Max Pohlenz (1872-1962) – Mai i Greci avrebbero tollerato l’idea che gli uomini fossero soltanto marionette guidate da un destino cieco. Il Socrate platonico sa che l’unica cosa che importi è dar prova nella vita della propria validità. La sua natura non gli consente una soggezione fatalistica al destino.

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«L’insegnamento essenziale dell’uomo greco è l’impulso ad autodeterminarsi, lo stimolo a forgiare la vita secondo una propria misura. L’avvedersi, quindi, che se la sua volontà può subire interferenze improvvise dall’esterno, rappresenta per lui un’esperienza particolarmente viva e inquietante. Egli parla allora di una “parte” di una moira che gli viene assegnata. […] Certo i Greci possiedono una forte tendenza a universalizzare […]. Dappertutto, nel mondo come nel proprio essere, essi sentono la vita, e vi ravvisano qualcosa di divino, la contemplano in un gran numero di forme plastiche di cui l’uomo è incessantemente circondato» (p. 19).

«Anche di fronte agli dèi, come dinanzi al destino, l’uomo greco avverte la propria deficienza, ma si pone di fronte ad essi in un atteggiamento del tutto diverso da quello dell’ebreo o del cristiano dinanzi al suo Dio trascendente. Certo gli dèi possono distruggerlo, ma sono soltanto “i più forti”, vivono nel suo stesso mondo e provengono dalla medesima sorgente da cui egli proviene. […] Non vi è “prodigio”, ossia rottura delle leggi naturali da parte di una forza superiore, poiché i Greci conoscono il soprasensibile, ma per esprimere il “soprannaturale” la loro lingua non ha termini adeguati. Conoscono sì l’orrore e la reverenza dinanzi al numinoso, ma il brivido e la paura degli spiriti s’incontrano solo negli strati inferiori; così come estranea ai Greci è quella segreta irritazione dei nervi che il moderno uomo “illuminato” avverte quando abbandona la sua fede nelle forme concrete sovrasensibili, per rifugiarsi nel mondo dell’irrazionale e del “demonico”» (pp. 19-20),

«Mai i Greci avrebbero tollerato l’idea che gli uomini fossero soltanto marionette guidate da un destino cieco o da una divinità capricciosa. Seguivano il loro impulso ad autodeterminarsi; non v’era riflessione che potesse infiacchire in loro tale istinto. […] Il Socrate platonico […] sa che l’unica cosa che importi è dar prova nella vita della propria validità» (p. 21).

«La sua natura non gli consente una soggezione fatalistica al destino, l’umile accettazione di una volontà divina, ma esige l’affermazione e la libera determinazione di lui stesso. […] I Greci non erano tali da appagarsi di sensazioni istintive: la loro aspirazione a conseguire chiarezza in tutto quanto riguardava la loro vita, li condusse infine alla filosofia socratica. Ma ancor prima che questa si desse a risolvere i problemi della vita umana avvalendosi del puro intelletto, già s’era sviluppata quella forma artistica che associando mytos e logos affrontava e rappresentava la problematica della esistenza» (p. 22).

«L’anima della tragedia è il logos: interiormente come virtù spirituale che determina l’azione, ed esteriormente, come parola, idonea ad esprimere tutti i sentimenti umani, i più disparati atteggiamenti dell’animo e i pensieri profondi. Non soltanto in se stesso l’uomo greco avverte la presenza del logos. È un’esigenza radicata in lui rintracciarlo anche nel mondo che lo circonda, intende il “senso” delle cose. Ciò vale a svelarci il valore incomparabile e insostituibile del coro nella tragedia greca» (p. 31).

«Non v’è lode, che la tragedia potesse tributare, più alta di quella di possedere una mente nobile. […] Il poeta non parlava al suo ceto, ma al suo popolo. Parlava come cittadino ai cittadini, ma questi cittadini erano abbastanza lungimiranti e magnanimi per interessarsi di chi non era cittadino, e per riconoscere il valore dell’animo umano anche nella donna, nello straniero, nello schiavo. Si allargava così l’orizzonte; lo sguardo spaziava all’universale umano» (p. 42).

 

Max Pohlenz, La tragedia greca, Paideia, 1978.

 


Vedi anche:

 

Max Pohlenz (1872-1962)  – Il cammino del dell’uomo greco è illuminato da tre guide ideali: il vero, il bello, il bene. Il sentimento dell’incondizionata sudditanza gli è affatto sconosciuto. Nel suo intimo possiede la forza di resistere a tutti i rovesci del destino e plasmare la sua vita a proprio modo, nella consapevolezza di essere personalmente responsabile delle proprie azioni

Max Pohlenz (1872-1962) – La Grecia classica ci ha indicato la via verso la libertà interiore, in cui unico criterio direttivo è il vero bene comune. La libertà ha un limite solo, ma inviolabile. Esso è implicito nelle leggi stesse dello spirito, che può volere soltanto il vero e il bene.


Luca Grecchi

Perché non possiamo non dirci Greci
In Appendice: In difesa di Socrate, Platone ed Aristotele

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Luca Grecchi

La filosofia della storia nella Grecia classica

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Luca Grecchi – Quando il più non è meglio. Pochi insegnamenti, ma buoni: avere chiari i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno dei nostri giovani degli uomini, in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.

Luca Grecchi – A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare

Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD

Luca Grecchi – Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo

Luca Grecchi – Un mondo migliore è possibile. Ma per immaginarlo ci vuole filosofia

Luca Grecchi – «L’umanesimo nella cultura medioevale» (IV-XIII secolo) e «L’umanesimo nella cultura rinascimentale» (XIV-XV secolo), Diogene Multimedia.

Luca Grecchi – Il mito del “fare esperienza”: sulla alternanza scuola-lavoro.

Luca Grecchi – In filosofia parlate o scrivete, purché tocchiate l’anima.

Luca Grecchi – L’assoluto di Platone? Sostituito dal mercato e dalle sue leggi.

Luca Grecchi – L’Italia che corre di Renzi, ed il «Motore immobile» di Aristotele

Luca Grecchi – La natura politica della filosofia, tra verità e felicità

Luca Grecchi – Socrate in Tv. Quando il “sapere di non sapere” diventa un alibi per il disimpegno

Luca Grecchi – Scienza, religione (e filosofia) alle scuole elementari.

Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.


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Mark Twain (1835-1910) – I politici inventeranno volgari bugie e ognuno sarà grato di queste falsità, che gli mettono in pace la coscienza. Si convincerà che la guerra è giusta e ringrazierà Dio dei sonni tranquilli che questo processo di grottesco autoinganno gli garantisce.

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Opera di Maupal

 

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Una nuova opera dell’artista Mauro Pallotta: Donald Trump a Trastevere in tutta la sua boriosa esplosività.

 

 

 

The Mysterious Stranger

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« […] dopo di che, i politici inventeranno volgari bugie, dando tutte le colpe alla nazione da attaccare, e ognuno sarà grato di queste falsità, che gli mettono in pace la coscienza, e le studierà diligentemente, mentre rifiuterà di prendere in considerazione qualsiasi argomentazione contraria; e in questo modo di lì a poco si convincerà che la guerra è giusta e ringrazierà Dio dei sonni tranquilli che questo processo di grottesco autoinganno gli garantisce».

Mark Twain, The Mysterious Stranger [1916], Lo straniero misterioso, Mattioli, 2016.

Lo straniero misteriso

Lo straniero misteriso

Quarta di copertina
Un breve romanzo favolistico e allegorico, privo di ogni traccia di vernacolo e di gergo, forte di una visione quasi dostoevskiana dell'universo quale gioco spietato. Uno dei protagonisti è un angelo il cui nome è Satana, è una forza crudele che irride gli uomini e le loro miserie, senza però che da parte di Mark Twain vi sia alcuna implicazione metafisica. L'opera è l'espressione del materialismo sempre più convinto del grande scrittore americano, negli ultimi anni della sua esistenza. La cupa Austria in cui si svolge il romanzo nel 1590, è una disillusa proiezione del mondo contemporaneo, la cui fiducia, il cui ottimismo razionale lo scrittore mette radicalmente in discussione.

Nota Bene

Hermann Göring dichiarerà al processo di Norimberga. «Il popolo può sempre essere piegato al volere dei capi E facile: basta dire alla gente che la nazione è sotto attacco e accusare i pacifisti di scarso patriottismo e di mettere in pericolo il paese. Funziona nello stesso modo in tutte le nazioni».

 


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Tommaso Labranca (1962-2016) – Andy Warhol era un coatto. Decise di fare più soldi possibile con i suoi quadri coatti, la cui ispirazione nasceva nei supermercati. Andy come coatto era comunque un numero uno, una specie di capo banda. Ed incontrò Ronald Trump.

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Andy Warhol era un coatto

«Andy Wharol mi sta molto simpatico. Cerco di leggere tutto ciò che lo riguarda con la stessa passione con cui cerco di evitare ogni esposizione di sue opere.
Un tempo non era così: nel 1989, per esempio, andare a visitare la mostra Le cento opere di Andy Warhol fu per me d’obbligo come un pellegrinaggio al Divino Amore. Ma nonostante l’equivalenza nella devozione al Palazzo della Permanente di Milano il miracolo non si verificò. Cento opere: pensavo di dover camminare per ore attraverso sale e sale. Mi ero anche portato i panini avvolti nella stagnola. E invece la mostra era concentrata in un unico stanzone tutto diaccio e umido. Fu in quell’occasione che iniziai a detestare le mostre su Wahrol. Mi aggiravo per la sala e mi sentivo inappagato. Anche appoggiando il naso contro il vetro che proteggeva una Marilyn non provavo alcuna impressione. Sfiorai fugacemente e di nascosto dai custodi la superficie serigrafata di un Mao. Ancora nulla. Lo stesso brividozero che provo appoggiandomi, in metropolitana, a un manifesto della Philips
sapendo di poterlo ritrovare identico in tutte le stazioni, da Molino Dorino a Sesto F.S. Rifeci un’altra volta il giro dell’esposizione, tanto per dare un senso alle 5.000 del biglietto, e mi resi conto di una cosa: quasi rovinato dagli anni di scuola e da certi atteggiamenti accademici, tra quei quadri colorati simili alle pubblicità di tinte per capelli nei coiffeurs pour dames, io cercavo l’Artista aulico e non la sua vera essenza Insomma, volevo trovare i quadri e convincermi a ogni costo che quelle non erano pubblicità di tinte per capelli da coiffeurs pour dames. Per fortuna mi salvai in tempo. Lanciai una rapida maledizione all’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano che aveva rinchiuso la forza pop in un ambiente asettico e prestigioso e capii che in Warolh (ma dove va l’h?), al di là di tutte le pose, cuore e corpo coincidevano. Mi resi soprattutto conto di quanto, dentro e fuori, Wharol fosse meravigliosamente coatto (sostituire le ultime sei lettere con maranzo se si è a Lodi, tamarro se si è a Milano e dasai se si è a Tokio).
Il suo cognome per noi due volte esotico (il ceco Warhola americanizzato in Warhol) non nascondeva che una consistenza spirituale da apprendista edile bergamasco. Checché ne dicano i non-revisionisti, Andy non era figlio di Duchamp. Hwarol era fratello di Eros Ramazzotti, del quale condivideva, per fortuna, l’atteggiamento antiintellettualistico.
La Weltanschauung di Warolh era la stessa dei seguaci del primo Jovanotti, riconducibile alla formula lavoro-paga-discoteca-sesso.
Certo il lavoro di AW oggi è esposto nei musei, la paga era scritta con una $ seguita da numeri a molti zeri, la discoteca era l’esclusivo Studio 54 dei tempi d’oro e cambiava specularmente l’oggetto del sesso. Ma la filosofia di base era quella.
Come doveva godere il nostro artista pop quando si patinava (diceva proprio così) e arrivava in qualche posto con la limousine presa in affitto, in compagnia di Debbie Harris o di Grace Jones! Esattamente come gode il coatto celebrato dagli 883 in Sei un mito che, cosparso di deodorante musk acquistato alla Coop, arriva con i tappetini nuovi e l’arbre magique nella Golf, al fianco di una commessa ben zinnuta e con le calze a rete.
Insomma Andrea era un provincialotto, tale e quale il suo concittadino Vudi Alen e i giornalisti dei quotidiani di NY, per i quali il resto del mondo deve essere fantascienza. Ripensandoci, forse Andy era ancora meno di un coatto. Per esempio, viveva in una zona ben determinata dell’urbanistica newvorchese dalla quale usciva poco volentieri. Aveva notizie frammentarie di ciò che avveniva all’estero. Almeno i coatti nostrani d’estate vanno in Grecia o a Ibiza. Uorol parlava solo l’inglese, e anche piuttosto male. Un coatto, al confronto, è quasi un poliglotta: oltre all’italiano e al dialetto locale conosce l’inglese quanto basta per dire Dis is de ritm of de nait e per affrontare disinvoltamente anche le canzoni straniere nei locali karaoke.
Allo stesso modo dei coatti, però, Warhol non aveva prospettiva storica, non sapeva con precisione cos’era avvenuto prima di lui. Così, non potendo ispirarsi a un passato storico, si ispirò a un passato di verdura, quello della Campbell’s. Ne derivò un’ingente fornitura di zuppe in scatola, un successo mondiale e numerosi tentativi di imitazione. D’altronde, se date in mano una matita a un coatto credete che vi sforni una Madonna con Bambino? No. Disegnerà un’auto, un personaggio televisivo, una scatola di dadi.
Andy partiva dallo stesso livello, ma grazie alla sua profonda conoscenza dell’imbecillità dei critici, decise di fare più soldi possibile con i suoi quadri coatti, la cui ispirazione nasceva nei supermercati e dalla stampa. Ce la fece benissimo perché era un grande. Perché Andy come coatto era comunque un numero uno, una specie di capo banda, quello con l’auto più veloce e il car stereo più potente. Quello che tutti cercano di imitare. Negli ultimi anni di vita, ci fanno sapere i suoi Diari, Warol (tolgo l’h e non ci penso più) era angustiato dall’AIDS. Proprio come i coatti che vanno in giro col condom nel portafogli. Ma, invece di diventare sieropositivo, Andy divenne Xeroxpositivo, ossia oggetto di infinite imitazioni. Peccato che tutti questi emulatori trascurino il suo aspetto più vero e amabile, quello borgataro. Anzi, insieme a chi gli dedica le mostre, i cataloghi e le analisi storico-artistiche, quegli emulativo falliti fanno di tutto per creargli (e crearsi) un ingiustificato alone di aulicità e internazionalità, intellettualismo e raffinatezza. Una volta ho visto persino una Campbell’s Soup Can usata come illustrazione di copertina per un libro di saggi di Roland Barthes…».

Tommaso Labranca, Andy Warhol era u  coatto. Vivere e capire il trach, Castelvecchi, 2005.

 

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Tommaso Labranca,
Andy Warhol era u coatto. Vivere e capire il trach

 

Quarta di copertina
Il trash, o cultura di serie B, o spazzatura, è un fenomeno dalle molte facce, e non sempre è possibile circoscriverlo: sono trash le ragazzine che imitano Madonna, i presentatori delle Tv locali che si rifanno a Pippo Baudo, ma anche il Tg4 quando emula i notiziari in diretta della Cnn. Cos’è che li accomuna? È, in sintesi, il fallimento nell’imitazione di un modello «alto», quale che esso sia. Il trash è un’erba che attecchisce ovunque, e nessuno di noi può dirsene immune: qualunque cosa facciamo o diciamo, ci sarà sempre chi è «più a Nord di noi», pronto a deriderci. Che fare, dunque? Abbandoniamo il pregiudizio estetico, la boria accademica, l’illusione della purezza: come ci ha insegnato il genio «meravigliosamente coatto» di Andy Warhol, nel supermarket della cultura di massa possiamo sopravvivere solo se, non badando alle marche, alle firme o ai prezzi, compriamo liberamente ciò che ci piace.

 

 

La firma di Warhol sul dollaro.

La firma di Warhol sul dollaro.

«Fare soldi è un arte, lavorare è un arte.

Un buon affare è il massimo di tutte le arti»

 

                                                                      Andy Warhol

 

Andy Warhol e Donald Trump

Andy Warhol e Donald Trump.

Two dollars (Declaration of independence) Cartamoneta da 2 dollari 4 pezzi Firmata da Warhol

4 pezzi da 2 dollari 4 con firma di Warhol.

The Art History of Donald Trump, From Disappointing Christie’s to Becoming Warhol’s Bête Noire

 

Rappresentazione di Warhol della Trump Tower

Rappresentazione di Warhol della Trump Tower.

 

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«Fare soldi è un arte, lavorare è un arte.

Un buon affare è il massimo di tutte le arti»

                                                                      Andy Warhol

 


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Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

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Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone

Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone

 

 

Quel che resta di Auschwitz

Giorgio Agamben, in Quel che resta di Auschwitz, mette in pratica la virtù filosofica dell’eterotopia. Il termine, coniato da M. Foucault per indicare un processo di destrutturazione dei linguaggi consolidati, consente di analizzare secondo una nuova prospettiva il significato dei campi di sterminio. Pone al centro un problema che si tende ad eludere, a non osservare, perché parla di noi, dell’occidente e della sua storia. La Gorgone è ciò che non si può guardare, è il fondo a cui ci trascina la visione dell’impossibile che diventa possibile, dopo Auschwitz l’impossibile diverrà possibilità realizzata. L’impossibile può accadere. La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo.[1] Che nel “fondo” dell’umano non vi sia altro che una impossibilità di vedere – questa è la Gorgona, la cui visione ha trasformato l’uomo in non-uomo. Ma che proprio questa non umana impossibilità di vedere sia ciò che chiama e interpella l’umano, l’apostrofe da cui l’uomo non può distrarsi – questo, e non altro è la testimonianza. La Gorgona e colui che l’ha vista, il musulmano e colui che testimonia per lui, sono un unico sguardo, una sola impossibilità di vedere.

Il movimento della domanda, l’eterotopia, inquieta ed invita a nuove domande, a nuovi livelli di coscienza a cui non ci si può sottrarre. La domanda che pone Agamben è nell’orizzonte del “nerbo” di Auschwitz; lo sguardo posato sull’impossibile vorremmo respingerlo, ma, come l’Angelus novus di Benjamin, solo se lo sguardo regge la prospettiva della Gorgone la speranza potrà dimorare tra noi. Il nerbo di Auschwitz non ha testimoni, non ci sono le parole di coloro che furono oggetto di un esperimento antropologico. In assenza di una natura umana razionalmente condivisa, il nulla, il nichilismo realizza la sua opera. Uomini senza storia, senza nomi, ridotti a pura vita biologica, sono la testimonianza priva di parole del campo di sterminio. Tra l’umano e l’inumano, vi sono uomini che non appartengono all’umanità, ma non sono cose, sono enti indefiniti ed indefinibili. Sono in una linea nella quale si dipana e compare la violenza del nichilismo. Il musulmano descritto da Levi nei suoi testi, è un uomo ripiegato su se stesso, non ha relazione con se stesso e con gli altri, è solo carne esposta alla violenza della storia. Il campo di sterminio è la realizzazione assoluta della razionalità senza logos. Per cui, sottratto il logos, non resta che un uomo minimo, un sottouomo, riconoscibile nella sua umanità dalla solo forma biologica: il musulmano. Il motivo per cui si decise di chiamarli in tal modo non è chiaro, probabilmente per la posizione che assumevano, somigliante ad un musulmano in preghiera.

Il campo di concentramento svela un’altra verità: l’abitudine allo stato di eccezione. L’intera realtà del campo era stata capace di trasformare l’eccezionale in quotidiano. La linea di confine tra diritto e stato di eccezione si era estinta nella quotidiana tragedia del nichilismo, nella irrisione ad ogni limite[2]. Auschwitz è precisamente il luogo in cui lo stato di eccezione coincide perfettamente con la regola e la situazione estrema diventa il paradigma stesso del quotidiano. Ma è proprio questa paradossale tendenza a ribaltarsi nel suo opposto che rende interessante la situazione-limite. Finché lo stato di eccezione e la situazione normale vengono, come avviene di solito, mantenuti separati nello spazio e nel tempo, allora essi, pur fondandosi segretamente a vicenda, restano opachi. Ma non appena mostrano apertamente la loro connivenza, come oggi avviene sempre più spesso, essi si illuminano l’un l’altro per così dire dall’interno. Ciò implica, tuttavia, che la situazione estrema non può più fungere, come in Bettelheim, da discrimine, ma che la sua lezione è piuttosto quella dell’immanenza assoluta, dell’essere “tutto in tutto”. In questo senso, la filosofia può essere definita come il mondo visto in una situazione estrema che è diventata la regola (il nome di questa situazione estrema è, secondo alcuni filosofi, Dio).

Lo stato di eccezione a cui tanto pericolosamente oggi ci stiamo abituando, assottiglia la differenza tra normale stato di diritto e sospensione degli stessi da parte di un non identificabile potere sovrano. L’economia con i suoi provvedimenti eccezionali continui, metafisica presenza, sottrae, con i diritti sociali, il logos, per restituirci un’umanità da “io minimo” sempre più china sul biologico. Il testo di Agamben si presta ad un’ulteriore eterotopia: i musulmani sono finiti con i campi, o nuove forme si stanno materializzando nell’omologazione delle voglie che sostituiscono i desideri. Generazioni schiacciate sull’utile da sistema rischiano di perdere il loro sentire consapevole che consente la relazione tra il dentro ed il fuori. L’autismo emotivo caratterizza i nuovi musulmani. La nuova caverna del capitalismo assoluto ha i suoi musulmani che non vogliamo vedere per non scoprirci uomini della zona grigia. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

Salvatore Bravo

[1] Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 30.

[2] Ibidem, p. 28

 

 


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Romeo Castellucci – Scandalo è una parola abusata e perlopiù misconosciuta. In senso greco l’etimologia è «la pietra d’inciampo». E’ qualcosa che ti arresta, solo per un momento, ma che ti rende presente il tuo cammino. La provocazione è stupida, avvilisce l’intelligenza.

Romeo Castellucci
Epopea della polvere, Ubulibri, 2001

Epopea della polvere, Ubulibri, 2001

«Scandalo è una parola abusata e perlopiù misconosciuta. Lo scandalo nell’arte non solo può succedere ma direi che è il destino, l’orizzonte di ogni opera: non si dà opera d’arte senza scandalo. Scandalo però in senso greco; l’etimologia è “la pietra d’inciampo“: quando tu inciampi sei costretto a riformulare il tuo passo; è qualcosa che ti arresta, solo per un momento, ma che ti rende presente il tuo cammino. ne divieni cosciente. Lo scandalo è un interruttore.
Poi. ovviamente. c’è un uso “giornalistico” di questa parola … ma non c’entra più niente, lì diventa provocazione, rientra a far parte di un vocabolario completamente diverso.
La provocazione è stupida, avvilisce l’intelligenza non solo di chi la fa ma anche quella delle persone a cui viene rivolta; è avvilente, è una tecnica pubblicitaria: miserabile perché troppo semplice, si smaschera inunediatamente.
Lo scandalo invece è qualcosa di molto più profondo e nascosto.
Un’opera scandalosa non necessariamente ha dei toni forti. Lo scandalo può essere sepolto molto all’interno, può essere un elemento estremamente soffice, quasi invisibile.
Mi viene in mente H6lderlin, uno dei poeti. degli artisti più scandalosi della storia.
Un altro è Robert Walser, nella sua opera tutto quanto è grazioso. eppure c’è uno scandalo profondissimo. lo scandalo della vita che viene nascosto sotto una patina di borotalco.
Queste sono tra le esperienze più radicali che mi vengono in mente. Bisogna capirsi attorno alla parola “scandalo”. che comunque è molto importante».

Romeo Castellucci

Intervista a cura di Matteo Marelli, pubblicata su il manifesto, 03-03-2017, p. 12.

A te, giovane artista ignoto, Bononia University Press, 2015,

A te, giovane artista ignoto, Bononia University Press, 2015,

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Epitaph, Ubulibri, 2000

Epitaph, Ubulibri, 2000


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Federico García Lorca (1898-1936) – La poesia è qualcosa che cammina per le strade. Il teatro è sempre stato la mia vocazione. Adesso sto lavorando a una nuova commedia. Gli uomini non riusciranno mai a immaginarsi l’allegria che esploderà il giorno della Grande Rivoluzione. Non è vero che sto parlando proprio come un socialista?

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F. G. Lorca, Poeta en Nueva York

 

«La poesia è qualcosa che cammina per le strade. Che si muove, che passa accanto a noi. Tutte le cose hanno il loro mistero, e la poesia è il mistero che hanno tutte le cose. Si passa accanto a un uomo, si guarda una donna, si percepisce l’incedere obliquo di un cane, e in ciascuno di questi oggetti umani c’è la poesia».

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«Adesso sto lavorando a una nuova commedia. Non sarà più come quelle precedenti. Adesso è un’opera della quale non posso scrivere nulla, nemmeno una riga, perché si sono liberate e vagano per l’aria la verità e la menzogna, la fame e la poesia. Mi sono sfuggite dalle pagine. La verità della commedia è un problema religioso e socio-economico. Il mondo è immobile di fronte alla fame che devasta i popoli. Finché ci sarà squilibrio economico, il mondo non potrà pensare. Ne sono sicuro. Due uomini camminano sulla riva di un fiume. Uno è ricco, l’altro è povero. Uno ha la pancia piena, l’altro insozza l’aria con i suoi sbadigli. E il ricco dice: “Che bella barca si vede sull’acqua! Guardi, guardi il giglio che fiorisce sulla riva”. E il povero dice: “Ho fame, non vedo nulla. Ho fame, tanta fame”. È naturale. Il giorno in cui la fame sparirà, si produrrà nel mondo l’esplosione spirituale più grande che l’Umanità abbia mai conosciuto. Gli uomini non riusciranno mai a immaginarsi l’allegria che esploderà il giorno della Grande Rivoluzione. Non è vero che sto parlando proprio come un socialista?».

Da un’intervista realizzata da Felipe Morales,
pubblicata su La Voz di Madrid
il 7 aprile 1936.

Traduzioine di Antonio Melis.

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Marco Aurelio (121-180) – Com’è breve il tempo dalla nascita alla dissoluzione. Che cosa dunque può accompagnarci nel vivere? Una sola e unica realtà: la filosofia.

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«Com’è breve il tempo dalla nascita alla dissoluzione, abisso prima della nascita, come ugualmente infinito dopo la dissoluzione» (IX, 32) .

«Il tempo della vita umana è un punto, la sua sostanza flusso, la sensazione è oscura, l’intero composto fisico facile a corrompersi, l’anima erramento, la sorte realtà indecifrabile, la fama incerta; per dire in breve, tutto quanto attiene al corpo è fiume, quanto riguarda l’anima è sogno e vanagloria, e la vita guerra e viaggio di uno straniero, oblio la fama presso i posteri»(II, 17)

«Che cosa dunque può accompagnarci nel vivere?
Una sola e unica realtà: la filosofia
» (II, 17).

Marco Aurelio, Pensieri.


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Omero – Come è la stirpe delle foglie, così quella degli uomini.

iliade

«Come è la stirpe delle foglie, così quella degli uomini.
Le foglie il vento le riversa per terra, e altre la selva
fiorendo ne genera, quando torna la primavera;
così le stirpi degli uomini, l’una cresce e l’altra declina».

Omero, Iliade, VI, 180-184, traduzione di Guido Paduano, Mondadori, 2007

 

Omero

Ritratto immaginario di Omero, copia romana del II secolo d.C. di un’opera greca del II secolo a.C. Conservato al Museo del Louvre di Parigi.

 


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Robert Walser (1878-1956) – Con grande attenzione e amore colui che passeggia deve studiare e osservare ogni minima cosa vivente. Dovremmo capire, e sentire, che colui che veramente esiste è solo l’uomo interiore.

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Robert Walser, La passeggiata, traduzione di Emilio Castellani, Adelphi, 1999.

 

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«Con grande attenzione e amore colui che passeggia deve studiare e osservare ogni minima cosa vivente: sia un bambino, un cane, una zanzara, una farfalla , un passero, un verme, un fiore, un uomo, una casa, un albero, una coccola, una chiocciola, un topo, una nuvola, un monte, una foglia, come pure un misero pezzettuccio di carta gettato via, sul quale forse un bravo scolaretto ha tracciato i suoi primi malfermi caratteri.

[…]

Guardavo attento a quanto v’era di più piccolo, di più modesto, mentre il cielo pareva inarcarsi alto e scendere profondo. La terra si faceva sogno; io stesso ero divenuto interiorità e procedevo come dentro di essa  […]. lo non ero più io, ero un altro, ma appunto perciò più che mai me stesso. Nella soave luce d’amore credetti di dover capire, o di dover sentire, che colui che veramente esiste è solo l’uomo interiore».

Robert Walser, La passeggiata, traduzione di Emilio Castellani, Adelphi, 1999

 

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Risvolto di copertina

La passeggiata (1919) è uno dei testi più perfetti di Walser, il grande scrittore svizzero che ormai, soprattutto dopo la pubblicazione delle sue opere complete, viene posto accanto a Kafka, a Rilke, a Musil – ammesso cioè fra i massimi autori di lingua tedesca del nostro secolo. Ma La passeggiata ha anche un significato peculiare in rapporto a tutta l’opera di Walser: è in certo modo la metafora della sua scrittura nomade, perpetuamente dissociata e abbandonata agli incontri più incongrui, casuali e sorprendenti, come lo è appunto ogni accanito passeggiatore – e tale Walser era –, che abbraccia amorosamente ogni particolare del circostante e insieme lo osserva da una invalicabile distanza, quella del solitario, estraneo a ogni rapporto funzionale col mondo. In un décor di piccola città svizzera, e della campagna che la circonda, il passeggiatore Walser ci guida, con la sua disperata ironia, in un labirinto della mente, abitato da figure disparate, dalle più amabili alle più inquietanti. Da Eichendorff a Mahler, il vagabondaggio è stato un archetipo ricchissimo della più radicale letteratura moderna. Tutta quella grande tradizione sembra condensarsi, quasi clandestinamente, nella Passeggiata di Walser, a cui lo scrittore ci invita col suo irresistibile tono: «Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore d’incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti perfidi e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto».

 

Winfried Georg Sebald, Il passeggiatore solitario, Adelphi, 2006

Winfried Georg Sebald, Il passeggiatore solitario, Adelphi, 2006


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Pablo Neruda (1904-1973) – Amo i libri esploratori, ma odio il libro ragno in cui il pensiero ha disposto filo velenoso.

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Ode al libro

Ode al libro

«Amo i libri
esploratori,
libri con bosco o neve,
profondità o cielo,
ma
odio
il libro ragno
in cui il pensiero
ha disposto filo velenoso
perché là s’impigli
la giovanile e svolazzante mosca».

Pablo Neruda, Odi elementari.

Traduzione di Antonio Melis

 

Odi elementari

 


Pablo Neruda (1904-1973) – È cosi che nasce la poesia: viene da altezze invisibili. Canto e fecondazione è la poesia: l’ho concentrata come prodotto vitale della mia stessa esperienza, circondato dalla folla adorabile, dall’infinita e ricca moltitudine dell’uomo.

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