«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
A Sante, alla sua capacità di esser stato, e di essere ancora, per sempre, ad un tempo, fragile e misteriosa cristalide, come gioventù ricca di speranze, di possibili metamorfosi, matrice di trasformazioni – condizione della realizzazione – e farfalla che col suo diafano e lieve battito d’ali punteggia la trama di Iride.
Carmine Fiorillo
La farfalla
Tentai di gettare l’anima al di là del muro … cercando di seguire la farfalla.
Chiara è una bimba felice. Nata attrezzata per i giochi infiniti.
Chiara lo sa, con lei giocheremo tutta la vita.
Sante Notarnicola
Non c’è vita che almeno per u n attimo non sia stata immortale.
La morte è sempre in ritardo di quell’attimo.
Invano scuote la maniglia d’una porta invisibile. A nessuno può sottrarre il tempo raggiunto.
Wislawa Szymborska
Sante Notarnicola
[…] ci ho messo 50 anni a diventare comunista. E 20 anni 8 mesi e 1 giorno di prigione. E 11 anni di carcere di massima sicurezza. E 5 anni di celle punitive. E la posta censurata. E i vetri divisori ai colloqui […] E le cariche dei carabinieri nei corridoi delle prigioni. E il sangue nelle celle. E il sangue dal naso. E il sangue dalla bocca. E i denti rotti. E la fame all’Asinara. E il silenzio obbligatorio al bunker della Centrale, a cala d’Oliva. E i racconti dei torturati. E i colpi contro la porta per non farti dormire. E i colloqui respinti senza un motivo. E la posta sottratta. E il linciaggio del vicino di cella. E il vivere col cuore in gola. E la pressione che sale. E il cuore che senti ingrossare. E il compagno che se ne va con la testa. E le divisioni a 5 nei cortili. E le rotture politiche. E le divisioni che teoricamente dovevano rafforzarci. E il dilagare del soggettivismo. E i vetri infranti ai colloqui. E le rivendicazioni coi pugni chiusi. E la ritirata strategica. E gli scioperi della fame condannati. E i sorrisi spariti. E i soggettivisti sconfitti. E gli odi tra compagni. E le demolizioni personali. E la disgregazione umana. E le perquisizioni anali. E le sei diotrie perse. E l’assalto coi cani nelle celle. E i compagni colpiti da schizofrenia. E i primi tradimenti. E la massa di dissociati. E l’isolamento politico. E la piorrea che avanza. E gli anni che passano e i giorni che conti. E i silenzi, i silenzi, i silenzi.[1]
Poesia per comunicare in condizioni difficili. Poesia per rompere l’isolamento a cui vorrebbero costringere corpo e cervello. Poesia come difesa dall’abbrutimento della prigione. Poesia per amare ancora, per vivere ugualmente una vita complessiva.[2]
«Caro Sante, Le tue poesie (alcune, come sai, le conoscevo già) sono belle, quasi tutte; alcune bellissime, altre strazianti. Mi sembra che, nel loro insieme, costituiscano una specie di teorema, e ne siano anzi la dimostrazione: cioè, che è poeta solo chi ha sofferto o soffre, e che perciò la poesia costa cara. L’altra, quella non sofferta, di cui ho piene le tasche, è gratis.
[3] Lettera di Primo Levi a Sante Notarnicola, in S. Notarnicola, L’anima e il muro, a cura di D. Orlandi, disegni di Marco Perroni, Odradek, Roma 2013, pp. 19-20.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso molti anelli non tengono. La storia non contiene il prima e il dopo, nulla che in lei borbotti a lento fuoco. La storia non è prodotta da chi la pensa e neppure da chi l’ignora. La storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario. La storia non giustifica e non deplora, la storia non è intrinseca perché è fuori. La storia non somministra carezze o colpi di frusta. La storia non è magistra di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve a farla più vera e più giusta. La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. C’è chi sopravvive. La storia è anche benevola: distrugge quanto più può: se esagerasse, certo sarebbe meglio, ma la storia è a corto di notizie, non compie tutte le sue vendette. La storia gratta il fondo come una rete a strascico con qualche strappo e più di un pesce sfugge. Qualche volta s’incontra l’ectoplasma d’uno scampato e non sembra particolarmente felice. Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato. Gli altri, nel sacco, si credono più liberi di lui.
Il presente non è tutto Nei tempi bui in cui tutto sembra procedere nel rumore cadenzato e stridulo dei cingolati del , la poesia appare come libertà, breccia nella plumbea cappa dei nostri giorni senza speranza e senza prospettiva. Montale nella poesia La Storia ci induce a riflettere sull’andamento della storia per poter riprendere il cammino che pare già segnato, ma in realtà è un campo di possibilità che si snoda davanti a noi. Il capitalismo ha in odio la storia, poiché essa testimonia che ogni potere è nel tempo, vorrebbe dissolverla in modo che si pensasse che il presente ha in sé la pienezza senza trascendenza, che oltre il tempo presente con la sua visione unidirezionale non vi è nulla. Il capitale nella sua fase apicale ha divorato anche il nulla, non ammette antitesi di nessun genere, si presenta come l’essere univoco parmenideo, deve eliminare ogni orizzonte temporale per erigere prigioni globali. Montale ci rammenta che la storia non è prevedibile, è attività creatrice, ha improvvise deviazioni, nessuno la possiede, ma appartiene a tutti, e dunque con l’aiuto delle circostanze l’impossibile può diventare reale. La storia ideale costruisce eroi ed ipostasi quali artefici della storia, ma la verità è che la storia è il frutto di una pluralità di soggetti che muoiono anonimi, eppure partecipano vivamente al suo procedere, sono il sale della vita che crea nuove possibilità. La loro gioia è nella partecipazione silenziosa che non verrà segnalata da nessuno storico. Ciò malgrado, dietro i rumori dei grandi vi è la storia dei piccoli, dei resistenti, che con la loro piccola vita possono deviare il corso fatale della stessa. Coloro che vogliono ridurre la storia ad un teorema con definizioni e corollari predeterminati hanno già perso, perché si pongono fuori del cammino della storia vivente:
La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso molti anelli non tengono. La storia non contiene il prima e il dopo, nulla che in lei borbotti a lento fuoco. La storia non è prodotta da chi la pensa e neppure da chi l’ignora. La storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario.
Piani di passaggio La storia ci sembra, ora, in questi decenni omogenea: un piano liscio su cui scorrono merci e chiacchiere. L’impero del valore di scambio sembra non lasciare scampo, assimila ogni differenza, espelle dal suo grembo maligno ogni alterità. L’omogeneità si ripiega su se stessa, non lascia varchi, brecce da cui ri-dialetizzare il presente. Montale ci invoca a guardare fortemente la storia e a cogliere sul piano liscio improvvise “buche” che consentono il passaggio verso nuovi mondi. Il piano grigio e compatto della globalizzazione, apparentemente invincibile, è puntellato di resistenti che non si lasciano divorare dalla chiacchera, ma conservano la loro umanità, la loro razionalità critica che trasforma il presente in attività divergente. La storia non è conclusa, il potere vive l’illusione del controllo totale, si bea della sua tracotanza, ma la vita con le sue buche gli sfugge. Le buche possono trasformarsi in voragini tali da deviare il corso degli eventi, da mutare la geografia dei significati che il potere vorrebbe eternizzare:
La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli.
Fuori dalle reti Per poter comprendere la storia, se mai questo sia possibile, dobbiamo guardare fuori la rete che ci rassicura, distribuisce i ruoli, tira una linea tra vincitori e vinti. La storia vera e viva è fuori della rete. Solo chi è fuori della rete può comprendere la verità della storia. Chi è tagliato fuori dalla storia, svela le illusioni di coloro che sono nella rete, chi sfugge alla rete per volontà o per un caso trova un varco, è l’attore di un nuovo inizio. Gli infelici che sono “fuori” non sono da compiangere, perché in loro riposa la possibilità di un nuovo percorso, perché dal loro “fuori” vedono la verità della rete con i suoi disincanti. Il loro sguardo penetra nella notte oscura per incontrare l’inizio di un nuovo giorno, la tragedia si sposa con la speranza:
C’è chi sopravvive. La storia è anche benevola: distrugge quanto più può: se esagerasse, certo sarebbe meglio, ma la storia è a corto di notizie, non compie tutte le sue vendette. La storia gratta il fondo come una rete a strascico con qualche strappo e più di un pesce sfugge. Qualche volta s’incontra l’ectoplasma d’uno scampato e non sembra particolarmente felice. Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato. Gli altri, nel sacco, si credono più liberi di lui.
Non dobbiamo temere di essere degli invisibili, dei pesci piccoli che nuotano alla periferia della rete, coloro che non sono nella rete non appaiono, ma sono la sostanza del mondo, e la storia vive delle loro inconfessabili libertà. La teoria del caos (James Yorks) ci insegna che un battito d’ali può causare effetti che non possiamo prevedere. Dobbiamo continuare a battere le nostre ali. I nostri pensieri, il nostro impegno sono le ali della storia. La storia viva è indecifrabile, insondabile e non si ripete mai in modo eguale, pertanto anche nella disperazione può fiorire la speranza, perché la storia è molto più di ciò che appare, leggiamo e viviamo. La storia incombe, se ci arrestiamo davanti alla sua grandezza, ma se entriamo in essa e ci doniamo senza la presunzione del risultato tutto può ancora essere ed esserci. Non dobbiamo allevare barbari dal calcolo facile e dal cuore lento, ma guerrieri gentili dalle cui parole può rifiorire un mondo.
Salvatore Bravo
[1] Eugenio Montale, La Storia, in Satura, Mondadori, Milano 1971).
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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«Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice.
Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso.
[…] l’uomo è per l’uomo l’essenza suprema
[ e dunque occorre trasformare]
tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole, rapporti che non si possono meglio raffigurare che con l’esclamazione di un francese di fronte a una progettata tassa sui cani: poveri cani! Vi si vuole trattare come uomini!».
Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in La questione ebraica ed altri scritti giovanili, Editori Riuniti , Roma 1969, p. 101.
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Per Draghi «l’euro è irreversibile». Per G. Zagrebelsky «la materia della politica oligarchica è costituita dal denaro e dal potere, e dal loro reciproco collegamento: il denaro alimenta il potere e il potere alimenta il denaro». Il denaro di Draghi domina nel tempo e sul tempo. Capitalismo senza tempo.
Moneta irreversibile «L’euro è irreversibile»,[1] con tale affermazione Draghi svela l’integralismo antidemocratico dell’Europa della finanza. L’irreversibilità dell’euro materializza i propositi della nuova religione della finanza. Con l’annuncio di Draghi la storia si è conclusa, ciò che verrà dopo è irrilevante, perché l’euro decreta lo spartiacque tra il passato ed il presente eternizzato. Siamo tutti fedeli, ai piedi dell’altare dell’euro, ormai dogma ideologico dell’infallibilità della finanza. L’euro non è una moneta, ma un progetto totalitario indiscutibile. Tornano in mente le utopie dei totalitarismi riconosciuti del Novecento: dal nazionalsocialismo hitleriano all’Unione Sovietica passando per il Fascismo, ogni totalitarismo si è dichiarato eterno, si è presentato come l’eterno in terra, come la trascendenza realizzata e conclusa nell’immanenza. Il tempo nell’ideologia totalitaria è sempre eguale, è un tempo consumato nella pienezza del presente. Non vi è nessun vuoto, nessuna possibilità che possa generarsi nuova vita con innovative strutture temporali di senso. Il tempo dell’euro è tempo del silenzio, in cui i poteri forti usano le istituzioni democratiche per svuotarne il senso. Draghi ha sentenziato nel Parlamento (la parola Parlamento rimanda al parlare, alla dialettica della democrazia dolosamente ignorata) che l’euro è una verità ontologica indiscutibile. Alla nuova divinità ci si può solo adeguare, purché l’euro viva: bisogna liberarsi dalle attività economiche in difficoltà affondate dalla pandemia e dal lockdown da loro decretato e gestito.
Eucarestia del denaro Le affermazioni in Parlamento seguono le polemiche sulla selezione naturale delle attività in difficoltà. Lo scopo è evitare le insolvenze, perché è il denaro che deve guidare il mondo, dev’essere raccolto, difeso ed adorato, malgrado le sofferenze dei perdenti. La nuova “eucarestia” è tra di noi, nessuna particola va persa o dispersa, ma va contenuta nel calice delle banche. Pertanto i potenziali insolventi vanno lasciati al loro destino. In fondo, chi fallisce è colpevole. La religione della colpa riappare, i dannati che scontano la pena in terra sono i deboli, coloro che non sono stati abbastanza forti da resistere alle lotta per conquistarsi una porzione di mercato. Calvinismo perverso e mondano che decreta il nuovo tempo dell’apocalisse economica senza escatologia, poiché per i perdenti ed i falliti non c’è presente e non c’è futuro. Sono i nuovi esodati dell’euro, sono i nuovi dannati colpiti dall’indifferenza dei vincenti e dal timore di coloro che vivono nella zona grigia, già descritta da Levi, che temono di essere associati ai perdenti. Il distanziamento sociale è parte del disegno “euro”: si insegna la distanza emotiva, si sclerotizzano le emozioni per poter praticare il transumanesimo economico e tecnologico. La distanza abitua a considerare l’alterità un ostacolo sul percorso della propria sopravvivenza biologica ed economica. Liberismo, digitalizzazione delle relazioni si rendono organiche di un unico disegno sociale: realizzare il transumanesimo economico. Ogni limite umano dev’essere superato. Nel trascendere ogni limite si struttura una nuova società governata da potentati tecnocratici (multinazionali, banche, centri di ricerca robotica e digitale) che divorano i più deboli, li usano e ne determinano il destino e le scelte.
Euro senza tempo L’euro nasce, come direbbe Marx, «grondante di sangue e sudiciume», ma possiamo aggiungere l’«euro» domina nel tempo e sul tempo. In quanto «irreversibile», tacita il linguaggio e trasforma le parole in sentinelle frecciate del presente. Le parole della democrazia sono sostituite dalla contabilità senza teleologia. L’euro occupa ogni spazio ed ogni tempo, in tal modo il futuro è fuorigioco, non resta che la malinconia del presente senza fecondità.
Gli Europei sono chiamati ad un mistico silenzio dinanzi all’euro che si innalza ed incombe come il fato a cui niente e nessuno può sfuggire. Il terrifico che si accompagna a ciò è la complicità dei rappresentanti del popolo che ancora una volta hanno stracciato il mandato elettorale “in nome dei superiori interessi” della nazione. L’interesse principale in uno Stato democratico è la democrazia, pertanto l’interesse del popolo non è stato messo in atto. Il popolo non ha votato l’euro dichiarato da un uomo della finanza «irreversibile». Oggi le oligarchie festeggiano il vuoto politico ed etico in cui navighiamo, e che ha permesso il loro radicarsi. L’«euro irreversibile» è la dimostrazione della verità a cui ci si è abituati, ovvero che il denaro ed il potere non sono mezzi per realizzare dei fini, ma sono diventati il fondamento che produce un sistema nichilistico; essi sono perseguiti in se stessi, come fossero il bene supremo. La tragedia etica dell’Occidente è in questa verità feroce che pone le condizioni per il transumanesimo, per l’abbandono dell’Umanesimo blandamente citato dal Presidente del Consiglio, il quale non rammenta che l’Umanesimo ha quale centro la dignità dell’essere umano e non certo il tintinnio minaccioso della moneta unica a cui corrisponde il pensiero unico. Scrive Gustavo Zagrebelsky in La maschera democratica dell’oligarchia:
«Ora, che l’oligarchia assuma le forme della democrazia non è senza significato. Che ci si trovi in una democrazia oligarchica o in un’oligarchia democratica, al netto della contraddizione sostanziale, significa pur sempre qualche cosa. Non dobbiamo pensare che si tratti di un puro inganno: l’oligarchia che per affermarsi ha bisogno di forme democratiche quanto meno non può adottare strumenti di violenza esplicita per supplire al deficit di consenso, e deve mantenere ferme le procedure democratiche, sebbene cerchi di svuotarle di senso dall’interno. E se le procedure restano ferme, c’è sempre la possibilità di rianimarle, di ridare al guscio il suo contenuto. È comunque significativo che, parlando delle oligarchie nel nostro tempo e nel nostro paese, si possa e si debba aggiungere “oligarchie in forma democratica” (non direi oligarchie democratiche, perché questo creerebbe una contraddizione). Passando all’oligarchia come concentrazione del potere, chiediamoci che cosa è oggetto del potere oggi. Qual è la materia della politica oligarchica nel nostro tempo. A mio parere, la materia della politica oligarchica è costituita dal denaro e dal potere, e dal loro reciproco collegamento: il denaro alimenta il potere e il potere alimenta il denaro. L’uno è strumento di conquista, di garanzia e di accrescimento dell’altro. Vorrei richiamare l’attenzione su questo punto, che secondo me è il segno più caratteristico dell’epoca in cui viviamo. In altri tempi, si poteva dire che potere e denaro fossero mezzi, non fini. La politica serviva ad altre cose, per esempio a rovesciare i rapporti di classe o a equilibrarli, a promuovere la cultura, ad alleanze e guerre di espansione, alla conquista di altri paesi e alla “civilizzazione” del proprio o di altri popoli. Il denaro, a sua volta, veniva La maschera democratica dell’oligarchia – considerato uno strumento, per cose buone o per cose cattive, ma in ogni caso era finalizzato a qualcos’altro; gli Stati drenavano denaro con il prelievo tributario per fare guerre, per espandere i confini, per la gloria delle case regnanti, per alimentare lo splendore delle corti regie, e così via. Il denaro che produce denaro, come accade tipicamente nell’usura, è stato nei secoli oggetto di condanna o, almeno, di sospetto. Ma con la finanziarizzazione dell’economia, per di più in dimensione mondiale, il meccanismo del denaro che produce se stesso, il denaro investito al fine di produrre altro denaro, come nell’albero degli zecchini di Collodi, ha finito d’essere un mezzo ed è diventato un fine. Siamo in pieno in un circolo vizioso. Viviamo stretti da un serpente che si morde la coda, l’uroboro del mito che, per sopravvivere, fa terra bruciata attorno a sé».[2]
Con l’obbligo ad accettare l’euro come «irreversibile» ogni maschera è caduta. Ora sta ai popoli, e non solo al popolo italiano, difendere la democrazia dalla tracotanza delle oligarchie che si auto-percepiscono al sicuro, poiché la paura pandemica associata a decenni di vuoto politico e comunitario hanno rafforzato la certezza dell’intramontabilità del loro potere. Sta al popolo rialzarsi, sta a noi capire e cambiare percorso rispetto ai diktat del nuovo potere totalitario. L’arte può venirci in aiuto più delle parole, dovremmo cominciare a pensare ed a guardare con intensità Il quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, per rompere la fosca nube della rassegnazione che si estende minacciosa sulle nostre speranze. I “no” che non sono stati pronunciati, sono ora sul percorso per ricostruire un futuro possibile, e con essi bisogna cominciare a confrontarsi per riattivare la prassi.
Salvatore Bravo
[1] Mario Draghi al Senato (17-02-2021): «Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro».
[2] Luciano Canfora – Gustavo Zagrebelsky, La maschera democratica dell’oligarchia, Laterza, Bari 2015, pp. 4-5.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Gianni Rodari, nel 1950 giovane cronista, scrisse su «L’Unità» del 11/1/1950: Un’azione di guerra condotta con fredda ferocia. La polizia sparò dalle terrazze sugli operai che alzavano le mani.
Dalla facciata del settecentesco Grande Spedale degli Infermi, poi a lungo Ospedale cittadino ed ora sede di un polo culturale, sei facce d’altri tempi guardano scorrere il traffico di passanti e biciclette sulla Via Emilia centro. Non molto lontano da lì, in una fredda mattina di gennaio di settantun anni fa, il loro tempo incrociò, davanti alle Fonderie Riunite di Modena, le fucilate tirate dalla polizia di Scelba e si arrestò bruscamente. Certo, non passavano di là per caso, avevano scelto di esserci per portare la loro concreta solidarietà agli operai delle Fonderie che protestavano contro la serrata della fabbrica ed i 500 licenziamenti stabiliti dalla direzione, seguiti dalla decisione di assumere ex novo 250 dipendenti non sindacalizzati. Erano là perché sapevano che la lotta dei lavoratori delle Riunite era la loro e che questa lotta era in continuità con quella che si era da poco conclusa contro gli occupanti tedeschi ed i loro alleati fascisti. Tre di loro avevano preso parte alla Resistenza, tutti erano comunisti con la determinazione, la generosità e l’ingenuità con la quale si poteva essere comunisti nel 1950 a Modena, città nella quale la lotta di liberazione aveva avuto una forte base di massa e aveva alimentato speranze e domande di radicali trasformazioni sociali, confluite poi negli anni immediatamente successivi in un deciso protagonismo operaio, forte di uno stretto legame con le campagne, percorse dalle agitazioni dei braccianti e dei mezzadri. È un’intera comunità politica e territoriale che non accetta di ritornare diligentemente ad occupare quei ruoli subordinati in cui pretendono di confinarla le nuove classi dirigenti dell’Italia repubblicana, in sostanziale continuità con il passato prefascista. Essa rivendica con orgoglio il proprio diritto ad occupare la scena pubblica, diritto che si è conquistata a duro prezzo durante gli anni della guerra di liberazione. Le fabbriche sono state salvate dai lavoratori, con le armi in pugno, e le sentono loro, rappresentano qualcosa di più di un semplice luogo di lavoro, devono diventare uno spazio di socialità aperto al quartiere e alla comunità. Solo a Modena il PCI conta più di 70.000 iscritti e in Emilia la CGIL ne registra quasi un milione: il conflitto sociale e politico è alto, i rapporti di forza sono pericolosamente sbilanciati a favore di quella che fonti delle forze dell’ordine chiamano la parte cattiva della popolazione.
Serve una lezione che stronchi velleità democratiche di partecipazione e controllo operaio e mostri chi veramente comanda, tanto più che sul piano nazionale si è ormai avviata la normalizzazione con la sconfitta del Fronte popolare alle elezioni del 1948 e la formazione del governo De Gasperi. Il padrone delle Fonderie Riunite, il commendatore Orsi – un passato fascista che ha consentito alle sue aziende di prosperare ed un presente da uomo d’ordine – alle prese con la necessità di riconversione industriale del dopoguerra, vuole imporre la riduzione della mano d’opera, il ritorno al cottimo individuale e l’attribuzione ai lavoratori dei costi della mensa. Si apre così una dura vertenza sindacale che porterà il proprietario alla serrata della fabbrica e all’assunzione di nuovi operai e la FIOM ad organizzare scioperi e picchetti. Il 9 gennaio è il giorno previsto per la riapertura dello stabilimento voluta da Orsi; quel mattino, la Camera del Lavoro proclama lo sciopero generale e una dimostrazione davanti alle Fonderie – presidiate da consistenti forze di polizia, così come tutto il quartiere – per impedire l’accesso ai “crumiri”. È probabile che l’apertura non sia veramente in programma: all’interno della fabbrica ci sono solo una cinquantina fra poliziotti e carabinieri, molti altri sono disposti all’ingresso e sui tetti, mentre la città è disseminata di posti di blocco. Verso le 10, un corteo di oltre 10.000 manifestanti, provenienti da tutta la provincia, si avvicina alle officine, aggirando i posti di blocco attraverso i campi, oppure facendo pressione sui cordoni di polizia disposti in modo frammentato. Quando un gruppetto di scioperanti riesce ad attraversare il passaggio a livello ferroviario che li separa dalla fabbrica, la polizia inizia a sparare: tre lavoratori restano uccisi, diversi feriti. Questore e prefetto – raggiunti da una delegazione composta da due parlamentari comunisti e da un sindacalista – intimano di sciogliere la manifestazione, avvertendo che «sarà un macello», perché «abbiamo tanta forza da sterminarvi tutti».
Intanto, nelle vie adiacenti alle Fonderie si è scatenato il panico, molti cercano scampo dalla sparatoria in una fuga disordinata o bussando ai portoni delle case vicine, tanti finiscono accerchiati dai poliziotti e malmenati con i calci dei fucili. La mattinata si conclude con altri tre morti e centinaia di feriti, tutti dalla parte dei dimostranti, qualche contuso fra le forze dell’ordine. Nel corso degli scontri 93 persone vengono arrestate e rilasciate nel giro di tre giorni, per mancanza di concreti elementi a loro carico; il 20 marzo si avvia un procedimento penale nei confronti del responsabile della commissione interna delle Fonderie Riunite e di altri 33 lavoratori (che si concluderà dopo un lungo e travagliato iter processuale con l’assoluzione degli imputati ed un risarcimento ai familiari delle vittime), mentre una veloce indagine condotta dagli stessi funzionari di polizia in servizio il 9 gennaio ha come esito il non luogo a procedere nei confronti di prefetto e questore.[1]
Settanta anni dopo, nell’ambito di un nutrito e meritorio calendario di iniziative commemorative,[2] le gigantografie in bianco e nero dei sei caduti hanno sovrastato per tutto il 2020 il Largo Sant’Agostino dove l’11 gennaio passò, percorrendo la Via Emilia, l’imponente corteo funebre, hanno ricoperto la facciata contro la quale si accalcarono quel giorno centinaia di persone venute a salutare per l’ultima volta i loro morti.
Gianni Rodari, Un’azione di guerra condotta con fredda ferocia. La polizia sparò dalle terrazze sugli operai che alzavano le mani, «L’Unità», 11/1/1950.
Le loro fotografie furono scagliate contro i banchi del Governo – come un’arma di denuncia, di sdegno e di rivendicazione di giustizia brandita a nome dei disarmati – dove sedevano De Gasperi e Scelba dalla deputata comunista modenese Gina Borellini, medaglia d’oro della Resistenza, che accompagnò il gesto con un’accusa precisa: in quel banco siedono degli assassini.
Sono le fotografie di quelli che il Presidente del Consiglio, appena un mese dopo, chiamerà sprezzantemente i vostri morti, dimostrando sicuramente scarsa sensibilità umana, ma una precisa coscienza del carattere antagonistico insito nelle agitazioni operaie e contadine dell’Emilia rossa di quegli anni.
Questi nostri morti hanno facce serie e vere che parlano di lavoro, fatica, stenti, guerra, dignità, non sorridono, guardano l’obiettivo con la fissità un po’ stupita di chi non è abituato a farsi fotografare, ci parlano di un Paese non ancora investito dalla mutazione antropologica degli anni Sessanta, così lontano dallo scintillio dei salotti televisivi, dal vociare compiaciuto dei social, dall’arroganza e dalla volgarità del self made man di successo, dall’opaca rassegnazione dei vinti.[3]
Angelo Appiani ha ventinove anni, una moglie e un figlio, lavora presso le Officine meccaniche Martinelli, è stato nella Resistenza ed è un attivista comunista. La fronte alta sormontata dai capelli gettati all’indietro suggerisce una certa fiducia nell’avvenire. Viene raggiunto per primo da un colpo sparato dal tetto delle Fonderie Riunite occupato dalla polizia che continua a sparare sulla folla dei dimostranti, uccidendone due e ferendone altri. Arturo Chiappelli ha 42 anni, è stato partigiano, è attivista comunista, ha lavorato come spazzino, ora è disoccupato, ha tre figli. La bocca è una linea sottile che gli taglia il viso magro, la vita non deve essere stata tenera con lui. Arturo Malagoliha 20 anni, è figlio di contadini, è il primo della famiglia ad essere andato a lavorare in città come operaio; malgrado la giovane età, si è già dato da fare nel 1948 per il Fronte popolare ed un mese prima di morire ha fatto conoscenza con la galera per avere partecipato ad una manifestazione.[4] Sulla foto sembra un bambino; come gli altri due ventenni uccisi poco dopo ha nello sguardo una luce quasi infantile, come scrisse il giorno dei funerali Gianni Rodari, allora giovane cronista dell’Unità.[5] Allo scrittore i tre ragazzi sembrano ancora vivi e la terribile espressione dei loro volti pare dovuta «ad un sogno angoscioso e passeggero». Trenta minuti dopo l’inizio della sparatoria, Roberto Rovatti, 35 anni, operaio, partigiano e militante comunista, con un cartello in mano e la sua solita sciarpa rossa al collo, a cinquecento metri di distanza dalle Fonderie viene circondato da un gruppo di carabinieri, picchiato con il calcio dei fucili, buttato in un fosso e poi freddato da un colpo sparato a bruciapelo. Ha uno sguardo fiero che deve avere indispettito i suoi aguzzini, forse non potevano reggerlo, forse smuoveva qualcosa nel fondo del loro animo che era meglio lasciare perdere. Le ore passano, già due ne sono trascorse dall’inizio della strage, la Camera del lavoro ha già annunziato un comizio per il pomeriggio ed è anche arrivata l’autorizzazione, ma le forze dell’ordine continuano a sparare. Ennio Garagnani ha vent’anni, lavora come carrettiere con il padre che gli ha consigliato di starsene in casa per quel giorno, ma lui non lo ascolta, è un attivista comunista e con i suoi amici va alla manifestazione. Si sta allontanando dalla zona degli scontri, ma non abbastanza in fretta da evitare la mitragliatrice dell’autoblindo della compagnia autocarrata dei carabinieri di Bologna. È un bel ragazzo, l’aria vagamente sognante, un po’ malinconica. Viene colpito, di spalle, alla testa. Anche Renzo Bersani si sta allontanando, ma incrocia un carabiniere che si inginocchia nel mezzo della strada, lo prende di mira e lo colpisce mortalmente, alle spalle. Ha ventun anni, è un militante comunista, lavora in fabbrica, prima ha fatto il calzolaio. I tratti del volto lasciano trasparire una sorta di caparbietà fanciullesca, fatica e disillusione hanno risparmiato per sempre il suo volto di ragazzo del dopoguerra, quando si cresceva in fretta. Le loro fotografie vennero appese dappertutto a Modena e in provincia, in quei giorni, e continuarono a circolare a lungo. Dovevano fare paura, tanto che ancora tre anni dopo una nota dell’Ufficio politico si rivolge al Prefetto, informandolo che la parte sana della popolazione di Spilamberto (paese distante una ventina di chilometri dal capoluogo) lamentava che le autorità non avessero ancora tolto dai portici del comune il quadro con le foto dei sei operai uccisi il 9 gennaio.[6]
La loro memoria è sopravvissuta come un torrentello carsico che scorre sotto le arterie dell’opulenta città, storica vetrina del modello emiliano, un po’ appannato ora dai perversi intrecci affaristici all’ombra delle cooperative.[7] Chi allora era giovane non ha dimenticato quei giorni di stupore, (sembrava di essere tornati in guerra, a detta dei testimoni), di rabbia e di paura e continua a raccontare a figli e nipoti; a scuola, qualche professore di storia vi accenna; ogni anno, attorno al cippo eretto a memoria, si tiene una manifestazione promossa da quei sindacati che così poco hanno saputo e voluto difendere i lavoratori dal massacro sociale neoliberista. L’episodio, che ebbe rilevanza nazionale, in quanto segnò una svolta nella storia sindacale e politica della giovane repubblica italiana in direzione di una progressiva normalizzazione del conflitto sociale e della carica rivoluzionaria della base e dei quadri intermedi del PCI, non trova generalmente posto nei manuali scolastici di storia ed è ancora oggi insufficientemente oggetto di studio da parte della storiografia. L’acceso dibattito interno a sindacato e partito che seguì i fatti di Modena rappresenta una tappa importante nell’approdo del PCI verso le sponde della socialdemocrazia e dovrebbe, dunque, essere materia di analisi e riflessione non solo per gli storici di professione, ma per quanti cercano di comprendere, da una prospettiva di parte, come furono assorbite e neutralizzate le potenzialità rivoluzionarie e antagonistiche di una parte significativa della Quel mondo – in cui una tradizionale cultura del lavoro aveva incrociato istanze politiche di radicale cambiamento sociale – non c’è più da tempo, spazzato via da pesanti processi di ristrutturazione capitalistica, dal trionfo della società dei consumi, dal crollo del comunismo storico novecentesco, dalla deregolamentazione e frammentazione del lavoro. Quelle facce non si incontrano più nelle nostre strade, percorse da una folla anonima, uniformata da mode e parametri estetici democraticamente imposti dallo spettacolo mediatico, dalla pubblicità, dagli influencer. Di fronte a tali e tanti sconvolgimenti, la nostalgia non è che una tentazione meramente consolatoria, una fragile ancora sballottata dalle ondate violente e capricciose della società liquida che non conosce pensiero forte ed identità strutturate. Eppure, a settant’anni di distanza, quei volti si impongono con la forza di uno schiaffo, o di un sasso lanciato nella palude dell’assuefazione e della rassegnazione che accompagnano come un’ombra anche noi, che di quella storia continuiamo a sentire nel profondo il cuore vivo, pulsante, noi che sappiamo che le loro ragioni sono, oggi più che mai in un regime di sfruttamento capitalistico sicuramente diverso, ma non meno brutale, l’humus in cui cresce una vita umana degna di essere vissuta. È simpatia che essi chiedono, soffrire, sperare e trepidare con loro per ciò che è stato e ciò che non è stato.
Fernanda Mazzoli
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[1] Per un’accurata ricostruzione della vicenda ed una approfondita analisi del contesto locale e nazionale in cui essa si inserisce, cfr. L. Bertucelli, All’alba della Repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite, Ed. Unicopli, Milano, 2012 e F. Tinelli, Era il vento non era la folla. Eccidio di Modena, 9 gennaio 1950, Bébert edizioni, Bologna, 2015, che fornisce un’interessante documentazione prodotta dalla magistratura. [2] L’iniziativa, promossa, in occasione del settantesimo dall’eccidio, dai sindacati, dall’Istituto storico, dal Centro documentazione Donna e dal Comitato comunale per la storia e la memoria del Novecento, ha proposto una ricca mostra fotografica, un concerto ed una bella narrazione ad opera di Carlo Lucarelli che si può seguire su «youtube»: Fonderie, 9 gennaio 1950. Un racconto di Carlo Lucarelli. [3] Con buona pace delle vestali del politicamente corretto e della nuova narrazione del capitalismo inclusivo, il miliardario statunitense Warren Buffet, con onesto cinismo, ha riconosciuto che la lotta di classe esiste, ma che è la classe ricca che sta facendo la guerra e che la sta vincendo. [4] Lo ricorda la sorella Marisa, all’epoca bambina di sei anni, che fu poi adottata da Togliatti: https://sites.google.com/site/sentileranechecantano/schede/morire-per-il-lavoro/l-eccidio-di-modena-nei-ricordi-di-marisa-malagoli. [5] G. Rodari, 300.000 lavoratori ai funerali delle 6 vittime, «L’Unità», 11/1/1950. [6] La nota è riportata in F. Tinelli, op. cit., p. 28. [7] Uno scorcio sulla realtà sociale, fatta di sfruttamento, precariato, connivenza tra imprese ed istituzioni, che si nasconde dietro il mito del miracolo emiliano è proposta da Giovanni Iozzoli in https://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/18651-giovanni-iozzoli-maxiprocessi-zamponi-e-tortellini.html
Il titolo di questo saggio – ad un tempo storico, politico e filosofico – contiene quattro ossimori, espressamente concepiti per provocare intenzionalmente nel lettore quello “spaesamento” necessario per mettere in moto il suo autonomo processo di riflessione critica. I primi tre sono il Bombardamento Etico, l’Interventismo Umanitario e l’Embargo Terapeutico. Il quarto ossimoro rappresenta una sorta di denominatore unificante, il più corrotto e malvagio che esista, quello della Menzogna Evidente. Questo spaesamento è necessario per affrontare con animo libero gli enigmi dell’ideologia di legittimazione di questa inedita società capitalistica fondata sulla globalizzazione geografica coattivamente prescritta e sull’incessante innovazione culturale capillarmente imposta. Nel primo capitolo vengono richiamati i casi delle due scandalose guerre prevalentemente aeree e super-tecnologizzate contro l’Irak nel 1991 e contro la Jugoslavia nel 1999. In entrambi i casi i pretesti addotti dalle potenze imperiali, pretesti amplificati dal sistema giornalistico e culturale dominante, erano privi sia della legittimazione giuridica sia della plausibilità storica. In entrambi i casi però, come avviene nella favola del lupo e dell’agnello, la forza ha sostituito la ragione rispettiva. Nel secondo capitolo, che è a tutti gli effetti centrale, si ricerca il fondamento metafisico segreto di questo comportamento, che è il trattamento differenziato di Auschwitz e di Hiroshima ed il conseguente pentimento diseguale e manipolato che ne è seguito. In questo caso, la metafisica laica del Giudeocentrismo è servita per imporre una nuova lettura storico-religiosa del Novecento, non per contribuire ad una corretta comprensione delle cause che hanno portato al genocidio ebraico, una comprensione che dovrebbe impedire nel futuro il ripetersi di simili catastrofici eventi. Nel terzo ed ultimo capitolo, infine, si individua in una cultura di resistenza il presupposto necessario per una futura costituzione di forze politiche e sociali, per il momento non ancora esistenti, in grado di sostenere il confronto che certamente verrà, e non soltanto di ripetere in modo esasperante le mosse politiche, sociali e culturali di confronti ormai esauriti e tramontati con il venir meno del Novecento.
La rete è simbolo effettuale di una pervasiva madre matrigna anaffettiva che ingloba l’umanità, la omogeneizza, privandola di ogni determinazione sino a renderla un immenso indistinto nel quale le identità si assottigliano fino ad evaporare, inibibendo vera crescita e umanistica formazione
Tecnologie e regressione Il panopticon è la cifra dello sviluppo delle tecnologie, le quali nella propaganda sono presentate come servizio al cittadino, ma nella concretezza quotidiana sono i mezzi attraverso cui si attua il controllo globale. È da porsi il problema della motivazione del loro enorme successo, dell’accettazione fatale e dogmatica di esse. Ad una osservazione più attenta le tecnologie rispondono ad un bisogno profondo dell’umanità: la necessità di protezione. Le tecnologie divengono e sono il grande occhio che segue adolescenti ed adulti in ogni loro gesto: ogni ansia è calmierata dalla loro presenza, poiché difficoltà improvvise possono essere risolte mediante comunicazioni veloci. Il raggio d’azione di esperienze estreme si allarga, in quanto esse promettono contatti veloci in situazione di pericolo. Si pensi agli sport estremi per giovani alla ricerca di forti emozioni in mancanza di un senso etico profondo. Oppure il raggio d’azione si restringe, si vive in casa, in ambienti minimi, ma con un click si può comunicare e comprare merci al riparo dal mondo. Le tecnologie divengono, in quest’ultimo caso, delle feritoie virtuali da cui osservare il mondo. Contingenze opposte svelano in modo più immediato e chiaro il fine delle nuove tecnologie: rispondono ad un bisogno di sicurezza, sono paragonabili ad un cordone ombelicale invisibile, ciascuno reca con sé “una piacevole ed inconsapevole” regressione ad uno stato fetale.
La pancia globale Ci si sente nella pancia del mondo globale. Nessuno osa smentire i magnifici successi dell’avanzare della grande madre virtuale e globale. La rete diviene il simbolo effettuale di un’infinita madre tecnologica razionale ed anaffettiva che ingloba l’umanità: madre matrigna che mentre protegge omogeneizza, priva l’esserci di ogni determinazione sino a renderlo “nulla”, ovvero un immenso indistinto nel quale le identità si assottigliano fino ad evaporare, poiché inibisce la crescita e la formazione. La dipendenza dalla grande madre rete forma creature che dietro la soglia delle tecnologie non hanno avuto la possibilità di porre ordine al caos delle loro emozioni, non hanno potuto conoscere il loro carattere e la loro resistenza alle frustrazioni. Le tecnologie sono donative: mentre offrono servizi e controllo, ben distribuiti per censo, riducono la conoscenza di sé e la scoperta del telos comunitario dell’umanità. Sostituiscono la relazione con l’offerta di siti da cui scegliere – dal catalogo virtuale – la momentanea compagnia. Agiscono per impedire ogni ricerca reale, ogni dolore con il quale saggiare la propria forza ed autonomia. La loro presenza è simile ad una madre invadente che continuamente controlla il proprio pargolo, ne invade lo spazio pubblico e privato fino a renderlo dipendente e fragile. La grande madre è matrigna, poiché non vuole l’autonomia dei suoi sudditi, ma li vuole tenere al guinzaglio. Apparentemente li lascia liberi, ma ne estrae informazioni con cui irrobustire il suo intervento sulla psiche di ciascuno. Vuole conoscere ogni capello dei suoi clienti-figli, in quanto la loro dipendenza è la sua forza. È la nuova divinità nella forma antropomorfa del femminile proiettato nelle tecnologie e specialmente nel loro utilizzo collettivo. La rete si nutre della destabilizzazione emotiva e psichica dei suoi sudditi. La rete è la gran madre matrigna usata da multinazionali, finanzieri e capitalisti per dominare il mondo con l’indebolimento emotivo e razionale dei nuovi sudditi globali. Si usa l’archetipo della madre che scorre come acqua carsica nella rete per abbattere ogni resistenza e consolidare un imperium tragico. Gli adulti (genitori, docenti, educatori) ne favoriscono il puntellamento in nome del mito della sicurezza, rinchiudono le nuove generazioni in spazi virtuali nei quali sono “vetrinizzati”, esposti e già in vendita. Nelle istituzioni si tace sugli effetti e sugli usi nefasti, le voci dissenzienti sono tacitate gettando su di loro ombre di ridicolo. Si occultano gli aspetti perniciosi dell’uso massivo delle tecnologie in nome del “ progresso” acefalo.
Prometeo scatenato Prometeo scatenato è tra di noi, ha l’aspetto della rete, di un immenso grembo in cui ricacciare l’umanità, che diviene la nuova caverna della contemporaneità: la più insidiosa di tutte, perché offre libertà di movimento, pulsioni in libertà, ma nel contempo sottrae autonomia, autodisciplina e consapevolezza, tutto avviene in modo automatico e lineare. La DAD è un esempio di questa logica dell’ipercontrollo che cresce, si dirama, invade ogni spazio: le comunicazioni tra docenti ed alunni sono continue, anche fuori l’orario di lezione, in questo modo agli alunni è sottratto il tempo per confrontarsi con le difficoltà didattiche, la soluzione è nel docente-mamma pronto a soccorrerlo. I genitori comunicano con i docenti quotidianamente; la rete si estende e si stringe intorno a tutti, è il “cappio” che tutto dissolve. Il flusso di informazioni non crea comunità, ma monadi parlanti che utilizzano le informazioni in funzione della competizione e della divisione mondiale. Gli spazi reali, gli unici nei quali si possono costruire luoghi di comunicazione comunitaria, sono sostituiti da incontri veloci e virtuali: la chiacchiera prende il posto del concetto. La rete è la madre infinita costituita da una miriade di punti materni-controllo. Il panopticon virtuale cela la sua verità: con il discredito mediatico e culturale sul maschile simbolico-valoriale e sul limite, il femminile si riproduce nelle tecnologie, la rete si estende e promette eterna protezione, il risultato ultimo è la dipendenza assoluta. Come si è arrivati a questo?
Senza padri Ogni cultura è viva nel conflitto dialettico tra principi apparentemente opposti, ma in realtà l’uno equilibra l’altro, si pensi al polemos eracliteo. Il maschile ha il suo senso se si relaziona al femminile e viceversa. La distruzione del maschile, la perenne propaganda che lo rappresenta come omicida e pericoloso, inevitabilmente favorisce il trionfo del femminile, nel modello anglosassone, oggi massima espressione dell’asservimento alla società liquida. In assenza del limite, le tecnologie possono non solo essere usate e consumate senza che vi sia educazione al loro uso contestuale, ma specialmente il trionfo del femminile è l’affermarsi della cultura del controllo e dell’avversione ad ogni pericolo e frustrazione. Le tecnologie divengono l’estensione del femminile e l’espressione della sconfitta del maschile. Ovunque vi dev’essere omogeneità tra maschile e femminile, al maschile è concessa parola solo se ammette “la naturale superiorità e sensibilità del femminile”. Il maschile deve cedere il positivo e proficuo senso del limite in nome del principio femminile del controllo e del “dono” senza regole e razionalità. La violenza della maternità matrigna non è riconosciuta, per cui si plaude anche a sperimentazioni di nuove famiglie monosessuali che usano il grembo materno altrui per affermare il loro desiderio di paternità-maternità. Il centro deve tornare ad essere il concetto e non la rete, l’educazione deve avere come fine la formazione della persona e non l’uso meccanico delle tecnologie, l’antiumanesimo è la grande vittoria del Prometeo scatenato del capitale.
Nuovi pregiudizi Una società sana vive della preziosa dialettica tra femminile e maschile, la diade è manifestazione di principi capaci di autolimitarsi per permettere la vita al plurale. Da abbattere sono i pregiudizi positivi e negativi: non esistono generi assolutamente negativi o positivi, ma bisogna imparare, in primis, che le persone in quanto unità complesse non possono essere ridotte all’unica variabile del genere. La diversità è la possibilità della convivenza fra prospettive diverse che si completano, e specialmente, palesano aspetti differenti della realtà, i quali colgono aspetti essenziali da relazionare. L’identità è possibile solo nella relazione con altre identità. Se prevale l’incultura del modello unico, maschile o femminile, non importa quale prevale, non può che esservi una regressione generale, le cui colpe cadranno sulle future generazioni che attraverseranno la storia nella cecità del pensiero unico e dei suoi perniciosi ed inaspettati effetti. Dovremmo avere il coraggio di rallentare o fermarci per capire cosa stiamo dando-donando e specialmente cosa stiamo togliendo alle nuove generazioni, ma anche a noi adulti. Non si tratta di rifiutare la contemporaneità per la conservazione, ma di disporci in modo critico ed intellettualmente onesto. I figli della rete non possono che essere il prologo per tempi inauditi. Dobbiamo armarci di coraggio civile per fermare l’inverno dello Spirito che avanza.
Salvatore Bravo
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
La colpevolizzazione delle condotte individuali non conformi ai corretti stili di vita è assurta a dispositivo ideologico tanto semplice quanto efficace, perfetto per tempi come i nostri, allergici al ragionamento complesso e al pensiero dialettico. Permette di istituire facili equivalenze immediatamente consumabili sul piano comunicativo: l’incauto camminatore che si è allontanato dalla propria casa oltre i metri stabiliti nei giorni proscritti (casomai per fare una salubre passeggiata solitaria in campagna) è additato alla pubblica riprovazione come novello untore, chi mette sbadatamente un contenitore in Tetra Pak nel bidone sbagliato della differenziata diventa un devastatore ambientale, il lavoratore che non segue l’ennesimo, ripetitivo e generico corso sulla sicurezza si configura come responsabile degli incidenti sul lavoro. Il biasimo verso i trasgressori si abbevera alla retorica del piccolo gesto che fa la differenza. Tuttavia, la traiettoria del discorso piccola non è affatto, in quanto coglie con successo due bersagli che stanno al centro di un dominio che non si racconta più come tale. Il primo è la rimozione del politico e del sociale, spazi per eccellenza della complessità, al fine di rigettare ogni responsabilità sul singolo: la peste del nuovo millennio corre veloce fra un aperitivo serale e un bacio ai nonni e non tra le programmate rovine della medicina territoriale, sacrificata sull’altare della progressiva privatizzazione del sistema sanitario; il saccheggio dell’ambiente non è la risultante necessaria ed inevitabile del modo di produzione capitalistico, ma la conseguenza dell’incuria del consumatore poco attento al riciclo dei materiali; gli infortuni che ogni anno mietono vittime nei cantieri e nelle fabbriche nascono dall’ignoranza e dalla distrazione dell’operaio piuttosto che dalla mancanza di adeguati dispositivi di protezione forniti dalle aziende. Il secondo bersaglio è l’inclusione dell’ex-cittadino, ora imprenditore di se stesso, in uno spettacolo proiettato su scala globale, in cui è chiamato a giocare, in un copione scritto da altri, il ruolo di consumatore responsabile di merci ad alto contenuto simbolico ed emozionale dalla corretta fruizione delle quali dipenderebbe il buon andamento del pianeta. In un periodo storico in cui la maggior parte della popolazione mondiale è totalmente esclusa dalle vere decisioni – al punto da ignorare spesso persino da dove provengano e in cui è preponderante il peso di organismi sovranazionali che nascondono dietro il volto algido di una tecnocrazia sorretta dall’oggettività di dati ed algoritmi, il viluppo bruciante di enormi interessi che a partire dall’economia si diramano in tutti i settori della vita associata –, non v’è politico, industriale, manager o amministratore che non agiti la bandiera dell’inclusione, divenuta il fulcro delle buone pratiche di goveranance. Lungi dall’essere una semplice mistificazione costruita attorno ad un artificio linguistico, l’inclusione si declina piuttosto come la nuova virtù civica dell’attuale fase capitalistica, la forma ideologico-culturale in cui si traduce l’adattamento sociale. Diversamente dal passato, questa virtù civica non si elabora nel corso di un processo di cittadinanza attiva in cui il soggetto si costruisce come soggetto politico e sociale, innanzitutto attraverso il conflitto e la messa in discussione collettiva di assetti istituzionali e di costellazioni culturali dominanti. Anzi, essa ne rappresenta la negazione, perché ignora, quando non esecra, il conflitto e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di una costruzione abbozzata nei piani alti dei centri decisionali e da lì calata per una più puntuale mesa a punto nei livelli sottostanti del sistema mediatico onnipervasivo e del ceto accademico generalmente compiacente. I destinatari del progetto inclusivo sono tenuti a collaborare, o perlomeno a non sottrarsi all’ecumenico abbraccio, e ad avanzare di tempo in tempo qualche educata riserva che attesti il loro grado di coinvolgimento e rafforzi il progetto stesso. Chi, per svariati e anche contrastanti motivi, non prende il posto assegnato tra le fila dei soldatini del nuovo ordine mondiale confezionato con i ritagli del solidale, del sostenibile e del salutare o ne diserta provvisoriamente i ranghi, è il candidato ideale al ruolo di colpevole su cui scaricare i costi delle falle del sistema in fase di giudizioso riposizionamento dopo quarant’anni di predazione selvaggia all’insegna del neoliberismo.
Ad un popolo impaurito si può far accettare ogni provvedimento: Recovery fund e il MES
Ad un popolo impaurito si può far accettare ogni provvedimento. Se il popolo è costituito da individui senza identità, se è una somma di elementi senza unità alcuna: non ha lingua, non ha cultura, non ha tradizioni popolari, non ha religione non è più un popolo, ma solo massa omogenea plasmata dalla finanza. Il popolo non è più popolo da decenni, al suo posto vi è una massa informe che vive di desideri indotti e disperazioni contingenti. A questo popolo diseducato dal capitale ad essere soggetto attivo, a sentire il suono della propria lingua, a vivere l’ambiente e la storia in cui è immerso, che non guarda, perché ha smesso di vedere in modo empatico per calcolare l’immediato. Ad un popolo tradito e vilipeso si può far accettare il Recovery fund e ora, probabilmente, anche il MES. Si consegna il destino di un popolo, ormai plebe in attesa di “soli ristori “, alla finanza internazionale. La sovranità perduta da decenni, è ora palese, ma specialmente il destino è segnato. Nei prossimi decenni l’agenda politica sarà dettata dalla finanza internazionale, la quale concederà i prestiti solo se il governo servitore attuerà “le riforme”: tagli ai diritti sociali, taglio alle pensioni, invasione violenta dei privati nella scuola, la quale non deve formare alla cittadinanza politica, ma ai bisogni del mercato, digitalizzazione per astrarre informazioni da vendere al mercato. La TV di Stato, mentre avviene l’ultimo tradimento, trasmette finanziata dai suoi cittadini-sudditi la disinformazione nella forma dello spettacolo leggero e volgare a reti unificate. La condizione italiana è estrema, non vi è politica, non vi è partito in cui poter essere sicuri che non sia venduto alla finanza. La democrazia del popolo è sostituita dall’oligarchia della finanza.
Covid 19 e finanza
Il Covid 19 è una ghiotta possibilità per la finanza e le multinazionali, in primis il popolo è stato addestrato alla separazione ad essere oggetto di provvedimenti senza che siano stati criticamente letti, nella divisione si amplifica la paura e, dunque, il popolo diventa come il topo davanti al gatto che gioca. Dove vige la separazione regna la paura e l’angoscia. Un popolo angosciato ed impaurito da tutto ed intimorito da un futuro minaccioso non può che accettare l’ancora di salvataggio della finanza che lo porterà a fondo. Decenni di attacchi alla formazione ed ai diritti sociali hanno portato via con la formazione il senso critico per sostituirlo con il consumo, con la pornografia del mercato che addestra all’impotenza collettiva ed alla guerra orizzontale dei sudditi. La paura nella forma della separazione è il grande successo della finanza, essa la usa per spingere governanti senza capacità politica e pronti a difendere i soli interessi personali ad accogliere l’indebitamento patrio come una risorsa per la salvezza delle loro carriere: sono separati dal popolo, ma dipendenti dalla finanza. In una nazione che ha un’evasione fiscale incalcolabile per recuperare denaro da utilizzare nella crisi sarebbe logico lottare contro la grande evasione, invece si punta alla svendita della nazione per non dispiacere coloro che sono stati la causa del problema con il loro individualismo asociale e feudale: gli evasori fiscali. La decadenza della nazione è palese: si continua a cementificare paesaggio e storia con il ricatto del lavoro. Si ruba non solo il futuro, ma anche il passato, in tal modo non vi è presente, non vi sono bussole etiche e valoriali su cui costruire un futuro comune. Stanno portando via tutto per sostituirlo con il nuovo regno in l’imperatore è io mercato. L’azione e l’attacco della finanza internazionale è plurima: indebitamento con taglio diritto sociali e feudalizzazione della società, smantellamento della formazione, eliminazione dalla visuale percettiva della possibilità di pensare la storia e costruire un futuro condiviso. La lingua con cui un popolo pensa è sostituita dall’angloitaliano con la quale destrutturare il pensiero e per comunicare un assoluto e quotidiano disprezzo verso la nazione. Se si è costretti a parlare l’inglese dei mercati ed assimilare la lingua nazionale nell’inglese mercantile il messaggio che arriva alle nuove generazioni è che l’identità nazionale è nulla e le culture locali meritano disprezzo. L’astratto divora il concreto per fondare una bieca rivoluzione antropologica il cui fine è il solo mercato europeo nella quale la religione della finanza regna e consuma ogni risorsa per il trionfo di pochi. La lotta di classe e delle comunità nazionali deve partire dalla possibilità di guardare negli occhi la medusa senza lasciarsi pietrificare. Siamo soli, e nessun Dio verrà a salvarci, da questa verità è necessario riprendere il cammino. “Lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva” (Friedrich Hölderlin ), risuonano i versi del poeta, ma dal pericolo estremo ci si salva con la prassi, con la riorganizzazione dal basso, altrimenti il pericolo divorerà il futuro, per ora si assiste al teatro delle parti, in cui tutti mentono, in quanto le decisioni sono stare già prese fuori dal parlamento, nei salotti buoni della “cattiva finanza”.
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