A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte
"Invece di uccidere e morire per diventare quello che non siamo,
dovremo vivere e lasciare vivere
per creare quello che realmente siamo".
A. Camus
Riflessioni sulla pena di morte (Réflexions sur la guillotine) è un saggio scritto da Albert Camus nel 1957. I brani che seguono sono tratti dall’ed. SE, Milano 1993, nella traduzione di Giulio Coppi.
«Poco prima della guerra del 1914, un assassino che aveva commesso un crimine particolarmente rivoltante (aveva massacrato una famiglia di coloni, compresi i figli) venne condannato a morte ad Algeri. Si trattava di un bracciante che aveva ucciso in una sorta di delirio omicida, ma con l’aggravante di aver derubato le proprie vittime. Il processo suscitò grande scalpore. Generalmente si ritenne che la decapitazione fosse una pena troppo mite per un simile mostro. Questa fu, così mi si disse, anche l’opinione di mio padre, sdegnato soprattutto dall’eccidio dei bambini. Una delle poche cose che so di lui, in ogni caso, è che volle assistere all’esecuzione, per la prima volta in vita sua. Si alzò nel cuore della notte per recarsi sul luogo del supplizio, all’altro capo della città, fra un gran concorso di folla. Di quanto vide, quel mattino, non disse nulla a nessuno. Mia madre racconta soltanto che rientrò di furia, stravolto, si rifiutò di parlare, si stese un istante sul letto e d’improvviso incominciò a vomitare. Aveva visto in faccia la realtà che si celava sotto le formule solenni tese a mascherarla. Non pensava più ai bambini massacrati, non poteva più pensare che a quel corpo palpitante sull’asse dove l’avevano gettato per tagliargli il collo.
Bisogna dunque ritenere che quest’atto rituale è ben spaventoso, se poté vincere l’indignazione di un uomo semplice e probo, e se un castigo da lui considerato fino ad allora cento volte meritato, non ebbe in definitiva altro effetto che provocargli la nausea fisica. Quando la giustizia suprema non offre che occasioni di vomito all’uomo onesto posto sotto la sua protezione, appare difficile sostenere che essa sia destinata, come dovrebbe essere suo compito, ad accrescere la pace e l’ordine in seno allo Stato. È invece evidente che essa non è meno ripugnante del delitto, e che questo nuovo assassinio, lungi dal riparare l’offesa inferta al corpo sociale, non può aggiungervi che fango. Lo dimostra il fatto che nessuno osa parlare apertamente di una tale cerimonia. […] È invece mia intenzione parlarne crudamente. Non per il gusto dello scandalo, né, ritengo, per una malsana tendenza naturale. Ho sempre avuto orrore, come scrittore, di certi compiacimenti; come uomo, ritengo che gli aspetti ripugnanti della nostra condizione debbano, se inevitabili, essere affrontate in silenzio. Ma quando il silenzio, o le astuzie del linguaggio, contribuiscono a perpetuare un abuso che deve essere riformato, o una sventura che può essere alleviata, non esiste altra soluzione che parlar chiaro, e svelare l’oscenità che si cela sotto il manto delle parole. […] L’argomento principe dei partigiani della pena di morte è, lo sappiamo, l’esemplarità del castigo. Non si recidono teste soltanto per punire coloro che le portano, ma anche per intimidire, con un esempio terrificante, quelli che sarebbero tentati di imitarle. La società non si vendica, vuole solo prevenire. Brandisce una testa perché i candidati all’omicidio vi leggano il proprio futuro e indietreggino.
Questo argomento sarebbe decisivo se non si fosse costretti a constatare:
1. che neppure la società stessa crede all’esemplarità di cui parla;
2. che non è affatto dimostrato che la pena di morte abbia fatto indietreggiare un solo omicida deciso ad esserlo, mentre è evidente che essa ha esercitato un effetto fascinoso su migliaia di criminali;
3. che costituisce, per altri aspetti, un esempio ripugnante le cui conseguenze sono imprevedibili.
La società, in primo luogo, non crede a quel che dice. Se realmente vi credesse, esporrebbe le teste. Accorderebbe alle esecuzioni il beneficio del lancio pubblicitario che solitamente riserva ai prestiti nazionali o alle nuove marche di aperitivi. Sappiamo invece che le esecuzioni, in Francia, non avvengono più pubblicamente, ma si perpetrano nei cortili delle prigioni davanti a un ristretto numero di esperti.
[…]
Se infatti si vuole che la pena sia esemplare, non soltanto si devono moltiplicare le fotografie, ma bisogna anche collocare la ghigliottina su un palco in Place de la Concorde, alle due del pomeriggio, invitando l’intera popolazione e teletrasmettere la cerimonia per gli assenti. […]
Bisogna far questo, oppure smettere di parlare di esemplarità.
[…]
Potrei produrre ulteriori testimonianze altrettanto allucinanti. Ma, per quanto mi riguarda, non saprei andare oltre. Dopo tutto, io non sostengo che la pena di morte sia esemplare, e questo supplizio mi appare per quello che è, un grossolano atto chirurgico eseguito in condizioni che lo privano di qualsiasi carattere edificante. Invece la società e lo Stato, che hanno visto ben altro, possono tollerare perfettamente questi particolari, e poiché predicano l’esemplarità, dovrebbero cercare di renderli tollerabili a tutti, affinché nessuno possa ignorarli e l’intera popolazione, terrorizzata, diventi francescana. Diversamente, chi sperano di intimidire con questo esempio tenuto sempre nascosto, con la minaccia di un castigo presentato come mite e immediato, in definitiva più tollerabile di un cancro, con questo supplizio coronato dei fiori della retorica. Certamente non quelli che vengono considerati onesti – e alcuni lo sono – poiché a quell’ora dormono, poiché il grande esempio non è stato loro comunicato, poiché mangeranno il loro pane imburrato nell’ora del seppellimento prematuro, e poiché verranno informati dell’opera della giustizia, a patto che leggano i giornali, da un comunicato dolciastro che si scioglierà come zucchero nella loro memoria. Eppure sono proprio queste pacifiche creature a fornire la più alta percentuale di omicidi. Molte di queste oneste persone sono criminali che ignorano di esserlo. Secondo un magistrato, la stragrande maggioranza degli assassini da lui conosciuti non sapeva, radendosi al mattino, che la sera avrebbe ucciso. Per l’esemplarità e per la sicurezza, converrebbe dunque brandire, invece di truccarlo, il volto nudo del giustiziato davanti a tutti quelli che al mattino si radono.
[…]
In effetti, bisogna uccidere pubblicamente, oppure confessare di non sentirsi autorizzati ad uccidere. Se la società giustifica la pena di morte con la necessità dell’esempio, dovrà giustificare se stessa rendendo la pubblicità necessaria. Deve, ogni volta, mostrare le mani del boia, e costringere a guardarle i cittadini troppo delicati, e anche tutti coloro che, direttamente o indirettamente , hanno fatto esistere quel boia. Diversamente confessa di uccidere senza sapere quello che dice né quello che fa, oppure sapendo che, lungi dall’intimidire l’opinione pubblica, queste cerimonie rivoltanti non possono che ridestare in essa il crimine, o precipitarla nello smarrimento. Chi potrebbe chiarirlo meglio di un magistrato, il consigliere Falco, ormai giunto alla fine della carriera, la cui coraggiosa confessione merita diessere meditata: “… L’unica volta che nella mia carriera ho deciso contro una commutazione di pena e per l’esecuzione dell’imputato, ritenevo che, malgrado la mia posizione, avrei assistito perfettamente impassibile all’esecuzione. L’individuo, del resto, era poco interessante: aveva martirizzato la figlioletta, gettandola infine in un pozzo. Ebbene! Dopo la sua esecuzione, per settimane, per mesi, le mie notti furono ossessionate da quel ricordo… Ho fatto la guerra, come tutti, e ho visto morire una gioventù innocente, ma posso dire che quell’orribile spettacolo non mi ha mai procurato quella sorta di cattiva coscienza provata assistendo a questa specie di omicidio amministrativo che chiamiamo pena capitale”.
Ma, in definitiva, perché la società dovrebbe credere a questo esempio, che non impedisce il delitto, e i cui effetti, se esistono, sono invisibili? La pena capitale non può intimidire chi non sa che sta per uccidere, chi lo decide all’improvviso, e prepara quell’atto in preda alla febbre o a un’idea fissa, e neppure chi, recandosi ad un appuntamento chiarificatore, si porta appresso un’arma per impaurire l’infedele, o l’avversario, e poi se ne serve pur non volendolo, o non ritenendo di volerlo. La pena capitale non può, per dirla in breve, intimidire l’uomo gettato nel delitto come si può esser gettati nella sventura. Significa allora dire che nella maggioranza dei casi è impotente. È giusto riconoscere che raramente in Francia viene applicata nei casi appena citati. Ma questo stesso «raramente» fa fremere.
Impaurisce almeno quella razza di criminali su cui pretende di agire, e che vivono di crimine?
Nulla è meno certo. Si può leggere in Koestler che in Inghilterra, all’epoca in cui i borsaioli venivano giustiziati, altri borsaioli esercitavano il proprio talento tra la folla che circondava la forca da cui pendeva il collega. Una statistica degli inizi del secolo, in Inghilterra, afferma che su duecentocinquanta impiccati, centosettanta avevano in precedenza assistito personalmente a uno o due esecuzioni capitali. Ancora nel 1886, su centosessantasette condannati a morte passati per le carceri di Bristol, centosessantaquattro avevano assistito almeno a una esecuzione. Tali sondaggi non possono più essere condotti in Francia, a causa della segretezza che circonda le esecuzioni. Ma autorizzano a ritenere che attorno a mio padre, il giorno dell’esecuzione, doveva esserci un nutrito numero di futuri criminali che, loro, non hanno certo vomitato. La potenza dell’intimidazione agisce unicamente sui timidi non destinati al delitto e cede di fronte agli irriducibili sui quali vorrebbe precisamente agire.
[…]
Anche se questo accadesse, bisognerebbe poi fare i conti con un altro paradosso della natura umana. L’istinto di vita, se è fondamentale, non lo è più di un altro istinto, di cui non parlano gli psicologi accademici: l’istinto di morte, che esige in certe ore particolari la distruzione di se stessi e degli altri. È probabile che il desiderio di uccidere spesso coincida con il desiderio di morire o di annientarsi. L’istinto di conservazione si trova in tal modo abbinato, in proporzioni variabili, all’istinto di distruzione. Solo quest’ultimo riesce a spiegare totalmente le numerose perversioni che, dall’alcolismo alla droga, conducono coscientemente l’uomo alla propria rovina. L’uomo desidera vivere, ma è vano sperare che un tale desiderio regni sulla totalità delle sue azioni. Desidera anche non essere, vuole l’irreparabile, e la morte per la morte. Accade così che il criminale non desideri soltanto il delitto, ma anche la sventura che l’accompagna, persino e soprattutto se è una sventura smisurata. Quando questo strano desiderio cresce e domina, non solo la prospettiva di una condanna a morte non potrebbe fermare il criminale, ma è persino probabile che accresca ulteriormente la vertigine in cui si perde. Si uccide allora per morire, in un certo modo.
Queste anomalie bastano a spiegare come una pena che sembra calcolata per impaurire animi normali, sia in realtà totalmente priva di effetto sulla psicologia media. Tutte le statistiche senza eccezione, quelle riguardanti i paesi abolizionisti oppure gli altri, dimostrano che non esiste rapporto tral’abolizione della pena di morte e la criminalità. Quest’ultima non aumenta né regredisce. La ghigliottina esiste, come esiste il delitto; tra di essi non c’è altro vincolo apparente all’infuori della legge. E quanto ci è dato dedurre dalle cifre che le statistiche ci offrono in abbondanza, è questo: per secoli si sono puniti con la morte reati diversi dall’omicidio e il castigo supremo, applicato così a lungo, non è riuscito a far sparire nessuno di questi reati. Da secoli tali reati non si puniscono più con la morte. Eppure non sono cresciuti di numero, e alcuni di essi sono persino diminuiti. Ugualmente, per secoli si è punito l’omicidio con la pena capitale, eppure la razza di Caino non è scomparsa. Infine, nelle trentatrè nazioni che hanno abolito la pena di morte, o in cui non viene più applicata, il numero degli omicidi non è aumentato. Chi potrebbe dedurre da tutto questo che la pena di morte ha un potere intimidatorio?
[…]
Se dunque si vuol conservare la pena di morte, che ci venga almeno risparmiata l’ipocrisia di giustificarla con la sua esemplarità. Chiamiamo con il suo vero nome questa pena a cui ogni pubblicità è rifiutata, questa intimidazione che non agisce sulle persone oneste, finché lo sono, che affascina quelle che non lo sono più, e che degrada, o corrompe, coloro che vi pongono mano. È una pena certo, uno spaventoso supplizio, fisico e morale, ma non offre alcun esempio sicuro, se non demoralizzante. Sanziona, ma non previene, quando addirittura non suscita l’istinto omicida. È come se non esistesse, salvo per colui che la subisce, nell’anima, per mesi o per anni, e nel corpo, in quell’ora disperata e violenta in cui lo tagliano in due, senza privarlo della vita. Chiamiamola col suo nome che, in mancanza di una qualsiasi altra nobiltà, le restituirà almeno quella della verità, e riconosciamola per quel che essenzialmente è: una vendetta.
Infatti, il castigo che sanziona senza prevenire si chiama vendetta. È una risposta quasi aritmetica che la società fornisce a chi infrange la sua legge primordiale. Questa risposta è antica come l’uomo: si chiama taglione. Chi mi ha fatto del male, deve averne; chi mi ha strappato un occhio, deve perderne uno dei suoi; chi ha ucciso, deve morire. Si tratta di un sentimento, e particolarmente brutale, non di un principio. Il taglione rientra nell’ordine della natura, dell’istinto, non rientra nell’ordine della legge. La legge, per definizione, non può obbedire alle stesse regole della natura. Se l’assassinio è nella natura umana, la legge non è fatta per imitare o riprodurre questa natura. È fatta per correggerla. Ora, il taglione si limita a ratificare e a dar forza di legge a un puro movimento naturale. Noi tutti abbiamo conosciuto questo impulso, spesso a nostra vergogna, e conosciamo la sua potenza: ci viene dalle foreste originarie. A questo riguardo, noi francesi, che giustamente ci indigniamo vedendo il re del petrolio, in Arabia Saudita, predicare la democrazia internazionale mentre affida a un macellaio il compito di recidere con un coltello la mano del ladro, anche noi viviamo in una sorta di medioevo che non ha nemmeno la consolazione della fede. Definiamo ancora la giustizia secondo le regole di una rozza aritmetica. Possiamo almeno dire che questa aritmetica è esatta, e che la giustizia, sia pur elementare e limitata alla vendetta legale, è salvaguardata dalla pena di morte? Si è costretti a rispondere in modo negativo.
Lasciamo da parte il fatto che la legge del taglione è inapplicabile, e che sembrerebbe tanto eccessivo punire l’incendiario appiccando il fuoco alla suacasa quanto insufficiente castigare il ladro prelevando dal suo conto in banca una somma equivalente. Ammettiamo pure che sia giusto e necessario compensarel’assassinio della vittima con la morte dell’assassino. Ma l’esecuzionecapitale non è semplicemente la morte. È tanto diversa, nella propria essenza, dalla privazione della vita quanto lo è il campo di concentramento dal carcere. È un assassinio, senza dubbio, che ripaga in forma aritmetica l’assassinio commesso. Ma aggiunge alla morte un regolamento, una premeditazione pubblica e conosciuta dalla futura vittima, un’organizzazione infine, che di per se stessa è fonte di sofferenze morali più atroci della morte. Non c’è dunque equivalenza.
[…]
È questa, si dirà, la giustizia umana, sempre preferibile all’arbitrio, nonostante le sue imperfezioni. Ma questo malinconico apprezzamento è tollerabile soltanto per le pene ordinarie. È scandaloso riguardo alle sentenze di morte. Un’opera classica di diritto francese, per giustificare l’impossibilità della pena di morte di essere suscettibile di gradazioni, così scrive: «La giustizia umana non ha affatto l’ambizione di garantire questa proporzione. Perché? Perché sa di essere inadeguata». Dobbiamo dunque concludere che questa inadeguatezza ci autorizza a pronunciare un giudizio assoluto e che, nel dubbio di poter realizzare la pura giustizia, la società deve precipitarsi, con i più gravi rischi, verso la suprema ingiustizia? Se la giustizia sa di essere inadeguata, non le converrebbe mostrarsi moderata, e lasciare alle sue sentenze margini sufficienti affinché l’eventuale errore possa essere rimediato? Questa debolezza in cui la giustizia trova per se stessa, in maniera permanente una circostanza attenuante, non dovrebbe concederla sempre anche al criminale? Una giuria può forse dire in coscienza: «Se la faccio morire per errore, lei mi perdonerà considerando la debolezza della nostra comune natura. Ma io lac ondanno a morte senza tener conto né di questa debolezza, né di questa natura»? Esiste una solidarietà di tutti gli uomini nell’errore e nello smarrimento. Questa solidarietà dovrebbe forse agire in favore dei tribunali e venir sottratta all’accusato? No, e se la giustizia ha un senso in questo mondo, null’altro significa se non il riconoscimento di questa solidarietà, che non può, per la sua stessa essenza, essere disgiunta dalla compassione. La compassione, s’intende, può esser qui solo il sentimento di una sofferenza comune, non una frivola indulgenza che non tenga in alcun conto né le sofferenze né i diritti della vittima. Non esclude il castigo, ma sospende l’estrema condanna. Le ripugna il provvedimento definitivo, irreparabile che, non contemplando la miseria della condizione comune, si dimostra ingiusto verso l’umanità intera.
[…]
Di fronte al delitto, come si definisce effettivamente la nostra civiltà? La risposta è semplice: da trent’anni a questa parte i delitti di Stato superano di gran lunga i delitti individuali. Non parlo neppure delle guerre, mondiali o locali che siano, benché il sangue sia un alcol che, a lungo andare intossica come il più generoso dei vini. Ma il numero degli individui uccisi direttamente dallo Stato ha assunto proporzioni astronomiche e supera infinitamente quello dei delitti individuali. Continuano a diminuire i condannati per reati comuni e ad aumentare i condannati politici. Lo dimostra il fatto che ognuno di noi, per quanto rispettabile, può contemplare l’eventualità di essere un giorno condannato a morte, eventualità che all’inizio del secolo sarebbe apparsa ridicola. […]
Quelli che fanno versare la maggiore quantità di sangue sono gli stessi che credono di avere dalla loro parte il diritto, la logica, e la storia.
Non è dall’individuo ma dallo Stato che oggi la società deve difendersi. È possibile che tra trent’anni le proporzioni siano rovesciate. Ma, per il momento, la legittima difesa deve opporsi soprattutto allo Stato. La giustizia e la convenienza più realistica esigono che la legge protegga l’individuo contro uno Stato in preda alle follie del settarismo o dell’orgoglio. “Che cominci lo Stato abolendo la pena di morte” dovrebbe essere, oggi, il grido che ci unisce».
Albert Camus
L’immagine in evidenza:
Omaggio a Camus del pittore messicano Eduardo Pola (1998)
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