Ilaria Rabatti – Tra poesia e profezia: Il buio e lo splendore, l’ultima fase della poesia di Margherita Guidacci

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M. Guidacci

M. Guidacci

Il buio e lo splendore

Il buio e lo splendore

Ilaria Rabatti, Tra poesia e profezia: Il buio e lo splendore, l’ultima fase della poesia di Margherita Guidacci [Articolo pubblicato su Le opere e i giorni, Periodico di cultura, arte, storia – Anno IX, NN. 1-3 – Gennaio/Settembre 2006 – Direttore responsabile: Carmine Fiorillo], pp. 21.

sintesi

 

Ma le notti alte dell’estate,
ma le stelle, le stelle della terra.
Oh esser morti una volta, e saperle all’infinito
tutte le stelle perché come, come, come dimenticarle!
R. M. Rilke

 

Ad identificare i contorni, dilatati in infiniti spazi di luce, dell’ultima stagione poetica guidacciana, sembrerebbe indispensabile mettere in campo una fortissima tensione verso il trascendente (quasi mistica preparazione al “viaggio” verso l’eterno, consumato e atteso ad ogni istante, drammaticamente avvertito come “confine tra l’incontro e l’addio”), oltre la “soglia” del tempo e dello spazio, in un’assorta, pascaliana contemplazione dell’universo stellare, da lei amato con una profonda conoscenza scientifica. Il tema cosmico-astrale – che nasce nella Guidacci come corollario contemplativo della tarda epifania amorosa – già ampiamente introdotto nell’Inno alla gioia, torna ancora più fulgido a campeggiare nel Liber fulguralis (1986) che del maggiore Il buio e lo splendore, pubblicato solo nell’89 da Garzanti, costituisce il significativo e prezioso anticipo. Nel Liber fulguralis, edito quasi “clandestinamente” a Messina, nella collana “La mela stregata”, curata dalla Facoltà di Magistero, sono riunite infatti (fiancheggiate dalla traduzione inglese di Ruth Feldmann) in un ideale ponte lirico tra passato e futuro, cinque poesie dell’Inno alla gioia (Supernova, Anche tu conosci i nomi delle costellazioni, Ubbidiente e fedele, Appuntamento di sguardi nella luna, Aratura) e dodici testi inediti che successivamente confluiranno nel libro garzantiano dell’89 (più esattamente, undici andranno a formare la sezione finale de Il porgitore di stelle, mentre uno, Sibilla Persica, arricchirà quella iniziale delle Sibyllae). [Leggi tutto, pp. 21]

Ilaria Rabatti,
Tra poesia e profezia: Il buio e lo splendore,
l’ultima fase della poesia di Margherita Guidacci

 


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Pablo Neruda (1904-1973) – È cosi che nasce la poesia: viene da altezze invisibili. Canto e fecondazione è la poesia: l’ho concentrata come prodotto vitale della mia stessa esperienza, circondato dalla folla adorabile, dall’infinita e ricca moltitudine dell’uomo.

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Antonio Melis, Neruda, Il Castoro, n. 38 del 1970

A. Melis, Neruda, Il Castoro, n. 38 1970


 

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«Andando molti anni fa per il lago Ranco verso !’interno mi sembrò di trovare la fonte della patria o la culla silvestre della Poesia, attaccata e difesa da tutta la natura.
Il cielo si stagliava tra le superbe chiome dei cipressi, l’aria agitava le sostanze balsamiche della macchia, tutto aveva voce ed era silenzio, il sussurro degli uccelli nascosti, i frutti e gli stecchi che cadendo sfioravano il fogliame, tutto stava sospeso in un istante di solennità segreta, tutto nella selva sembrava aspettare.
Era imminente una nascita e quello che nasceva era un fiume. Non so come si chiama, ma le sue prime acque, vergini e oscure, erano quasi invisibili, deboli e silenziose, cercando un’uscita in mezzo ai grandi tronchi morti e alle pietre colossali.
Mille anni di foglie cadute nella sua sorgente, tutto il passato voleva trattenerlo, ma imbalsamava soltanto la sua strada. Il giovane fiume distruggeva le vecchie foglie morte e si impregnava di freschezza nutritiva che sarebbe andato ripartendo nel corso del suo cammino.
lo pensai: è cosi che nasce la poesia. Viene da altezze invisibili, è segreta e oscura nelle sue origini, solitaria e fragrante, e, come il fiume, dissolverà tutto quello che cade nella sua corrente, cercherà una strada tra le montagne e scuoterà il suo manto cristallino nelle praterie. Irrigherà i campi e darà pane all’affamato. Camminerà tra le spighe. Sazieranno in essa la loro sete i viandanti e canterà quando lottano o riposano gli uomini. E li unirà allora e tra di loro passerà, fondando paesi. Taglierà le vallate portando alle radici la moltiplicazione della vita.
Canto e fecondazione è la poesia. Ha lasciato le sue viscere segrete e corre fecondando e cantando. Accende l’energia con il suo movimento accresciuto, lavora producendo farina, conciando il cuoio, tagliando il legno, dando luce alle città. È utile e si risveglia con bandiere ai suoi margini. Le feste si celebrano accanto all’acqua che canta.
Mi ricordo a Firenze un giorno in cui andai a visitare una fabbrica. Vi lessi alcune mie poesie agli operai riuniti, le lessi con tutto il pudore che un uomo del continente giovane può provare parlando accanto all’ombra sacra che li soprawive. Gli operai della fabbrica mi fecero poi un regalo. Lo conservo ancora. È un’edizione del Petrarca dell’anno 1484.
La poesia era passata con le sue acque, aveva cantato in quella fabbrica e aveva convissuto per secoli con i lavoratori. Quel Petrarca, che vidi sempre imbacuccato sotto un cappuccio da monaco, era uno di quei semplici italiani e quel libro, che presi nelle mie mani con adorazione, assunse per me un nuovo prestigio, era solo un arnese divino nelle mani dell’uomo».

Pablo Neruda, dal discorso pronunciato a Santiago il 12 luglio del 1954, in occasione del 50° anniversario dell’Università del Cile.

***

«Sincerità, in questa parola cosi modesta, cosi arretrata, cosi calpestata e disprezzata dal seguito sfavillante che accompagna eroticamente l’estetica, si trova forse definita la mia azione costante. Ma semplicità non significa un abbandono semplicistico all’emozione
o alla conoscenza.
Quando rifuggii prima per vocazione e poi per decisione qualsiasi posizione di maestro letterario, ogni ambiguità esteriore che mi avrebbe esposto al rischio continuo di esteriorizzare, e non di costruire, compresi in maniera vaga che il mio lavoro doveva prodursi in forma cosi organica e totale che la mia poesia fosse come la mia stessa respirazione, prodotto ritmato della mia esistenza, risultato della mia crescita naturale.
Per questo, se qualche lezione proveniva da un’opera cosi intimamente e cosi oscuramente legata al mio essere, questa lezione avrebbe potuto essere sfruttata al di là della mia azione, al di là della mia attività, e soltanto attraverso il mio silenzio.
Sono uscito in strada durante tutti questi anni, disposto a difendere principi di solidarietà con uomini e con popoli, ma la mia poesia non ha potuto essere insegnata a nessuno. Volli che si diluisse sulla mia terra, come le piogge delle mie latitudini natali. Non ho preteso che frequentasse cenacoli o accademie, non l’ho imposta a giovani emigranti, l’ho concentrata come prodotto vitale della mia stessa esperienza, dei miei sensi, che rimasero aperti all’estensione dell’amore ardente e del mondo spazioso.
Non pretendo per me nessun privilegio di solitudine: non l’ebbi se non quando mi fu imposta come condizione terribile della mia vita. E allora scrissi i miei libri, come li scrissi circondato dalla folla adorabile, dall’infinita e ricca moltitudine dell’uomo. Né la solitudine né la società possono alterare i requisiti del poeta e quelli che si richiamano esclusi vamente all’una o all’altra falsificano la loro condizione di api che costruiscono da secoli la stessa cellula fragrante, con lo stesso alimento di cui ha bisogno il cuore umano. Tuttavia, non condanno né i poeti della solitudine né gli altoparlanti del grido collettivo: il silenzio, il suono, la separazione e l’integrazione degli uomini, tutto è materiale adeguato affinché le sillabe della poesia si aggreghino precipitando la combustione di un fuoco incancellabile, di una comunicazione inerente, di un’eredità sacra che da migliaia di anni si traduce nella parola e si innalza nel canto.

Pablo Neruda, da La torre, Prado e la mia stessa ombra (Discorso pronunciato all’Università del Cile il 30 marzo 1962).

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I testi sono publicati in: Antonio Melis, Neruda, «Il Castoro», n. 38, Febbraio 1970, La Nuova Italia, pp. 6-8.


 

AntonioMelis

Antonio Melis.

 

Antonio Melis è nato nel 1942, a Vignola (PD). È professore ordinario di Lingue e Letterature Ispanoamericane presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Siena, dove insegna anche Civiltà Indigene d’America. Presso la stessa Facoltà coordina il Master in Traduzione Letteraria e Editing dei Testi e dirige il CISAI (Centro Interdipartimentale di Studi sull’America Indigena). È professore onorario dell’Università Nacional Mayor de San Marcos di Lima. Fa parte del comitato di redazione della Revista de Crítica Literaria Latinoamericana e di In Forma di Parole. Ha fatto parte della giuria di numerosi premi letterari internazionali, tra i quali il Casa de las Américas, il Juan Rulfo, il José Donoso e il Premio Italo Calvino. A partire dallo studio di alcune figure centrali dell’esperienza letteraria contemporanea come José Carlos, Mariátegui, César Vallejo e José María Arguedas, la sua ricerca si è andata orientando progressivamente verso le radici precoloniali e coloniali della cultura andina, con lavori su Juan de Espinosa Medrano e Waman Puma. Alla letteratura peruviana contemporanea ha dedicato numerosi studi e le traduzioni di poeti come Martín Adán, Carlos Germán Belli, Alejandro Romualdo, César Calvo, Luis Hernández, Antonio Cisneros, José Luis Ayala.  Accanto a questo filone centrale ha condotto ricerche sull’area antillana, in particolare con lavori su José Martí, Fernando Ortiz e Alejo Carpentier. Ha tradotto buona parte dell’opera poetica di Ernesto Cardenal. Negli ultimi anni, insieme a Fabio Rodríguez Amaya e Tommaso Scarano, cura per la casa editrice Adelphi l’edizione italiana delle opere complete di Borges, di cui ha tradotto Finzioni. Lo studio delle culture indigene americane è stato sviluppato in direzione del rapporto tra oralità e scrittura e in riferimento alla problematica ecologica. Per la casa editrice Gorée cura la collana “Le voci della terra”, dedicata alla poesia indigena, e “Impronte di parole”, che si occupa delle forme dell’improvvisazione poetica nel Mediterraneo e nell’America Latina. Ha pubblicato saggi monografici su Pablo Neruda, Federico García Lorca ed Ernesto Che Guevara.


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Federico García Lorca (1898-1936) – Poeta a New York: «La luce è sepolta da catene e rumori in sfida impudica di scienza senza radici: qui non esiste domani né speranza possibile. Le monete a sciami furiosi penetrano e divorano bambini addormentati: sanno che vanno nel fango di numeri e leggi, nei giochi senz’arte, in sudori senza frutto».

Lorca, Poeta en Nueva York

 

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Edizione postuma (1940) di Poeta en Nueva York.
Si noti il nome di Antonio Machado sul frontespizio.

***

Federico García Lorca,
Poeta en Nueva York
(1929 – 1930)

***

L’aurora di New York ha
quattro colonne di fango
e un uragano di negre colombe
che sguazzano nelle putride acque.

L’aurora di New York geme
sulle immense scale
cercando fra le ariste
nardi di angoscia disegnata.

L’aurora arriva e nessuno la riceve nella sua bocca
perché qui non esiste domani né speranza possibile.
A volte le monete a sciami furiosi
penetrano e divorano bambini addormentati.

I primi che escono comprendono con le proprie ossa
che non ci saranno paradiso né amori sfogliati;
sanno che vanno nel fango di numeri e leggi,
nei giochi senz’arte, in sudori senza frutto.

La luce è sepolta da catene e rumori
in sfida impudica di scienza senza radici.
Nei suburbi c’è gente che vacilla insonne
appena uscita da un naufragio di sangue.

Federico García Lorca, Autoritratto a New York

F. G. Lorca, Autoritratto a New York.

Federico García Lorca, L’aurora, da: Poeta a New York, in Id., Tutte le poesie, a cura di Claudio Rendina, Newton Compton, 2002, 2 vol., vol. II, p.299.


Federico García Lorca, Un “Poeta a New York”:
la profezia e il dramma negli occhi del “niño”

 


***

Ce ne parla un altro poeta:

Rafael Alberti (1902 – 1999)

Rafael Alberti (1902 – 1999)

R. Alberti con Lorca

R. Alberti con Lorca

Poeta a New York
Quando, nella primavera del 1929 […] Federico García Lorca decide di partire per New York, è già uno dei poeti nuovi di maggior prestigio in Spagna. […] Tutto farebbe pensare che egli partisse per New York contento, desideroso di […] tuffarsi presto in quella città, che ancor prima di visitare – a quanto confessa da Granada in una lettera al suo amico cileno Carlos Moria – già gli sembra orribile. Ma quel viaggio […] è importante per la sua vita. Egli lo avrebbe compiuto in compagnia del suo vecchio maestro di Diritto, Fernando de los Rios, uno dei dirigenti più illustri del socialismo spagnolo. […] García Lorca se ne andava negli Stati Uniti anche perché scosso dagli avvenimenti spagnoli […]. E Federico proprio allora se ne va negli Stati Uniti – è la prima volta che esce dalla Spagna – e apre laggiù, alla sua poesia, una strana parentesi di confusione e di ombre. Alcune delle poesie iniziali del libro che più tardi sarà il Poeta a New York, apparvero su riviste di Madrid […]. Che profonda ferita nella gola del poeta di Granada! Quando arriva a giugno a New York nella Columbia University, dove lo accoglie la calda amicizia di uno dei suoi vecchi amici di Madrid, il professore Angel del Rio, che sarà poi il primo a descrivere questo strano periodo americano di Lorca. Federico entra nella mostruosa città come chi va a trascorrere «una stagione all’inferno». Luis Felipe Vivanco dice infatti, molto accortamente, che il libro scritto da Lorca in America potrebbe benissimo avere come titolo quello di Rimbaud. Il poeta granadino si scontra violentemente contro i duri spigoli di New ork, a cui, per cominciare, nega la gioia pura dell’aurora, il risveglio umano della gente:

L’aurora di New York ha
quattro colonne di melma
e un uragano di nere colombe
che sguazzano nelle putride acque.

Ed è tale la convulsione che Garda Lorca soffre nel suo intimo che egli, uscito da poco dalla drammaticità disinteressata, con accento andaluso di cante jondo, del suo Romancero gitano, assume d’un tratto la parte di accusatore di quel tremendo delitto tramutato in freddo cemento che si apre dinnanzi ai suoi occhi. E ormai il suo verso non scorre più con lo splendore di prima. Le metafore tendono in lui a offuscarsi sino a disperdersi e le stesse corde basse della sua chitarra finiscono per strapparsi di fronte al frastuono di dolore e crudeltà che egli vede e ode da ogni parte. È quello il paese della democrazia e New York il suo simbolo vivente? No, non è più così. I tempi dell’ottimismo del vecchio Whitman sono passati. Federico si rende conto che laggiù accade qualcosa, che vi è una gelida macchina che s’incarica di schiacciare tutto, di estrarre la linfa dal sangue, tramutando le persone in automi, i quali fin dall’alba

sanno che vanno al fango di numeri e leggi,
ai giochi senz’arte, a sudori senza frutto.

García Lorca inaugura con questi componimenti la sua poesia antiartistica. Non si preoccupa né della struttura rigorosa del componimento, né della bellezza verbale né della immagine. Il linguaggio è diretto. La città senza aurora riceve da lui una frustata in una serie di poesie scritte con una attenta coscienza ma insieme con una furia cieca, vicina nei suoi momenti migliori all’impeto quasi surrealista dei profeti biblici. Ed è allora che scopre Harlem, il quartiere dei negri. Ed entra in una delle visioni più angosciose della sua poesia. Sente l’oppressione di quegli antichi schiavi in mezzo a una civiltà che ancora di più li tortura e li umilia. E grida tutta l’amarezza, il sangue prigioniero di quel quartiere, dove il timore dell’ira, dell’odio dei potenti bianchi porta il povero negro a vivere con le porte socchiuse, sempre in attesa di qualsiasi prepotenza, che potrebbe concludersi in un linciaggio.

Ahi, Harlem l Ahi Harlem! Ahi Harlem!
Non c’è angoscia paragonabile ai tuoi rossi oppressi,
al tuo sangue rabbrividito entro l’oscura eclissi,
alla tua violenza scarlatta sordomuta in penombra,
al tuo gran re prigioniero, con abito da portinaio!

[…] È ancora New York, è ancora Wall Street con i suoi milioni di uffici che lo respingono e lo attraggono allo stesso tempo. Ed egli torna con più forza alla denuncia, alla denuncia di coloro che ignorano l’altra metà dei propri simili, alla denuncia del sangue sfruttato, gemebondo, che palpita al di sotto delle moltiplicazioni, degli oscuri e terribili affari che fanno precipitare il mondo in un abisso di miseria e di morte.
«Vi sputo sul viso», arriva a gridare disperato. Lorca, in conseguenza di questo urto brutale con la grande città disumanizzata, diventa un poeta del suo tempo e, senza saperlo, uno dei primi luminosi segni di tutta una poesia di carattere sociale e protestatario che sarebbe apparsa qualche tempo dopo. In primavera il poeta parte per l’Avana, dove recupera, alla sua luce travolgente e musicale, il ritmo preciso del suo sangue andaluso, del suo core già turbato e sempre sul punto di scoppiare durante quell’infernale stagione trascorsa nella città dei grattacieli.

Rafael Alberti, García Lorca, Compagnia Edizioni Internazionali, Milano, 1966, pp. 60-63.

 


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Friedrich Hölderlin (1770-1843) – L’uomo che pensa deve agire, deve dispiegarsi. Egli può molto, stupenda è la sua parola che strasforma il mondo. Un potente anelito, con radici profonde, lo spinge verso l’alto.

Holderlin

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«L’uomo che pensa
deve agire, deve dispiegarsi
favorendo e rasserenando la vita intorno a sé.
Colma di tacita forza, la grande natura
abbraccia colui che la intuisce
affiché ne evochi lo spirito; l’uomo porta
nel cuore la pena e la speranza, e un potente anelito,
con radici profonde, lo spinge verso l’alto.
Egli può molto, stupenda è la sua parola
che strasforma il mondo».

Friedrich Hölderlin, La morte di Empedocle,
a cura di Laura Balbiani e Elena Polledri, II stesura, vv. 525-534,
Bompiani, 2003, pp. 193, 195.

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Saffo ( VII-VI sec. a.C. )  – La vera dolcezza di quella mela rosseggiante Saffo ci dice che può essere colta solo se raggiunta nell’alto della sua dimensione eidetica.

Saffo

οἶον τὸ γλυχὺμαλον ἐρεύθεται ἄχρῳ ἐπ’ ὔσδῳ
ἄχρον ἐπ’ ἄχροτάτῳ λελάθοντο δὲ μαλοδρόπηεϛ·
οὐ μὰν ἐχλελάθοντ’, ἀλλ’ οὐχ ἐδύναντ’ ἐπὶχεσθαι

QUALE DOLCE MELA

Quale dolce mela che su alto
ramo rosseggia, alta sul più
alto; la dimenticarono i coglitori;
no, non fu dimenticata: invano
tentarono raggiungerla.

Traduzione Salvatore Quasimodo

 

 

Come la mela dolce rosseggia sull’alto del ramo,
alta sul ramo più alto: la scordarono i coglitori.
No, certo non la scordarono:
non poterono raggiungerla.

Saffo, Fr. 116, in Lirici greci, a cura di F. Sisti, Garzanti, 1999, p. 147.

 

 

Quale una dolce mela a un alto ramo
rosseggia, in vetta alla più alta fronda:
i coglitori la dimenticarono?
Non l’han scordata, no, ma non poterono
raggiungerla.

Saffo, Fr. 116, in Renzo Gherardini, Lungo il mio sentiero,
tr. R. Gherardini, Petite Plaisance, 2010, p. 38.

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Busto di Saffo, Musei Capitolini.


 

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Daniele Giancane  – Stare sulla soglia: La poesia richiede lentezza. Pausa. Non è produttiva. Non è immediatamente utile.

Chi volete che legga i libri di poesia?
Cento lettori, ad andar bene.
Anche perché la poesia richiede una forma di impegno
(riflessione, concentrazione, sforzo ermeneutico)
che è in controtendenza ai nostri tempi:
scialbi, disimpegnati, superficiali, rapidi.
La poesia richiede lentezza.
Pausa.
Non è produttiva.
Non è immediatamente utile.

D. G.

 

 

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Mi accorgo sovente

di stare sulla soglia:

come se ci fosse

vicino un confine,

un fiato, un tenue filo.

Come se fossi qui in parte,

in parte altrove.

Simultaneo e ubiquo,

plurale e singolare assieme.

                             Daniele Giancane

 

 

Daniele Giancane, La soglia, in Diario dell’anima e un poema infernale, Besa editrice, 2003, p. 45.

 


 

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Emily Dickinson (1830-1866)  – Dedicata agli esseri umani in fuga dalla mente dell’uomo

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Emily Dickinson, Poesie, traduzione di Margherita Guidacci.

Se per fuggire alla memoria

avessimo le ali

in molti voleremmo.

Avvezzi a cose più lente

gli uccelli sbigottiti

contemplerebbero il possente stormo

degli uomini in fuga

dalla mente dell’uomo.

                               Emily Dickinson

 

 

Emily Dickinson, nel 1850

Emily Dickinson, nel 1850.

 

 


 

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Nelly Sachs (1891-1970) – Non distruggete l’universo delle parole, lasciate alla fonte le parole che loro sole fanno avanzare gli orizzonti.

Nelly Sachs

Libro scolpito

Popoli della terra,
non distruggete l’universo delle parole,
non tagliate con lame d’odio la voce nata con il respiro.

Popoli della terra,
che nessuno pensi morte quando dice vita.

Popoli della terra,
lasciate alla fonte le parole
che loro sole fanno avanzare gli orizzonti.

Nelly Sachs, Popoli della terra.

 

 


 

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Sante Notarnicola – Tentai di gettare l’anima al di là del muro … cercando di seguire la farfalla.

Sante_Notarnicola

A Sante,
alla sua capacità di esser stato,
e di essere,
ad un tempo,
fragile e misteriosa
cristalide,
come gioventù
ricca di speranze,
di possibili metamorfosi,
matrice di trasformazioni
– condizione della realizzazione –
e farfalla
che col suo diafano
e lieve battito d’ali
punteggia
la trama
di Iride.
———————– C. F.

 


 

L'anima e il muro

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Sante Notarnicola
L’anima e il muro


Introduzione e cura
di Daniele Orlandi
disegni di Marco Perroni

pp.192 € 18,00

ISBN 978-88-96487-29-7

 

 

dalla quarta di copertina

Questa scelta antologica di poesie scritte durante un trentennio diventa l’occasione per una particolare scansione della storia d’Italia, perché questi versi oscillano, lenti o vorticosi, tra l’anima e il muro di tante prigioni. Corredato di un ampio saggio introduttivo e di note che ne inquadrano la mole di rimandi alla cronaca e alla cultura di quegli anni che l’autore riversa sulla pagina, L’anima e il muro, duellanti senza pace, ne raccoglie i momenti principali. Sante Notarnicola ha attraversato il Novecento italiano da ribelle: operaio, bandito, carcerato. I tre tempi della sua vicenda biografica sono scanditi dalla poesia, una vera e propria autobiografia in versi, contemporanea a quella generazione che ingaggiò una guerra senza esclusione di colpi con lo Stato lunga circa un ventennio. In disaccordo con la linea attendista del Pci negli anni Cinquanta, rompe con il Partito e seguendo un progetto di guerriglia diviene rapinatore con la famigerata Banda Cavallero. Arrestato nel 1967 e condannato all’ergastolo, prosegue e insieme inizia la sua vera attività politica. Da allora, la Storia d’Italia s’incaricherà di fargli visita nelle varie patrie galere del suo lungo soggiorno. Notarnicola la accoglierà a suo modo: animando il movimento per i diritti dei detenuti sul finire degli anni Sessanta; conoscendo e confrontandosi con lo stato maggiore della lotta armata, dalle Br ai Nap a Prima Linea, tentando l’evasione e sperimentando sulla pelle il regime di articolo 90 nelle carceri speciali. Dopo vent’anni, otto mesi e un giorno si riaffaccerà alla vita esterna fino alla lenta estinzione della pena. Poesie di lotta e inni rivoluzionari, gridi muti di rabbia e squarci di lirismo nati in un contesto, come la carcerazione politica, dove la speranza della libertà è una quotidiana collettiva eucarestia o non è.

Sante Notarnicola (Castellaneta 1938), «operaio, comunista, rapinatore di banche, carcerato, scrittore, poeta». Nel 1972 ha pubblicato con Feltrinelli la sua semibiografia L’evasione impossibile (ristampata da Odradek a partire dal 1997). È autore di tre raccolte poetiche: Con quest’anima inquieta (Senza Galere, 1979), La nostalgia e la memoria (Giuseppe Maj, 1986) e l’ibrido Materiale interessante (Edizioni della Battaglia, 1997). Alcuni suoi versi compaiono nel volume collettivo Mutenye. Un luogo dello spirito (Odradek, 2001).


 

L'evasione impossibile, Feltrinelli, 1972

L’evasione impossibile, Feltrinelli, 1972

 

L'evasione impossibile

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Sante Notarnicola
L’EVASIONE IMPOSSIBILE

Con un’introduzione di Pio Baldelli e un’intervista all’autore

II edizione 2005 Con una prefazione di Erri de Luca

L’evasione impossibile ha attraversato con grande forza il ciclo di movimenti tra il ’68 e il ’77. Libro di culto per la generazione degli anni ’70, ormai introvabile, aggiunge all’interesse per le autobiografie esemplari quello dell’analisi distaccata nei confronti di nodi impresentabili – e quindi rimossi – per la sinistra; come la violenza e il carcere.
E’ il racconto della nascita e del percorso di quel gruppo che attraversò i fugaci onori della cronaca alla fine degli anni ’60 come “banda Cavallero” una banda di rapinatori di banche, nata per autofinanziare un’improbabile rivoluzione, e che aveva mantenuto per anni la propria salvaguardia evitando qualsiasi rapporto con la malavita. Un’anomalia che ne fece allora una leggenda.
Piero Cavallero, Sante Notarnicola, Adriano Rovoletto, I’ex partigiano Danilo Crepaldi sono invece fino in fondo figli del “popolo comunista” torinese, delle “boite” e delle officine della ricostruzione industriale del dopoguerra.
La grande forza emotiva non fa velo alla capacità di comunicare con lucidità e distacco il quadro storico-sociale che fa da sfondo alla trasformazione del Pci, alla nascita della sinistra extraparlamentare e poi delle organizzazioni guerrigliere.
Furono fortunati e abili nel riuscire a operare per tanti anni; furono sfortunatissimi nell’essere arrestati proprio un attimo prima che il ’68 facesse la sua apparizione, dando nuova linfa e nuove idee alla trasformazione radicale dell’esistente. Anche se c’è da dubitare che questi uomini – esclusi ormai da anni dal confronto con le realtà di base – sarebbero stati in grado di maturare un rapporto proficuo con un movimento tanto diverso da quello che si potevano attendere o sperare.
La condizione di prigionieri, paradossalmente, favorì invece questo incontro. E furono i gruppi extraparlamentari (non senza contraddizioni) a riconoscere in questa banda dei “compagni di strada” provenienti dalla generazione “perduta”: quella che era stata troppo giovane per fare la Resistenza, e troppo vecchia per attendere un nuovo ciclo radicale di lotte.

L’intervista al Sante di oggi, in appendice, chiude il cerchio di una vita spesa senza rimpianti alla ricerca di una rivoluzione che non ha vinto. Un capitolo della lunga “guerra civile” italiana, visto dall’ interno dei gruppi sociali che in modi diversi, ma più di tanti altri, hanno pagato sulla propria pelle il prezzo della “normalizzazione” del conflitto: la classe operaia torinese e i detenuti. In tempi di pensiero debole, l’unica ricaduta positiva è probabilmente il rinnovato interesse per le “vite”, per la memoria, per le testimonianze.
Quella di Sante Notarnicola è una coscienza estesa e possente, che sviluppa ed elabora una minuziosa e basilare critica della politica e della rappresentanza, perché il carcere, come luogo della intensificazione delle espenenze, dell’elaborazione collettiva, risulta un momento estremo di analisi della politica e di conoscenza dello Stato.

 


La Farfalla

Sante Notarnicola

La farfalla

Versi rubati

a cura di Daniele Orlandi.

In copertina: Marco Perroni, Prison, 2015.

Editrice Petite Plaisance

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Dalla Introduzione di Daniele Orlandi:

In un precedente libro di poesie che ebbi l’onore di curare, l’intento non era quello di raccontare in un’ottica cronistico-giudiziaria la storia di Sante Notarnicola (Castellaneta, 15 dicembre 1938) “bandito” o, in una dimensione politica, quella del rivoluzionario (ammesso che per il potere le due definizioni possano andare disgiunte). Non era nemmeno quello di fare critica letteraria. Rappresentava semmai il tentativo di scovare le maglie più larghe in cui i tre aspetti potessero collegarsi per fornire, in una prospettiva storica, un ritratto di Sante il più possibile vicino al vero. Per questa storia, quindi, che prima o poi il lettore ricercherà vanamente in queste pagine, non si può che rimandare a quella sintesi… [continua a leggere].

Daniele Orlandi, Introduzione

 

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Erich Fried (1921-1988) – Chi vuole che il mondo rimanga così com’è non vuole che il mondo rimanga del tutto.

Chi vuole

che il mondo

rimanga così com’è

non vuole che il mondo

rimanga del tutto.

 

Erich Fried, Status quo.

 

 

erich fried

 

È assurdo
dice la ragione


è quel che è
dice l’amore.

È infelicità
dice il calcolo
non è altro che dolore
dice la paura

è vano
dice il giudizio

è quel che è
dice l’amore.

È ridicolo
dice l’orgoglio
è avventato
dice la prudenza
è impossibile
dice l’esperienza

è quel che è
dice l’amore.

fried18

Erich Fried, È quel che è. Poesie d’amore di paura di collera,
traduzione di Andrea Casalegno, Einaudi, 1988.

 

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