma, il divino nelle Quaestiones di Alessandro di Afrodisia

Aporia e sistema.

Ets

“Aporiai kai lyseis”, “aporie e soluzioni”: questo è il titolo che porta in greco la raccolta delle cosiddette “Quaestiones” di Alessandro di Afrodisia (l’Esegeta di Aristotele per eccellenza). Sono brevi opuscoli di carattere specialistico, sovente frammentari o poco rifiniti nella redazione, ma significativi dal punto di vista dottrinale, per il fatto stesso che attestano una fase travagliata e non ancora dogmatica nella storia dell’aristotelismo. Analizzati qui nel loro dettato letterale e nel loro contesto problematico, gli opuscoli lasciano emergere tendenze e tensioni intrinseche alla tradizione esegetica dei testi di Aristotele, e documentano il ruolo ed il metodo dell’attività di Alessandro nel conferire coerenza e compiutezza all’aristotelismo come sistema dottrinale. Al centro della presente ricerca sono in particolare alcuni temi cruciali: la relazione fra forma e materia, il problema della materialità e della fisicità dei corpi celesti, l’azione provvidenziale e ‘divina’ esercitata dai movimenti celesti sul mondo sublunare.

 

Alessandro di Afrodisia, placchetta del XVI secolo, Bode-Museum

Alessandro di Afrodisia, placchetta del XVI secolo, Bode-Museum


La provvidenza

Alessandro di Afrodisia, La provvidenza


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Giacomo Leopardi (1798-1837) – Come l’uomo dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, l’altezza e nobiltà sua, l’immensa capacità della sua mente.

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«Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza.
Quando egli, considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose».

Giacomo Leopardi, Zlibaldone di pensieri. a cura di Fiorenza Ceragioii e Monica Ballerini, Zanichelli, Bologna 2009. pp. 3171-3172.


Giacomo Leopardi – Cos’è la lettura per l’arte dello scrivere
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione
Giacomo Leopardi (1798-1837) – La felicità non è che la perfezione, il compimento della vita.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Un sorriso e una poesia possono aggiungere un filo alla trama brevissima della vita, accrescendo la nostra vitalità.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l’Astronomia. L’uomo s’innalza per mezzo di essa come al di sopra di se medesimo.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – «Dialogo della Moda e della Morte». La moda appartiene perciò a quel tipo di fenomeni che tendono a un’estensione illimitata. Cara Morte, mostri di non conoscere la potenza della Moda, perché ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Parlerò della miseria umana, degli assurdi della politica, dei vizi e delle infamie non degli uomini ma dell’uomo.

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Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.

Giovanna Borradori
Filosofia del terrore

Filosofia del terrore

«La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. Essa è la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere. Tutto deve vivere purché circoli e produca col movimento la ricchezza di alcuni contro la povertà di molti. Tolleranza che si insinua nelle istituzioni: lasciar vivere le persone come i modelli culturali fin quando non intaccano il potere finanziario, il modello culturale unico che per grazia concede l’esistenza. Lo splendore della gogna è sostituita dal potere che cede la possibilità del soffio vitale: la cultura classica come la religione sopravvivono per grazia otriata nel difficile mondo della globalizzazione. Ogni potere è autoidolatra, misura la propria forza con la percezione che ha di sé, solitamente si sente onnipotente. La società della tolleranza è la società inospitale. L’ospite è accolto, riconosciuto nella sua identità nella dialettica individuale-universale. Non conosciamo l’ospitalità per le persone ed i gruppi che si discostano dalla legge della globalizzazione, della finanziarizazione del presente, come dei modelli culturali che la tradizione ci ha consegnato affinché fossero accolti e ‘sentiti vivi’ per nuove avventure creative. Al posto della integrazione e dell’accoglienza dell’ospite vige il regno della tolleranza: fenomeno da baraccone, inautentica integrazione che cela nelle sue pieghe il giudizio malevolo e strisciante contro le differenze. È evidente quanto la tolleranza sia il sintomo della violenza del modello unico, che deve far emergere le differenze per svuotarle e colonizzarle. La campagna dei cento fiori è in atto e non riconosciuta nell’occidente del libero mercato. Derrida descrive il valore della tolleranza all’epoca della globalizzazione: «La tolleranza è l’inverso dell’ospitalità o perlomeno il suo limite. Se credo di essere ospitale perché sono tollerante, voglio limitare la mia accoglienza, mantenere il potere sull’altro e controllare i limiti della mia “casa”, la mia sovranità, il mio “io posso” (il mio territorio, la mia casa, la mia cultura, la mia religione)».[1]

La tolleranza sorvegliata, dai cento occhi che si allungano per ritagliare margini di spazio a ciò che è altro o vissuto come altro. La cultura della tolleranza diventa cultura del sopportare e del sopportarsi. La mosca di Wittgenstein non trovava l’uscita dalla bottiglia perché metaforicamente incapace di giochi linguistici. La prigione che si ritaglia per gli altri diventa la propria. Molti occidentali hanno tutto ma non sono capaci di seguire se stessi, la propria indole, riducono gli interessi più vivi che li attraversano a pura presenza scenica perché il potere sibila e giudica … tollera. Ogni lasciar vivere è già una distanza, una presa di posizione in cui il giudizio verticalizzato cade e riposiziona l’altro nella distanza del calcolo economico: l’unica passione da seguire è quella mercantile, fare di sé un pezzo dell’economia, un capitale per illimitati investimenti.

Che fare?

Derrida constata la fluidità del potere globale, la sua instabilità e complessità che riportano il possibile in un mondo privato della storia e dunque può tollerare le differenze perché ha vinto il modello vigente. La storia è finita per cui si può sopportare la presenza delle differenze in quanto non cambiano la condizione della fine della storia. Per Derrida la storia non è conclusa, il ventre molle della globalizzazione pone le condizioni storiche per la lotta consapevole a livello locale, internazionale ed intellettuale: «Io credo che i nostri atti di resistenza debbono essere allo stesso tempo intellettuali e politici. Dobbiamo unire le forze per fare pressione e organizzare contrattacchi; e dobbiamo farlo su scala internazionale e secondo modalità nuove, ma sempre analizzando e discutendo i fondamenti più riposti delle nostre responsabilità, le loro basi, le loro eredità e i loro assiomi».[2]

Le contraddizioni attraversano la globalizzazione. Riportarle al centro della scena offre la possibilità di scardinare il simulacro della tolleranza per svelarne i limiti e le urgenze sulle quali ogni silenzio è già complicità, zona grigia, appunto tolleranza reazionaria e conservatrice. Piuttosto bisogna reintrodurre l’idea dell’ospitalità incondizionata, vera rivoluzione copernicana, che consente una disponibilità all’accoglienza, alla sorpresa dell’altro e del nuovo.[3] Mi accorgo bene che questo concetto della pura ospitalità non ha oggi alcuno statuto giuridico o politico. Nessuno Stato lo ha iscritto tra le sue leggi. Ma senza il pensiero progettuale di quest’ospitalità  non si dà alcun concetto di ospitalità in generale, e forse non si potrebbe neppure determinare alcuna norma dell’ospitalità condizionata (con i suoi riti, il suo statuto giuridico, le sue convenzioni nazionali e internazionali)».

Salvatore Bravo

[1] Giovanna Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, Laterza, 2003, p. 137.

[2] Ibidem, p. 135.

[3] Ibidem, p. 138.

 

 

 

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Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – L’idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto attinge a quel concetto che è servito sempre a sancire la violenza sociale come immodificabile.

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Minima moralia

Minima moralia

 

«L’idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto, di un’insaziabilità sbuffante, della libertà come superattività, attinge a quel concetto borghese della natura che è servito sempre e soltanto a sancire la violenza sociale come immodificabile, come un pezzo di sana eternità […]».

Theodor Ludwig Wiesengrund-Adorno, Meditazioni della vita offesa, Einaudi, 1979, pp. 184-185.

 

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Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – L’amore esclude ogni opposizione, non è nulla di limitante, nulla di limitato, nulla di finito. Nell’amore si trova la vita stessa. Negli amanti non vi è materia, essi sono un tutto vivente. L’amore si sdegna di ciò che è ancora separato. Un animo puro non si vergogna dell’amore, ma si vergogna che esso sia incompleto. L’amore è più forte della paura. L’amore acquista questa ricchezza di vita nello scambiare tutti i pensieri.

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Scritti teologici giovanili

Scritti teologici giovanili

«Unificazione vera, amore vero e proprio, ha luogo solo fra viventi che sono uguali in potenza, e che quindi sono viventi l’uno per l’altro nel modo più completo, e per nessun lato l’uno è morto rispetto all’altro. L’amore esclude ogni opposizione; esso non è intelletto le cui relazioni lasciano sempre il molteplice come molteplice e la cui stessa unità sono le opposizioni; esso non è ragione che oppone assolutamente al determinato il suo determinare; non è nulla di limitante, nulla di limitato, nulla di finito. L’amore è un sentimento, ma non un sentimento singolo: dal sentimento singolo, poiché è solo vita parziale e non vita intera, la vita si spinge fino a sciogliersi e a disperdersi nella molteplicità dei sentimenti per trovare se stessa in questo tutto della molteplicità. Nell’amore questo tutto non è contenuto come somma di parti particolari, di molti separati; nell’amore si trova la vita stessa come una duplicazione di se stessa e come sua unità; partendo dall’unità non sviluppata, la vita ha percorso nella sua formazione il ciclo che conduce ad un’unità completa. Di contro all’unità non sviluppata stavano la possibilità della separazione e il mondo; durante lo sviluppo la riflessione produceva sempre più opposizioni che venivano unificate nell’impulso soddisfatto, finché la riflessione oppone all’uomo il suo stesso tutto, l’amore infine, distruggendo completamente l’oggettività, toglie la riflessione, sottrae all’opposto ogni carattere di estraneità, e la vita trova se stessa senza ulteriore difetto. Nell’amore rimane ancora il separato, ma non più come separato bensì come unito; ed il vivente sente il vivente.
Poiché l’amore è un sentimento del vivente, gli amanti possono distinguersi solo in quanto sono mortali, solo in quanto pensano questa possibilità di separazione, non in quanto siano realmente qualcosa di separato, non in quanto il possibile congiunto con un essere sia qualcosa di reale. Negli amanti non vi è materia, essi sono un tutto vivente. Che gli amanti abbiano autonomia e ciascuno abbia un principio suo proprio di vita significa solo che possono morire. Che la pianta abbia sale e parti di terra le quali recano in sé leggi proprie del loro operare, lo dice la riflessione di un estraneo, e significa solo che la pianta può decomporsi. Ma l’amore si sforza di togliere anche questa differenza, questa possibilità come mera possibilità, e di unificare quel che è mortale, di renderlo immortale. Il separabile, finché prima dell’unificazione completa è ancora qualcosa di proprio, crea difficoltà agli amanti: vi è una specie di contrasto fra la completa dedizione, l’unico annullamento possibile, l’annullamento dell’opposto nell’unificazione, e l’autonomia ancora sussistente: la prima si sente impedita dalla seconda.
L’amore si sdegna di ciò che è ancora separato, di ciò che è una proprietà: e questo sdegnarsi dell’amore di fronte ad un’individualità è il pudore, il quale non è una reazione subitanea di ciò che è mortale, non è una manifestazione della libertà di conservarsi e di sussistere. In un’aggressione priva di amore, un animo pieno di amore viene offeso da questa ostilità, il suo pudore diviene ira che ora difende solo la proprietà, il diritto. Se il pudore non fosse un effetto dell’amore, che ha la forma dello sdegno solo perché vi è qualcosa di ostile, ma fosse qualcosa per sua natura ostile che volesse salvaguardare una proprietà attuabile, si dovrebbe dire che il massimo pudore ce l’hanno i tiranni, o le ragazze che non concedono senza denaro le loro grazie, oppure le donne vanitose che vogliono incatenare con i loro vezzi. Né gli uni né le altre amano: la loro difesa di ciò che è mortale è il contrario dello sdegno che si ha per esso: essi attribuiscono a quel che è mortale un valore in sé, sono cioè senza pudore.
Un animo puro non si vergogna dell’amore, ma si vergogna che esso sia incompleto: l’amore si rimprovera che vi sia ancora una forza, un qualcosa di ostile che ne ostacola il compimento. Il pudore subentra solo con il ricordo del corpo, con la presenza personale, col sentire l’individualità: esso non è paura per ciò che è mortale, che è solo proprio, ma è paura del mortale, del proprio, paura che svanisce via via che il sensibile è ridotto sempre a meno dall’amore. L’amore infatti è più forte della paura, non ha paura della propria paura, ma accompagnato da essa toglie le separazioni, temendo solo di trovare un’opposizione che gli resista o che resti addirittura salda. Esso è un prendere e dare reciproco; nel timore che i suoi doni possano essere sdegnati, nel timore che un opposto possa non cedere al suo prendere, vuol vedere se la speranza non lo ha ingannato, se trova in ogni modo se stesso. Colui che prende non si trova con ciò più ricco dell’altro: si arricchisce, certo, ma altrettanto fa l’altro; parimenti quello che dà non diviene più povero: nel dare all’altro egli ha anzi altrettanto accresciuto i suoi propri tesori. Giulietta nel “Romeo e Giulietta”: “Più ti do, tanto più io ho”.
L’amore acquista questa ricchezza di vita nello scambiare tutti i pensieri, tutte le molteplicità dell’anima, poiché cerca infinite differenze e trova infinite unificazioni, si indirizza all’intera molteplicità della natura per bere amore da ognuna delle sue vite. Quel che c’è di più proprio si unifica nel contatto e nelle carezze degli amanti, fino a perdere la coscienza, fino al toglimento di ogni differenza: quel che è mortale ha deposto il carattere della separabilità, ed è spuntato un germe dell’immortalità, un germe di ciò che da sé eternamente si sviluppa e procrea, un vivente. L’unificato non si separa più, la divinità ha operato, ha creato. Ma questo unificato è solo un punto, un germe: gli amanti non gli possono partecipare nulla, sì che si ritrovi in lui un molteplice; infatti nell’unificazione non si è lavorato su un opposto, essa è pura da ogni separazione; tutto ciò per cui un molteplice può essere, può avere un’esistenza, il neo-generato deve averlo condotto a sé, opposto e unificato. Il germe si dà sempre più all’opposizione ed incomincia a svilupparsi; ogni grado del suo sviluppo è una separazione per riguadagnare l’intera ricchezza della vita. Così si danno ora: l’unico, i separati e il riunificato. Gli unificati si separano di nuovo, ma nel figlio l’unificazione stessa è divenuta inseparata.
Questa unificazione dell’amore è sì completa, ma può esserlo unicamente in quanto il separato è opposto in tal modo che l’uno è l’amante e l’altro è l’amato e che quindi ogni separato è un organo del vivente. Ma oltre a ciò gli amanti sono ancora legati con molti elementi morti; a ciascuno appartengono molte cose, cioè ciascuno è in relazione con opposti che anche per colui che vi si rapporta sono ancora opposti, ancora oggetti; così gli amanti sono ancora capaci di una molteplice opposizione nel loro molteplice acquisto e possesso di proprietà e diritti. Ciò che è morto ed è in potere dell’uno è opposto ad entrambi e l’unificazione sembra poter aver luogo solo se quel che è morto cade sotto il dominio di entrambi. L’amante che vede l’altro in possesso di una proprietà non può non sentire nell’altro questa voluta particolarità; né egli può da sé togliere l’esclusivo dominio dell’altro, perché ciò sarebbe di nuovo un’opposizione contro la potenza dell’altro, non potendovi essere altra relazione all’oggetto all’infuori della padronanza di esso; egli contrapporrebbe al dominio dell’altro una padronanza e toglierebbe una relazione dell’altro, l’esclusione di tutti gli altri. Giacché il possesso e la proprietà costituiscono una parte così importante dell’uomo, delle sue cure e dei suoi pensieri, neanche gli amanti possono trattenersi dal riflettere su questo lato dei loro rapporti; ed anche se l’uso fosse comune, resterebbe tuttavia indeciso il diritto al possesso; il pensiero di questo diritto non sarebbe certo dimenticato, perché tutto ciò che gli uomini possiedono ha la forma giuridica della proprietà; e se pure il possessore pone l’altro nel suo stesso diritto di possesso, tuttavia la comunanza dei beni è solo il diritto di ognuno dei due alla cosa.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, frammento n. 10 degli abbozzi ai Theologische Jugendschriften, noto come Frammento sull’amore, in: Scritti teologici giovanili, vol. II, Guida, Napoli, 1972 (traduz. di N. Vaccaro e E. Mirri).


Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Nulla di grande si realizza nel mondo senza passione
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Il soffrire dell’uomo che non ha riflessione sul proprio destino è senza volontà, poiché egli onora il negativo, i limiti, solo nella forma della loro esistenza giuridica e autoritaria come insormontabili, e prende le proprie determinatezze e le loro contraddizioni come assolute.

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Claudio Lucchini – L’etica umana tra natura e storia. Sulla possibilità di un universalismo radicalmente democratizzante.

Claudio Lucchini 05

274ISBN

Claudio Lucchini

L’etica umana tra natura e storia

Sulla possibilità di un universalismo radicalmente democratizzante

indicepresentazioneautoresintesi

L’esigenza di articolare unitariamente e dialetticamente le fondamentali determinazioni biologiche ed ontologico-sociali del campo problematico proprio dell’etica umana costituisce l’ossatura di fondo dei saggi qui proposti. Nel rifiuto sia di ogni radicale discontinuismo grossolanamente metafisico, sia di qualunque appiattimento riduzionistico, essi si propongono di abbozzare un discorso che ribadisca la validità universalistica di una prospettiva anticapitalistica e radicalmente democratica. Così facendo, si addita nella progettazione definita e attuabile di una quotidianità disalienata di libere individualità la difficile, non garantita ma indispensabile meta dell’arduo cammino volto a inverare le più alte potenzialità degli esseri umani, considerati nella loro intrascendibile determinatezza materiale-naturale.


I quattro capitoli

Sulla progettabilità del bene etico-sociale e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo

Carrelli e moduli: i problemi delletica umana nellintreccio di biologia e storicità concreta

La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano

Negatività del male e nullificazione del morire: riflessioni sulla scorta di Jean Améry.



191-isbn

Il cervello e il bene

indicepresentazioneautoresintesi


Claudio Lucchini, Scritti su democrazia, comunismo e materialismo.

Claudio Lucchini, Il Bene come possibile processo concreto. Natura umana e ontologia sociale.


Claudio Lucchini – Alcune riflessioni sulle nozioni di felicità e di natura umana nel pensiero di Luca Grecchi.

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Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Il soffrire dell’uomo che non ha riflessione sul proprio destino è senza volontà, poiché egli onora il negativo, i limiti, solo nella forma della loro esistenza giuridica e autoritaria come insormontabili, e prende le proprie determinatezze e le loro contraddizioni come assolute.

Hegel 05

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«La contraddizione sempre crescente tra l’ignoto che gli uomini inconsapevolmente cercano e la vita che ad essi è offerta e permessa e che essi hanno fatto propria, la nostalgia verso la vita di coloro che hanno elaborato in sé la natura in idea, contengono l’anelito a un reciproco avvicinamento. Il bisogno di quelli, di ricevere una consapevolezza sopra ciò che li tiene prigionieri e l’ignoto di cui sentono il desiderio, s’incontra col bisogno di questi, di trapassare dalla propria idea nella vita. Costoro non possono vivere soli, e l’uomo è sempre solo anche se si è posto dinanzi la propria natura e di questa rappresentazione ha fatto il suo compagno e in essa gode se stesso; egli deve trovare anche il rappresentato come un vivente. Lo stato dell’uomo che il tempo ha cacciato in un mondo interiore, può essere o soltanto una morte perpetua, se egli in esso si vuol mantenere, o, se la natura lo spinge alla vita, non può essere che un tendere a superare il negativo del mondo sussistente per potersi trovare e godere in esso, per poter vivere. La sua sofferenza è legata con la coscienza dei limiti, a causa dei quali egli disprezza la vita così come essa gli sarebbe permessa: egli vuole il proprio soffrire; mentre invece il soffrire dell’uomo che non ha riflessione sul proprio destino è senza volontà, poiché egli onora il negativo, i limiti, solo nella forma della loro esistenza giuridica e autoritaria come insormontabili, e prende le proprie determinatezze e le loro contraddizioni come assolute, e ad esse, anche se persino esse ledono i suoi impulsi, sacrifica se stesso e gli altri.

Il superamento di ciò che riguardo alla natura è negativo, riguardo alla volontà positivo, non viene operato mediante violenza, né una violenza che si faccia noi stessi al nostro destino, né una violenza che si sperimenti dal di fuori; in ambedue i casi il destino rimane ciò che è; la determinatezza, il limite non viene separato dalla vita con la violenza; violenza straniera è particolare contro particolare, la rapina di una proprietà, un nuovo dolore; l’entusiasmo di un legato è un momento pauroso per lui stesso nel quale egli si perde, ritrovando la propria coscienza solo nelle determinatezze dimenticate, non divenute morte.

Il sentimento della contraddizione della natura con la sussistente vita è il bisogno che la contraddizione venga tolta, ed essa lo viene, quando la sussistente vita ha perduto la propria potenza e ogni sua dignità, quando è divenuta un puro negativo.

Tutti i fenomeni di questo tempo mostrano che la soddisfazione nella vecchia vita non si trova più; essa era un limitarsi a una signoria ordinatissima sulla nostra proprietà, un considerare e un godere il proprio piccolo mondo nella sua piena sudditanza e poi anche un autoannientarsi che conciliava questa limitazione e un elevarsi nel pensiero verso il cielo. Da una parte la miseria dei tempi ha intaccato questa proprietà, dall’altra i suoi doni hanno tolto nel lusso la limitazione, ed in ambedue i casi l’uomo è stato fatto Signore e il suo potere sulla realtà effettuale elevato al sommo. Sotto questa arida vita d’intelletto, per un verso è cresciuta la cattiva coscienza, che consiste nel rendere assoluta la nostra proprietà, – cose – e con ciò, per un altro verso è cresciuto il soffrire degli uomini; e il soffio di una vita migliore ha toccato questo tempo. Il suo impulso si nutre dell’agire di grandi caratteri di singoli uomini, di movimenti di interi popoli, della rappresentazione della natura e del destino da parte dei poeti; dalla metafisica le limitazioni ricevono i propri confini e la loro necessità nella connessione dell’intero. La vita limitata può soltanto allora, come potenza, venire con potenza aggredita dalla vita migliore, quando anche quest’ultima è divenuta una potenza e abbia da temer violenza. Come particolare contro particolare la natura nella sua vita effettiva è l’unico assalto o confutazione della vita peggiore, e una tale confutazione non può essere oggetto di un’attività intenzionale. Ma il limitato può essere assalito dalla sua propria verità, che in esso risiede e condotto in contraddizione con essa: la sua signoria si fonda non sulla violenza di particolari contro particolari, bensì su universalità; questa verità, il diritto, la quale esso rivendica a sé gli deve essere tolta e attribuita a quella parte della vita che viene richiesta.

Questa dignità di una universalità, di un diritto, è quella che rende così timida, come quella che vada contro coscienza, la richiesta posta dalla sofferenza e dagli impulsi che vengono in contraddizione con la sussistente vita, vestita di quell’onore. Al positivo del sussistente, che è una negazione della natura, viene lasciata la sua verità, che un diritto deve esserci.

Nello Stato tedesco l’universalità che ha potere, come fonte di ogni diritto, è sparita perché si è isolata facendosi particolare. L’universalità è perciò presente soltanto come pensiero, non come realtà effettuale. Riguardo a quello su cui l’opinione pubblica più chiaramente o più oscuramente ha deciso con la perdita della fiducia, ci vuol poco a rendere più universale una più chiara coscienza. E tutti i diritti sussistenti hanno il loro fondamento tuttavia solo in questo nesso col tutto, il quale nesso, non essendoci più da lungo tempo, li ha fatti divenire tutti dei particolari.

Ora, o si può prendere le mosse da quella verità che anche il sussistente ammette; allora tutti i concetti parziali che sono contenuti in quello di tutto lo Stato vengono concepiti come universali nel pensiero, e la loro universalità o particolarità nella realtà effettuale posta accanto ad essi; mostrandosi una tale unità-parte come particolare, salta allora agli occhi la contraddizione fra ciò che essa vuol essere, e soltanto per essa vien richiesta, e ciò che essa è».

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Scritti politici, a cura di Claudio Cesa, Einaudi,1972, pp. 9-11.


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Alceo (630 a.C.– 560 a.C.) – Da terra conviene progettare la rotta, se si riesce a farlo in modo corretto. Ma quando si è per mare, si deve andare con il vento che c’è.

Alceo 01

Lirici greci

«Da terra conviene progettare la rotta

se si riesce a farlo in modo corretto.

Ma quando si è per mare,

si deve andare con il vento che c’è».

 

 

Alceo, Canti conviviali [Συμποσιακά μέλη, symposiakà mèle], fr. 249, ed. Voigt.

 

Saffo e Alceo a Mitilene, Lawrence Alma-Tadema (1881).

Saffo e Alceo a Mitilene, Lawrence Alma-Tadema (1881).

 

Alceo

Alceo


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Mario Vegetti – Il lettore viene introdotto a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente.

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«Ci sono parecchie cose che il letrore non troverà in queste pagine. Non troverà un commento analitico dei testi antichi condotto secondo le intenzioni d’aurore e l’ordine delle argomentazioni: un lavoro questo imprescindibile, ma che va compiuto in altra sede. Non troverà neppure una storia delle idee politiche sviluppata secondo le sequenze cronologiche di autori e di testi, per la quale si può rinviare a ottimi strumenti di consultazione. Di conseguenza, non troverà una bibliografia disciplinare organica: le indicazioni  contenute nelle note sono suggerimenti di lettura senza alcuna pretesa sistematica.
Mi sono proposto invece di introdurre il lettore a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente, che fu attivo in Atene nel secolo che va all’incirca dal 430 al 330 a.c. Utilizzando le idee e i testi via via prodotti in questo laboratorio, si è allestita la messa in scena di un dibattito a più voci, che coinvolge filosofi, srorici, poeti, politici, intorno alle domande decisive su che cosa sia il potere e come possa venire legittimato o giustificato. Nella rappresentazione che ne viene offerta, questo dibattito è stato articolato intorno a cinque assi tematici principali (la maggioranza, la legge, la forza, la virtù, il sapere) che, com’è naturale, si intrecciano e interagiscono reciprocamente. Per il senso comune politologico, il confronto tra le idee politiche prodotte in questo laboratorio riserva qualche sorpresa: persino un regime rassicurante come la democrazia maggioritaria viene messo radicalmente in discussione, e d’altra parte un potere esecrabile come quello tirannico riscuote talvolta consensi significativi. D’altra parte, testi noti possono acquistare un rilievo e un significato inattesi per la vulgata storiografica. Ma non ho affatto inteso mostrare chi ha ragione e chi ha torto, oppure chi vince e chi perde.
Gli aspetti che davvero interessano sono la forza teorica, la spregiudicatezza intellettuale, la radicalità di approccio che caratterizzano la discussione qui rivisitata. Vi troviamo, da un lato, un modello insuperato di come la riflessione politica possa andare al fondo dei problemi, magari non per risolverli ma per renderli almeno più chiari nei loro presupposti e nelle loro implicazioni; dall’altro, una strumentazione concettuale che certo appartiene a un mondo lontano, ma che forse non ha del tutto esaurito la sua capacità di offrire stimoli e prospettive che ancora oggi sarebbe sbagliato ignorare».

Mario Vegetti, Chi comanda nella città. I Greci e il potere, Carocci editore, 2017, pp.7-8.

Risvolto di copertina

Il libro introduce il lettore  a una sorta di visita guidata  in uno dei più straordinari laboratori  di pensiero politico nella storia  d’Occidente, che fu attivo in Atene  nel secolo che va all’incirca  dal 430 al 330 a.C.  Si è allestita la messa in scena  di un dibattito a più voci,  che coinvolge filosofi, storici,  poeti, politici, intorno  alle domande decisive su che cosa  sia il potere e come possa venire  legittimato o giustificato.  Si confrontano così le ragioni  della maggioranza, della legge,  della forza, del capo carismatico,  della competenza scientifica,  su temi che ancor oggi risultano  attuali quando ci si interroga  sulla crisi della democrazia  e sulle sue alternative decisioniste.  Il testo si rivolge tanto agli studiosi  del pensiero antico quanto a chiunque  sia interessato ai problemi  della politica contemporanea.


 

Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .

Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.

 


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Koinè – Quale progettualità? Cerchiamo di percorrere, in maniera umanisticamente fondata, l’orizzonte progettuale per delineare le strutture di base di un futuro modo di produzione comunitario non più incentrato sulla privatezza e sulla mercificazione dei rapporti umani.

Quale progettualità invito

Lorenzo Dorato, Antonio Fiocco, Luca Grecchi,  Claudio Lucchini, Alessandro Monchietto,
Alessandro Pallassini, Giacomo Pezzano


Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo,
che dunque vogliano pure pensare da sé.
Karl Marx

 

Quale progettualità

Quale progettualità?

indicepresentazioneautoresintesi


Koiné, Periodico culturale, Anno XXIII – NN° 1-4 Gennaio-Dicembre 2016, Reg. Trib. di Pistoia n° 2/93 del 16/2/93. Direttore responsabile: Carmine Fiorillo. Direttore: Luca Grecchi.


Hanno contribuito e reso possibile la pubblicazione di questo numero di Koiné:

Olivia Campana, Francisco Canepa, Stella Maria Congiu, Lorenzo Dorato, Antonio Fiocco, Carmine Fiorillo, Luca Grecchi, Claudio Lucchini, Alessandro Monchietto, Alessandro Pallassini, Giacomo Pezzano, Giancarlo Paciello, Ilaria Rabatti, Emilia Savi


Intenzioni

Questo numero della rivista Koinè si occupa di affrontare il tema oggi più importante sul piano filosofico politico: il tema della progettualità. Da oltre un secolo a questa parte la critica all’attuale modo di produzione sociale, pur nelle sue molteplici e mutevoli modalità, è stata nella sostanza effettuata. Ciò che resta ancora da fare è cercare di percorrere, in maniera umanisticamente fondata (ossia basandosi sulla natura umana), l’orizzonte progettuale, ossia delineare le strutture di base di un futuro modo di produzione comunitario finalizzato alla buona vita di tutti, non più incentrato sulla privatezza e sulla mercificazione dei rapporti umani. Senza uno sguardo realistico su come il nostro mondo può essere, difficilmente, infatti, si potranno condividere modifiche radicali delle nostre modalità di vita. Ciò richiede, oltre a competenze specifiche, educazione filosofica e capacità dialettica: quanto questo numero della rivista vorrebbe contribuire a formare.

Koinè


Indice

 

Luca Grecchi, Sulla progettualità

Alessandro Monchietto, Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi

Claudio Lucchini, La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano

Antonio Fiocco, Difendere in tutti i modi la progettualità

Alessandro Pallassini, Note marginali per la progettazione di un comunismo della finitezza a partire da Spinoza

Luca Grecchi,, Perché la progettualità

Claudio Lucchini, Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo

Lorenzo Dorato,, La progettualità come necessaria riflessione

sui destini collettivi e sociali

Giacomo Pezzano,, Commento all’articolo di Luca Grecchi “Sulla progettualità”

Commento all’articolo di Luca Grecchi “Perché la progettualità?”

Luca Grecchi, Nel merito dei commenti di Giacomo Pezzano

Giacomo Pezzano, Il vero punto filosofico da scavare è che cosa si voglia intendere con “progettualità”

Luca Grecchi, Una prima conclusione sulla progettualità


Una rivista ha bisogno di tempo per nascere e per crescere

Ha bisogno soprattutto di un particolare complesso di elementi spirituali, culturali, sociali nel cui seno l’idea stessa possa germinare e trovare alimento per il suo sviluppo. Occore poi uno stimolo, un impulso capace di attivare sensibilità intelletuali, offrendo prospettive culturali capaci di intercettare le autentiche domande di senso e di tentare risposte originali e pertinenti. Per cercare di costruire nuovi orizzonti di senso occorre in primo luogo non accettare quanto sostengono i profeti dell’avvento di un mondo senza Spirito, un mondo cioè di individui non più formati dalla memoria di tradizioni e culture anteriori, e perciò in totale balìa dell’immediatezza degli eventi, senza un’identità etica e sociale ed una struttura morale a cui riferirli. Mentre lavoriamo intorno alla definizione di ogni numero di Koinè, impariamo abbastanza da trovarla insufficiente. Impariamo quanto sia inadeguato oggi anche il più vasto sapere se rimane esclusivamente specialistico. In ogni libro è racchiusa una scommessa contro l’oblio, una sfida contro il silenzio.


Il bisogno di progettare, nell’uomo,

non è un fatto accidentale, ma essenziale,

in quanto corrisponde alla sua originaria natura

«Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità […] L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio. […] Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario […] è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino».

Cosimo Quarta

 


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