Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Questa è l’ultima conclusione della saggezza: la libertà come la vita si merita soltanto chi ogni giorno la dovrà conquistare.

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«Sì, mi sono dato tutto a questa idea,
qui la sapienza suprema conclude:
la libertà come la vita
si merita soltanto chi ogni giorno
la dovrà conquistare.
E così, circondati dal pericolo, vivano
qui il bimbo, l’uomo, il vecchio, la loro età operosa.
Tanto folto fervore, lo potessi vedere!
In una terra libera fra un popolo libero esistere!».

Johann Wolfgang von Goethe, Faust
(Atto V; Scena: Grande cortile antistante il palazzo),
Introduzione con testo a fronte e note a cura di Franco Fortini,
Mondadori, I Meridiani, 1999, p. 1017.

 

 


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Aldous Huxley (1894-1946) – Medicus curat, natura sanat: il medico cura, la natura guarisce.

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«Medicus curat, natura sanat: il medico cura, la natura guarisce. Il vecchio aforisma riassume perfettamente lo scopo della medicina, che è quello di assicurare agli organismi le condizioni interne ed esterne più favorevoli all’azione delle forze autoregolatrici e restauratrici.
Se non vi fosse alcuna vis medicalrix nalurae, alcuna naturale forza risanatrice, la medicina sarebbe impotente e il minimo disordine porterebbe subito alla morte o si tramuterebbe in malattia cronica.
Quando le condizioni sono favorevoli, gli organismi malati tendono a riprendersi mettendo in azione le forze autorisanatrici».

Aldous Huxley, L’arte di vedere, Adelphi, 1989; The art of seeing, 1942.

 

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Risvolto di copertina

Colpito, fin da giovane, da una grave diminuzione della vista, Aldous Huxley rieducò i suoi occhi seguendo il «metodo Bates», assai discusso in quegli anni. E in questo libro vuole comunicarci quanto ha appreso nel corso di questa sua esperienza di autoguarigione. Ma, come sempre in Huxley, anche se il discorso ha un riferimento fattuale e fisiologico estremamente preciso, la sua portata va molto al di là. Per aiutare la natura a risanarci, osserva Huxley, bisogna innanzitutto arginare l’invadenza dell’io cosciente, perché «quanto più c’è io tanto meno c’è Natura, cioè il funzionamento proprio e corretto dell’organismo». Nell’atto del vedere entra dunque in gioco tutto il rapporto fra la mente e l’organo che le è più vicino. Così questo resoconto, che ci permette di addentrarci in tutti i meandri di quelle funzioni altamente complesse che compiono i nostri occhi in ogni momento, diventa un libro di esercizi per l’immaginazione, una guida sapiente a quella «vigile passività» che ci è preziosa per vedere bene in ogni possibile senso – e innanzitutto in noi stessi.

 


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Karl Marx (1818-1883) – Per sopprimere il pensiero della proprietà privata basta e avanza il comunismo pensato. Per sopprimere la reale proprietà privata ci vuole una reale azione comunista.

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Opere filosofiche giovanili

Opere filosofiche giovanili

 

«L’alienazione della vita umana resta […] un’alienazione tanto più grande quanto più si abbia coscienza di essa come tale: se può esser consumata, lo è solo mediante il comunismo messo in opera.
Per sopprimere il pensiero della proprietà privata basta e avanza il comunismo pensato.
Per sopprimere la reale proprietà privata ci vuole una reale azione comunista».

Karl Marx, Opere filosofiche giovanili,
a cura di Galvano della Volpe,
Editori Riuni, 1969.

 


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Albert Einstein (1879-1955) – Al primo posto lo sviluppo dell’attitudine generale a pensare e a giudicare indipendentemente.

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Pensieri degli anni difficili

***

«Solo una vita vissuta per gli altri
è una vita degna di essere vissuta».
Albert Einstein

***

«La scuola dovrebbe sempre avere come suo fine che i giovani ne escano con personalità armoniosa, non ridotti a specialisti. Questo, secondo me, è vero in certa misura anche per le scuole tecniche, i cui studenti si dedicheranno a una ben determinata professione.
Lo sviluppo dell’attitudine generale a pensare e a giudicare indipendentemente, dovrebbe sempre essere al primo posto, e non l’acquisizione di conoscenze specializzate».

Albert Einstein, Pensieri degli anni difficili,
prefazione di Carlo Castagnoli,
Bollati Boringhieri, 2014, pp. 83-84.

Risvolto di copertina

Pubblicato nel 1950 e uscito per la prima volta in Italia nel 1965, Pensieri degli anni difficili raccoglie le riflessioni di Albert Einstein che si snodano dal 1933 al 1950. Al centro di questi scritti, pensati per un pubblico di formazione non scientifica, sono i temi più cari al premio Nobel per la Fisica: l’amore per la scienza, la difesa delle libertà fondamentali e il rispetto per il disaccordo e l’indipendenza intellettuale. Accanto a riflessioni di carattere scientifico, sulla relatività o sull’atomo, con le sue applicazioni e conseguenze, Einstein prende posizione anche su temi sociali, politici ed etici, la concezione del mondo e dell’uomo, dimostrando una indiscussa autorevolezza ben al di là del ristretto ambito della fisica. La sua è la voce di un grande saggio, preoccupato per il destino dell’umanità, che vede nella scienza un’opportunità decisiva di riscatto.

 

 


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Stefan Zweig (1881-1942) – Soltanto il libro esercitava un potere su di lui, mai il denaro.

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«Poter tenere fra le mani un libro prezioso significava infatti per Mendel quel che per altri è l’incontro con una donna. Quei momenti erano erano le sue notti d’amor platonico.
Soltanto il libro esercitava un potere su di lui, mai il denaro. Perciò inutilmente grandi collezionisti […] cercarono di aggiudicarselo per la loro biblioteca come consigliere […]: Jakob Mendel rifiutò sempre».

Stefan Zweig, Mendel dei libri,
Adelphi, 2013, pp. 26-27.

Risvolto di copertina

La storia di un uomo che forse non ha letto tutti i libri, ma che tutti li conosce. Il sovrano di un mondo parallelo – un mondo di carta.

 

 


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Marguerite Yourcenar (1903-1987) – Ho sempre avuto fortissimo l’orrore del possesso, l’orrore dell’acquisizione, dell’avidità, della logica per cui la riuscita consiste nell’accumulare denaro.

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Ad occhi aperti

Ad occhi aperti

***

Il vero luogo natio è quello
dove per la prima volta si è posato
uno sguardo consapevole su se stessi:
La mia prima patria sono stati i libri.

Marguerite Yourcenar

***

«Quella che considero una forma di schiavitù è la preoccupazione del poveraccio (che sia pagato centocinquantamila dollari all’anno come dirigente. o diecimila come impiegato, la cosa non cambia) che trema all’idea di lasciare la fabbrica, benché avvelenata dall’inquinamento, o produttrice di oggetti dannosi o stupidamente inutili, perché ha paura di perdere benefici e pensione. Questa è schiavitù, perché quell’uomo non oserà mai protestare, qualunque cosa avvenga. E non potrà neppure protestare per ragioni
impersonali, politiche o sociali : è schiavo di una “situazione”.

Per quello che mi riguarda, di fronte alla scelta fra la sicurezza e la libertà, ho sempre optato nel senso della libertà.

E poi, in fondo, ho sempre avuto fortissimo l’orrore del possesso, l’orrore dell’acquisizione, dell’avidità, della logica per cui la riuscita consiste nell’accumulare denaro.

Durante i primi anni del mio soggiorno negli Stati Uniti – abbiamo sempre i nostri momenti
di ingenuità – dicevo a me stessa : “Ho comunque bisogno di una riserva finanziaria in caso di necessità”. E, con quel po’ di denaro che mi cresceva, ho comperato delle azioni qualunque, così, a casaccio. Poi, un bel giorno, ho visto su un giornale la fotografia di una fabbrica che vomitava torrenti di fumo nero : l’ho incollata sulla mia brava cartella di azioni e ho capito che l’episodio era chiuso, che non ne avrei acquistate mai più.
Noti che, in un modo o nell’altro, non si esce da quella logica perché, anche se si mettono dei soldi in banca su di un semplice libretto di risparmio, la banca dispone del vostro denaro e lo investe in affari ai quali non vorreste affatto partecipare»

Marguerite Yourcenar, Ad occhi aperti. Conversazioni con Matthieu Galey, Bompiani, 1988, p. 73

 

Risvolto di copertina

“Quando si varca la soglia di Petite-Plaisance, sotto la veranda da cui pendono spighe di granturco, simbolo locale di prosperità… si ha la sensazione di penetrare direttamente in un luogo dove l’aria è diversa. Lo sguardo di Marguerite Yourcenar si posa sul visitatore, lo valuta, lo giudica, lontano e al tempo stesso gentile, con una vaga sfumatura di ironia. Poi lei, comincia a parlare, con la sicurezza di chi crede in ciò che dice…” Così scrive Matthieu Galey nella presentazione di Ad occhi aperti, il testo in cui nel 1980 ha raccolto una serie di colloqui con la scrittrice. Con interventi brevi e puntuali, spesso ridotti a battute di rilancio, il critico ha dato modo alla Yourcenar di spaziare in tutta libertà tra ricordi personali, sentimenti, questioni letterarie, etiche, universali, e questi dialoghi risultano intensi e lineari come un’opera narrativa.

 


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Elena Irrera – Figure del bello nella filosofia di Aristotele.

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Elena Irrera

Figure del bello nella filosofia di Aristotele
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Osservando con sguardo sinottico la vasta produzione di logoi aristotelici a noi pervenuti, è possibile riscontrare la presenza di nozioni che, essendo impiegate in una nutrita varietà di ambiti disciplinari, possono essere a buon diritto qualificate come “trans-contestuali”. Aristotele sembra idealmente invitare i suoi lettori non solo ad individuare tali nozioni e a riflettere sul ruolo da esse svolto all’interno di specifici settori conoscitivi, ma anche a profilare degli spazi virtuali di collegamento e interazione tra settori di indagine differenti alla luce della loro comune presenza in ciascuno di essi. La constatazione che un dato termine (e, di conseguenza, anche lo spettro di temi e significati da esso evocati) ricorra in tipi differenti di indagine filosofica suggerisce la possibilità che lo stesso Aristotele abbia intenzionalmente congegnato vari aspetti della sua riflessione in maniera tale da rendere le specifiche argomentazioni impiegate e i loro rispettivi domíni di afferenza “permeabili” ad un gioco di reciproci rimandi.
In questo senso, è ragionevole assumere che, attraverso l’individuazione di alcuni elementi lessicali e concettuali comuni a settori disparati, i vari aspetti della riflessione aristotelica sulla realtà e i suoi princìpi si prestino ad essere colti dal lettore in una visione d’insieme, ovvero ad essere osservati come componenti di una struttura complessa di soggetti interconnessi che trascende le singole specificità disciplinari. Nel presente contributo tenterò di offrire alcuni spunti di analisi su un concetto che ricorre in una pluralità di aree di ricerca, tra le quali la metafisica, la fisica, la biologia, l’etica e la politica: quello di tò kalón. L’espressione che designa il concetto in questione è stata variamente tradotta dagli studiosi. Nella sua versione della Metafisica, Reale opta per la traduzione “il bello”; nelle sue traduzioni dell’Etica Eudemia, dell’Etica Nicomachea e della Grande Etica Fermani adotta le espressioni “il bello” e “il bello morale”. L’idea che tò kalón esprima una nobiltà di natura morale emerge ad esempio in alcune traduzioni angloamericane, come quella di Rowe, che utilizza “the fine”, e una nutrita schiera di studiosi che rendono l’espressione in esame con “the noble” (Rackham, Ross, Ostwald, Crisp, Bartelett e Collins, Reeve).
È opinione generalmente condivisa che l’ideale del tò kalón, nella cultura greca classica, non indichi soltanto proprietà e valori prettamente “estetici”, ossia pertinenti alla sfera di una bellezza puramente fisica che sia oggetto di un’esperienza sensoriale (visiva e/o uditiva) fine a se stessa. Al contrario, come avremo modo di osservare, l’ideale in questione appare in grado di innescare e orientare percorsi umani di conoscenza e di azione virtuosa che trascendono il piano di un confronto con il mondo esterno non mediato dalla riflessione o dall’educazione.
Aristotele introduce la questione della bellezza in numerose occasioni e contesti di indagine differenti, ossia ambiti di discussione non immediatamente accostabili gli uni agli altri né in termini di finalità, né in termini degli argomenti trattati. Il bello è ad esempio menzionato come proprietà riscontrabile in oggetti fisici e sostanze naturali, in azioni umane e perfino in forme di organizzazione del potere politico. Esso può essere associato alla perfezione formale degli enti o al senso di piacevolezza e/o di desiderabilità intrinseca che una simile proprietà stimola negli esseri umani che la rilevano. A volte, esso è indicato spesso come motivazione per un comportamento individuale autenticamente virtuoso, e come ideale che il buon legislatore è chiamato ad imprimere tanto nelle leggi quanto nelle proprie azioni. Lo stesso Aristotele sembra sostenere che uno degli scopi dell’educazione sia quello di fornire orientamenti di crescita e di evoluzione che portino gli individui ad essere “amanti del bello” e, di conseguenza, più inclini di altri a comprendere i ragionamenti sulla natura della virtù e sulla necessità di acquisirla in vista del conseguimento del bene umano.
Tratto comune a tali approcci è l’idea che il bello sia oggetto di un’esperienza distintamente umana, ovvero una esperienza capace di stimolare attivamente un corretto esercizio di quelle facoltà deputate alla realizzazione delle possibilità di perfezionamento della natura razionale degli individui, tanto nella sfera del pensiero teorico quanto in quella dell’agire pratico. Indagare il ruolo che il bello ricopre nella vita umana, pertanto, permetterà di delineare una prospettiva di osservazione particolare delle dinamiche attraverso cui tale perfezionamento può avvenire.
L’ipotesi di lavoro che orienterà la presente discussione è rappresen­tata dall’idea che la nozione di tò kalón, in virtù della sua caratteristica trans-contestualità, consenta di mettere in rilievo alcuni tipi di collega­mento tra settori di indagine dotati di autonomo statuto disciplinare. In particolar modo, si tenterà di osservare come la nozione in esame funga da fil rouge tra i cosiddetti étikoì lògoi, ossia quelli che costituiscono l’intelaiatura argomentativa dell’Etica Nicomachea, dell’Etica Eudemia e della Grande Etica, e il contenuto della Politica. Alla luce della funzione svolta dal bello nelle riflessioni condotte da Aristotele nei testi in questione, i discorsi sui princìpi pratici discussi nelle Etiche e quelli relativi alla natura della polis, del cittadino, del governante e delle costituzioni, appariranno come espressioni di un’area unitaria di indagine, quella volta alla ricerca del bene umano e della molteplicità delle sue espressioni (giustizia, amicizia, singole virtù etiche ed intellettuali, il piacere) nella dimensione politica.

Elena Irrera

 


Elena Irrera
Il bello come causalità metafisica in Aristotele,
Mimesis Edizioni, 2011.

 

 

IL bello come

Risvolto di copertina

Può la ricerca della bellezza orientare la strutturale tensione dell’uomo verso la conoscenza? Può la bellezza stessa offrire una via d’accesso alla struttura e alla comprensione umana del bene? Il presente studio si propone di rispondere a tali quesiti offrendo un parziale tentativo di ricostruzione del ruolo giocato dal bello (tò kalòn) nella metafisica e cosmologia aristoteliche. Viene inoltre presentato un caso particolare che, a giudizio dell’autrice, rende particolarmente visibile l’applicazione della nozione del “bello” (concepita come vera e propria forma di “causalità”), ad una sfera di carattere squisitamente pratico: quella dell’azione legislativa virtuosa descritta in alcuni frammenti del Protreptico. Scopo del libro è quello di mostrare che il bello, anziché costiuire una statica proprietà degli oggetti, si rivela un fattore attivamente operante in natura, prefigurando per di più la possibilità di un agire pratico umano improntato alla contemplazione intellettuale dei princípi di bellezza.


Elena Irrera,
Sulla bellezza della vita buona.
Fini e criteri dell’agire umano in Aristotele
Carabba Editrice, 2012.

 

Sulla bellezza della vita buona

 

Risvolto di copertina

Che la ricerca umana della bellezza possa configurarsi come un tema-chiave nella riflessione aristotelica sui fini e i metodi della razionalità pratica non costituisce certamente una novità. È infatti generalmente riconosciuto che il bello, anziché essere relegato da Aristotele a valore puramente estetico, sia in più occasioni introdotto come oggetto di indagine morale e come fine che l’uomo virtuoso si propone di raggiungere.


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Jonathan Swift (1667-1745) – La mancanza di virtù morali non può mai essere compensata dalla superiorità di doti intellettuali.

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«Ma la mancanza di virtù morali può così poco essere compensata dalla superiorità di doti intellettuali, che i pubblici impieghi non debbono affidarsi mai in mani altrettanto pericolose quanto quelle di questi immorali intelligenti; almeno, gli errori che una persona buona commette per ignoranza non riescono mai così fatali alla cosa pubblica, come i raggiri dell’uomo corrotto e straordinariamente abile a mettere in opera, moltiplicare e difendere le proprie bricconate».

Jonathan Swift, I viaggi diGulliver, in Opere, Mondadori, 2003, p. 82.

 

 

 


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Marguerite Yourcenar (1903-1987) – Costruire, significa collaborare con la terra. Ricostruire significa collaborare con il tempo.

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«Quasi tutto quel che gli uomini
han detto di meglio
è stato detto in greco».
M. Yourcenar,
Memorie di Adriano, Einaudi, 1981, p. 34

 

«Costruire, significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre […]. Quanta cura, per escogitare la collocazione esatta di un ponte e d’una fontana, per dare a una strada di montagna la curva più economica che è al tempo stesso la più pura! … […] Costruire un porto, significa fecondare la bellezza d’un golfo. Fondare biblioteche, è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire. […]
Ricostruire significa collaborare con il tempo nel suo aspetto di “passato”, coglierne lo spirito o modificatlo, protenderlo, quasi, verso un più lungo avvenire; significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti. La nostra vita è breve […]
Cerchiamo di entrare nella morte a occhi aperti…».

 

Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, Einaudi, 1981, pp. 120-121, 276.

 


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Karel Kosík (1926-2003) – Per la conoscenza della realtà umana nel suo complesso e per scoprire la verità della realtà nella sua autenticità, l’uomo dispone di due “mezzi”: la filosofia e l’arte. Nella loro funzione l’arte e la filosofia sono per l’uomo vitalmente importanti, impagabili e insostituibili. Rousseau avrebbe detto che sono inalienabili.

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Dialettica del concreto.

«In quale linguaggio è scritto il libro del mondo umano e della realtà umano-sociale? Come e per chi si svela tale realtà? Se la realtà umano-sociale venisse conosciuta nella sua realtà di per se stessa e nella coscienza ingenua quotidiana, in tal caso la filosofia e l’arte diventerebbero un lusso inutile che, secondo le esigenze, può venir preso in considerazione o rigettato. La filosofia e l’arte non farebbero altro che ripetere ancora una volta – sia concettualmente con linguaggio intellettuale, sia per immagini con linguaggio emozionale – ciò che è già noto anche senza di esse e ciò che esiste per l’uomo indipendentemente da esse.íí
L’uomo vuole comprendere la realtà, ma spesso riesce ad avere “in mano” soltanto la superficie della realtà o una sua falsa apparenza. Come quindi si svela la realtà nella sua autenticità? Come si manifesta per l’uomo la verità della realtà umana? L’uomo giunge per
mezzo di scienze speciali alla conoscenza di parziali settori della realtà umano-sociale e alla verifica delle loro verità. Per la conoscenza della realtà umana nel suo complesso e per scoprire la verità della realtà nella sua autenticità, l’uomo dispone di due “mezzi”: la filosofia e l’arte. Per questa ragione l’arte e la filosofia possiedono per l’uomo un significato specifico e una particolare miissione. Nella loro funzione l’arte e la filosofia sono per l’uomo vitalmente importanti, impagabili e insostituibili. Rousseau avrebbe detto che sono inalienabili.
Nella grande arte la realtà si svela all’uomo. L’arte, nel senso proprio della parola, è allo stesso tempo demistificatrice e rivoluzionaria, giacché conduce l’uomo, dalle rappresentazioni e dai pregiudizi sulla realtà, fino alla realtà stessa e alla sua verità. Nell’arte autentica e nell’autentica filosofia si svela la verità della storia: qui l’umanità è posta di fronte alla sua propria realtà.
Qual è la realtà che si svela all’uomo nell’arte? Forse una realtà che l’uomo già conosce e di cui vuole soltanto appropriarsi in altra forma, rappresentandoseIa cioè sensibilmente? Se le opere drammatiche di Shakespeare non sono “nient’altro che” la rappresentazione artistica della lotta di classe nell ‘epoca dell’accumulazione primitiva, se un palazzo rinascimentale non è ”’nient’altro che” l’espressione del potere di classe della borghesia capitalistica allora nascente, si pone a questo punto la domanda: perché questi fenomeni sociali che esistono di per se stessi e indipendentemente dall’arte devono venire ancora una volta rappresentati dall’arte, e cioè sotto un’apparenza che costituisce un mascheramento della loro reale natura e che, in un certo senso, allo stesso tempo nasconde e manifesta la loro vera essenza? In una tale concezione si presuppone che la verità espressa dall’arte può venir raggiunta anche per un’altra via, soltanto con la differenza che l’arte presenta una tale verità “artisticamente”, in immagini che possiedono
un’ evidenza sensibile, mentre sotto un altro aspetto quella stessa verità sarebbe stata molto meno suggestiva.
Un tempio greco, una cattedrale medioevale o un palazzo rinascimentale esprimono la realtà, ma al tempo stesso anche creano la realtà. Tuttavia essi non creano soltanto la realtà antica, medioevale o rinascimentale, non sono soltanto elementi costruttivi ciascuno
della rispettiva realtà, bensl essi creano come perfette opere artistiche una realtà che sopravvive al mondo storico dell’antichità, del medioevo e del rinascimento. In una tale sopravvivenza si svela il carattere specifico della loro realtà. Il tempio greco è qualcosa di diverso da una moneta antica che col tramonto del mondo antico ha perso la propria realtà, non ha piu validità, e ormai non vale più come mezzo di pagamento e materializzazione di un valore. Con il tramonto del mondo storico perdono la loro realtà anche gli elementi che in esso avevano una funzione; il tempio antico ha perso la sua immediata funzione sociale come luogo destinato agli uffici divini e alle cerimonie religiose; il palazzo rinascimentale non è ormai piu il simbolo visibile del potere né l’autentica sede di un magnate del rinascimento. Ma con il tramonto del mondo storico e con l’abolizione delle loro funzioni sociali né il tempio antico né il palazzo rinascimentale hanno perduto il loro valore artistico. Perché? Essi esprimono forse un mondo che nella sua storicità è già scomparso, ma che sopravvive sempre in essi? Come e con che sopravvive? Come complesso di condizioni date? Come materiale lavorato ed elaborato da uomini che hanno impresso in essi le proprie caratteristiche? A partire da un palazzo rinascimentale è possibile svolgere delle induzioni sul mondo rinascimentale; per mezzo del palazzo rinascimentale è possibile indovinare la posizione dell’uomo nella natura, il grado di realizzazione della libertà dell’individuo, la divisione dello spazio e l’espressione del tempo,
la concezione della natura. Ma l’opera d’arte esprime il mondo in quanto lo crea. Essa crea il mondo in quanto svela la verità della realtà, in quanto la realtà si esprime nell’opera d’arte. Nell’opera d’arte la realtà parla all’uomo.
[…] Proprio l’analisi dell’opera d’arte ci conduce a porci la domanda che costituisce il principale oggetto delle nostre considerazioni: che cos’è la realtà umano-sociale e come questa stessa realtà viene creata?
Se la realtà sociale in rapporto con l’opera d’arte si considera esclusivamente come le condizioni e le circostanze storiche che hanno determinato o condizionato l’origine dell’opera, l’opera stessa e la sua artisticità diventano qualcosa d’inumano. Se l’opera è fissata solo come opera sociale, prevalentemente o esclusivamente nella forma di oggettività reificata, la soggettività viene concepita come qualcosa di asociale, come un fatto che è condizionato, ma non creato né costituito dalla realtà sociale. […] Nella società
capitalistica moderna il momento soggettivo della realtà sociale è stato distaccato dall’oggettivo e i due momentì si drizzano l’uno contro l’altro come due sostanze indipendenti: come mera soggettività da una parte e come oggettività reificata dall’altra. Di qui hanno origine le mistificazioni: da una parte l’automatismo della situazione data, dall’altra la psicologizzazione e la passività del soggetto. Ma la realtà sociale è infinitamente piu ricca e piu concreta della situazione data e delle circostanze storiche, perché essa include in sé la prassi umana oggettiva, la quale crea sia la situazione che le circostanze. Le circostanze costituiscono l’aspetto fissato della realtà sociale. Non appena esse vengono distaccate dalla prassi umana, dall’attività oggettiva dell’uomo, diventano qualcosa di rigido e d’inanimato.
[…] Il sociologismo riduce la realtà sociale alla situazione, alle circostanze, alle condizioni storiche, che, così deformate, assumono l’aspetto dell’oggettività naturale. Il rapporto tra le “condizioni” e le “circostanze storiche” cosi intese da una parte e la filosofia e l’arte dall’altra non può essere essenzialmente altro che meccanico ed esteriore. Il sociologismo illuminato si sforza di eliminare un tale meccanicismo mediante una complessa gerarchia di “termini mediatori” autentici o costruiti (“l’economia” si trova “mediatamente” in contatto con l’arte), ma fa il lavoro di Sisifo.  […] Come viene creata la realtà sociale?, la realtà sociale stessa esiste non soltanto sotto la forma di “oggetto”, di situazione data, di circostanze, ma anzitutto come attività oggettiva dell’uomo, che crea le situazioni come parte oggettivizzata della realtà sociale.
Per il sociologismo, la cui più laconica definizione è lo scambio della situazione data al posto dell’essere sociale, la situazione muta e il soggetto umano reagisce ad essa. Reagisce come un complesso immutabile di facoltà emozionali e spirituali, e cioè cogliendo, conoscendo e rappresentando artisticamente o scientificamente la situazione stessa. La situazione muta, si svolge, e il soggetto umano marcia parallelamente ad essa e la fotografa. L’uomo diventa un fotografo della situazione. Tacitamente si parte dal presupposto che nel corso della storia varie strutture economiche si sono alternate, sono stati abbattuti dei troni, delle rivoluzioni hanno trionfato, ma la facoltà dell’uomo di “fotografare” il mondop è rimasta la stessa dall’intichità ad oggi.
L’uomo coglie e si appropria la realtà “con tutti i sensi”, come affermò Marx […].
L’uomo scopre il senso delle cose per il fatto che egli si crea un senso umano per le cose. Pertanto un uomo dai sensi sviluppati possiede un senso anche per tutto ciò che è umano, mentre un uomo dai sensi non sviluppati è chiuso di fronte al mondo e lo “percepisce” non universalmente e totalmente, con sensibilità e intensità, bensì in modo unilaterale e superficiale […]
Non critichiamo il sociologismo per il fatto che si volge alla situazione data, alle circostanze, alle condizioni per spiegare la cultura, bensl per il fatto che non comprende il significato della situazione in se stessa, né il significato delle situazioni in rapporto con la cultura. La situazione al di fuori della storia, la situazione senza soggetto, non soltanto costituisce una configurazione pietrificata e mistificata, ma allo stesso tempo una configurazione priva di senso oggettivo. Sotto questo aspetto le “condizioni” mancano di ciò che è piu importante anche dal punto di vista metodologico, e cioè un proprio significato oggettivo, e ricevono invece un senso illegittimo in dipendenza dalle opinioni, dai riflessi e dalla cultura dello scienziato.
La realtà sociale ha cessato di essere per l’indagine ciò che essa oggettivamente è, e cioè totalità concreta e si scinde in due interi eterogenei e indipendenti, che il “metodo” e la “teoria” si sforzano di riunire; la scissione della totalità concreta della realtà sociale mette capo alla conclusione seguente: da una parte viene pietrificata la situazione, mentre dall’altra parte vengono pietrificati lo spirito, la psichicità, il soggetto. […]
Una tale insufficienza si manifesta tanto nell’accettazione di forme ideologiche già pronte, per le quali viene trovato un equivalente economico o sociale, quanto nella rigidezza conservatrice con cui ci si sbarra l’accesso alla comprensione dell’arte moderna […].
Tuttavia sembra che i presupposti teoretico-filosofici di una tale insufficienza non siano stati sufficientemente esaminati».

 

Karel Kosík, Dialettica del concreto, Bompiani, 1965, 137-145.


Un filosofo in tempi di farsa e di tragedia

Un filosofo in tempi di farsa e di tragedia


Coperta 183

Linda Cesana – Costanzo Preve

Filosofia della verità e della giustizia. Il pensiero di Karel Kosík

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