Luigina Mortari – “Pensare” risponde alla necessità di stare alla ricerca di orizzonti di senso. A muovere il pensare è il desiderio di significato. Il non pensare liberamente è segno di una vita non vissuta nella sua essenza.

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A scuola di libertà

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«Gli esseri umani […] sono innanzitutto esseri pensanti, nel senso che disegnano il cammino del proprio esistere con il pensiero, perché il pensare risponde alla necessità di stare alla ricerca di orizzonti di senso alla luce dei quali rischiarare il cammino esistenziale.
Ne consegue che la libertà ha una necessità irrevocabile del pensare, così come, reciprocamente, il pensare ha bisogno di libertà. Il filosofo, la figura che rappresenta chi ama pensare, è infatti colui che è “allevato davvero nella libertà”, perché solo chi ha esperienza della libertà può apprezzarla e averne cura. L’arte del pensare è, dunque, quella che si apprende per essere liberi cittadini.
[…] La ragione calcolante è mossa dall’ansia di dominio, dal desiderio di tenere sotto controllo gli eventi, da una volontà di potenza che deve far presa sulle cose. È rispetto a questo tipo di ragione che tutte le cose, viventi e non viventi, sono ridotte a mera risorsa, dal momento che non sarebbero di alcun valore se non per quello che noi possiamo fare di loro.
A muovere il pensare, invece, non è l’ansia di dominio, ma il desiderio di significato, ossia la tensione a cercare modi esistentivi capaci di inverare l’esistenza. In questo senso, pensare è “l’assoluto essere desti”, cioè stare con consapevolezza radicati nel presente per dare un’impronta originale al proprio esserci.
La mancanza di pensiero si rende evidente in un linguaggio dominato dai cliché, dalle frasi consumate, dall’adesione a codici di espressione e di condotta convenzionali e standardizzati, nell’incurante superficialità con cui si affrontano molte questioni decisive per la qualità dell’esistenza umana. Quando il pensiero manca, la mente diviene preda delle mezze verità, che altro non sono se non mere opinioni messe a lucido. Affidarsi a unità standardizzate di pensiero risponde al bisogno di difendersi dall’intensa problematicità dell’ esperienza umana […].
Usare pensieri già pensati e affidarsi a regole routinarie non può esaurire l’intera vita cognitiva, perché il male si compie non solo quando ci si lascia muovere da motivi abietti, ma anche, semplicemente, lasciando che le cose accadano così come stanno per accadere, poiché ci si astiene dal prestare attenzione al reale, dall’interrogarlo per comprenderlo.
Quando il processo di decisione relativo all’ agire si affida alle regole date, senza avvertire la necessità di interrogare il senso di ciò che si fa, si finisce per dismettere la responsabilità dell’esercizio della propria libertà di decidere consapevolmente.
Se l’essere umano è l’ente chiamato a decidere il possibile, allora il non pensare liberamente è segno di una vita non vissuta nella sua essenza: una situazione, questa, decisamente problematica, perché fa dipendere il nostro agire dalle decisioni di altri. La storia dimostra come tutte le volte che, in un contesto nel quale il pensare fatica a essere coltivato, arriva qualcuno che con forza intende modificare le regole di condotta vigenti sostituendole con altre senza passare attraverso un processo di negoziazione condivisa […]; infatti, chi tende a restare nel non-pensare si adegua passivamente ai nuovi codici senza avvertire la necessità di un’interrogazione etica sulla sensatezza o meno di quanto sta accadendo.
[…] È in atto una grave erosione della libertà individuale di pensare da sé per decidere da sé, e poiché questa è la qualità che definisce l’essenza dell’ essere umano rispetto agli altri viventi, allora è in atto anche una mancanza di rispetto dell’umanità dell’altro. Nel momento in cui si legittima l’azione di sottrarre all’altro la facoltà di decidere, si presuppone che il volere non appartenga più alla persona come sua disposizione sostanziale […]. Sottrarre all’altro la responsabilità di decidere significa, invece, decurtarlo della possibilità di rispondere alla chiamata a esistere, che consiste nel rispondere alla chiamata di scegliere di scegliere.
Arroganza e mancanza di rispetto sono due tra i fenomeni più gravi che ogni coscienza dovrebbe combattere, perché […] allora c’è il rischio del proliferare della crudeltà e dove c’è crudeltà viene meno la condizione di una buona qualità della vita, quel “vivere e fare bene” in cui consiste l’eudaimonia, cioè una vita buona per l’essere umano [Aristotele, Etica Nicomachea, I, 3, 1095a 19]» (pp. XI-XVIII).

Luigina Mortari,
A scuola di libertà. Formazione e pensiero autonomo, Raffaello Cortina Editore, 2008.

 

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Herbert Marcuse (1898-1979) – La spontaneità soggettiva dell’uomo moderno viene trasferita sulla macchina, della quale è al servizio, così da subordinare la sua vita al “realismo” nei confronti di un mondo nel quale la macchina è il soggetto attivo e lui il suo oggetto.

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Il nazionalsocialismo è l’esempio evidente delle modalità con le quali un’economia altamente razionalizzata e meccanizzata, dotata della massima efficienza produttiva, può operare nell’interesse dell’oppressione totalitaria e conservare la penuria. Il Terzo Reich è realmente una forma di “tecnocrazia”: le considerazioni tecniche dell’ efficienza e della razionalità imperialistiche superano i criteri tradizionali della profittabilità e del benessere generale. Nella Germania nazista il regno del terrore si regge non solo sulla forza bruta, estranea alla tecnologia, ma anche sull’ingegnosa manipolazione del potere insito nella tecnologia stessa: l’intensificazione del lavoro, la propaganda, l’addestramento dei giovani e degli operai, l’organizzazione della burocrazia governativa, industriale e di partito – tutti strumenti del terrore quotidiano – si attengono alle direttive della massima efficienza tecnologica. Tale tecnocrazia terroristica non si può ricondurre alle esigenze eccezionali dell”’economia di guerra”: questa rappresenta piuttosto lo stato normale di quell’ordinamento nazionalsocialista del processo sociale ed economico, di cui la tecnologia è uno degli stimoli principali.
Nel corso del processo tecnologico si sono affermati nella società una nuova razionalità e nuovi criteri di individualità, differenti e opposti a quelli che avviarono la marcia della tecnologia.
Queste trasformazioni non sono l’effetto (diretto o derivato) della macchina su coloro che la usano, o della produzione di massa sui consumatori; sono piuttosto esse stesse fattori determinanti nello sviluppo della macchina e della produzione di massa. […].
L’individuo umano, di cui la rivoluzione borghese ha fatto l’unità fondamentale e il fine della società, sosteneva valori che contraddicono apertamente quelli dominanti nella società odierna. Se cerchiamo di riunire in un unico concetto guida le varie tendenze religiose, politiche e economiche che davano forma all’idea di individuo nel XVI e nel XVII secolo, possiamo definire l’individuo il soggetto di determinati criteri e valori fondamentali che – si riteneva – nessuna autorità esterna poteva usurpare. Tali criteri e valori erano propri delle forme di vita, sociale come personale, più adeguate allo sviluppo delle facoltà e delle capacità dell’uomo. Per la stessa ragione, essi rappresentavano la “verità” della sua esistenza individuale e sociale. Si riteneva che l’individuo, in quanto essere razionale, fosse capace di scoprire queste forme col proprio pensiero, e, una volta acquisita la libertà di pensiero, di perseguire una linea di condotta volta a realizzarle. […] Il principio dell’individualismo, il perseguimento dell’interesse personale, era condizionato dall’assunto che tale interesse personale fosse razionale, che fosse cioè il prodotto del pensiero autonomo e ne fosse guidato e controllato. […] Gli uomini dovevano aprirsi un varco attraverso l’intero sistema di idee e valori loro imposti, e scoprire e fare propri le idee e i valori conformi alloro interesse razionale. Dovevano vivere in uno stato di costante attenzione, apprensione e critica, per respingere tutto ciò che non fosse vero e giustificato dalla ragione libera. Ciò costituiva, in una società non ancora razionale, il principio di una permanente tensione e opposizione, dal momento che la vita degli uomini era governata ancora da falsi criteri: libero individuo era colui che li sottoponeva a critica, ricercando quelli veri e promuovendone la realizzazione. […]
L’adempimento della razionalità presupponeva un adeguato assetto economico e sociale, tale da fare appello a individui la cui prestazione sociale coincidesse, almeno il larga parte, con il proprio lavoro. […] Nel corso del tempo, tuttavia, il processo della produzione di merci minò la base economica sulla quale la società individualistica si era costruita. […] Il principio dell’efficienza competitiva favorisce le imprese col più alto livello di meccanizzazione e razionalizzazione delle attrezzature industriali […]: la razionalità individualistica si è trasformata in una razionalità tecnologica, la quale non è circoscritta ai soggetti e agli oggetti delle imprese su larga scala, ma caratterizza il modo pervasivo del pensiero e persino le molteplici forme di protesta e ribellione. Questa razionalità stabilisce i criteri di giudizio e promuove atteggiamenti che rendono gli uomini pronti ad accogliere e persino a introiettare i dettami dell’apparato.
Lewis Munford ha caratterizzato l’uomo nell’età della macchina come una “personalità oggettiva”, come colui che ha imparato a trasferire tutta la sua spontaneità soggettiva sulla macchina, della quale è al servizio, a subordinare la sua vita al “realismo” nei confronti di un mondo nel quale la macchina è il soggetto attivo e lui il suo oggetto.
Le distinzioni individuali di attitudini, intuito e conoscenza si trasformano in differenti determinazioni quantitative di specializzazione e addestramento, da coordinare in ogni momento all’interno del quadro comune delle prestazioni standardizzate.
L’individualità, tuttavia, non è scomparsa. Il libero soggetto dell’economia si è piuttosto sviluppato nell’oggetto di una organizzazione e coordinazione su larga scala, e la realizzazione individuale si è trasformata in efficienza standardizzata. Questa è caratterizzata dal fatto che la prestazione dell’individuo è motivata, guidata e misurata secondo criteri che gli sono esterni, e che si riferiscono a compiti e funzioni predeterminati. L’individuo efficiente è quello la cui prestazione costituisce un’azione solo in quanto è la reazione adeguata alle esigenze oggettive dell’apparato, e la cui libertà si limita alla scelta dei mezzi più adeguati per il raggiungimento di un obiettivo non stabilito da lui.
Mentre la realizzazione individuale è indipendente dal riconoscimento e si compie nel lavoro stesso, l’efficienza costituisce una prestazione remunerata e portata a compimento solo per il valore che ha per l’apparato. Insieme con la maggior parte della popolazione, la precedente libertà del soggetto economico affogò gradualmente nell’efficienza con la quale questi assolveva le mansioni assegnategli. Il mondo risultò razionalizzato a tal punto, e la sua razionalità era divenuta un potere sociale tale, che l’individuo non poteva fare di meglio che addattarvisi senza riserve. […] Il procedimento meccanico richiede una conoscenza orientata “alla pronta comprensione di fatti poco chiari, in termini quantitativi sufficientemente esatti. Questo tipo di conoscenza presuppone da parte dell’operaio un determinato atteggiamento intellettuale o psichico, quale la volontà di apprendere prontamente e apprezzare i dati di fatto, di guardarsi dall’arricchire tale conoscenza con supposte sottigliezze animistiche o antropomorfiche, con interpretazioni semipersonali dei fenomeni osservati e dei loro rapporti reciproci”.
[…] Il nuovo atteggiamento si differenzia per l’acquiescenza altamente razionale che lo contraddistingue. I fatti che dirigono il pensiero e l’azione dell’uomo non sono quelli della natura che si devono accogliere perché li si possa dominare, né quelli della società, che sono da mutare perché non corrispondono ai bisogni e alle potenzialità dell’uomo. Sono piuttosto quelli del procedimento meccanico, che si presenta come l’incarnazione della razionalità e della funzionalità.
[…] Non vi è una possibilità individuale di fuga dall’apparato che ha meccanizzato e standardizzato il mondo. […] Manovrando la macchina, l’uomo impara che l’obbedienza alle direttive è il solo modo di ottenere i risultati desiderati. Tirare avanti equivale ad adeguarsi all’apparato. Non vi è spazio per l’autonomia. La razionalità individualistica si è sviluppata in efficiente acquiescenza col continuum preesistente di mezzi e fini. Quest’ultimo assorbe gli sforzi liberatori del pensiero e le varie funzioni della ragione convergono nell’incondizionata conservazione dell’apparato.
[…] Tutto coopera a incanalare istinti, desideri e pensieri umani in modo da alimentare l’apparato[…] I rapporti tra gli uomini sono sempre più mediati dal processo meccanico. Ma i congegni meccanici che facilitano le relazioni tra gli individui ne intercettano anche e ne assorbono la libido, deviandola da tutte le aree troppo pericolose nelle quali l’individuo è libero dalla società. Difficilmente l’uomo medio si prende cura di un essere vivente con la stessa intensità e costanza che mostra per la sua automobile. La macchina che egli adora non è più materia morta, ma diventa qualcosa di simile a un essere umano. Ed essa restituisce all’uomo ciò che possiede: la vita dell’apparato sociale di cui è parte. Il comportamento umano è dotato della razionalità del processo meccanico […]. La funzionalità nei termini della ragione tecnologica è, al tempo stesso, funzionalità nei termini dell’efficienza orientata al profitto […]. Quanto più l’individuo si comporta razionalmente e attende amorevolmente al suo lavoro, tanto più soccombe di fronte agli aspetti frustranti di tale razionalità. Egli sta perdendo la capacità di astrarre dalla forma particolare nella quale la razionalizzazione si realizza, e la fede nelle sue potenzialità non realizzate. Il realismo, la sfiducia nei confronti di tutti i valori che trascendano i dati dell’osservazione, il risentimento verso tutte le interpretazioni semi personali e metafisiche, il sospetto per ogni criterio che rapporti l’ordine osservabile delle cose, la razionalità dell’apparato alla razionalità della libertà: questo atteggiamento complessivo giova fin troppo a coloro che sono interessati alla perpetuazione della forma prevalente delle realtà di fatto. Il processo meccanico richiede un “costante addestramento all’apprendimento meccanico delle cose”, e questo a sua volta promuove “la conformità a una vita programmata” […]. La “meccanica del conformismo” si estende dall’ordine tecnologico a quello sociale; governa le prestazioni non solo nelle fabbriche e nei negozi, ma anche negli uffici, nelle scuole, nelle assemblee e, da ultimo, anche nel regno dello svago e dell’intrattenimento.
Gli individui sono spogliati della loro individualità, non per una costrizione esterna, ma dalla razionalità della loro vita[…] L’uomo però non fa esperienza della perdita della libertà come dell’opera di una forza estranea e ostile; affida invece la sua libertà al comando della ragione stessa. […] Il sistema di vita creato dall’industria moderna è della massima funzionalità , convenienza e efficienza. Definita in questi termini, la ragione equivale a un’attività che perpetua questo mondo. La condotta razionale si identifica con un realismo che insegna una ragionevole remissività, e garantisce così che si proceda d’accordo con l’ordine prevalente.
[…] La razionalità viene trasformandosi da forza critica in principio di adeguamento e acquiescenza. L’autonomia della ragione perde il suo significato nella stessa misura in cui i pensieri, i sentimenti e le azioni degli uomini sono modellati dalle esigenze tecniche dell’apparato che essi hanno creato.
[…] Estendendosi all’intera società, le leggi e i meccanismi della razionalità tecnologica sviluppano una serie di propri valori di verità, che vanno bene per il funzionamento dell’apparato – e solo per questo. Le proposizioni relative a un comportamento competitivo o complice, a metodi degli affari, ai principi di un’efficace organizzazione e controllo, alla correttezza e all’uso della scienza e della tecnica, sono vere o false nei termini di questo sistema di valori, cioè nei termini propri di strumenti che dettano i loro stessi fini. Questi valori di verità sono messi alla prova e perpetuati dall’esperienza e devono guidare i pensieri e le azioni di quanti vogliono sopravvivere. La razionalità esige qui acquiescenza e coordinazione senza condizioni, sicché i valori di verità connessi ad essa implicano la subordinazione del pensiero a criteri esterni preesistenti. A questa serie di valori di verità possiamo dare il nome di verità tecnologica […]. La standardizzazione del pensiero sotto il dominio della razionalità tecnologica coinvolge anche i valori di verità critici. […]. I valori di verità critici sorti da un movimento sociale di opposizione mutano di significato nel momento in cui tale movimento si incorpora nell’apparato. […] La tendenza ad assimilarsi ai modelli organizzativi e psicologici propri dell’apparato ha determinato un mutamento nella struttura dell’opposizione sociale in Europa. La razionalità critica delle sue finalità è stata subordinata alla razionalità tecnologica […]. I gruppi di opposizione sono venuti trasformandosi in partiti di massa, e i loro dirigenti in burocrazie di massa.
[…] È possibile ridurre il tempo e l’energia spesi nella produzione delle necessità della vita, e una graduale riduzione della penuria e l’abolizione delle occupazioni competitive consentirebbe di sviluppare il sé a partire dalle sue radici naturali.
Quanto meno tempo ed energia l’uomo deve investire per conservare la vita propria e della società, tanto maggiore è la possibilità che egli possa “individualizzare” la sfera della propria realizzazione in quanto uomo. Al di là del regno della necessità potrebbero dispiegarsi le differenze essenziali tra gli uomini: ognuno potrebbe pensare e agire da sé, parlare il proprio linguaggio,
avvertire le proprie emozioni e seguire le proprie passioni. Non più incatenato all’efficienza competitiva, il sé potrebbe crescere in un regno di soddisfazione. L’uomo potrebbe riconoscersi nelle proprie passioni. Gli oggetti dei suoi desideri risulterebbero tanto meno sostituibili, una volta che fossero conquistati e modellati dal suo libero sé. Essi gli “apparterrebbero” come mai gli sono appartenuti prima, e una simile “proprietà” non sarebbe offensiva, poiché non richiederebbe di essere difesa contro una società ostile.
Un’utopia siffatta non costituirebbe uno stato di perenne felicità. L’individualità “naturale” dell’uomo è anche la fonte del suo dolore naturale. Divenuti compiutamente umani, liberi da ogni criterio estraneo, i rapporti tra gli uomini saranno permeati dalla malinconia del loro contenuto singolare. Essi sono transeunti e insostituibili, e il loro carattere transeunte risulterà accentuato, nel momento in cui la preoccupazione per l’essere umano non sarà più mescolata con la paura per la sua esistenza materiale e offuscata dalla minaccia della miseria, della fame e dell’ostracismo sociale.

 

Herbert Marcuse, Alcune implicazioni sociali della tecnologia moderna, articolo pubblicato per la prima volta in “Studies in Philosophy and Soci al Science», IX, 3, 1941, pp. 414-439. Esiste una traduzione italiana nel volume Tecnologia e potere nelle società post-liberali, a c. di G. Marramao, Liguori, Napoli 1981, pp. 137-169. Qui nella traduzione di Luca Scafoglio, in Herbert Marcuse, La società tecnologica avanzata, volume III, a cura di Raffaele Laudani, manifestolibri, 2008, pp. 25-53.


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Herbert Marcuse (1898-1979) – L’uomo ad una dimensione riconosce se stesso nelle proprie merci; l’apparato produttivo assume il ruolo di un’agente morale
Herbert Marcuse (1898-1979) – È possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi
Herbert Marcuse (1898-1979) – Se vogliamo costruire una casa di abitazione nel posto in cui sorge una prigione, dobbiamo prima demolire la prigione, altrimenti non possiamo neppure iniziare i lavori.
Herbert Marcuse (1898-1979) – Il presupposto fondamentale della rivoluzione, la necessità di un cambiamento radicale, trae origine dalla soggettività degli individui stessi, dalla loro intelligenza e dalle loro passioni, dai loro sensi e obiettivi. La soggettività liberatrice si costituisce nella storia interiore degli individui. Solo come straniamento l’arte svolge una funzione cognitiva. Essa comunica verità non comunicabili in nessun altro linguaggio: essa contraddice.
Herbert Marcuse (1898-1979) – Ciò che si definisce “utopico” non è più qualcosa che “non accade” e non può accadere nell’universo storico, bensì qualcosa il cui prodursi è impedito dalla forza delle società stabilite.


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Marguerite Yourcenar (1903-1987) – Aver ragione troppo presto equivale ad aver torto. Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri.

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Chi ama il bello finisce per trovarne ovunque, come un filone d’oro che scorre anche nella ganga più ignobile, e quando ha tra le mani questi mirabili frammenti, anche se insudiciati e imperfetti, prova il piacere raro dell’intenditore che è il solo a collezionare ceramiche ritenute comuni.

Come chiunque altro, io non dispongo che di tre mezzi per valutare l’esistenza umana: lo studio di se stessi è il metodo più difficile, il più insidioso, ma anche il più fecondo; l’osservazione degli uomini, i quali nella maggior parte dei casi s’adoperano per nasconderci i loro segreti o per farci credere di averne; e i libri, con i caratteristici errori di prospettiva che sorgono tra le righe. […] Mi troverei molto male in un mondo senza libri, ma non è lì che si trova la realtà, dato che non vi è per intero.

Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri.

Le mie inquietudini perduravano, ma le dissimulavo come delitti: aver ragione troppo presto equivale ad aver torto.

Quando si saranno alleviate sempre più le schiavitù inutili, si saranno scongiurate le sventure non necessarie, resterà sempre, per tenere in esercizio le virtù eroiche dell’uomo, la lunga serie dei mali veri e propri: la morte, la vecchiaia, le malattie inguaribili, l’amore non corrisposto, l’amicizia respinta o tradita, la mediocrità d’una vita meno vasta dei nostri progetti e più opaca dei nostri sogni: tutte le sciagure provocate dalla natura divina delle cose.
Bisogna che lo confessi: credo poco alle leggi. Se troppo dure, si trasgrediscono, e con ragione. Se troppo complicate, l’ingegnosità umana riesce facilmente a insinuarsi entro le maglie di questa massa fragile, che striscia sul fondo. Il rispetto delle leggi antiche corrisponde a quel che la pietà umana ha di più profondo; e serve come guanciale per l’inerzia dei giudici. Le leggi più antiche non sono esenti da quella selvatichezza che miravano a correggere, le più venerabili rimangono ancora un prodotto della forza. La maggior parte delle nostre leggi penali – e forse è un bene – non raggiungono che un’esigua parte dei colpevoli; quelle civili non saranno mai tanto duttili da adattarsi all’immensa e fluida varietà dei fatti. Esse mutano meno rapidamente dei costumi; pericolose quando sono in ritardo, ancor più quando presumono di anticiparli. E tuttavia, da questo cumulo di innovazioni pericolose e di consuetudini antiquate emerge qua e là, come in medicina, qualche formula utile.

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Margherite Yourcenar, Memorie di Adriano, Einaudi, 1981.

 



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Luigina Mortari – Non è possibile pensare la ricerca di una buona qualità della vita in modo solipsistico. Tutto quanto rispetto al bene non sia frutto di un investimento personale di pensiero non diventa orizzonte. Quando si evita la fatica della ricerca rigorosa, si possono vedere solo idee storte, mentre solo la ricerca seria consente di “udire cose luminose e belle”.

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«Ciascuno di noi cerca il bene, cioè una vita buona. Ma, poiché il tessuto ontologico è tutt’uno, il divenire di ciascuno di noi è profondamente intrecciato con quello dell’ altro, e dal momento che la mia esistenza è intimamente connessa con quella dell’altro non è possibile pensare la ricerca di una buona qualità della vita in modo solipsistico. Non esiste il bene al singolare, ma esiste un bene al plurale, di conseguenza la ricerca del bene non può che essere concepita come prassi relazionale. Aver cura dell’esserci è aver cura di cercare fili di bene con cui tessere il tempo della vita, e poiché esserci è con-esserci cercare il bene è cercare ciò che è bene-con-gli-altri. Dal momento che cercare il bene è il cuore dell’etica, se si considera la dimensione intimamente relazionale della condizione umana non ci può essere un’ etica del singolare, ma del singolare-plurale» (p. 97).

«Più una domanda è importante per la vita più diventa difficile; più si profila come domanda che mette fuori squadra le capacità della ragione, mostrando il nostro mancare la possibilità di afferrare precise misure per il nostro agire, più rivela la qualità densamente problematica dell’esperienza umana. Molte, fortunatamente, sono le domande con cui la ragione si confronta e che hanno risposta, ma quelle che toccano l’essenziale per l’esistenza sono destinate a rimanere non chiaramente definite. Il poeta Quasimodo parla per questo di una condizione umana “sconfitta da domande ancora aperte”; ma è proprio in questa apertura che può esserci libertà, una libertà amara, difficile sempre, ma che consente la libertà di essere.
Meditare su cosa sia il bene risponde alla necessità di una vita piena di significato e al bisogno di trovare criteri di orientamento pratico. Anche se alla domanda prima non c’è risposta definitiva, il bisogno per la vita di sapere in che cosa consista il bene è tale che non è possibile evitare di porre questa domanda. Anche se è destinata a rimanere una discrepanza inaggirabile tra il bisogno di sapere in che cosa consista il bene e la possibilità di guadagnare una conoscenza certa, chiara, cioè capace di illuminare il cammino dell’esistenza, non si può evitare di interrogarsi su tale questione.
Il problema consiste nel trovare il modo per stare con senso dentro la domanda. Quando ci si avvicina alle questioni che sono per l’esserci della massima importanza, è necessaria prudenza, cautela, nel senso che si deve aver cura che il ragionare si snodi nella forma più misurata e rigorosa possibile, perché quando si arriva alla terra del pensare, cioè la terra delle questioni decisive, i pensieri superficiali sono da evitare. Quando Glaucone, consapevole di quanto ripida sia la domanda sul bene, azzarda l’ipotesi che, pur sapendo il limite del proprio pensare, ciascuno comunque possa dire ciò che pensa, Socrate garbatamente lo rimprovera, dichiarando che “le opinioni senza vera scienza sono tutte brutte” (Platone, Repubblica, 506c).
Piuttosto che confezionare affermazioni non attendibili è meglio tacere e perseverare nella ricerca accettando lo scarto fra il proprio desiderio e quanto possiamo raggiungere.
Quando si evita la fatica della ricerca rigorosa, si possono vedere solo idee storte, mentre solo la ricerca seria consente di “udire cose luminose e belle” (ibidem, 506d).
Stare con la giusta misura nelle domande difficili significa mantenerle aperte, evitare di accanirsi nel cercare soluzioni definitive che non appartengono al potere della ragione umana. Come afferma Eraclito (framm. 45), “non tiriamo conclusioni sulle cose più grandi”.
La questione prima per la vita, e per l’etica che del senso della vita si occupa, va posta mantenendo viva la consapevolezza dell’eccedenza della domanda sul bene e insieme della limitatezza della nostra operatività sia cognitiva sia pratica. Sapere darsi la giusta misura di quello che si può cercare è un principio aristotelico […] (Aristotele, Etica Nicomachea, I, 3, 1094b 12-13; 19-21; 23 -25)
Si tratta di impegnarsi in una disamina quanto più possibile larga e profonda per cercare di pervenire a un’idea (non uso il termine risposta perché la risposta soddisfa il pensiero, mentre l’idea può essere qualcosa di germinale, non compiuto) che per quanto fragile e provvisoria possa costituire l’orizzonte alla luce del quale prendere le decisioni sulla direzione e sul ritmo del proprio camminare nella vita.
Nel mondo esistono molte idee di bene pronte all’uso, e sono molte le occasioni in cui in modo irriflessivo facciamo nostra una concezione della vita buona che non viene da una nostra autonoma riflessione, ma dall’adesione a un preciso contesto culturale. La ragione umana conosce forme di pigrizia che le fanno preferire quelle forme di chiarezza che trova già disponibili rispetto alla fatica dell’ andarle a cercare. Accade così di esperire che nei momenti cruciali, quando ci troviamo a compiere una scelta, la maggior parte della decisione è già data. Sta nell’economia necessaria della vita della mente utilizzare artefatti culturali dati, ma tutto quanto rispetto al bene non sia frutto di un investimento personale di pensiero non diventa orizzonte, non ci mette al chiaro, ci tiene nell’opacità, e nell’opaco il tempo della nostra vita non si rischiara.
Assumere la domanda sul bene come oggetto continuo del pensare, sul quale mai ci si prende la vacanza dalla responsabilità dell’esaminare con cura, significa entrare nell’esistenza, fare del tempo della vita un tempo vivo. È come accedere a un altro livello dell’essere. Come dice Socrate, una vita senza ricerca del bene non vale la pena di essere vissuta.
Si tratta di dedicare il tempo del pensare a un domandare che si sa essere mai finito. Ma questa infinitività del domandare non toglie valore al pensare intorno al bene, perché ogni idea di bene cui si perviene, meditandola nel profondo, costituisce un punto di appoggio; l’importante è assumerla come qualcosa di provvisorio, un provvisorio punto fermo. Questa provvisorietà del sapere sul bene va accettata come una necessità, perché noi siamo esseri mancanti, mancanti del perfetto compimento del desiderabile; è questa mancanza che chiama inesorabilmente alla ricerca dei modi “giusti e buoni” per dare forma al proprio essere. […]
Da qui l’inaggirabilità della domanda sul bene. Rimane tuttora valida la teoria platonica della paideia (Platone, Repubblica, VII, 518b-c)j, secondo la quale la formazione si realizza autenticamente proprio quando, anziché essere concepita come una trasmissione di idee dal docente a chi apprende, si occupa di coltivare una precisa postura della mente, che consiste nello stare impegnata a interrogare le questioni essenziali dalla cui disamina dipende il fare chiaro sui problemi del vivere.
Si tratta di apprendere a tenere la mente “voltata dalla parte giusta” (ibidem, VII, 518d) e la parte giusta è costituita dalle domande essenziali, quelle che hanno a che fare con la ricerca del bene, cioè di ciò che è giusto, buono e bello fare per dare forma a una vita buona. È con il tenere la mente salda in questa ricerca che si possono coltivare quelle “virtù dell’anima” (ibidem) necessarie per mantenere viva la ricerca di ciò che più vale, delle cose” degne di valore”» (pp. 104-107).

Luigina Mortari,
Filosofia della cura, Raffaello Cortina Editore, 2007.

 

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Brice Bonfanti-Ludovic Burel – «Avatars de Rousseau»

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Avatars de Rousseau

Brice Frigau Bonfanti
Ludovic Burel

 

Avatars de Rousseau

 

Avatars de Rousseau donne un aperçu des survivances de Rousseau, depuis sa mort jusqu’à nos jours. Ses sentiments, ses idées, ses postures, ses préoccupations, vivent d’autres vies dans d’autres corps que le sien: révolutionnaires de 1789; écologistes; musiciens, depuis Gluck jusqu’aux enfants chinois; éducateurs de Pestalozzi à Montessori et Freinet; romantiques tels Stendhal ou Sand; socialistes de Blanqui à Jaurès ; résistants ou collaborateurs français de la 2ème Guerre mondiale; indépendantistes algériens; psychanalystes inlassablement intrigués par le cas Rousseau… Chaque chapitre est accompagné d’un essai visuel qui mêle archives historiques et-ou documents récents et esquisse des constellations d’images « justes et lointaines».

Conception graphique: Clément Le Tulle Neyret

Avec les contributions de: Ludovic Burel, Yves Citton, Brice Frigau Bonfanti, Julie Delavie, Bernard Gittler, Henri Louis Go, Michael Löwy, Jean-Damien Mazaré, Pascale Pellerin, Jean-François Perrin, Christine Planté, Jean Sgard, Raymond Trousson.

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Brice Bonfanti est conservateur des collections Stendhal à la Bibliothèque municipale de Grenoble. Commissaire d’expositions (Avatars de Rousseau, Pseudo Stendhal, Ecrire & résister), il est l’auteur de conférences et d’articles sur Stendhal, ainsi que de présentations publiques de manuscrits. Actuellement, il se consacre à l’écriture de Chants utopiques, et prépare la publication d’écrits de Jean Paulhan et André Rolland de Renéville, chez Recours au poème éditeurs.

Artiste, éditeur, professeur à l’École supérieure d’art et de design de Grenoble-Valence, doctorant en philosophie (Université Pierre-Mendès-France ; PPL, Philosophie, pratiques et langages), Ludovic Burel vit et travaille à Villeurbanne, France.

Avec le concours de la Bibliothèque municipale de Grenoble, de l’École supérieure d’art et design de Grenoble-Valence, du centre de recherche PLC (Philosophie, langages et cognition) de l’université Pierre-Mendès-France de Grenoble, et de la Région Rhônes-Alpes (aide à l’édition).

 

 

http://www.bricebonfanti.com/

photo Brice Frigau Bonfanti

 



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Monica Ugaglia – «Incroci obbligati». Filosofia aristotelica, medicina rinascimentale, matematica, fisica, erudizione secentesca e tradizione letteraria.

Monica Ugaglia

Incroci obbligati

«Dice Aristotele nel sesto capitolo del Secondo della Fisica l’invano esser quando una certa azione, pur intrapresa in vista eli un certo preciso scopo, non pervenga però a tale debita conclusione, o compimento. Supponiamo che uno passeggi onde di poi meglio cacare; supponiamo altresì che ciò non venga ad essere; allora eliciamo ch’egli ha passeggiato invano, e che la passeggiata è stata vana. Ora, non essendo la nostra buona filosofia se non un’immensissima chiosa al detto Aristotele, un’operosa esegesi completiva, una perpetua postilla perfezionatrice, appare quanto meno curioso che non uno dei pur lodevolissimi scoliasti, glossografi, impiastratori di margini, disaccentatori di lemmi, apponitori di punti e giuntatori di virgole, non uno degl’innumerabili esprimitori d’inespressi, dicitori di non detti e compitori d’incompiuti abbia sentito il bisogno di dichiarare, con pur minima clausola, l’aristotelica esposizione dell’invano. Vuoi per la chiarezza dell’esempio – exemplum perspicuum, dice Tommaso – vuoi per pudicizia delle cose di sotto, in luogo d’illustrare l’esponitore glissa, non sviscera ma espertamente aggira, temporeggia, indietreggia, esita ed evita: l’imbarazzo è reciproco, lo stallo condiviso. Ed è in fin dei conti lo stesso Aristotele ad istigarlo a ciò: lapaxis, dice, il passeggiare è a scopo di lapaxis, ed è come se dicesse: vedi, al commentatore, vedi che quasi ti avevo messo nella merda, quasi, e poi invece t’offro, inatteso, l’agio di sortirtene, netto, nettissimo, tu e la tua penna pudibonda di sagrestano, qual certo sarai, solo che tu sappia impiegarla ammodo; a modo di vergare, sulla tua carta di pecora, il ieroglifìco del medico, che tempo che il paziente lettore lo decifri, tu ti sei già fugato, in altro impiccio, in altra notevolissima nota. Ed esso, paziente, a seguirti…».

Monica Ugaglia, Incroci obbligati, Castelvecchi, 2016, p.35.

 

Risvolto di copertina
Otto testi narrativi, di lunghezza, struttura e argomento variabili, accomunati da una particolare attenzione alla lingua e insieme da una costante vena ironica. Filosofia aristotelica, medicina rinascimentale, matematica, fisica, erudizione secentesca e tradizione letteraria si fondono in una miscela espressiva di programmatica discontinuità nel panorama letterario contemporaneo. Alcuni testi sono in forma di saggio (Kaloskagathos, Gaibbi Foco, Il nulla è lungo), altri di dialogo (Divagazione, Basso Ostinato), altri ancora di narrazione (Basso Continuo, Forse per giuoco, Orizzontale), ma tutti costantemente a rischio di dissolversi nell’artificio letterario, quando non di precipitare nell’ossessione linguistica.

MONICA UGAGLIA
Ha conseguito il dottorato in Fisica matematica alla SISSA di Trieste. Le sue ultime ricerche riguardano la Filosofia della fisica antica, con particolare riferimento ad Aristotele, e la Storia della fisica moderna da una prospettiva epistemologica. Attualmente ha un contratto di ricerca con la Scuola Normale Superiore di Pisa sulla ripresa di temi aristotelici in Leibniz.


Fisica - Libro III

Aristotele

Fisica – Libro III

a cura di: Monica Ugaglia

Edizione: Carocci, 2012

Collana: Classici (16)

ISBN: 9788843062508

In breve
«Movimento è l’atto di ciò che è in potenza, in quanto tale». «Illimitato è ciò di cui, per chi prenda secondo il “quanto”, continua ad esserci qualcosa da prendere oltre». Al lettore – sia egli un filosofo, un fisico o un matematico – che intenda avventurarsi nella non facile impresa di penetrare il senso di simili definizioni è dedicata questa edizione del libro III della Physica, la quale affronta, accanto alle questioni testuali e filosofiche, anche gli aspetti più tecnici della trattazione aristotelica.

Monica Ugaglia
Modelli idrostatici del moto da Aristotele a Galileo

Lateran University Press

 Modelli idrostatici

Carlo Rovelli, Monica Ugaglia, Diana Quarantotto – ‘La Fisica e Aristotele’

 



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Luigina Mortari – L’utopia che orienta il presente discorso è l’«utopia ragionevole» di una società che coltiva il massimo di sensatezza relazionale possibile.

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Fra i sentimenti che qualificano l’amicizia non meno importante della fiducia e della tenerezza è la generosità, intesa come la disponibilità a mettere a disposizione ciò che è proprio, sia in termini materiali sia di competenze, per aiutare l’altro. Come afferma Socrate: «I beni degli amici sono un loro comune possesso, si dice, così che tra voi non vi è disparità alcuna» (Platone, Liside, 207c). Il vero amico è capace sia della cura riparativa, che interviene per aiutare l’altro a superare momenti di difficoltà fisica o spirituale, sia di promozione dell’essere dell’altro: in entrambi i casi è decisiva la generosità, che fa dell’amico colui che mette le sue risorse a disposizione dell’altro affinché questi possa agire per il bene (Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 1155 a 13-14).
Avendo configurato l’amicizia in questi termini, non si può non essere d’accordo con Aristotele quando afferma che l’amicizia è «assolutamente necessaria alla vita. Infatti, senza amici nessuno sceglierebbe di vivere anche se possedesse tutti gli altri beni» (ivi, VIII, 1155 a 4-6). Quest’affermazione fa eco a quanto dichiara Socrate: «[…] fin da bambino, c’è qualche cosa che io desidero possedere, come altri aspira al possesso di altre cose. […] Uno, infatti, vorrebbe avere dei cavalli, un altro dei cani, uno dell’oro, l’altro onori; io, mentre resto indifferente davanti a questi beni, ardo invece dal desiderio di avere degli amici» (Platone, Liside, 211d-e).
[…] Anche se è indubitabile che l’amicizia costituisca una relazione rara, comunque rappresenta un archetipo della relazione di cura […], quella amicale non rimane chiusa nel privato; essa presenta, infatti, una forte valenza politica, perché se venisse a mancare «dal mondo il legame basato sulla benevolenza nessuna casa e nessuna città potrà rimanere salda» (Cicerone, Lelio, VII, 23). Aristotele afferma che è «l’amicizia a tenere insieme le città» (Etica Nicomachea, VIII, 1155 a 22-23) e ritiene che il suo valore politico sia tale da superare o almeno eguagliare quello della giustizia, perché «quando si è amici non c’è alcun bisogno di giustizia, mentre quando si è giusti c’è ancora bisogno di amicizia ed il più alto livello della giustizia si ritiene che consista in un atteggiamento di amicizia» (ivi, VIIl, 1155 a 26-27). Il vivere con altri, in modo che ciascuno possa trovare occasioni esperienziali per fiorire in tutto il suo essere, ha bisogno infatti non solo di giustizia ma anche di concordia, un sentimento che prende forma dalla presenza di relazioni amicali. Si può pertanto ipotizzare che più diffuse saranno le reti amicali più si rafforzerà il tessuto solidale del vivere insieme.
L’utopia che orienta il presente discorso è quella di una società che non si limita a perseguire una sorta di minimalismo etico e di minima garanzia di vita democratica; è l’«utopia ragionevole» di una società che coltiva il massimo di sensatezza relazionale possibile. Affinché una comunità possa fiorire, essa ha bisogno di cittadini disposti a collaborare, nel rispetto e nella valorizzazione delle reciproche differenze, per raggiungere il bene comune; questa disposizione è appunto l’«amicizia politica» (Enrico Berti, Politica e amicizia, in E. Berti e S. Veca, La politica e l’amicizia, Edizioni lavoro, Roma, 1998, p. 32). Una società in cui ciascuno possa sperimentare contesti di vita in cui sia possibile realizzare pienamente il proprio poter essere secondo la propria differenza ha dunque necessità che l’educazione assuma fra le sue priorità quella di sviluppare la disposizione all’amicizia.

Luigina Mortari,
La pratica dell’aver cura, Bruno Mondadori, 2006, pp. 78-80

 

 

 



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Franco Farinelli – Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo

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Geografia

«La geografia è la descrizione della Terra. Così da secoli si ripete. Ma non è cosi, perché nel frattempo ci si è dimenticati della cosa piu importante: che proprio attraverso questa descrizione il mondo viene ridotto alla Terra, la Terra alla sua superficie e quest’ultima a una tavola. Tale definizione implica dunque una triplice trasformazione, che se all’inizio passa inavvertita diventa incontrollabile.
Il mondo è il complesso delle relazioni (sociali, economiche, politiche, culturali) al cui interno si svolge la vita umana. Esso resta quello che già era per gli antichi greci […]. Più discutibile è stabilire che cosa sia la Terra, perché ogni definizione sottintende un personale punto di vista. All’inizio dell’era volgare Strabone rimproverò a Eratostene (che tre secoli avanti era stato il primo a intitolare Geografia un’ opera) di aver concepito la Terra non come un geografo ma come un astronomo, preoccupato anzitutto di prenderne le misure come fosse un qualsiasi corpo celeste. […]
Per Carl Ritter, all’inizio dell’Ottocento, la Terra era invece “la casa dell’educazione dell’umanità”. Nella sua visione, cioè, le forme della superficie terrestre (le acque, i monti, i deserti) rappresentano un vero e proprio progetto […]. Egli chiama la geografia Erdkunde, termine che si può tradurre come “conoscenza storico-critica della Terra”[…]. Nel libro che qui comincia si intende per Terra la base materiale, e perciò visibile, del mondo».

Franco Farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, 2003, pp. 6-7.

Intervista a Franco Farinelli: l’invenzione della terra.

L’Autore

Franco Farinelli. Professore ordinario. Dipartimento di Filosofia e Comunicazione. Settore scientifico. Direttore Dipartimento di Filosofia e Comunicazione

***

Quarta di copertina

Kant diventa filosofo quando si accorge che non si tratta di fare la geografia di quel che vediamo, bensí dello spazio buio della nostra mente: ma sempre geografo resta. D'altronde Strabone, all'inizio dell'era volgare, era stato chiaro: la prima forma del pensiero occidentale si chiamava geografia, la stessa che a scuola abbiamo appreso come filosofia presocratica e si è soliti definire «sapienza greca». Quel che da Anassimandro a Kant a Pierce a Wittgenstein si trasmette è la natura cartografica dei sensi del mondo, la riduzione della conoscenza alla descrizione della rappresentazione geografica, della carta. Al punto che ancora si crede che la mappa sia la copia della Terra senza accorgersi che è vero il contrario: è la Terra che fin dall'inizio ha assunto, per la nostra cultura, la forma di una mappa, e perciò spazio e tempo hanno guidato il nostro rapporto con essa. Oggi tuttavia tali coordinate, che per tutta la modernità hanno costruito il mondo, si rivelano incapaci di spiegarne il funzionamento. La globalizzazione, qualsiasi cosa con tale processo si intenda, implica comunque una comprensione letterale del termine, e significa, prima d'altro che non è piú possibile contare, nel rapporto con la realtà, sulla potentissima mediazione cartografica che, riducendo a un piano la sfera terrestre, ha fin qui permesso di evitare di fare i conti con la Terra cosí come davvero essa è, con il globo. Perciò, secondo la lezione della grande geografia critica tedesca del secolo scorso, questo è un manuale di geografia privo di qualsiasi carta, perché indicare dove le cose sono significa già rispondere, in forma implicita e irriflessa, alla preliminare questione della loro natura. In esso non soltanto si dà conto dello stato presente della Terra, della geografia umana di oggi, ma si ridefinisce la natura dei principali modelli di descrizione del mondo in nostro possesso: la mappa anzitutto, e poi il paesaggio, il soggetto, il luogo, la città, lo spazio.

***

In questo studio dei modelli del mondo elaborati nel tempo, greci soprattutto, ma anche indù, romani, medievali, Farinelli, uno dei maggiori geografi italiani, offre una ricca e sistematica disamina di quella che è la tendenza all’organizzazione del territorio da sempre propria dell’essere umano. Se infatti è vero che la cartografia serve “a trasformare l’invisibile nel visibile, il software nell’hardware”, non fa meraviglia che essa abbia radici antiche. Ecco allora la figura di Ulisse, che percorre in lungo e in largo il libro come perfetto archetipo del viaggiatore, fondersi con la rilettura in chiave geografica di alcuni celebri miti della grecità, come quelli di Dioniso, Apollo e Teseo. Il respiro della trattazione è ampio, le sponde toccate variegatissime, le digressioni di estremo interesse. L’autore non esita a trascinare nel discorso le voci di Tasso, Heidegger, Kant o MacLuhan, all’insegna di un approccio, per molti versi, sostanzialmente filosofico e semiologico. Al centro si colloca in effetti la storia dell’organizzazione del territorio, per esempio con la messa in rilievo del passaggio dal decentrato modello urbano babilonese, o fenicio, a quello greco della città dotata di agorà, fino alla città “fordista”, “keynesiana”, e, infine, “globale”. È però sempre costante la riflessione sul rapporto fra rappresentazione e realtà. Da qui il coinvolgimento nell’analisi di quella che è la dimensione ontologica della materia. Troppo a lungo infatti, afferma l’autore, “si è creduto che la geografia fosse il sapere relativo a dove le cose fossero, senza accorgersi che in realtà, nell’indicare questo, la geografia decideva che cosa le cose erano”.

Daniele Rocca

 



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Amedeo Cottino – C’è chi dice di no. Cittadini comuni che hanno rifiutato la violenza del potere. Poniamoci dunque dalla parte di Antigone nella Grecia di oggi, e non da quella di Creonte.

Amedeo Cottino

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«Attraversiamo la vita
con gli occhi semichiusi, 
e orecchie insensibili
e la mente dormiente»

Joseph Conrad
«E poco più di una constatazione affermare che, a fronte delle atrocità del mondo, è il silenzio la nostra risposta più frequente. Per dirla con le parole di Joseph Conrad, noi “attraversiamo la vita con gli occhi semichiusi, le orecchie insensibili e la mente dormiente”. Esiste cioè un’insensibilità diffusa tra la maggioranza degli umani (anche se questa insensibilità varia da cultura a clitura, da epoca a epoca, da persona a persona). Ciò avviene per svariate ragioni […]» (p. 15).
«Il presente è fosco e ha un nome: l’Impero della paura. Precisamente la visione che gli Stati Uniti, attraverso le loro guerre e grazie alla servile complicità dell’Occidente, hanno esportato in tutto il mondo. Ora, di questa “esportazione” stiamo cogliendo i frutti, e la raccolta è appena all’inizio.
Le decine di migliaia di corpi di migranti che compaiono ogni giorno sulla Scena della Violenza, non sono né il prodotto del cinismo senza scrupoli dei trafficanti di uomini, né, tanto meno, del mare, e ancor di meno della fatalità. Se fossimo colti da un’urgenza di verità, potremmo risalire senza particolari difficoltà la catena causale che ha portato a queste stragi, ripercorrendo le tappe […] – e sulla sua sommità ne troveremmo i Mandanti, i veri responsabili.
Essi sono i capi di governo dei vari Paesi – gli Stati Uniti in testa – che hanno presieduto alle guerre che da anni devastano il Medio Oriente e il Nord Africa. Ma […] la Violenza Strutturale è, per sua natura, acefala e il diritto, nella sua ricerca di responsabilità, fatica a concepire un rapporto causa-effetto che vada di là dai primi anelli della catena causale. E poi […] dobbiamo fare i conti con il più generale processo di Normalizzazione della Violenza.
[…]
È dunque possibile alzare la soglia della compassione affinché le occasioni […] non vadano perdute. Ben consapevoli […] che per poterle, o saperle cogliere, bisogna già avere compiuto un tratto di cammino […].
Abbiamo bisogno che tra noi monocoli emergano nuovi consapevoli, singoli e movimenti, al fine di iniziare un lavoro di base: quello di ripristinare i sentieri sempre meno praticati del disvelamento. Ma la transizione “dal mondo della menzogna a quello della verità” non può essere semplicemente il frutto di un “cuore informato”. È necessario un quotidiano sforzo individuale e collettivo che non dia tregua alla Violenza Culturale che incombe su di noi. Che si opponga alla diffusa cultura dell’indifferenza.
È necessario riappropriarci dei conflitti perché i conflitti […] sono una nostra proprietà, e porci dalla parte di Antigone nella Grecia di oggi, e non da quella di Creonte; dalla parte di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, […] e non da quella di Viktor Orban, primo ministro ungherese; dalla parte di Vittorio Arrigoni e non da quella del colonialismo israeliano.
Dobbiamo imporre la nostra definizione della situazione, ché non è vero che i condannati a morte in Cina o in Iraq o negli Stati Uniti vengono giustiziati: essi sono uccisi. Ché non è vero che l’operazione Piombo Fuso e “Margine protettivo” contro Gaza sono state azioni difensive da parte di Israele, ma un’aggressione a una popolazione civile con il dichiarato intento di distruggerne le infrastrutture.
Ché non è vero che le guerre sono umanitarie …» (pp189-191).
***
 Amedeo Cottino, C’è chi dice di no. Cittadini comuni che hanno rifiutato la violenza del potere, Prefazione di Marco Revelli, Zambon Editore, 2015.

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L'ingannevole sponda

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L’Autore
Amedeo Cottino. Dopo una laurea in giurisprudenza presso l’Università di Torino (1957), ha intrapreso lo studio delle Scienze Sociali in Svezia, dove ha conseguito il Master in Social Sciences presso l’Università di Stoccolma (1963), e la Licenza in Filosofia (1970) e il Dottorato in Sociologia (1972), presso l’Università di Umeaa. Professore associato di Sociologia presso questa università dal 1970 al 1972, viene nominato, nello stesso anno, incaricato di Sociologia del Diritto presso l’Università di Torino, Facoltà di Scienze Politiche, dove, dal 1980 al 2004, ricopre la cattedra di professore ordinario nella stessa disciplina, fino al 2004, anno della pensione. È stato Preside della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino, dal   1985-1988,Vice Presidente della Società Italiana di Alcologia, 1994-1996, e Presidente del Comitato scientifico del GERN (Groupe Européen de Recherche sur les Normativités) presso il CNRF, dal 1997 al 2000. Ha diretto l’Istituto italiano di cultura di Stoccolma, ed è stato Consigliere culturale presso l’Ambasciata italiana di Svezia dal 1999 al 2001. È attualmente Vice Presidente dell’Osservatorio ‘Giovani ed Alcol’. Si è occupato di diritto internazionale umanitario in qualità di esperto della Croce Rossa Internazionale. Ha scritto sul lavoro nero nell'edilizia e sulla criminalità dei colletti bianchi. Ha studiato il tema dell'ugaglianza di fronte alla legge e ha affrontato il tema della responsabilità individuale di fronte alla violenza.

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Quarta di copertina

«Come tutti i libri veri, che vanno nel profondo e toccano nervi scoperti del nostro tempo [...] anche questo, [...] ci chiama in causa in prima persona. [...] Uomini comuni, nelle tante "scene della violenza" che ci mostra, ognuna delle quali con i suoi "dilemmi mortali", le sue occasioni colte o perdute, [ci interroga] su che cosa regoli il livello di quella "soglia della compassione" che, sola, ci permette di rimanere "uomini" [malgrado] la pervasività di un potere mediatico totale. [...] Nell"'informazione" viviamo immersi, rischiando l'opposto inverso all'assenza, la sovraesposizione alle "notizie". Noi che le immagini, che gli orrori di Abu Ghraib ce li siamo visti servire all'ora di pranzo e di cena, e a malapena abbiamo sollevato gli occhi dal piatto. E la mattanza della scuola Diaz – Genova 2001 [...] l'abbiamo sopportata senza nemmeno riuscire a ottenere [...] una Commissione d'inchiesta. Di tutto questo – di noi – parla Uomini comuni, attraverso la straordinaria galleria di "casi" che percorre il lungo Novecento [. .. ] ma approda, ogni volta, alla nostra quotidianità. Per questo la sua lettura è inquietante e straordinariamente salutare» (dalla Prefazione di Marco Revelli).

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Ernst Bloch (1885-1977) – È la filosofia la scienza in cui è viva, ha da esser viva, la consapevolezza del tutto. La filosofia ha a cuore soprattutto l’unità del sapere. La filosofia sta sul fronte.

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«Perché vi sia lavoro comunitario dei ricercatori e insegnanti, occorre che vi sia una reale comunità; da essa esiste l’università, l’universitas literarum, la totalità istituzionale delle scienze, per cui soltanto la denominazione universitas, originariamente di natura corporativa, può indicare una presenza benefica, luminosa. Ma in essa un ruolo non inessenziale è senz’altro toccato alla filosofia; ché questa si sente da sempre obbligata ad essere la coscienza dell’universitas. È la filosofia la scienza in cui è viva, ha da esser viva, la consapevolezza del tutto. Derivante da tempi in cui erano ancora ignote l’avanzata divisione capitalistica del lavoro e, di conseguenza, la specializzazione delle singole branche del sapere, radicatasi poi in misura crescente e a poco a poco divenuta anarchica, la filosofia ha a cuore soprattutto l’unità del sapere. La tonalità comune, la sostanziale coloritura che tutto pervade è affar suo particolare ed è qualcosa d’essenziale del suo metodo e del suo oggetto. La filosofia, se serve a qualcosa, contiene in sé quel mosso cantus firmus che dà sostegno e orientamento, quello in cui e attorno a cui rotea la polifonia del sapere. Totum relucet in omnibus, omnia ubique: il tutto riluce in tutte le cose, tutte le cose sono dovunque, dice Nicola Cusano, collegandosi ai filosofi arabi; e tanto Leibniz quando Hegel hanno reso indimenticabile lo stesso principio. La filosofia che si vuole marxista ha un ulteriore e particolare obbligo da osservare: quello di rendere nota la voce possente della direzione e dello scopo, la voce finale, senza di cui l’unità si congela. È la stessa voce del sapere, intrinseco ad ogni tradizione e cooperazione; è quasi una necessaria presenza ai problemi di confine: la filosofia sta sul fronte. Sta scientemente attiva sul fronte dell’odierno processo di trasformazione, che è una parte dello stesso processo universale. Vi sta con il nuovo, col novum, quale fondamentale categoria a tutt’oggi ancora pressoché inesplorata, e con l’utopia concreta, quale determinatezza dell’oggetto, determinatezza della realtà».

Ernst Bloch, Università, marxismo, filosofia, in Id., Karl Marx, Il Mulino, 1972, p.168.



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