«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Il titolo di questo saggio – ad un tempo storico, politico e filosofico – contiene quattro ossimori, espressamente concepiti per provocare intenzionalmente nel lettore quello “spaesamento” necessario per mettere in moto il suo autonomo processo di riflessione critica. I primi tre sono il Bombardamento Etico, l’Interventismo Umanitario e l’Embargo Terapeutico. Il quarto ossimoro rappresenta una sorta di denominatore unificante, il più corrotto e malvagio che esista, quello della Menzogna Evidente. Questo spaesamento è necessario per affrontare con animo libero gli enigmi dell’ideologia di legittimazione di questa inedita società capitalistica fondata sulla globalizzazione geografica coattivamente prescritta e sull’incessante innovazione culturale capillarmente imposta. Nel primo capitolo vengono richiamati i casi delle due scandalose guerre prevalentemente aeree e super-tecnologizzate contro l’Irak nel 1991 e contro la Jugoslavia nel 1999. In entrambi i casi i pretesti addotti dalle potenze imperiali, pretesti amplificati dal sistema giornalistico e culturale dominante, erano privi sia della legittimazione giuridica sia della plausibilità storica. In entrambi i casi però, come avviene nella favola del lupo e dell’agnello, la forza ha sostituito la ragione rispettiva. Nel secondo capitolo, che è a tutti gli effetti centrale, si ricerca il fondamento metafisico segreto di questo comportamento, che è il trattamento differenziato di Auschwitz e di Hiroshima ed il conseguente pentimento diseguale e manipolato che ne è seguito. In questo caso, la metafisica laica del Giudeocentrismo è servita per imporre una nuova lettura storico-religiosa del Novecento, non per contribuire ad una corretta comprensione delle cause che hanno portato al genocidio ebraico, una comprensione che dovrebbe impedire nel futuro il ripetersi di simili catastrofici eventi. Nel terzo ed ultimo capitolo, infine, si individua in una cultura di resistenza il presupposto necessario per una futura costituzione di forze politiche e sociali, per il momento non ancora esistenti, in grado di sostenere il confronto che certamente verrà, e non soltanto di ripetere in modo esasperante le mosse politiche, sociali e culturali di confronti ormai esauriti e tramontati con il venir meno del Novecento.
La rete è simbolo effettuale di una pervasiva madre matrigna anaffettiva che ingloba l’umanità, la omogeneizza, privandola di ogni determinazione sino a renderla un immenso indistinto nel quale le identità si assottigliano fino ad evaporare, inibibendo vera crescita e umanistica formazione
Tecnologie e regressione Il panopticon è la cifra dello sviluppo delle tecnologie, le quali nella propaganda sono presentate come servizio al cittadino, ma nella concretezza quotidiana sono i mezzi attraverso cui si attua il controllo globale. È da porsi il problema della motivazione del loro enorme successo, dell’accettazione fatale e dogmatica di esse. Ad una osservazione più attenta le tecnologie rispondono ad un bisogno profondo dell’umanità: la necessità di protezione. Le tecnologie divengono e sono il grande occhio che segue adolescenti ed adulti in ogni loro gesto: ogni ansia è calmierata dalla loro presenza, poiché difficoltà improvvise possono essere risolte mediante comunicazioni veloci. Il raggio d’azione di esperienze estreme si allarga, in quanto esse promettono contatti veloci in situazione di pericolo. Si pensi agli sport estremi per giovani alla ricerca di forti emozioni in mancanza di un senso etico profondo. Oppure il raggio d’azione si restringe, si vive in casa, in ambienti minimi, ma con un click si può comunicare e comprare merci al riparo dal mondo. Le tecnologie divengono, in quest’ultimo caso, delle feritoie virtuali da cui osservare il mondo. Contingenze opposte svelano in modo più immediato e chiaro il fine delle nuove tecnologie: rispondono ad un bisogno di sicurezza, sono paragonabili ad un cordone ombelicale invisibile, ciascuno reca con sé “una piacevole ed inconsapevole” regressione ad uno stato fetale.
La pancia globale Ci si sente nella pancia del mondo globale. Nessuno osa smentire i magnifici successi dell’avanzare della grande madre virtuale e globale. La rete diviene il simbolo effettuale di un’infinita madre tecnologica razionale ed anaffettiva che ingloba l’umanità: madre matrigna che mentre protegge omogeneizza, priva l’esserci di ogni determinazione sino a renderlo “nulla”, ovvero un immenso indistinto nel quale le identità si assottigliano fino ad evaporare, poiché inibisce la crescita e la formazione. La dipendenza dalla grande madre rete forma creature che dietro la soglia delle tecnologie non hanno avuto la possibilità di porre ordine al caos delle loro emozioni, non hanno potuto conoscere il loro carattere e la loro resistenza alle frustrazioni. Le tecnologie sono donative: mentre offrono servizi e controllo, ben distribuiti per censo, riducono la conoscenza di sé e la scoperta del telos comunitario dell’umanità. Sostituiscono la relazione con l’offerta di siti da cui scegliere – dal catalogo virtuale – la momentanea compagnia. Agiscono per impedire ogni ricerca reale, ogni dolore con il quale saggiare la propria forza ed autonomia. La loro presenza è simile ad una madre invadente che continuamente controlla il proprio pargolo, ne invade lo spazio pubblico e privato fino a renderlo dipendente e fragile. La grande madre è matrigna, poiché non vuole l’autonomia dei suoi sudditi, ma li vuole tenere al guinzaglio. Apparentemente li lascia liberi, ma ne estrae informazioni con cui irrobustire il suo intervento sulla psiche di ciascuno. Vuole conoscere ogni capello dei suoi clienti-figli, in quanto la loro dipendenza è la sua forza. È la nuova divinità nella forma antropomorfa del femminile proiettato nelle tecnologie e specialmente nel loro utilizzo collettivo. La rete si nutre della destabilizzazione emotiva e psichica dei suoi sudditi. La rete è la gran madre matrigna usata da multinazionali, finanzieri e capitalisti per dominare il mondo con l’indebolimento emotivo e razionale dei nuovi sudditi globali. Si usa l’archetipo della madre che scorre come acqua carsica nella rete per abbattere ogni resistenza e consolidare un imperium tragico. Gli adulti (genitori, docenti, educatori) ne favoriscono il puntellamento in nome del mito della sicurezza, rinchiudono le nuove generazioni in spazi virtuali nei quali sono “vetrinizzati”, esposti e già in vendita. Nelle istituzioni si tace sugli effetti e sugli usi nefasti, le voci dissenzienti sono tacitate gettando su di loro ombre di ridicolo. Si occultano gli aspetti perniciosi dell’uso massivo delle tecnologie in nome del “ progresso” acefalo.
Prometeo scatenato Prometeo scatenato è tra di noi, ha l’aspetto della rete, di un immenso grembo in cui ricacciare l’umanità, che diviene la nuova caverna della contemporaneità: la più insidiosa di tutte, perché offre libertà di movimento, pulsioni in libertà, ma nel contempo sottrae autonomia, autodisciplina e consapevolezza, tutto avviene in modo automatico e lineare. La DAD è un esempio di questa logica dell’ipercontrollo che cresce, si dirama, invade ogni spazio: le comunicazioni tra docenti ed alunni sono continue, anche fuori l’orario di lezione, in questo modo agli alunni è sottratto il tempo per confrontarsi con le difficoltà didattiche, la soluzione è nel docente-mamma pronto a soccorrerlo. I genitori comunicano con i docenti quotidianamente; la rete si estende e si stringe intorno a tutti, è il “cappio” che tutto dissolve. Il flusso di informazioni non crea comunità, ma monadi parlanti che utilizzano le informazioni in funzione della competizione e della divisione mondiale. Gli spazi reali, gli unici nei quali si possono costruire luoghi di comunicazione comunitaria, sono sostituiti da incontri veloci e virtuali: la chiacchiera prende il posto del concetto. La rete è la madre infinita costituita da una miriade di punti materni-controllo. Il panopticon virtuale cela la sua verità: con il discredito mediatico e culturale sul maschile simbolico-valoriale e sul limite, il femminile si riproduce nelle tecnologie, la rete si estende e promette eterna protezione, il risultato ultimo è la dipendenza assoluta. Come si è arrivati a questo?
Senza padri Ogni cultura è viva nel conflitto dialettico tra principi apparentemente opposti, ma in realtà l’uno equilibra l’altro, si pensi al polemos eracliteo. Il maschile ha il suo senso se si relaziona al femminile e viceversa. La distruzione del maschile, la perenne propaganda che lo rappresenta come omicida e pericoloso, inevitabilmente favorisce il trionfo del femminile, nel modello anglosassone, oggi massima espressione dell’asservimento alla società liquida. In assenza del limite, le tecnologie possono non solo essere usate e consumate senza che vi sia educazione al loro uso contestuale, ma specialmente il trionfo del femminile è l’affermarsi della cultura del controllo e dell’avversione ad ogni pericolo e frustrazione. Le tecnologie divengono l’estensione del femminile e l’espressione della sconfitta del maschile. Ovunque vi dev’essere omogeneità tra maschile e femminile, al maschile è concessa parola solo se ammette “la naturale superiorità e sensibilità del femminile”. Il maschile deve cedere il positivo e proficuo senso del limite in nome del principio femminile del controllo e del “dono” senza regole e razionalità. La violenza della maternità matrigna non è riconosciuta, per cui si plaude anche a sperimentazioni di nuove famiglie monosessuali che usano il grembo materno altrui per affermare il loro desiderio di paternità-maternità. Il centro deve tornare ad essere il concetto e non la rete, l’educazione deve avere come fine la formazione della persona e non l’uso meccanico delle tecnologie, l’antiumanesimo è la grande vittoria del Prometeo scatenato del capitale.
Nuovi pregiudizi Una società sana vive della preziosa dialettica tra femminile e maschile, la diade è manifestazione di principi capaci di autolimitarsi per permettere la vita al plurale. Da abbattere sono i pregiudizi positivi e negativi: non esistono generi assolutamente negativi o positivi, ma bisogna imparare, in primis, che le persone in quanto unità complesse non possono essere ridotte all’unica variabile del genere. La diversità è la possibilità della convivenza fra prospettive diverse che si completano, e specialmente, palesano aspetti differenti della realtà, i quali colgono aspetti essenziali da relazionare. L’identità è possibile solo nella relazione con altre identità. Se prevale l’incultura del modello unico, maschile o femminile, non importa quale prevale, non può che esservi una regressione generale, le cui colpe cadranno sulle future generazioni che attraverseranno la storia nella cecità del pensiero unico e dei suoi perniciosi ed inaspettati effetti. Dovremmo avere il coraggio di rallentare o fermarci per capire cosa stiamo dando-donando e specialmente cosa stiamo togliendo alle nuove generazioni, ma anche a noi adulti. Non si tratta di rifiutare la contemporaneità per la conservazione, ma di disporci in modo critico ed intellettualmente onesto. I figli della rete non possono che essere il prologo per tempi inauditi. Dobbiamo armarci di coraggio civile per fermare l’inverno dello Spirito che avanza.
La colpevolizzazione delle condotte individuali non conformi ai corretti stili di vita è assurta a dispositivo ideologico tanto semplice quanto efficace, perfetto per tempi come i nostri, allergici al ragionamento complesso e al pensiero dialettico. Permette di istituire facili equivalenze immediatamente consumabili sul piano comunicativo: l’incauto camminatore che si è allontanato dalla propria casa oltre i metri stabiliti nei giorni proscritti (casomai per fare una salubre passeggiata solitaria in campagna) è additato alla pubblica riprovazione come novello untore, chi mette sbadatamente un contenitore in Tetra Pak nel bidone sbagliato della differenziata diventa un devastatore ambientale, il lavoratore che non segue l’ennesimo, ripetitivo e generico corso sulla sicurezza si configura come responsabile degli incidenti sul lavoro. Il biasimo verso i trasgressori si abbevera alla retorica del piccolo gesto che fa la differenza. Tuttavia, la traiettoria del discorso piccola non è affatto, in quanto coglie con successo due bersagli che stanno al centro di un dominio che non si racconta più come tale. Il primo è la rimozione del politico e del sociale, spazi per eccellenza della complessità, al fine di rigettare ogni responsabilità sul singolo: la peste del nuovo millennio corre veloce fra un aperitivo serale e un bacio ai nonni e non tra le programmate rovine della medicina territoriale, sacrificata sull’altare della progressiva privatizzazione del sistema sanitario; il saccheggio dell’ambiente non è la risultante necessaria ed inevitabile del modo di produzione capitalistico, ma la conseguenza dell’incuria del consumatore poco attento al riciclo dei materiali; gli infortuni che ogni anno mietono vittime nei cantieri e nelle fabbriche nascono dall’ignoranza e dalla distrazione dell’operaio piuttosto che dalla mancanza di adeguati dispositivi di protezione forniti dalle aziende. Il secondo bersaglio è l’inclusione dell’ex-cittadino, ora imprenditore di se stesso, in uno spettacolo proiettato su scala globale, in cui è chiamato a giocare, in un copione scritto da altri, il ruolo di consumatore responsabile di merci ad alto contenuto simbolico ed emozionale dalla corretta fruizione delle quali dipenderebbe il buon andamento del pianeta. In un periodo storico in cui la maggior parte della popolazione mondiale è totalmente esclusa dalle vere decisioni – al punto da ignorare spesso persino da dove provengano e in cui è preponderante il peso di organismi sovranazionali che nascondono dietro il volto algido di una tecnocrazia sorretta dall’oggettività di dati ed algoritmi, il viluppo bruciante di enormi interessi che a partire dall’economia si diramano in tutti i settori della vita associata –, non v’è politico, industriale, manager o amministratore che non agiti la bandiera dell’inclusione, divenuta il fulcro delle buone pratiche di goveranance. Lungi dall’essere una semplice mistificazione costruita attorno ad un artificio linguistico, l’inclusione si declina piuttosto come la nuova virtù civica dell’attuale fase capitalistica, la forma ideologico-culturale in cui si traduce l’adattamento sociale. Diversamente dal passato, questa virtù civica non si elabora nel corso di un processo di cittadinanza attiva in cui il soggetto si costruisce come soggetto politico e sociale, innanzitutto attraverso il conflitto e la messa in discussione collettiva di assetti istituzionali e di costellazioni culturali dominanti. Anzi, essa ne rappresenta la negazione, perché ignora, quando non esecra, il conflitto e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di una costruzione abbozzata nei piani alti dei centri decisionali e da lì calata per una più puntuale mesa a punto nei livelli sottostanti del sistema mediatico onnipervasivo e del ceto accademico generalmente compiacente. I destinatari del progetto inclusivo sono tenuti a collaborare, o perlomeno a non sottrarsi all’ecumenico abbraccio, e ad avanzare di tempo in tempo qualche educata riserva che attesti il loro grado di coinvolgimento e rafforzi il progetto stesso. Chi, per svariati e anche contrastanti motivi, non prende il posto assegnato tra le fila dei soldatini del nuovo ordine mondiale confezionato con i ritagli del solidale, del sostenibile e del salutare o ne diserta provvisoriamente i ranghi, è il candidato ideale al ruolo di colpevole su cui scaricare i costi delle falle del sistema in fase di giudizioso riposizionamento dopo quarant’anni di predazione selvaggia all’insegna del neoliberismo.
Ad un popolo impaurito si può far accettare ogni provvedimento: Recovery fund e il MES
Ad un popolo impaurito si può far accettare ogni provvedimento. Se il popolo è costituito da individui senza identità, se è una somma di elementi senza unità alcuna: non ha lingua, non ha cultura, non ha tradizioni popolari, non ha religione non è più un popolo, ma solo massa omogenea plasmata dalla finanza. Il popolo non è più popolo da decenni, al suo posto vi è una massa informe che vive di desideri indotti e disperazioni contingenti. A questo popolo diseducato dal capitale ad essere soggetto attivo, a sentire il suono della propria lingua, a vivere l’ambiente e la storia in cui è immerso, che non guarda, perché ha smesso di vedere in modo empatico per calcolare l’immediato. Ad un popolo tradito e vilipeso si può far accettare il Recovery fund e ora, probabilmente, anche il MES. Si consegna il destino di un popolo, ormai plebe in attesa di “soli ristori “, alla finanza internazionale. La sovranità perduta da decenni, è ora palese, ma specialmente il destino è segnato. Nei prossimi decenni l’agenda politica sarà dettata dalla finanza internazionale, la quale concederà i prestiti solo se il governo servitore attuerà “le riforme”: tagli ai diritti sociali, taglio alle pensioni, invasione violenta dei privati nella scuola, la quale non deve formare alla cittadinanza politica, ma ai bisogni del mercato, digitalizzazione per astrarre informazioni da vendere al mercato. La TV di Stato, mentre avviene l’ultimo tradimento, trasmette finanziata dai suoi cittadini-sudditi la disinformazione nella forma dello spettacolo leggero e volgare a reti unificate. La condizione italiana è estrema, non vi è politica, non vi è partito in cui poter essere sicuri che non sia venduto alla finanza. La democrazia del popolo è sostituita dall’oligarchia della finanza.
Covid 19 e finanza
Il Covid 19 è una ghiotta possibilità per la finanza e le multinazionali, in primis il popolo è stato addestrato alla separazione ad essere oggetto di provvedimenti senza che siano stati criticamente letti, nella divisione si amplifica la paura e, dunque, il popolo diventa come il topo davanti al gatto che gioca. Dove vige la separazione regna la paura e l’angoscia. Un popolo angosciato ed impaurito da tutto ed intimorito da un futuro minaccioso non può che accettare l’ancora di salvataggio della finanza che lo porterà a fondo. Decenni di attacchi alla formazione ed ai diritti sociali hanno portato via con la formazione il senso critico per sostituirlo con il consumo, con la pornografia del mercato che addestra all’impotenza collettiva ed alla guerra orizzontale dei sudditi. La paura nella forma della separazione è il grande successo della finanza, essa la usa per spingere governanti senza capacità politica e pronti a difendere i soli interessi personali ad accogliere l’indebitamento patrio come una risorsa per la salvezza delle loro carriere: sono separati dal popolo, ma dipendenti dalla finanza. In una nazione che ha un’evasione fiscale incalcolabile per recuperare denaro da utilizzare nella crisi sarebbe logico lottare contro la grande evasione, invece si punta alla svendita della nazione per non dispiacere coloro che sono stati la causa del problema con il loro individualismo asociale e feudale: gli evasori fiscali. La decadenza della nazione è palese: si continua a cementificare paesaggio e storia con il ricatto del lavoro. Si ruba non solo il futuro, ma anche il passato, in tal modo non vi è presente, non vi sono bussole etiche e valoriali su cui costruire un futuro comune. Stanno portando via tutto per sostituirlo con il nuovo regno in l’imperatore è io mercato. L’azione e l’attacco della finanza internazionale è plurima: indebitamento con taglio diritto sociali e feudalizzazione della società, smantellamento della formazione, eliminazione dalla visuale percettiva della possibilità di pensare la storia e costruire un futuro condiviso. La lingua con cui un popolo pensa è sostituita dall’angloitaliano con la quale destrutturare il pensiero e per comunicare un assoluto e quotidiano disprezzo verso la nazione. Se si è costretti a parlare l’inglese dei mercati ed assimilare la lingua nazionale nell’inglese mercantile il messaggio che arriva alle nuove generazioni è che l’identità nazionale è nulla e le culture locali meritano disprezzo. L’astratto divora il concreto per fondare una bieca rivoluzione antropologica il cui fine è il solo mercato europeo nella quale la religione della finanza regna e consuma ogni risorsa per il trionfo di pochi. La lotta di classe e delle comunità nazionali deve partire dalla possibilità di guardare negli occhi la medusa senza lasciarsi pietrificare. Siamo soli, e nessun Dio verrà a salvarci, da questa verità è necessario riprendere il cammino. “Lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva” (Friedrich Hölderlin ), risuonano i versi del poeta, ma dal pericolo estremo ci si salva con la prassi, con la riorganizzazione dal basso, altrimenti il pericolo divorerà il futuro, per ora si assiste al teatro delle parti, in cui tutti mentono, in quanto le decisioni sono stare già prese fuori dal parlamento, nei salotti buoni della “cattiva finanza”.
Da quando il denaro […] ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito, e noi [siamo] diventati ora mercanti ora merce in vendita.
Seneca
«Fare soldi è un arte, lavorare è un arte.
Un buon affare è il massimo di tutte le arti»
Andy Warhol
Great Seal of the United States, Diritto dello stemma.
Great Seal of the United States, Rovescio dello stemma.
Sul Great Seal (Grande Sigillo) degli Stati Uniti e sul dollaro furono scritte dai “Padri Fondatori” degli Stati Uniti tre frasi in Latino invece che in Inglese. Due di esse furono tratte liberamente da Virgilio. Si sentivano gli eredi di Augusto, e comunque si autocebravano con questa ascendenza che li legittimava alla loro “missione storica”.
Annuit coepitis è la versione affermativa (“Dio è favorevole all’impresa”) della preghiera troiana a Giove “Audacibus annue coepitis” (Eneide, IX, 625); e “Novus ordo s[a]ec[u]lorum” viene dalla Egloga IV di Virgilio, significativamente quella in cui si troverebbe una anticipazione del cristianesimo. E guarda un po’: l’Eneide esprime un programma ideologico che corrisponde al programma politico di Ottaviano detto Augusto, l’iniziatore dell’Impero romano.
Quando si parla della “vocazione imperiale” degli USA!
E Joseph Robinette Biden Jr., al di là delle evidenti macroscopiche difformità con lo «stupido e infantile Trump» (come lo definisce Michael Wolff), a cosa si sente “vocato”? Muterà forse il fine del dollaro “umanizzando” il suo corso e rendendolo meno “imperiale”?
Carmine Fiorillo
«Fare soldi è un’arte, lavorare è un’arte.
Un buon affare è il massimo di tutte le arti».
Andy Warhol
«Da quando il denaro, che tanti magistrati e tanti giudici tiene avvinti, che addirittura crea magistrati e giudici, ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito, e noi, diventati ora mercanti ora merce in vendita, non esaminiamo più la qualità, ma il prezzo. Per interesse siamo onesti, per interesse siamo disonesti, e inseguiamo la virtù fin tanto che c’è la speranza di guadagnarci, pronti a cambiare rotta se il vizio promette di più. I nostri genitori ci hanno inculcato l’ammirazione per l’oro e l’argento, e la cupidigia, instillata in noi fin da piccoli, ha messo radici profonde ed è cresciuta con noi. Cosi il popolo intero, in tutte le altre cose discorde, su questo soltanto conviene: questo ammirano, questo si augurano per i loro cari, questo consacrano agli dèi, come espressione massima delle cose umane […]. I costumi si sono ridotti a un livello tale che la povertà è considerata maledetta e infamante, disprezzata dai ricchi, invisa ai poveri».
Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, 115, 10-11; trad. di C. Nonni.
L’elaborazione di Gianfranco La Grassa del concetto di Imperialismo
Premessa Lo studio pluriquarantennale di questo misconosciuto studioso del marxismo e del leninismo (che ha comunque pubblicato decine di libri su entrambi gli argomenti!), è approdato ad alcune formulazioni originali sia dell’uno che dell’altro. Dal momento che, nella situazione attuale, è proprio un quadro complessivo cui far riferimento che fa difetto, cercherò di illustrare dette formulazioni, a partire dalla rilettura che La Grassa fa dell’“Imperialismo, fase suprema del capitalismo” di Lenin, ivi comprese le sue ipotesi su come possa evolvere nei prossimi decenni “la formazione sociale capitalistica ri-mondializzatasi nel 1989-91”. Cercherò, nei limiti delle mie capacità, innanzitutto di “descrivere” il nuovo quadro teorico che ne risulta, quanto alle mie “riserve”, pur dichiarandomi fin da ora complessivamente d’accordo con La Grassa (cosa del tutto evidente del resto, visto che ho scelto questo originale e rinnovato contributo alla teoria, per collocarvi le mie argomentazioni), le esprimerò in una o due paginette, a parte, che allegherò al testo. Premetto che si tratta di un lavoro, decisamente faticoso e difficile! Ad una prima parte sostanzialmente teorica, che io credo di non difficile comprensione (anche se di non facile accettazione, visto il quadro ossificato dei teorici marxisti), ne seguirà una seconda, con la quale occorre confrontarsi se non si vuole stare soltanto alla finestra, e che sarà costituita, per solido convincimento dello stesso autore, da una serie di ipotesi pronte a smentire il più approfondito dei convincimenti, anche se fondato su di una solida teoria. Di fatto ho già cominciato, con questa affermazione, ha definire il criterio metodologico fondamentale degli studi di La Grassa, secondo il quale le più “ispirate” previsioni sono di fatto “largamente aperte a possibilità di errori anche notevoli, in molti casi di ampiezza tale da inficiare l’apparato categoriale impiegato nel formularle”, senza per questo rinunciare appunto alla teoria in quanto sistema di ipotesi (da non confondersi ovviamente con la realtà!). Un approccio decisamente scientifico al problema. In ogni caso, anche se le previsioni dovessero, in linea di larga massima, rivelarsi per 1’essenziale esatte, queste non potranno finire con l’affermarsi se non nel corso di decenni, non certo di anni.
L’Imperialismo: due opposte concezioni Prima di seguire La Grassa nel suo “riassunto” della teoria dell’imperialismo di Lenin rispetto alla quale emergeranno sia i suoi punti di affinità con essa, sia le novità sostanziali rispetto ad essa, c’è bisogno di fare alcune precisazioni.
In primo luogo si tratta di mettere subito in evidenza un punto essenziale circa il carattere dell’imperialismo e cioè il suo essere intrinseco alla struttura dei rapporti del modo di produzione capitalistico, contrariamente a quanto sostenevano Hobson e Kautsky, che ritenevano invece l’imperialismo una semplice politica di settori arretrati del capitalismo (i settori finanziari, considerati parassitari, putrescenti) e che, di conseguenza, erano convinti si potesse contrastare detta politica, senza la trasformazione del capitalismo in un’altra formazione sociale. Si tratta dunque di riaffermare il profondo convincimento di Lenin che, per l’appunto, vedeva il capitalismo intrinsecamente conflittuale, fortemente competitivo non soltanto a livello economico ma anche in campo politico e militare. E dunque l’imperialismo non poteva che essere inestricabilmente intrecciato con il modo di produzione tipico della formazione sociale capitalistica. Per Lenin perciò, il capitale finanziario (tipica espressione dell’imperialismo), non costituiva una degenerazione del capitalismo, dovuta alla presenza di capitalisti parassitari, puramente speculativi. Era invece simbiosi, tra capitale bancario e capitale industriale. Un capitale finanziario dunque indissolubilmente legato a quello produttivo. La tesi di Hobson e di Kautsky, secondo la quale è necessario combattere il primo per far meglio fiorire il secondo, considerato tutto sommato positivamente, perché avrebbe potuto essere utilizzato a vantaggio della collettività, grazie alla sua dinamicità e al veloce sviluppo delle sue capacità produttive, (tesi che ancora oggi riemerge), è di fatto storicamente servita soltanto ad indebolire la lotta antimperialistica e continua a svolgere, anche oggi, la stessa funzione. Secondo La Grassa, partendo dalla tesi leniniana dell’imperialismo strutturalmente legato al capitalismo, si può e si deve trarre una conclusione ancora più generale, e cioè che la definizione e la trattazione del primo dipendono da come viene concepito il modo di produzione capitalistico. Come vedremo meglio in seguito, La Grassa a questo punto si allontana dall’impostazione leniniana. Si tratta di un processo molto simile a quello che avviene, per l’autore, con Marx. E siamo ad una seconda precisazione. La Grassa parte da Marx per definire il modo di produzione capitalistico, per poi “innovarlo” con successivi spostamenti concettuali di rilievo, e così pure parte da Lenin nel trattare il problema dell’imperialismo, per apportarvi poi modificazioni radicali. Prima di arrivare all’analisi dell’imperialismo è perciò assai opportuno seguirlo, nella sua lettura “essenziale” di Marx.
Marx secondo La Grassa Il punto essenziale della concezione marxiana del modo di produzione capitalistico, è rappresentato dall’importanza capitale che Marx attribuisce al fatto che, nel capitalismo, lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro, si socializzino solo indirettamente, tramite il mercato. La produzione capitalistica è dunque produzione di merci, avviene di fatto in unità separate e autonome, ognuna delle quali porta avanti i suoi propri interessi, in conflitto con altre unità (che d’ora in poi chiameremo imprese) dello stesso genere. La forma di merce è evidentemente in stretta correlazione con quella di denaro, in definitiva con le diverse manifestazioni monetarie di quest’ultimo. Se si producono merci, è ovvio che la ricchezza prodotta presenti sempre il suo aspetto monetario. La somma di merci è sempre tradotta in una somma di denaro. Il calcolo economico è di fatto effettuato in moneta. Questa acquista ogni cosa, ed ogni cosa può essere trasformata, in tempi più o meno lunghi, in moneta. Se tra queste imprese si creano alleanze e collegamenti secondo le molte forme giuridiche esistenti per farlo, o se addirittura alcune di esse sono fagocitate da altre che le battono nella concorrenza, tutto ciò avviene per poter accrescere le capacità competitive delle imprese. Dal momento che il capitalismo è, produzione di beni e servizi in forma di merce, se ne deve necessariamente concludere che il conflitto inter-imprenditoriale è generale e permanente, mentre l’accordo, la fusione, il collegamento, l’inglobamento e l’incorporazione, tra imprese sono particolari e transitorie. Il conflitto è il fine, dice La Grassa, mentre l’accordo, l’alleanza, ecc. sono il mezzo per quel fine. Per poi precisare che non si tratta di “un conflitto fine a se stesso, ma a sua volta strumento per l’affermazione della propria temporanea predominanza”. Quanto segue, è l’assunto sostanziale che allontana La Grassa da Marx. L’elemento fondamentale, “essenziale”, del modo di produzione capitalistico non sarebbe, come sostiene Marx, la proprietà privata dei mezzi di produzione, cui si contrappone quella della forza o capacità lavorativa di coloro che sono pagati mediante salario e cioè il conflittocapitale-lavoro, ma il conflitto inter-imprenditoriale. E le forme proprietarie rappresentano i mezzi utilizzati dalle imprese per realizzare le condizioni migliori nelle quali collocarsi in vista del reciproco conflitto prima di tutto per la supremazia mercantile. Secondo La Grassa, seguendo l’ottica marxiana della mera proprietà privata dei mezzi di produzione, si finisce per fissare l’attenzione sostanzialmente su di un fenomeno, la centralizzazione dei capitali, che porta alla fase monopolistica del capitalismo, come uno stadio irreversibile del suo sviluppo, che di centralizzazione in centralizzazione, dovrebbe portare al famoso ultra-imperialismo, o capitalismo pienamente organizzato, di Kautsky e Hilferding. Di fatto questa tendenza non si è mai realizzata, mentre oggi la conflittualità inter-imprenditoriale, con imprese ben più giganti di quelle dell’epoca di Lenin (e di Marx), si va progressivamente esasperando.
La struttura dell’impresa Nel momento in cui si accetta la tesi che il conflitto tra imprese è l’elemento decisivo, e fondante, del capitalismo, è molto importante cercare di definire le strutture di dette imprese. Queste, in quanto entità produttive, sono costituite da collettivi di lavoro produttivo (salariato), a struttura piramidale, in cui, partendo dal basso, esistono i diversi ruoli del lavoro manuale ed esecutivo e, verso l’alto, i diversi ruoli del lavoro direttivo. Al vertice stanno i direttori dei dipartimenti e delle divisioni, e, su tutti, il gruppo dirigente dell’impresa nel suo complesso. L’impresa è un’organizzazione che, considerata in sé stessa, persegue finalità di profitto, utilizzando una razionalità produttiva (strumentale), con la ricerca di una efficienza economica fondata sulla migliore utilizzazione di una serie di risorse e di fattori produttivi (dove per migliore s’intende quella che minimizza i costi), per ottenere la massima produzione possibile (dove il massimo concerne in realtà il ricavo ottenibile dalla vendita delle merci). Ogni impresa cerca di conseguire un simile risultato in competizione con le altre, tra di esse si stabiliscono a volte rapporti di collaborazione (sostanzialmente e solo in funzione della volontà di prevalere su altri gruppi di imprese). Si tratta in realtà soltanto di semplici alleanze, poiché ogni impresa persegue il fine del successo, della prevalenza nella competizione, e in base a ciò regola la sua condotta che è di reciproca cooperazione (solo transitoria e locale) e di reciproca lotta (permanente e complessiva).
Le funzioni di direzione dell’impresa L’organo dirigente dell’impresa espleta due funzioni ben differenti che, nelle imprese di maggiori dimensioni, tendono ad essere assunte anche da soggetti concretamente distinti. E’ infatti necessario innanzitutto che: 1) si formi una gerarchia (interna) di ruoli al cui vertice si situa il gruppo, con il compito di assicurare la coesione dell’impresa, il coordinamento d’insieme, la migliore efficienza in termini di costi e ricavi. Tale gruppo gestisce i processi tecnici e amministrativi, forgia l’organizzazione e assume il comando diretto delle “truppe”. 2) venga affidata al gruppo in questione, o ad una sua sezione, anche la gestione, la promozione e l’utilizzazione delle innovazioni, siano esse di processo, (atte cioè a ridurre i costi unitari di produzione), o di prodotto, (in grado cioè di ampliare la gamma delle merci vendute) e di accrescere in tal modo la quota di mercato dell’impresa, indipendentemente da costi e prezzi. Infatti, nel modo di produzione capitalistico, fondato sulla competizione tra imprese nei mercati, sia le innovazioni del primo tipo sia quelle del secondo, sono piegate alle esigenze di detta competizione, alla necessità cioè di battere i concorrenti e di appropriarsi di sempre maggiori quote della ricchezza prodotta in forma monetaria. Va detto che, ai fini del conflitto inter-imprenditoriale, risultano però nettamente più decisive le innovazioni di prodotto, in particolare quando si tratti di prodotti interamente nuovi e non di nuove versioni di vecchi prodotti, che consentono di produrre, per un periodo di tempo più o meno lungo, in condizioni di quasi monopolio e di far così dirottare verso le imprese innovatrici, grosse quote di risorse (i “risparmi”) accumulate, in specie mediante il settore bancario, e finanziario in genere. Ma vista l’organizzazione conflittuale della produzione capitalistica, non è pensabile che i gruppi dirigenti imprenditoriali possano limitarsi a svolgere soltanto funzioni di gestione tecnica, di organizzazione, di coordinamento d’insieme, di innovazione. E’ dunque necessaria una diversa funzione che: 1) abbia la visione d’insieme dell’impresa e del complesso delle sue potenzialità competitive, ivi comprese quelle attinenti alla sua flessibilità nell’adattarsi ad eventuali mutamenti delle modalità e del terreno del conflitto inter-imprenditoriale, 2) sia in grado nello stesso tempo di studiare attentamente queste modalità e lo specifico terreno dello scontro, di condurre un’adeguata politica delle alleanze tra imprese, di scegliere i tempi più consoni all’acutizzazione del conflitto in questione, e di stringere legami con altri settori sociali non imprenditoriali, senza l’appoggio dei quali la “guerra tra imprese” risulterebbe non gradita a buona parte della popolazione, creando in questo modo un ambiente tendenzialmente ostile all’imprenditorialità e un indebolimento della sua egemonia, della sua presa ideologica. Questa funzione, particolarmente complessa, viene assunta da un organo imprenditoriale dirigente con compiti strategici, di carattere fondamentalmente politico. Anche se tale organo spesso è in possesso dei pacchetti di controllo azionario delle imprese, non è però la proprietà ad essere decisiva, quanto piuttosto la sua funzione strategico-politica, di una politica tutta intenta a favorire il successo di alcuni, e la loro predominanza su altri, nella competizione nell’ambito della sfera economica della società. L’organo direttivo strategico, che pure ha un’attenzione prevalente ai fenomeni della sfera economica, si fa carico contemporaneamente, e necessariamente, dei compiti di coinvolgimento delle altre sfere della società capitalistica, quella più specificamente politica e quella ideologica. Solo l’adempimento di questi altri compiti, non più semplicemente economici, pur se espletati con l’utilizzazione di risorse finanziarie (sia ben chiaro!), consente alle imprese, centri in cui si produce la ricchezza nella sua forma generale di denaro, di non isolarsi dal resto della società, ma di conquistare invece in essa un’influenza che la permea nel suo insieme e di esercitare perciò un’autentica egemonia, di ottenere un consenso non disgiunto dall’uso del potere.
L’impresa e lo Stato Va a questo punto sottolineato che la competizione, e il possibile successo in essa, rappresentano una forte molla per il consenso sociale, impossibile a raggiungersi, senza una regolamentazione del “gioco” competitivo e senza ideologie di mascheramento dei vari trucchi possibili per alterare queste regole a proprio vantaggio. E’ necessaria la presenza delle sfere sociali politica e ideologica, e cioè, usando le parole di La Grassa:
“di complessi di rapporti sociali che si ‘rapprendono’, si ‘coagulano’, in apparati vari in cui si svolgono processi lavorativi il cui ‘prodotto’ sembra indirizzato a garantire gli interessi più generali e complessivi dell’insieme societario, dell’insieme dei suoi membri posti formalmente su un piede di parità, di eguaglianza (di possibilità)”.
Lo Stato è la denominazione del complesso degli apparati politici che sembrano svolgere compiti amministrativi per scopi pubblici, (l’interesse generale si dice correntemente) e non in funzione di particolari gruppi di potere sia esso economico e/o politico, come avviene di fatto nella realtà. Questi ultimi si pongono in conflitto anche nell’ambito della sfera politica (e degli apparati di Stato), ma con modalità e intenti assai diversi rispetto a quelli in vigore nella sfera economica. Si tratta infatti di una competizione tra gruppi dominanti imprenditoriali di tipo strategico. Questi gruppi dominanti, sia economici che politici, sanno bene che non deve essere lesa l’unità dello Stato, perché resti salda tra la gente la credenza che tale unità serva alla prestazione di servizi per la società nel suo insieme, senza manifesto favoritismo a vantaggio di certi gruppi sociali o di certi altri. E così, la competizione, svolta nell’apparente saldezza dell’unità della sfera politica, e statale in particolare, porta alla formazione in detta sfera di gruppi dominanti che attuano strategie particolari, diverse da quelle svolte dai gruppi strategico-imprenditoriali nella sfera economica sia produttiva che finanziaria. Tra gruppi dominanti politici ed economici c’è sostanziale unità di intenti, per quanto concerne la riproduzione dei decisivi rapporti capitalistici, ma anche frizioni dovute alla diversità dei compiti e delle modalità di esercizio della dominanza. E ulteriori diversità esistono con riguardo ai gruppi dominanti e all’esercizio (e alle modalità) di tale dominanza nella sfera ideologica. Il fulcro della sfera politica, lo Stato, è entità con competenze territoriali, che coinvolgono particolari aree geografico-culturali della formazione sociale capitalistica complessiva. In sostanza, agli Stati corrispondono dei paesi. Come si è già sottolineato, lo Stato esercita un potere che appare, e deve sempre apparire, unitario, pena la disgregazione della sua struttura, del complesso dei suoi apparati. Tuttavia, al suo interno si svolge una più o meno intensa lotta tra gruppi di agenti capitalistici dominanti. Nella sfera economica, la competizione spezza l’unità della produzione in tante unità di carattere privato non tanto in senso giuridico, ma in quanto a separatezza e autonomia di dette unità. Infatti, La “socializzazione” di detta produzione (e cioè che essa, pur mirando al profitto, alla valorizzazione cioè dei capitali investiti nelle unità considerate, soddisfa al tempo stesso i bisogni creatisi nell’ambito di quella particolare forma storica di società), avviene indirettamente, è mediata dal mercato, dalla concorrenza mercantile. Dunque, la competizione aperta, cui è finalizzata anche ogni eventuale alleanza tra imprese, è in definitiva il collante sociale della sfera economica nel capitalismo. Del resto è proprio questo tipo di “socializzazione” mediante il conflitto che rende tale modo di produzione più dinamico e potente, in termini di creazione di ricchezza, rispetto a quelli finora conosciuti, compreso il socialismo reale, di fatto mero statalismo. Nella sfera politica, almeno nel suo fulcro costituito dallo Stato, non è invece ammessa l’evidenziazione di una socializzazione indiretta tramite aperto conflitto fra gruppi di agenti politici dominanti. Tale conflitto è pur sempre presente, e spesso acuto. lo Stato, al di là della strutturazione (coordinata) in apparati vari, è campo sociale attraversato da una fitta rete di rapporti, a configurazione gerarchica, nel cui ambito si svolge, sordo e sotterraneo, il confronto per la supremazia tra gruppi di agenti dominanti di tipo particolare, che agiscono in collegamento con quelli dominanti di carattere strategico-imprenditoriale. Ma, mentre la competizione tra questi ultimi prende la forma di concorrenza mercantile, sembra cioè risolversi nel confronto-scontro fra i prodotti delle attività gestite in reciproca lotta per prevalere nell’ambito del mercato, nella sfera politico-statale il conflitto precede sempre l’esito “produttivo” (servizi e funzioni di tipo “pubblico”) delle attività degli apparati in cui lo Stato si materializza. Quando i “prodotti” emergono – viene dunque posta in essere una certa politica avente determinati indirizzi – lo scontro tra agenti dominanti politici, con “alle spalle” i loro referenti strategico-imprenditoriali, deve avere trovato il suo momento di sintesi in nome di un fondamentale interesse che riguardi l’intera collettività nazionale. O meglio: tale interesse solo in apparenza riguarda l’intera collettività e anche tramite le ideologie e i relativi apparati si fa di tutto per convincere quest’ultima che si tratta della realtà. E’ in ogni caso evidente che, nel capitalismo, il potere viene gestito precipuamente mediante l’utilizzazione della forma generale secondo cui appare, in questa formazione sociale, la ricchezza prodotta: la forma di denaro. L’aspetto finanziario della ricchezza quindi – gli apparati in cui questo aspetto si concretizza, e le politiche (finanziarie, appunto) che di tali apparati sono il “prodotto” – diventa il tramite necessario tra politica (e ideologia) e produzione; dunque tra gli agenti dominanti politico-ideologici e quelli strategico-imprenditoriali. La produzione (di merci a mezzo di merci) esige la presenza dell’equivalente generale delle stesse (questa è la parte più banale del problema). Ma tutta la politica delle innovazioni sarebbe resa estremamente difficoltosa senza la “liquidità” della ricchezza. Altrettanto difficile, forse impossibile, sarebbe la politica delle dirigenze imprenditoriali di carattere strategico con riferimento alla possibilità di incorporare le unità imprenditoriali sconfitte nella competizione (senza semplicemente distruggerle), alla utilità o esigenza di stabilire alleanze con altre unità dello stesso tipo, alla capacità di influire decisamente e di coinvolgere nel conflitto inter-imprenditoriale gli apparati, quindi gli agenti dominanti, della sfera politica (e statale) e di quella ideologico-culturale. Terminate le precisazioni, meglio ancora le premesse teoriche fondamentali dell’elaborazione lagrassiana, possiamo passare alla lettura dell’imperialismo secondo l’autore.
L’Imperialismo di Lenin secondo La Grassa
Per semplicità espositiva e anche per una migliore comprensione delle “novità” rispetto alla teoria leniniana, ricordiamo brevemente le cinque caratteristiche dell’imperialismo individuate da Lenin: 1) centralizzazione monopolistica dei capitali quale stadio supremo del capitalismo; 2) formazione del capitale finanziario in quanto simbiosi tra capitale bancario e capitale industriale; 3) sviluppo relativamente maggiore dell’esportazione di capitali rispetto a quella di merci; 4) competizione tra grandi concentrazioni monopolistiche per la spartizione del mercato mondiale; 5) conflitto tra Stati (grandi potenze) per la divisione del mondo in zone di influenza.
Vale la pena sottolineare che, per Lenin, la caratteristica essenziale è sicuramente la prima. La Grassa sostiene una differente concezione, e riduce le cinque caratteristiche alle ultime due, e non solo! In primo luogo, dopo quanto detto in precedenza, risulta chiaro che per La Grassa non esiste l’ultimo (o supremo) stadio di una progressiva centralizzazione dei capitali. Come abbiamo visto, tale idea ha come sottofondo la concezione marxiana relativa al carattere (“essenzialmente”) proprietario del modo di produzione capitalistico, da cui deriva che la tendenza intrinseca di quest’ultimo conduce alla formazione di un ristretto gruppo di semplici rentier, ad un polo della società, e di una gran massa di lavoratori salariati (dai massimi dirigenti ai più bassi livelli esecutivi), “il lavoratore collettivo cooperativo” all’altro polo. Nell’analizzare l’impresa è risultato evidente che i gruppi di agenti dominanti strategico-imprenditoriali non sono affatto dei semplici rentier.
E dal momento che: 1) non sussiste la tendenza alla progressiva, e sempre crescente centralizzazione monopolistica, ma semmai soltanto alla crescita delle dimensioni delle imprese; 2) l’elemento essenziale del capitalismo è il conflitto e non la proprietà; 3) in tale conflitto, e non in una presunta socializzazione crescente delle forze produttive risiede l’indubbia capacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive, sia pure nel caos e nell’anarchia, più di ogni altra formazione sociale finora conosciuta; 4) tale conflitto conduce solo momentaneamente (nel senso di epoca storica) alla supremazia monocentrica, mentre poi esso si riacutizza policentricamente, e non tanto con i metodi del plusvalore relativo (e cioè con le innovazioni di processo) ma piuttosto con la riclassificazione, la ristrutturazione e l’apertura di nuovi settori produttivi (e cioè le innovazioni di prodotto, assai più decisive delle prime).
Se ne conclude che: 1) i gruppi dominanti capitalistici sono quelli strategico-imprenditoriali, e il considerare questi ultimi quali puri parassiti, sintomi di disfacimento e putrefazione del capitalismo, è un errore fatale per la lotta anticapitalistica; 2) il relativo monopolio è tipico delle epoche monocentriche, mentre quelle policentriche (quelle in cui si afferma l’imperialismo) vedono la sua attenuazione, proprio il contrario di quanto pensava Lenin che del monopolio faceva la caratteristica principale di tale fase capitalistica.
Lenin, che nella pratica, individua nell’imperialismo lo scatenarsi della lotta più aspra possibile tra capitalismi ai fini della prevalenza di alcuni di essi sugli altri, non rimette in discussione l’ortodossia marxista – anzi di questa finisce con l’accettare la versione peggiore, quella kautskiana, che riduce il “lavoratore collettivo cooperativo” alla sola “classe operaia” – e si trova invischiato nella presunta tendenza progressiva alla centralizzazione monopolistica. Sostiene che il monopolio non elimina la concorrenza, ma la “porta ad un livello più alto”, affermazione generica, contraddittoria, che fa il paio con l’accettazione, sia pure “in ultima istanza”, della tesi ultra-imperialistica di Kautsky, che cercherà di confutare sul piano pratico con l’appello alla rivoluzione proletaria generale. In realtà, la fase imperialistica – in quanto non ultimo stadiodel capitalismo, ma sua fase ricorsivadi tipologia apertamente policentrica, non è quella contraddistinta dalla crescente monopolizzazione, pur se in essa si affrontano per la predominanza imprese giganti. E dunque, la prima caratteristica di Lenin può essere, tralasciata. Ma anche la seconda non resta immune dai mutamenti concettuali che La Grassa propone relativamente all’elemento su cui “fondare” il modo di produzione capitalistico. Resiste certo l’idea brillante della simbiosi tra capitale bancario e industriale. Tuttavia, nella sua impostazione non vi è dubbio che la prevalenza, pur nella simbiosi tra i due, spetta al capitale bancario, e questo è logico sempre che si parta dalla già considerata accettazione della concezione marxiana del modo di produzione capitalistico (che in quest’ultimo considera decisiva la tendenza alla centralizzazione proprietaria e alla formazione dei rentier quale gruppo dominante supremo nel capitalismo). Tutte le forme del conflitto nella sfera economico-produttiva, per essere sfruttate appieno, esigono la rapida disponibilità di somme cospicue. Una parte consistente del capitale non può dunque essere immobilizzata, ma deve poter essere facilmente tradotta in liquido. E’ ovvio che su questa parte cresca un settore “specializzato” in operazioni finanziarie, che crea ulteriori attività imprenditoriali e su di esse si concentra senza necessariamente tener conto degli altri settori. E’ altrettanto ovvio che in esso si sviluppino operazioni speculative. Ma è però necessario capire da dove derivano, e perché, le “risorse finanziarie”. Queste prendono origine non dall’affermazione come gruppo dominante, di tipo parassitario, dei “tagliatori di cedole”, ma dalle esigenze della competizione a tutto campo, economico-produttiva, finanziaria, politico-ideologico-culturale, tra i vari gruppi strategico-imprenditoriali, autentici insiemi di agenti dominanti nel capitalismo che si scontrano per la supremazia, innanzitutto nei mercati, ma non solo in questi. In definitiva, la finanza è certamente indissolubile dal capitalismo, in quanto produzione di merci, soggette agli scambi nelle varie forme monetarie, ma le epoche in cui la finanza si dilata, accrescendo il caos e l’anarchia tipica del capitalismo, sono quelle policentriche, quelle imperialistiche. Per quanto riguarda la terza caratteristica, non vi è dubbio che gli investimenti all’estero assumono decisiva importanza rispetto alla semplice esportazione di merci (chiara indicazione relativa sia alle crescenti dimensioni, e relativa ramificazione (filiali, ecc.), delle imprese, sia soprattutto alle esigenze intrinseche al loro conflitto per la supremazia nei mercati (che attiene alla quarta caratteristica leniniana). Di conseguenza, il realismo delle considerazioni intorno alla finanziarizzazione del capitale e agli investimenti all’estero delle grandi imprese non cancella la chiara subordinazione di entrambi i processi al conflitto inter-imprenditoriale in quanto carattere cruciale (della dinamica) del modo di produzione capitalistico. Tutto questo ha convinto La Grassa che la quarta e la quinta caratteristica dell’imperialismo secondo Lenin, sono più che sufficienti a definire questa fase ricorsiva (e non stadio) dell’evoluzione del modo di produzione capitalistico.
Le trasformazioni delle due caratteristiche leniniane secondo La Grassa In realtà, nella teorizzazione lagrassiana, entrambe mutano notevolmente il loro aspetto caratteristico. Nell’elaborazione leniniana si parla di grandi concentrazioni economiche (monopolistiche) e di Stati (grandi potenze) in lotta fra loro. In questo modo, sostiene La Grassa, si finisce col concentrare l’attenzione sugli aspetti “materiali” del conflitto inter-capitalistico. E si finisce col dimenticare che, nella concezione di Marx, l’analisi decisiva deve svelare l’assetto dei rapporti sociali celati nelle loro concretizzazioni istituzionali. La Grassa preferisce indicare perciò, come caratteri specifici di una fase pienamente imperialistica:
a) l’esistenza di grandi concentrazioni imprenditoriali capitalistiche di tipo oligopolistico, nell’industria come nella finanza, in acuta competizione sul piano mondiale, per l’acquisizione di sempre maggiori quote di mercato;
b) l’esistenza di un conflitto altrettanto acuto, ma condotto con metodi differenti, tra Stati, o comunque tra gruppi di agenti capitalistici di tipologia politica, con estensioni nell’attività militare, per la conquista di sempre più ampie sfere di influenza cui va aggiunto il confronto tra agenti portatori di ideologie diverse per l’egemonia culturale.
In questo modo, si sottolinea l’importanza dell’organismo politico-statale che non è mero strumento nelle mani delle classi dominanti. Se dunque fissiamo l’attenzione sugli agenti sociali, in linea di principio gli agenti dominanti di ogni sfera sociale vengono messi sullo stesso piano. I dominanti nella sfera economica (gli agenti strategico-imprenditoriali) e quelli della sfera politica (e militare) o di quella ideologica hanno obiettivi e strategie differenti. I secondi, in particolare quelli politico-militari, che confliggono fra loro per le sfere di influenza, hanno spesso una visione degli interessi di interi sistemi (“nazionali”) economico-sociali più complessiva di quella dei primi, ovviamente più attenti ai problemi delle imprese o gruppi di imprese da essi controllati, fra loro in competizione più che altro per le quote di mercato. In ogni caso, l’accertamento della prevalenza nell’insieme della società degli agenti dominanti in una delle differenti sfere sociali non è una semplice questione di definizione teorica, ma soprattutto di congiuntura pratico-politica. Una volta definito l’imperialismo nel modo appena indicato, con tutte le conseguenze che ne derivano, anche le geniali intuizioni leniniane ne escono rafforzate e parzialmente riutilizzabili. Scompare la tendenza alla centralizzazione ultra-imperialistica, e si evidenziano le contraddizioni tra i dominanti, da sfruttare per eventuali trasformazioni sociali, anche rivoluzionarie dei dominati. Senza però nutrire illusioni (deterministiche) sulla “vicinanza” di queste ultime, dal momento che il capitalismo non è arrivato al suo stadio “maturo” o “morente”. Si rafforza nettamente la tesi di una necessaria finanziarizzazione del capitale, pur sapendo che non si tratta di stadio irreversibile e definitivo relativo alla putrescenza del capitalismo, dato che quest’ultimo, pur nell’anarchia e nel caos, può vivere ancora fasi di forte sviluppo delle forze produttive. Si comprende anche meglio l’affermazione leniniana circa l’Oriente socialmente arretrato ma politicamente avanzato. In realtà, non esiste una “classe universale”, oggettivamente (in sé) formata dalla dinamica di sviluppo del modo di produzione capitalistico e investita della missione salvatrice dell’intera umanità. Vi sono “nel mondo” strutturazioni sociali complesse, contraddizioni multiple che, a partire dall’esplosione aperta di quelle interne ai gruppi dominanti, possono condurre in direzioni diverse, aprendo spazi a forze alternative, “antisistema”. Si comprende anche perché Lenin accentuasse tanto l’aspetto politico del conflitto, poiché nutriva la profonda convinzione della possibilità di un intervento decisivo in esso degli Stati (secondo il linguaggio lagrassiano, dei gruppi dominanti politico-militari), ma anche di “avanguardie” determinate a cogliere la congiuntura (spazio-temporale) particolare in cui operare per il rovesciamento dell’intero insieme dei dominanti. La definizione dell’imperialismo, in quanto fase ricorsiva tramite le due caratteristiche appena più sopra indicate, permette dunque un’indagine puntuale intorno alla strutturazione del campo capitalistico uscito dalla seconda guerra mondiale. Ne emerge la sua particolare configurazione monocentrica, alcuni tratti importanti della quale si sono andati formando a causa della presenza del campo avverso (sedicente “socialista”), mentre altri erano fondamentalmente autonomi. Emerge la struttura dei blocchi dominanti nel paese centrale (USA) e in quelli capitalisticamente sviluppati ma non centrali (europei occidentali e Giappone), mettendo in luce quanto offuscato dalla generale ideologia denominata “keynesismo” e dal successivo riaccendersi del conflitto tra quest’ultima e la più vecchia ideologia liberista, tornata in voga negli ultimi decenni. Permette infine di chiarire cosa si nasconde dietro le espressioni “keynesismo di guerra” (struttura degli agenti dominanti nel paese centrale) e “keynesismo sociale” (configurazione del blocco dominante nei paesi non centrali), e di svelare soprattutto con chiarezza le caratteristiche peculiari dei gruppi dominanti che rendono gli USA ancor oggi il paese centrale, esercitante cioè una netta supremazia; e non solo di tipo militare cui troppo spesso, e superficialmente, si fa esclusivo riferimento. Secondo La Grassa, la centralità statunitense dipende attualmente soprattutto dal gruppo di agenti dominanti politico-militari (e anche ideologici), mentre in qualche misura si è riacceso, in specie dopo la ri-mondializzazione capitalistica successiva al 1989-91, il conflitto tra gli agenti dominanti strategico-imprenditoriali centrali e non centrali, pur se quest’ultimo è comunque ancora largamente segnato dalla supremazia statunitense nel campo della ricerca scientifico-tecnica e, dunque, delle innovazioni (in specie di prodotto), supremazia cui non è certo estranea quella schiacciante di tipo politico e soprattutto militare. In ogni caso, la ri-mondializzazione capitalistica non ha mutato in profondità la struttura dei blocchi dominanti nella formazione capitalistica centrale e in quelle non centrali, mentre nuovi paesi emergenti insidiano le potenzialità di sviluppo e di espansione di queste ultime. Nonostante le debolezze da cui sono affetti i blocchi dominanti dei paesi non centrali – e anche quelli in formazione nei paesi emergenti – si è in misura non irrilevante riattizzato il conflitto tra dominanti strategico-imprenditoriali, mentre quello tra agenti di tipologia politico-militare vede tuttora una supremazia a senso unico, contrastata forse da “strane” vie traverse, cui potrebbe appartenere il cosiddetto “terrorismo” (non le lotte di liberazione nazionale, tipo quella palestinese, che vengono confuse, da corrotti e disonesti ideologhi occidentali, con quest’ultimo). Per La Grassa l’epoca attuale sarebbe dunque caratterizzata da una situazione di semimperialismo, eminentemente instabile e quindi aperta a soluzioni opposte, e cioè il rinsaldarsi del monocentrismo statunitense, questa volta a livello mondiale complessivo, o l’entrata progressiva nella fase pienamente policentrica, cioè imperialistica, dando tuttavia aperta preferenza alla previsione dell’attuarsi di questa seconda situazione. Questo è però esattamente il percorso della scienza, differente da quello delle profezie fondate su dogmi intoccabili o su confuse, indefinibili, aspirazioni moralistiche. Non inutili queste ultime, sia chiaro (a differenza dei dogmi), quando spingono comunque ad opporsi alla prepotenza dei dominanti.
Proviamo a riassumere:
Imprese, (e cioè un sistema di unità produttive (e finanziarie), fra loro “autonome” e separate, in reciproco conflitto) e Stato (e cioè l’insieme dei gruppi di agenti dominanti che si combattono nell’ambito dell’unità politica così denominata, unità che va preservata onde mantenere l’egemonia capitalistica fondata sull’apparente perseguimento di fini “pubblici”, di interesse generale), sono gli elementi costitutivi e fondanti del capitalismo imperialistico. Quest’ultimo non è, come pensava Lenin, uno stadio (quello monopolistico, sicuramente irreversibile) del modo di produzione capitalistico. Si tratta invece di una fase (ricorsiva) dello sviluppo di quest’ultimo, in cui sistema di imprese e Stato agiscono insieme, ma con modalità differenti e compiti parzialmente separati, pur se fra loro intrecciati, perseguendo scopi di ampliamento di quote di mercato (per quanto riguarda la competizione tra imprese) e di sfere di influenza (per quanto riguarda il conflitto tra Stati). Come si vede, si tratta della quarta e della quinta caratteristica dell’imperialismo secondo la definizione di Lenin, che diventano perciò, secondo la concezione proposta da La Grassa, le vere caratteristiche decisive dell’imperialismo. Una simile impostazione del problema sembra non discostarsi molto dalle tesi leniniane. In realtà, lo spostamento è piuttosto netto. Come abbiamo già detto, Lenin, una volta elencate le cinque caratteristiche dello stadio imperialistico, affermava che una definizione sintetica di quest’ultimo poteva limitarsi ad indicare come decisiva la prima caratteristica, quella relativa al carattere monopolistico del capitalismo. In questo modo, veniva enfatizzato il lato economico di tale modo di produzione, ponendo inoltre in luce il presunto limite costituito dalla centralizzazione monopolistica dei capitali, che acuiva fino al punto di rottura la contraddizione tra rapporti fondati sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e socializzazione delle forze produttive. E’ altrettanto vero che Lenin pensava ad un’acutizzazione della concorrenza talmente forte che avrebbe portato fino al coinvolgimento degli Stati nell’ambito di uno scontro che avrebbe assunto caratteri bellici di portata mondiale. Ma tali Stati venivano però considerati fondamentalmente quali semplici strumenti delle classi dominanti capitalistiche (di tipo economico) in reciproco conflitto (inter-monopolistico). Centrando la definizione di imperialismo sulla quarta e sulla quinta caratteristica, La Grassa provoca uno spostamento non indifferente del punto di vista secondo cui osservare tale problema. Intanto, come già rilevato, si tratterebbe di una fase ricorsiva della struttura dei rapporti interni alla formazione sociale mondiale capitalistica; non di un ultimo stadio, di una fase suprema, ecc. Inoltre, pur se “in ultima istanza” la sfera economica è dominante nel capitalismo, quella politica, (in quanto campo sociale attraversato da rapporti conflittuali tra agenti dominanti di un certo tipo, pur quando esso si configuri quale entità unitaria nello Stato) gode di una “relativa autonomia”, non è mero strumento al servizio, diretto e immediato, degli agenti dominanti di tipo economico. Questi ultimi devono per necessità intrinseche alla riproduzione degli specifici rapporti sociali capitalistici, concentrarsi sulla competizione tra quegli organismi particolari, le imprese, che si assumono i compiti produttivi nell’attuale forma di società. D’altra parte, è tale competizione ad attribuire al capitalismo le sue modalità altamente dinamiche, la sua capacità di autotrasformazione mediante la distruzione creatrice. il suo spirito propulsivo in tema di innovazioni, con particolare riguardo a quelle di prodotto, quelle che aprono nuove direttrici di sviluppo, che ampliano spesso le frontiere della conoscenza scientifica. E’ evidente che il concentrarsi sulla competizione di tipo economico, in presenza di una creazione di ricchezza che appare in tutto il suo sfavillio soprattutto nella forma di moneta, impedisce agli agenti dominanti della sfera produttiva (dominante a sua volta nella società) di ampliare la loro visione alla formazione sociale nel suo complesso, all’insieme dei rapporti sociali che la costituiscono e che in certi casi potrebbero creare ostacoli all’ordinato riprodursi dei predominanti rapporti del modo di produzione capitalistico. Negli spazi aperti dalla competizione economica, dalla carenza di visione complessiva degli agenti strategico-imprenditoriali, si situano, interponendosi tra questi ultimi, gruppi di agenti che ascendono, pur sempre in reciproco conflitto, alla dominanza mediante la visione d’insieme della riproduzione sociale, visione che esige, pur nella lotta, unitarietà di indirizzo e capacità di sintesi, onde sussumere il molteplice atteggiarsi dei valori e scopi, relativi alla collocazione di diversi raggruppamenti nella struttura complessiva dei rapporti societari, sotto la riproduzione dei rapporti capitalistici. Infine, va sottolineato sia la concezione leniniana relativa all’intreccio ineliminabile tra capitale produttivo e capitale finanziario, sia l’ampliarsi di quest’ultimo nelle epoche policentriche di acutizzazione del conflitto inter-capitalistico (e inter-imperialistico). Che su tale ampliamento si inseriscano le manovre speculative dei “profittatori” è caratteristica ineludibile della riproduzione capitalistica. Essa non contraddistingue però uno stadio di semplice decadenza e putrescenza del capitalismo (imperialistico), non indica la trasformazione tendenziale dei funzionari del capitale in puri rentier. L’aspetto finanziario – legato al mantenimento della ricchezza in forma liquida o facilmente liquidabile – è essenziale per la competizione tra agenti dominanti strategico-imprenditoriali; è necessario all’incorporazione delle imprese sconfitte, alle alleanze tra imprese, alle innovazioni, al coinvolgimento delle sfere politica e ideologica nella competizione inter-imprenditoriale. Esso è inoltre indispensabile all’attività dello Stato, al mantenimento di quello spazio sociale unitario, di sintesi, aperto tuttavia allo scontro tra particolari agenti dominanti capitalistici cui è affidata una visione più complessiva, cioè relativa a interi sistemi capitalistici, a vaste aree geografico-socio-culturali (“nazionali” in senso lato) della formazione sociale capitalistica complessiva. Con il corollario, dunque, che gli Stati questi campi di rapporti conflittuali tra agenti dominanti di tipo politico – si scontrano fra loro per la supremazia di alcune di queste “aree” (paesi) su altre. In questo scontro, che si avvale di mezzi particolari fra cui sono ancor oggi decisivi quelli di tipo bellico, è pur sempre indispensabile il reperimento e l’utilizzo di risorse finanziarie.
“Essere contro il capitalismo significa mantenere aperta una riflessione critico-rivoluzionaria sull’attuale assetto dei rapporti sociali dominanti, significa perciò non rassegnarsi, pur in presenza di una grave sconfitta storica e della necessità di ripensare radicalmente cosa sia questa società e come può essere trasformata, al dilagare della prepotenza, dell’ingiustizia, dello schiacciamento dei più deboli, dell’inciviltà e dell’incultura, ecc. che caratterizzano questi tempi bui. Essere semplicemente contro il capitale finanziario è ripetizione di un errore ripetuto infinite volte da oltre un secolo”.
Epoche monocentriche versus epoche policentriche E’ ovvio che il conflitto – sia che si consideri un solo settore produttivo o il sistema nel suo complesso; sia che si guardi ad un sistema “nazionale” o al complesso della formazione sociale capitalistica – termina, ad un certo punto, con la vittoria, mai definitiva, di una data impresa o gruppo di imprese, di un dato sistema “nazionale” o di gruppi collegati di questi, ecc. Si configura così una struttura piramidale d’insieme, con gruppi di imprese o di sistemi “nazionali” delle stesse (o uno solo di questi sistemi) al suo vertice. Non per questo il conflitto cessa. Esso continua nella forma della “guerra di posizione”, che sostituisce quella “di movimento” condotta fino a quel momento. Nel frattempo, altri gruppi di imprese vengono via via costituendosi e/o rafforzandosi, nelle viscere del sistema controllato dal vertice della piramide (il “centro” del sistema stesso), avvalendosi di forme giuridico-finanziarie, di varie manovre attinenti alla diversa modalità dei mezzi di controllo imprenditoriale (ponendo al centro la proprietà azionaria o invece l’assegnazione ai manager del potere supremo), ma si sviluppano soprattutto attraverso i processi di innovazione e con il coinvolgimento nel conflitto della sfera politica e della sfera ideologica. Fino a quando il precedente ordine relativamente piramidale non viene completamente sconvolto e rimesso pienamente in discussione tramite lo scatenamento di una nuova guerra di movimento che dovrà, alla fine di un lungo periodo, riassegnare la vittoria, cioè la supremazia, a “qualcuno”. Posta così la questione, appare evidente che non ha senso immaginare una tendenza lineare alla centralizzazione monopolistica dei capitali. Non bisogna mai confondere il gigantismo imprenditoriale, che tendenzialmente appare sempre in crescita, con l’effettivo potere di monopolio di un’impresa o di un gruppo delle stesse o addirittura di un sistema “nazionale” nell’ambito della formazione sociale capitalistica mondiale. La relativa prevalenza monopolistica si ha nelle epoche, che La Grassa denomina per questo monocentriche, con struttura grosso modo piramidale, e presenza di un conflitto sordo manifestantesi come guerra di posizione, ecc. E’ chiaro che tale conflitto, in continua evoluzione, rimette sempre in discussione la supremazia esercitata in quella data epoca, con lo scardinamento della situazione monopolistica e con l’esplosione della guerra di movimento, caratterizzata da innovazioni (di processo ma soprattutto di prodotto) e da un ampio coinvolgimento del potere politico-ideologico. Nelle fasi monocentriche, è probabile che la relativa tranquillità (monopolistica) favorisca l’ascesa di gruppi manageriali – senza (o con scarsa) proprietà azionaria – alla direzione strategica delle imprese. Nelle fasi policentriche, che fanno saltare la situazione monopolistica, i vari gruppi di agenti strategico-imprenditoriali in reciproco conflitto hanno bisogno di proteggersi più adeguatamente dagli avversari, e dunque “blindare” la proprietà può essere a volte un buon mezzo di difesa, così come il lanciare operazioni di acquisto azionario quanto meno coadiuva l’offensiva e l’aggressività. Attività che, da sole, non sono sufficienti. Sono molto appariscenti sul davanti della scena, ma decisamente più importanti sono i processi innovativi e, forse ancora di più, i coinvolgimenti politici, ecc. La conclusione di tutto questo discorso sta nell’affermare che la centralizzazione monopolistica non è uno stadio dello sviluppo capitalistico – non è né irreversibile né supremo o ultimo – ma più semplicemente una caratteristica delle situazioni monocentriche, di momentanea vittoria di una impresa o gruppo di imprese (in uno o più settori produttivi) o di interi sistemi “nazionali” nell’ambito dell’insieme della società capitalistica. Ed è proprio in questo secondo caso, che si può parlare di epoca monocentrica. Nelle situazioni (o meglio ancora nelle epoche policentriche), malgrado il gigantismo delle imprese, si verifica precisamente la rimessa in discussione della struttura monopolistica.
Alcune considerazioni Le ragioni di queste righe sono praticamente due e, in un certo senso entrambe di ordine personale, e cioè il mio bisogno di misurarmi con il pensiero di Gianfranco La Grassa per poi appropriarmene e, attraverso una corretta volgarizzazione, trasformarlo in strumento di battaglia teorica, inserendomi così nel dibattito in corso sul blog di “Ripensare Marx” con alcuni elementi di propositività. Tutto questo, dopo aver contribuito a “demolire” quelle argomentazioni che vedono le posizioni di La Grassa cinicamente proiettate in uno spazio soltanto geopolitico e del tutto estranee alla “lotta di classe”, e aver fatto alcune considerazioni “critiche” su l’elaborazione di Gianfranco! L’intento dunque è chiaro. Il desiderio di portare il mio modesto contributo alla discussione e non la giusta linea tanto meno proletaria! Visto però che, sia pure ironicamente, ho fatto riferimento ad un linguaggio assai in voga oltre una cinquantina di anni fa, farò un salto ad un anno fatidico per il movimento comunista internazionale, il 1963, anno in cui si consumò la rottura tra l’U.R.S.S. e la Cina popolare, un evento drammatico per chi, come me, si affacciava al comunismo e credo anche per i comunisti di tutto il mondo.
Riassumo per i più giovani, i tempi della rottura. Il 30 marzo 1963 il Comitato centrale del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) scrisse una lettera al Comitato centrale del PCC (Partito Comunista Cinese). La risposta del PCC (nota successivamente come i venticinque punti) il 14 giugno 1963. Ai venticinque punti il Comitato centrale del PCUS risponderà, con una lettera aperta sulla Pravda, il 14 luglio 1963. I cinesi risponderanno a loro volta con un articolo “Le origini e lo sviluppo delle divergenze tra i dirigenti del PCUS e noi”, sul Quotidiano del popolo il 6 settembre 1963 e sarà la rottura definitiva. Anche se espressa in termini di “divergenze”. L’attenzione all’unità c’è stata sempre, anche se spesso soltanto formalmente, nel movimento comunista internazionale! Ma le ragioni della rottura erano già tutte contenute nei venticinque punti. Penso ai lettori, soprattutto ai più giovani, che si staranno chiedendo: ma tutto questo cosa c’entra con La Grassa e, soprattutto con l’oggi? Ebbene, la ragione di questo tuffo nel passato è legata al mio bisogno di inguaribile maoista di ricordare che il movimento comunista internazionale ha di continuo (e giustamente) inteso l’imperialismo come una teoria che interpretava la realtà capitalistica senza più ricondurla alla sola contraddizione capitale-lavoro. Il quarto dei venticinque punti rappresenta la realtà del mondo del 1963 in quattro contraddizioni fondamentali. In realtà non si tratta affatto di nostalgia, quanto piuttosto della necessità anche per noi, oggi, di fare i conti con il mondo che abbiamo di fronte e non con i nostri sogni! Ed ecco qui di seguito, riportati per intero, i punti quattro e cinque. Mentre il punto quattro rappresenta la teoria, il punto cinque rappresenta invece i rischi che si corrono nell’allontanarsene.
“4. La linea generale del movimento comunista internazionale ha per punto di partenza l’analisi di classe concreta della politica e dell’economia mondiale nel loro complesso e delle attuali condizioni mondiali, ossia delle fondamentali contraddizioni nel mondo contemporaneo. Se si evita l’analisi di classe concreta, ci si sofferma a caso su alcuni fenomeni superficiali, e si traggono conclusioni soggettive e infondate non sarà mai possibile giungere a conclusioni corrette riguardo alla linea generale del movimento comunista internazionale, ma si scivolerà inevitabilmente su una via del tutto diversa da quella del marxismo-leninismo. Quali sono le contraddizioni fondamentali del mondo contemporaneo? I marxisti-leninisti sostengono coerentemente che sono le seguenti: – la contraddizione tra il campo socialista e il campo imperialista; – la contraddizione tra il proletariato e la borghesia nei paesi capitalisti; – la contraddizione tra le nazioni oppresse e l’imperialismo; – le contraddizioni dei paesi imperialisti tra loro e dei gruppi monopolistico-capitalistici tra loro.
La contraddizione tra il campo socialista e il campo imperialista è una contraddizione tra due sistemi sociali fondamentalmente diversi: socialismo e capitalismo. Essa è senza dubbio acutissima. Ma i marxisti-leninisti non devono considerare le contraddizioni nel mondo come se si riducessero alla contraddizione pura e semplice tra il campo socialista e il campo imperialista. L’equilibrio internazionale delle forze è mutato e si è sempre più spostato a favore del socialismo e di tutti i popoli e le nazioni oppresse del mondo, diventando cosìestremamente sfavorevole per l’imperialismo e i reazionari di tutti i paesi. Ciononostante, le contraddizioni enumerate sopra esistono ancora oggettivamente. Queste contraddizioni, e le lotte alle quali danno adito, sono interdipendenti e si influenzano l’una con l’altra. Nessuno può dimenticare alcuna di queste contraddizioni fondamentali o sostituirne soggettivamente una a tutte le altre. È inevitabile che queste contraddizioni diano adito a rivoluzioni popolari, che sono le sole a poterle risolvere.
Le seguenti opinioni erronee dovrebbero essere respinte in merito alla questione delle contraddizioni fondamentali nel mondo contemporaneo:
a) il cancellare il contenuto di classe nella contraddizione tra i campi socialista e imperialista e il non riuscire a vedere questa contraddizione come una contraddizione tra Stati sotto la dittatura del proletariato e Stati sotto la dittatura dei monopolisti;
b) il riconoscere soltanto la contraddizione tra i campi socialista e imperialista, respingendo e sottovalutando invece le contraddizioni fra il proletariato e la borghesia nel mondo capitalistico, tra le nazioni oppresse e l’imperialismo, dei paesi imperialisti tra loro e dei gruppi monopolisti tra loro, e le lotte alle quali queste contraddizioni danno adito;
c) l’affermare riguardo al mondo capitalistico che la contraddizione tra il proletariato e la borghesia può essere risolta senza una rivoluzione proletaria in ciascun paese e che la contraddizione tra le nazioni oppresse e l’imperialismo può essere risolta senza la rivoluzione da parte delle nazioni oppresse;
d) il negare che lo sviluppo delle contraddizioni inerenti al mondo capitalistico contemporaneo conduca inevitabilmente a una nuova situazione in cui i paesi imperialisti sono impegnati in una lotta intensa e l’affermare che le contraddizioni tra i paesi imperialisti possano essere conciliate o persino eliminate da “accordi internazionali tra i grossi monopoli”;
e) l’affermare che la contraddizione tra i due sistemi mondiali del socialismo e del capitalismo scomparirà automaticamente nel corso della “competizione economica”, che le altre contraddizioni mondiali fondamentali faranno automaticamente altrettanto con la scomparsa della contraddizione tra i due sistemi e che apparirà un “mondo senza guerre”, un nuovo mondo di “cooperazione generale”.
È naturale che queste opinioni erronee conducano inevitabilmente a scelte politiche erronee e dannose e quindi a fallimenti e a perdite di questo o quel genere per la causa dei popoli e del socialismo”.
Oggi, la situazione che abbiamo di fronte non assomiglia nemmeno lontanamente alla situazione descritta dal punto quattro e sono venute alla ribalta altre contraddizioni a caratterizzare il mondo attuale. A mio parere, l’elaborazione del concetto di Imperialismo di Gianfranco La Grassa (che non voglio assimilare alla teoria delle quattro contraddizioni), ripercorre però un’identica esigenza, più libera però in termini di ricerca e, ovviamente meno efficace in termini politici, non avendo dietro di sé, il colosso cinese. Cosa è che rende alcuni, sospettosi rispetto alle tesi di La Grassa? Ho usato l’aggettivo “sospettosi” e non “critici” a ragion veduta, nel senso che la critica è legittima per definizione, mentre il sospetto… Quasi alla fine del penultimo paragrafo dello scritto appena presentato, ho citato una frase di La Grassa che mi trova totalmente d’accordo!
“Essere contro il capitalismo significa mantenere aperta una riflessione critico-rivoluzionaria sull’attuale assetto dei rapporti sociali dominanti, significa perciò non rassegnarsi, pur in presenza di una grave sconfitta storica e della necessità di ripensare radicalmente cosa sia questa società e come può essere trasformata, al dilagare della prepotenza, dell’ingiustizia, dello schiacciamento dei più deboli, dell’inciviltà e dell’incultura, ecc. che caratterizzano questi tempi bui. Essere semplicemente contro il capitale finanziario è ripetizione di un errore ripetuto infinite volte da oltre un secolo”.
Proverò ora ad analizzarla passo passo, e strada facendo, cercherò di evidenziare quello che speravo si trovasse già bello e pronto in La Grassa e che ora penso invece debba essere il risultato di una elaborazione a più mani.
“Essere contro il capitalismo significa mantenere aperta una riflessione critico-rivoluzionaria sull’attuale assetto dei rapporti sociali dominanti, …”.
Dunque, senza un’appropriata teoria, niente rivoluzione. Sostanzialmente: è assai improbabile che si riesca a cambiare qualcosa che non si conosca bene e, aggiungo io, soprattutto senza che esista il soggetto rivoluzionario, più semplicemente chi sia interessato ad una trasformazione anticapitalistica della società, non sul piano del puro desiderio. Per poi fare cosa?
“… significa perciò non rassegnarsi, pur in presenza di una grave sconfitta storica e della necessità di ripensare radicalmentecosa siaquesta società ecome può essere trasformata, al dilagare della prepotenza, dell’ingiustizia, dello schiacciamento dei più deboli, dell’inciviltà e dell’incultura, ecc. che caratterizzano questi tempi bui”.
L’invito a non rassegnarsi è chiaramente rivolto ai dominati oltre che a tutti coloro che hanno subito una grave sconfitta storica (la fine del comunismo storico novecentesco, rappresentato emblematicamente dall’implosione dell’U.R.S.S.). Si tratta comunque di una chiara indicazione di classe! La Grassa, che nella sua elaborazione teorica pone in secondo piano il conflitto (la contraddizione, dicevano i cinesi), capitale-lavoro, sa bene che le lotte vanno fatte e che, in ogni caso, lo sfruttamento dei dominati è continuo, figuriamoci in una situazione di crisi come quella che stiamo vivendo! Sa anche però, è questo è quello che gli si rimprovera, da parte dei duri a capire, che la prospettiva del sole dell’avvenire non ha alcun fondamento scientifico e dunque occorre liberarsi di idealità ossificate (prima fra tutte l’opposizione destra-sinistra) che favoriscono soltanto le vecchie oligarchie di partito e che impediscono invece alle masse una comprensione del mondo reale. Un dato è certo però e cioè che i dominati non fanno parte di nessuno dei gruppi di dominanti variamente descritti in precedenza e la loro esperienza di lotta essi la maturano sostanzialmente nella contrapposizione tra la proprietà privata dei mezzi di produzione e la loro forza o capacità lavorativa e cioè nel conflittocapitale-lavoro, in uno spazio dominato dall’economicismo. Occorrerebbe dunque un’organizzazione (non trade-unionistica, puramente sindacale) che sapesse trasformare esigenze contingenti in esigenze strategiche, che sapesse passare “dalla fabbrica allo Stato”, come si diceva una volta. Un terreno di lotta specificamente nazionale, sostengo io. Ma in particolare, in un contesto policentrico, per misurarsi dunque in un contesto internazionale, i dominati potranno far questo, soltanto se forti di una sovranità nazionale indiscussa. Altrimenti si ridurranno ad essere tifosi di questa o quella geopolitica. Se sono vere queste mie considerazioni, del resto mutuate da una tradizione di lotta antimperialistica di più di un secolo, bisogna rendersi conto che, sul piano pratico siamo praticamente all’anno zero. Dal momento che non esiste alcuna organizzazione dei dominati e anche questi non si sa bene come individuarli! Nel senso che non si dispone di una conoscenza dell’attuale stratificazione sociale e di una teoria più puntuale che vada oltre l’utilissima ma anche troppo generica categoria “i dominati”.
Io penso perciò che il momento storico che viviamo, un momento in cui lo spazio teorico è ancora occupato in piccola parte dalle vecchie ortodossie e per la più gran parte da teorie di comodo, di subordinazione, offra per ora, ad infime minoranze non rassegnate, soltanto la possibilità di adoperarsi a capire cosa sia questa società e non sul come possa essere trasformata. Questo voglio significare quando sostengo che si tratta di combattere una battaglia culturale e non politica tout court. Quanto all’ultima frase della citazione di La Grassa: “Essere semplicemente contro il capitale finanziario è ripetizione di un errore ripetuto infinite volte da oltre un secolo”. Il testo presentato lo spiega ampiamente!
Mi avvio alla conclusione di queste mie considerazioni. Poche righe per mantenere la promessa circa alcuni elementi di propositività. Il “policentrismo” che si sta facendo strada, offre maggiori possibilità rispetto al “monocentrismo”, sul piano delle prospettive, (vedi Russia versus Georgia, Obama che manda lettere a Putin per patteggiare, ecc.) visto che fino ad ora il terreno importante, ma unico, era quello della resistenza, con tutte le confusioni sull’antiamericanismo, ecc., ecc. La rivendicazione di una reale sovranità nazionale non credo possa disturbare chi, da sempre, considera l’Italia una colonia statunitense! Mentre completo queste righe, il glabro Frattini ha ritirato l’Italia dalla conferenza di Ginevra (Durban 2) dell’ONU, per la presenza nel testo di convocazione di un attacco antisionista! Se si parla di ENI da potenziare, subito ci si scandalizza circa una politica di potenza dell’Italia? La rivendicazione del ruolo delle nazioni in quanto tali riporterebbe in auge il diritto delle nazioni, in un’epoca in cui l’ingerenza umanitaria è stata lo strumento principale dell’imperialismo statunitense per bombardare chiunque, sull’onda del rispetto dei diritti umani, ovviamente a geometria variabile! I soggetti da coinvolgere sono a mio parere, le ultime due generazioni (da 20 a 40 anni). Io credo che oggi si sia in grado di prospettare qualcosa di ragionevole anche per coloro che vivono una vita assai diversa da quella che abbiamo vissuto noi alla loro età. Il problema non è, per me, stravincere a livello teorico, quanto piuttosto, servendosi di una teoria nuova, riuscire a dare indicazioni di ordine culturale prima ancora che politico, su come stare al mondo, oggi, e scusate se è poco!
«[…] non è necessario che gli uomini si rassegnino a subire […]. Il sistema sociale non è un ordinamento immutabile al di là del controllo umano, ma è invece un modello di azione umana».
John B. Rawls, Una teoria della giustizia, trad. iL di U. Santini, Feltrinelli, Milano 1982, p. 99.
«[…] sono convinto che la possibilità stessa di un ordine sociale [diverso] può di per sé riconciliarci con il mondo sociale. Questa possibilità non è una pura e semplice possibilità logica, ma si collega alle tendenze e alle inclinazioni profonde del mondo sociale. Infatti, fin quando abbiamo buone ragioni per credere nella possibilità, sia all’interno sia all’estero, di un ordine politico e sociale ragionevolmente giusto e capace di durare autonomamente nel tempo, possiamo ragionevolmente sperare che noi o altri, un giorno o in qualche luogo, lo realizzeremo, e possiamo quindi fare qualcosa per realizzarlo. Questo solo, e in via del tutto indipendente dal nostro successo o fallimento, è sufficiente a bandire i pericoli della rassegnazione e del cinismo».
John B. Rawls, Il diritto dei popoli, a cura di S. Maffettone, trad. it. di G. Ferranti, Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 170.
La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi giovani di non sentire mai.
«C’è una parte della nostra Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Perché quando l’articolo 3 vi dice: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” riconosce che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani. Ma non è una Costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una Costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma è una Costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società n cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche dalla impossibilità per molti cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anche essa contribuire al progresso della società. Quindi, polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente. Però, vedete, la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.».
Piero Calamandrei, Discorso ai giovani sulla Costituzione (1955), in Id., Lo Stato siamo noi, Chiarelettere, Milano 2011, pp. 5 ss.
«Le democrazie hanno grandi risorse di intelligenza e di immaginazione. Ma sono anche esposte ad alcuni seri rischi: scarsa capacità di ragionamento, provincialismo, fretta, inerzia, egoismo e povertà dello spirito. L’istruzione volta esclusivamente al tornaconto sul mercato globale esalta queste carenze, producendo un’ottusa grettezza e una docilità in tecnici obbedienti e ammaestrati che minacciano la vita stessa della democrazia, e che di sicuro impediscono la creazione di una degna cultura mondiale» (p. 153).
«Oggi possiamo ancora dire che ci piacciono le democrazie e la partecipazione politica, e ci piacciono anche la libertà di parola, il rispetto della differenza e la comprensione dell’altro. Formalmente rispettiamo questi valori, ma non pensiamo abbastanza a ciò che dovremmo fare per trasmetterli alla generazione futura e per garantirne la sopravvivenza. Distratti dall’obiettivo del benessere, chiediamo sempre più alle nostre scuole di insegnare cose utili per diventare uomini d’affari piuttosto che cittadini responsabili. Sotto la pressione del taglio dei costi, sfoltiamo proprio quelle parti dello sforzo formativo che sono essenziali per una società sana» ( p. 154).
Martha Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, il Mulino, Milano 2014.
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