«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
221 Maria Letizia Compatangelo, La cena di Vermeer. ISBN 978-88-7588-149-8, 2014, pp. 96, formato 130×200 mm., Euro 7, Collana di teatro Antigone [10]. In copertina: Han van Meegeren al lavoro nel suo studio.
222 Giancarlo Loffarelli, Da quali stelle?ISBN 978-88-7588-148-1, 2014, pp. 80, formato 130×200 mm., Euro 7, Collana di teatro Antigone [11]. In copertina: Friedrich Nietzsche.
223 Sergio Pierattini, Il drago di carta. ISBN 978-88-7588-147-4, 2014, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 7, Collana di teatro Antigone [12]. In copertina: Michele Sindona.
224 Giovanna Fozzer, Del Gabbiano. Introduzione di Francesco Giuntini. Postfazione di Margherita Pieracci Harwell. ISBN 978-88-7588-146-7, 2014, pp. 288, formato 140×210 mm., Euro 20. In copertina: Sergio Rinaldelli, Studio di gabbiani (particolare), grafite.
225 Giancarlo Savino, Da Omero a Saffo. ISBN 978-88-7588-145-0, 2014, pp. 96, formato 130×200 mm., Euro 7.
228 Giulio Biondi, Mio caro Marco. In appendice: Amori dispersi. ISBN 978-88-7588-141-2, 2015, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 13. In copertina: Giulio Biondi, La Staccionata, 2014.
229 Luca Grecchi, Discorsi sul Bene. ISBN 978-88-7588-126-9, 2015, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “Il giogo” [61]. In copertina: Auguste Rodin, Giovane madre nella grotta, Museo Rodin, Parigi.
230 Alessandro Monchietto, Da capo senza fine. Il marxismo anomalo di Georges Sorel. Presentazione di Vittorio Morfino. ISBN 978-88-7588-129-0, 2015, pp. 208, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [62]. In copertina: Paul Klee, Strada principale e strade secondarie, 1929, Ludwig Museum (Colonia).
231 Lorenzo Dorato, Relativismo e universalismo astratto. Le due facce speculari del nichilismo. Bene e Verità come concetti “rivoluzionari” alla base di un universalismo sostanziale e di una critica radicale del capitalismo. ISBN 978-88-7588-134-4, 2015, pp. 80, formato 140×210 mm., Euro 8 – Collana “Il giogo” [63]. In copertina: Annibale Carracci, Allegoria della Verità e del Tempo, 1584 – 1585, Royal Collection, Hampton Court.
232 Marco Penzo, La nostra libertà. ISBN 978-88-7588-137-5, 2015, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 7. In copertina: Giulio Biondi, La Staccionata, 2014.
233 Camilla Migliori, La carriera di Edipo. Prefazione di Daniele Orlandi. ISBN 978-88-7588-140-5, 2015, pp. 96, formato 130×200 mm., Euro 10, Collana di teatro Antigone [13]. In copertina: Edipo e i responsi dell’oracolo, collage di Camilla Migliori.
236 Giorgio Penzo, Orson Welles fra “Quarto Potere” e “Il Processo”. ISBN 978-88-7588-130-6, 2015, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 12. In copertina: Orson Welles e due fotogrammi da Quarto Potere e Il Processo.
237 Luca Grecchi – Carmine Fiorillo, «Euro sì, Euro no».Oltre la dimensione afasicadella “gabbia d’acciaio” capitalistica. ISBN 978-88-7588-136-8, 2015, pp. 20, formato 130×200 mm., Euro 2. In copertina: René Magritte, La sera che cade, 1964.
238 Salvatore Antonio Bravo, Potere e alienazione in Foucault ISBN 978-88-7588-142-9, 2015, pp. 48, formato 130×200 mm., Euro 4. In copertina: E. Munch, Sera sul viale Karl Johan, 1892, Commune Rasmus Meters Collection.
240 Maura Del Serra, Teatro. Prefazione di Antonio Calenda. ISBN 978-88-7588-138-2, 2015, pp. 864, formato 130×200 mm., Euro 35. Collana “Antigone” [15]. In copertina: Beato di Liébana. Miniatura del Beato de Fernando I y Sancha (Codice B.N. Madrid Vit. 14 -2).
«Ho detto fra l’altro – raccontava l’accusato – che ogni potere appare una violenza contro gli uomini e che verrà il tempo in cui non ci saranno più né il potere di Cesare né altri poteri. L’uomo si trasferirà nel regno della verità e della giustizia dove non sarà necessario nessun potere».
Michail Afanas’evič Bulgakov, Il Maestro e Mrgherita, Con i dipinti delle avanguardie russe, Introduzione di Eridano Bazzarelli, traduzione di Milly de Monticelli, Classici BUR Rizzoli, Milano 2020, pp. 51-52.
«Chi ti ha detto che non esiste a questo mondo l’amore vero, fedele ed eterno! Seguimi, lettore. Solo me, segui. Ed io ti mostrerò un tale amore».
Michail A. Bulgakov,ibidem, p. 267.
Storia d’amore e satira del potere, meditazione sul bene e sul male e riflessione sulla creazione artistica, Il Maestro e Margherita è considerato il capolavoro della letteratura russa del Novecento, un romanzo dalle infinite chiavi di lettura e dall’irresistibile vena grottesca.
Un professore esperto di magia nera, un sicario, una strega e un gatto portano scompiglio nella Mosca burocratica e ipocrita degli anni Trenta. Intanto Ponzio Pilato si dispera per non aver potuto impedire la crocifissione di Gesù. In questa atmosfera senza spazio e senza tempo si staglia la passione tormentata fra il Maestro, uno scrittore incompreso relegato in manicomio, e la sua bellissima amante Margherita. Storia d’amore e satira del potere, meditazione sul bene e sul male e riflessione sulla creazione artistica, Il Maestro e Margherita è considerato il capolavoro della letteratura russa del Novecento, un romanzo dalle infinite chiavi di lettura e dall’irresistibile vena grottesca. In questa edizione, le opere delle avanguardie russe – da Kandinsky a Lentulov, da Mashkov a Golovin – ci trasportano con la loro forza visionaria nella Mosca del tempo, e ci restituiscono anche visivamente quella potenza creativa e quella libertà dell’immaginazione che hanno reso il romanzo di Bulgakov un testo di culto in tutto il mondo.
Massimo Cultraro, I micenei. Archeologia, storia, società dei Greci prima di Omero, Carocci, 2017.
Tra le civiltà protostoriche del Mediterraneo, quella micenea è forse tra le poche a suscitare ancora oggi fascino e curiosità e a stimolare un vivace dibattito tra studiosi di diverse discipline. Chi erano i Micenei? Quali erano i rapporti tra il mondo miceneo e le coeve civiltà del Mediterraneo? Settecento anni di storia (1700-1000 a.C.) sono ripercorsi per la prima volta in modo unitario in un libro che rappresenta una guida analitica, completa e scientificamente documentata sulla civiltà elladica che segnò l’apogeo della Grecia prima dell’età del Ferro. Il volume, mettendo insieme l’intera documentazione disponibile e le più recenti scoperte, intende ricostruire in chiave storica, e non più in una dimensione ora prevalentemente filologica ora archeologica, una delle pagine più interessanti e affascinanti del mondo greco. Per la prima volta al lettore italiano viene proposto un quadro storico della Grecia alla fine del II millennio a.C., costruito sull’analisi delle forme economiche, della struttura politica e di quella religiosa. Comprendere il mondo miceneo, in altri termini, significa offrire alcune interessanti chiavi di lettura per chiarire i numerosi interrogativi che ancora oggi dominano il tema delle origini della Grecia antica.
Un tuffo …
… tra alcuni dei libri di Massimo Cultraro …
L’ anello di Minosse. Archeologia della regalità nell’Egeo minoico, Longanesi, 2001
Attraverso l’analisi della documentazione archeologica e basandosi sui più aggiornati modelli antropologici, Cultraro presenta il quadro dell’organizzazione politica della società minoica: il lettore viene guidato lungo il percorso che porta al superamento delle comunità tribali e alla nascita delle prime organizzazioni palatine di Creta, in cui l’emergere di un’amministrazione burocratica, di una complessa stratificazione sociale e di una sempre più alta specializzazione nel lavoro determina il formarsi di una struttura politica fortemente gerarchica, dominata dal sovrano minoico.
Troia e le sue guerre, Carocci, 2009
Il mondo degli eroi omerici che combatterono sotto le mura di Troia continua a suscitare forti emozioni presso il grande pubblico. In questo libro uno dei massimi esperti di civiltà antiche ci conduce per mano alla scoperta della città scavata oltre un secolo fa da Schliemann, illustrando alla luce delle più recenti acquisizioni archeologiche le battaglie di cui – nella storia e nel mito – la capitale del regno di Priamo descritta nell'”Iliade” fu protagonista.
L’ ultimo sogno dello scopritore di Troia. Heinrich Schliemann e l’Italia(1858-1890), Ediz. Storia e Studi Sociali, 2018
Nel 1858 Heinrich Schliemann (1822-1890) compie il suo primo viaggio in Italia da turista ed uomo di affari. Non è ancora il personaggio famoso che il mondo celebrerà come lo scopritore di Troia. Tornerà negli anni successivi girando per tutta la penisola, dall’Emilia fino alla Sicilia e Sardegna, forte della gloria che l’ambiente scientifico gli tributava e con le ricchezze accumulate grazie alle proficue attività commerciali in Russia e negli Stati Uniti. Quale è stato il rapporto tra lo studioso tedesco e l’Italia? Quali i suoi contatti con gli ambienti accademici nazionali, ma anche con personalità del mondo della politica e della cultura? Il libro ricostruisce, attraverso lo studio delle lettere e diari personali conservati nel Fondo Schliemann della Biblioteca Gennadius di Atene, insieme con altre fonti archivistiche italiane presentate per la prima volta, il trentennale sistema di relazioni tra lo scopritore di Troia e l’Italia.
Storia dei Mediterranei. Popoli, culture materiali e immaginario dall’età antica al Medioevo, Edizioni di storia e studi sociali, 2018
Un progetto di ricognizione storica, già annunciato e molto atteso in Italia e all’estero, va finalmente in porto. Al centro di esso è il Mediterraneo, perlustrato con strumenti analitici mirati, allo scopo di coglierne in maniera nuova le ricche pluralità, le differenze, il policentrismo etnico e culturale, e sottolinearne tuttavia, oltre le parzialità degli approcci eurocentrici, le comunanze, le contaminazioni e i fondamentali punti di contatto e di confluenza. È questo il senso che definisce la “Storia dei Mediterranei” di Edizioni di storia e studi sociali, cui hanno lavorato, ognuno da una particolare prospettiva, tredici studiosi di alto profilo, italiani ed esteri: Franco Cardini, Massimo Cultraro, Flavio Enei, Massimo Frasca, Jean Guilaine, Stefano Medas, Antonio Musarra, Patrice Pomey, Carlo Ruta, Alberto Salas Romero, Laura Sanna, Francesco Tiboni, Alessandro Vanoli. L’esito è quello di un’indagine plurale e sfaccettata ma allo stesso tempo coesa, che in circa 500 pagine ripercorre, attraverso un ordito che è stato voluto multidisciplinare, le fasi più emblematiche di una vicenda lunga, dalla protostoria al Medioevo, con l’adozione di metodologie affinate e innovative, allo scopo di identificare le ragioni e i progetti di vita sociale e civile di un Mediterraneo che è la somma sorprendente di tanti Mediterranei, di un mondo che è in realtà un insieme di mondi, ognuno con propri caratteri ma tutti portatori di una naturale disposizione a relazionarsi. Si tratta allora di tante storie, che però finiscono inevitabilmente con il convergere e l’intrecciarsi. È la storia, ad esempio, di un Oriente che in alcuni tratti nodali riesce a supportare le trame civili dell’Occidente. È la vicenda di un Nord che finisce con il condividere i propri destini con quelli del Sud, ancora attraverso contagi, materiali e culturali. È la storia, ancora, del sacro, lacerato e attraversato da chiusure identitarie, e che tuttavia, in maniera sorprendente, si ritrova a dialogare e a coesistere, nel concreto della vita materiale e nelle vicissitudini intellettuali. È la storia, in definitiva, di popoli distanti che, indotti dal bisogno e dalle ricorrenti migrazioni, finiscono però con il ritrovarsi, su piani fondamentali, in un ethos accomunante, fatto di tradizioni, conoscenze e tecniche condivise, di leggi del mare, di contagi artistici, cultuali e culturali. È la storia, anche, di conflitti accesi e devastanti, che non frustrano tuttavia la volontà dei popoli che circondano il Mediterraneo, da nord a sud, da oriente a occidente, nella ricerca, in realtà inesauribile, del contatto.
È vero che viviamo in un’epoca di padre assente? Molti studi lanciano l’allarme e parlano della mancanza di padre come di un male senza precedenti. Sarebbe un errore affrettarsi ad attribuire l’instabilità delle società moderne a quell’indebolimento del padre che potrebbe rivelarsi solo una delle sue manifestazioni. E sarebbe un grave limite spiegare la crisi del padre solo con il XX secolo, o addirittura con l’ultima generazione. Noteremo che l’immagine profonda del padre in Occidente è formata dal mito greco, dal diritto romano; anche se poi è modificata dalle vicende del Cristianesimo, dalla rivoluzione francese e da quella industriale. I cambiamenti degli anni Settanta, Ottanta o Novanta contano, sì, ma come increspature nello strato di schiuma che cavalca a sua volta l’onda immensa della storia. Concentrarsi sull’attualità significa obbedire alla cultura dei mass media: a una cultura del soddisfacimento immediato, bulimico, che preferisce l’appetito momentaneo al progetto che si srotola con costanza nel tempo. Se a questo segretamente molti studi si ispirano, allora, mentre a parole piangono la lontananza di un padre buono, essi riportano in vigore quanto di più lontano c’è dalla responsabilità, stabilità, sobrietà che la tradizione – poco importa qui quanto oggettivamente – gli attribuisce. Vendere attualità è come vendere fast food: vendere molte calorie, di qualità scadente, a molti consumatori. Ma se è così – e temiamo che sia così – lo studio limitato all’attualità commette lo stesso delitto di impazienza della televisione che lentamente uccide il libro: anche quando materialmente quello studio ci viene venduto proprio in forma di libro. […] La comunicazione di massa, che vende sé stessa e dipende a sua volta dal mondo della vendita, tende ad accelerare i rinnovamenti di superficie. Si vende infatti di più ciò che è nuovo: come appunto sa la moda, che per vendere cambia ogni anno creando il bisogno di comprare. Questo non vuol dire che gli uomini cambino in profondità. […] La nostra ricerca sul padre partirà quindi dalle origini più lontane che sarà possibile rintracciare. Diversi ottimi testi si sono già occupati della storia del padre; ma non della sua evoluzione psicologica attraverso i tempi. Per psicologia intendiamo, in sostanza, ciò di cui si occupa l’analista: non tanto le convinzioni e i codici del padre, che già sono sotto i nostri occhi, quanto le sue immagini e i suoi modelli più profondi, spesso inconsci o dimenticati ma ancora influenti e sorprendentemente attuali. Questa intenzione dà al libro una struttura particolare. Non seguiremo la storia del padre secolo dopo secolo, ma ci concentreremo sui suoi passaggi psicologicamente decisivi. La preistoria del padre. Poi Grecia, Roma, avvento del Cristianesimo, rivoluzione francese e rivoluzione industriale. Infine, le guerre mondiali e la «rivoluzione della famiglia», che rendono visibile la separazione di padre e figli. Porteremo l’attenzione sul passato che non ha lasciato tracce storiche e sui miti e le norme dell’antichità, più che su religioni o codici almeno formalmente ancora in vigore. Va da sé che anche questi ultimi sono decisivi per capire il padre di oggi. Ma all’analista interessa soprattutto ciò che è meno evidente […]. A costo di affidarsi a congetture in un campo così incerto, la ricerca dell’immagine paterna ci porterà a sfondare le pareti della storia. Il primo capitolo del libro si occuperà della preistoria e della evoluzione zoologica verso il padre umano. Nella cerniera tra natura e cultura sta infatti l’origine del padre. Lo è in quanto la famiglia monogamica patriarcale, prevalente nelle società storiche, è un prodotto della cultura e non sembra esistere in natura (ad esempio fra le scimmie antropomorfe). Lo è, poi, nel senso più ovvio: a differenza della madre, che dà vita al figlio in modo evidente, il maschio, per capire che anche lui partecipava al generare, e quindi per trasformarsi in padre, ha avuto prima bisogno di una certa capacità di ragionamento. Infine, lo è soprattutto nel senso inverso. Nel senso che non solo la cultura ci ha dato il padre, ma forse proprio la comparsa del padre (certo insieme ad altre novità, ad esempio innovazioni tecnologiche) ci ha dato la cultura: l’uscita definitiva dallo stato primordiale, dalla condizione animale. Il primo capitolo del libro ricostruirà questo processo. Il padre è costruzione, il padre è artificio: diversamente dalla madre, che continua in campo umano una condizione consolidata e onnipresente ai livelli che contano della vita animale. Il padre è programma – forse il primo programma –, è intenzionalità, è volontà (potrebbe corrispondere all’invenzione della volontà?) ed è, quindi, auto-imposizione. Questa sua artificialità e, data la nascita «recente», questa sua poca esperienza, portano con sé uno svantaggio inevitabile, come la mela il verme o la rosa la spina. Al di là delle apparenze imposte dalla cultura patriarcale, rispetto alla madre il padre è molto più insicuro della propria condizione. Anche se ci limitiamo agli animali comparsi per ultimi nell’evoluzione, i mammiferi, in zoologia femmine e madri sono sempre state la stessa cosa: la femmina sa come comportarsi da madre. I mammiferi maschi, invece, sono stati tali pressoché ininterrottamente senza essere padri: su centinaia di milioni di anni, solo nella specie umana e nelle ultime decine o centinaia di migliaia si può ipotizzare una condizione paterna, fabbricata senza l’aiuto di un istinto corrispondente. In pratica, non l’evoluzione animale ma solo la storia (nel senso più vasto, che include la preistoria) e l’esistenza psichica hanno dato al maschio la qualità di padre: ed egli la stringe con più rigidità, diffidenza, aggressività e con meno spontaneità di come la madre stringe la condizione sua. Perché se solo la storia gliel’ha data, la storia se la può riprendere. Perché se non l’ha ricevuta dalla natura, ogni maschio la deve imparare nel corso della sua vita, e nel corso della vita può dimenticarla nuovamente. È proprio con questa dimenticanza che bisognerà confrontarsi. Se il padre è più aggressivo e rigido della madre, con i figli e con il mondo, questo non corrisponde a una malattia personale di certi padri e neppure alla degenerazione di certe epoche – per esempio al sopraggiungere del patriarcato borghese – ma alla sua condizione vera, strutturale, originaria. Corrisponde alla sua natura, si potrebbe dire, se non fosse che la natura del padre è appunto il superamento di ciò che di solito intendiamo per natura. […] Abbiamo così indicato un sentimento non confessabile di insicurezza, un’ambivalenza interna del padre. Essa corrisponde a quella esterna – alle aspettative ambivalenti dei figli verso di lui – che abbiamo chiamato «paradosso del padre».
Il secondo capitolo del libro discuterà del padre nella Grccia e nella Roma classiche. A quell’insicurezza originaria, i Greci reagiranno infatti rovesciando l’apparenza – l’apparenza, non l’insicurezza profonda – del problema, inventando la superiorità del padre sulla madre: ne faranno la base del mito e delle prime osservazioni che pretendono di essere scientifiche. Per i Greci antichi, unicamente il padre è genitore del figlio. La madre, anche durante la gravidanza, è solo una nutrice che lo alimenta: una falsa scienza che troverà seguaci fino all’epoca moderna. Non è un caso che i Greci rappresentino contemporaneamente sia l’origine della civiltà europea, sia la società che più innalza il padre rispetto alla madre. I Romani compiono un altro passo: mettono il padre al posto più alto rispetto al figlio. Ma la legge di Roma ci dice anche un’altra cosa, che ha valore per i padri di tutti i tempi: anche il padre legittimo deve compiere un atto pubblico con cui afferma la propria volontà di essere padre del figlio. Nata per distinguere i figli legittimi, questa norma inconsciamente diventa una metafora della condizione di ogni padre. Per essere padri – a differenza, non smettiamo di ripeterlo, dall’essere madri – non basta generare un figlio, è necessaria anche una precisa volontà. Ma se ogni paternità è una decisione, ogni paternità richiede un’adozione, anche se il figlio già è stato materialmente e legittimamente generato da quel padre. Tutto questo corrisponde proprio a quanto stiamo affermando: la paternità è un fatto psicologico e culturale; la generazione fisica, a differenza della maternità, non basta ad assicurarla. Se oggi il rito del diritto romano manca e la paternità di un figlio legittimo si dà per sottintesa, ciò non esenta il padre dal compiere lo stesso processo: semplicemente, la paternità andrà espressa, costruita e scoperta non alla nascita, ma passo dopo passo nel tempo, nel rapporto padre-figlio. […] Che il padre, infatti, sia letteralmente adottivo o abbia anche generato il figlio non fa differenza dal punto di vista dell’incontro. Anche nel secondo caso, per la gestazione il padre lo ha affidato completamente alla madre, quindi quella che gli viene presentata è per lui una creatura nuova: per la madre il bambino è lo stesso che aveva nella pancia, per il padre lo sperma e il figlio sono due cose diverse. Si è già capito, a questo punto, che vogliamo studiare il padre mettendo il punto di vista dalla parte del padre. Finora, questo è avvenuto raramente. Gli studi sulla madre, oltre a essere infinitamente più numerosi, sono meglio ripartiti in punto di vista della madre e punto di vista del figlio. Quelli sul padre soffrono invece anche di questo problema. […] Il terzo capitolo del libro discuterà alcuni aspetti del padre influenzati dalla rivoluzione cristiana, dalla riforma protestante, dalle rivoluzioni americana e francese e dalle guerre mondiali […]. Chiudiamo con il peso di non avere suggerimenti. Di una cosa, però, queste pagine ci hanno convinto: la memoria non è inutile. Ci è parso che non solo il presente, ma la storia stessa del padre sia abbandonata a una tragica oscurità, e questo accende nei figli il sentimento di essere orfani da un tempo imprecisabile. La rinuncia alla storia del padre sarebbe la rinuncia al senso della continuità che vince il tempo. Sin dall’inizio avevamo definito questa qualità come «paterna», e la nostra preoccupazione è che qualcuno ne sia il continuatore: oggi la madre, domani un figlio, dopodomani chiunque. La storia e la continuità sono, nella nostra memoria, paterne. Non possiamo rinunciarvi, proprio perché sempre più affidati al solo mondo degli oggetti di consumo, che è il mondo dell’eterno presente. […] Noi siamo anche la nostra storia, e se non la conosciamo rinunciamo a conoscere una parte di noi stessi. Abbiamo un’identità, ma se siamo padri e non conosciamo la storia del padre avremo, come padri, un’identità anche più malsicura di quella che i tempi già ci riservano. Un padre che non conosce il passato del padre è come un americano che nulla sa dei nativi o di Washington, un francese dei Franchi o di Napoleone: può vivere, certo, ma non sa perché oggi appartiene a quella comunità e non a un’altra, non sa cos’è il popolo di cui è tuttavia parte. Così, anche un padre sarà un padre malsicuro se, pur essendone membro, non sa nulla del popolo dei padri. Certo, storia in questo caso non vorrà dire battaglie e trattati, ma atteggiamenti e consuetudini, immagini e miti. Una conoscenza di queste cose non è solo teorica, se permette al padre di guardare verso il figlio rivolgendo a sé stesso la domanda che la storia della paternità gli consegna: «Questo è mio figlio: lo è perché l’ho generato o perché l’ho scelto?». Ma una storia psicologica dei padri è necessaria anche a molti dei figli. I quali, un giorno, vorranno uscire dal non-tempo per entrare nel tempo, e conoscere di chi sono i continuatori. Così, senza saperlo, essi aspettano di sentirla raccontare. Aspettano che qualcuno li svegli dal sonno delle azioni irriflesse, che tenda l’arco di Ulisse, e che la notte dei Proci abbia fine.
Luigi Zoja, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 17-24 e pp. 304-305.
Antonio De Curtis ha espresso la sua idea della comicità in una breve novella, autobiografica, intitolata Due mamme e un comico. Il protagonista è un attore comico di nome Antonio:
«Portava sul volto, Antonio, quasi una maschera tragica: il viso scavato da rughe, l’occhio fermo e severo, il naso aquilino su una bocca a taglio netto, lo dicevano nato per i ruoli fortemente drammatici: invece era divenuto un comico, quasi avesse voluto scegliere la via più lunga e difficile per giungere al successo. I primi anni erano stati duri: il pubblico, uso ad una comicità senza contenuto di pensiero, non sapeva assuefarsi al grottesco elaborato con il cuore e con l’intelligenza, alle pantomime che, se in superficie slargavano al riso, nel fondo compendiavano tutto l’amaro della vita. […] Fare della comicità rappresentava per Antonio non l’esercizio di una professione più o meno lucrativa, quanto una necessità di distribuire alle platee quel dono che i Malesi chiamano “l’arboscello della gioia”, quell’arboscello che la credenza indigena vuole che cresca all’interno del corpo, con le radici che affondano nel ventre e la corona nella testa: il riso, indizio della libertà umana. Applicava nell’esplicazione della sua arte una filosofia corrente, ma senza alcun dubbio profondamente umana. Deposti gli abiti d’obbligo del pagliaccio la sua maschera tornava tragica, come se le tre ore di spettacolo avessero esaurito in lui la meravigliosa linfa, e necessitasse ogni volta di un lungo riposo, per ricaricare le pile da cui traeva il suo umorismo. E ad ogni spettacolo egli sapeva dare sempre qualcosa di nuovo, di suo: era un fisiologo della risata. “Il riso – egli aveva scritto un giorno in un articolo nel quale aveva tentato di definire la funzione del comico nella società moderna –, ha un’importanza sociale: esso attacca, è contagioso. Lo sbadiglio lo è ancora di più, ma la sua funzione è meramente corporale. Il contagio del riso è invece spirituale: esso unisce gli uomini, li livella, poiché nel momento culminante della barzelletta tutti gli uditori sono dominati dalla stessa impressione, nessuno può sottrarsi al riso. L’anima umana ha sempre il desiderio di equilibrio e di livellare i sentimenti che la agitano”. Teorie difficili da far capire a masse di diversi gusti e diverse sensibilità convenute solo per divertirsi senza prestare pensiero ad altro».
Antonio De Curtis, Totò, Due mamme e un comico, novella pubblicata su «La Domenica del Corriere», Anno 58, n. 41, 7 ottobre 1956.
«Colui il quale si è impegnato nella ricerca del sapere e in pensieri veri e soprattutto questa parte di sé ha esercitato, è assolutamente necessario che, quando attinge alla verità, abbia dei pensieri immortali e divini e che, nella misura in cui alla natura umana è stato dato di partecipare all’immortalità, non ne trascuri alcuna parte e sia perciò straordinariamente felice».
Platone, Timeo, 90 b6-c6, Introduzione, traduzione e note di F. Fronterotta, BUR, Rizzoli, Milano 2003.
Per provare ad entrare, in punta di piedi, in questo delicato pensiero di Giovanni Foresta, mi piace ricordare quando, alcuni mesi fa, mi raccontò di essere nato in una casa di fronte al mare, «di bianco vestita» (disse letteralmente). Collegai, istintivamente, questa bianchezza all’azzurro del mare (i due colori associati, per eccellenza, all’idea di Grecia), immergendomi idealmente in uno scenario mediterraneo, che profuma di brezza marina, di limoni e di eucalipti, il cui silenzio viene interrotto solo dal frinire ritmico e ipnotico delle cicale (animali prodigiosi che, ci racconta Platone in un bellissimo mito del Fedro, passano tutta la vita a cantare, senza aver bisogno di nutrirsi se non del proprio canto). Ma mentre il candore dell’estate mediterranea rimanda alla giovinezza, in quanto esplosione di luce, di energia vitale e di vigore, in questo pensiero dell’Autore il bianco viene associato, con una bellissima immagine, al tempo che passa inesorabilmente e che incornicia il volto come «monumento del vissuto».
In ogni caso, tale bianchezza, non solo viene letta nei toni malinconici della diminuzione di sé, dello spegnimento delle proprie energie, come rassegnata consapevolezza del venir meno del tempo a disposizione, ma anzi assume i toni della crescita, dell’ espansione e della pienezza.
In quella «rotta superiore dello sguardo» si legge, infatti, un mirare avanti, un protendersi anima e corpo verso il futuro.
Questo perché la vera vecchiaia, lungi dall’essere l’età anagrafica, è la mancanza di entusiasmo, è lo spegnersi dei sogni e dei desideri, è il non aver più sete:
«nessuno invecchia semplicemente perché gli anni passano. Si invecchia quando si tradiscono i propri ideali. Gli anni possono far venire le rughe alla pelle, ma la rinuncia agli entusiasmi riempie di rughe l’anima» (Samuel Ullman).
Arianna Fermani, in Arianna Fermani, Giovanni Foresta, La filosofia del volto, Chiaredizioni, Chieri 2017, pp. 46-47.
In questo volume sul volto si incontrano due voci, due sguardi, due percorsi esistenziali e, più in generale, due modi di “stare al mondo” contemporaneamente molto diversi e molto simili, quali quelle di Giovanni Foresta ed Arianna Fermani. D’altronde è forse proprio l’incontro il fil rouge di questo scritto, che parte e torna al volto, a quel volto che già lo stesso filosofo Lévinas definì, non a caso, “il luogo dell’incontro”. Incontro tra due anime, quello custodito nelle pagine di un volume volutamente fuori dalle “rotte dell’ordinario” (sia nella forma sia nei contenuti), ma ancora prima, in senso più radicale e più profondo, incontro multidimensionale e policentrico tra esterno e interno, tra realtà e apparenza, tra corpo e anima, tra maschile e femminile, tra senso/i e ragione. Un incontro e, anzi, di più, un abbraccio, tra poesia e filosofia, tra “ragioni del cuore” e “ragioni della ragione” che trova nel volto il suo anello di congiunzione e il suo fondamento, anche etimologico (visto che volto deriverebbe sia dalla stessa radice del termine desiderio, voluptas, sia dalla radice del verbo “splendere”), offrendosi con ciò, come luogo di incontro, come luogo del desiderio e come condizione irrinunciabile di “illuminare” il mondo e di rendere “splendida” la nostra esistenza.
Antoine Meillet, in Lineamenti di storia della lingua greca, affronta subito il problema fondamentale dei rapporti tra lingua e società, non limitandosi a ribadire la necessità di un tale rapporto, ma tentando di definirne gli specifici caratteri, ed evitando fin dall’inizio ogni tentazione di spiegazioni meccanicistiche. «L’esperienza – egli scrive – dimostra che, se una lingua comune può sopravvivere al disgregarsi di un’unità nazionale, è però necessaria un’unità – politica e soprattutto culturale – per formare una lingua comune». Su queste righe non è inutile riflettere. Non soltanto perché l’autore vi ritornerà con incisiva brevità nell’introduzione alla terza edizione del libro, nel 1929, ma anche perché esse costituiscono la chiave teorica secondo cui è da leggere tutta la prima parte. Nel 1929 Meillet sviluppa il rigo incidentale del brano citato, precisandone il significato: «Una lingua vale non perché sia l’organo di una nazione, ma in quanto è lo strumento di una civiltà». Il rapporto tra lingua e società si definisce così con chiarezza come rapporto tra lingua e civiltà, cultura in senso antropologico, evitando le facili scorciatoie di collegare la lingua alla nazione, al popolo, alla razza, di una sociologia d’accatto. La storicità della lingua non ha nulla a che fare con la mitologia nazionalistica o razzistica. La lingua non è la sensibile espressione dell’anima di un popolo (il mito della razza viene risolutamente rifiutato appena una pagina dopo), né rappresenta alcuna forma di autocoscienza dell’unità nazionale; per intenderne la storicità occorre riferirla ad una civiltà. La matrice antropologica della formulazione rivela immediatamente i parametri culturali della ricerca meilletiana. È secondo una tale prospettiva che Meillet adopera subito il principio teorico appena enunciato. Se un’unità o un’affinità linguistica presuppone che un’unità culturale ci sia o ci sia stata, partendo dalle affinità linguistiche accertabili in epoca storica è sempre possibile risalire ad affinità culturali preistoriche difficilmente accertabili altrimenti. È così che Meillet ricostruisce un’unità dei Greci […]. «Una lingua – scrive Meillet nel 1929 nel saggio Lo sviluppo delle lingue – è un sistema rigorosamente legato di mezzi d’espressione comuni ad un insieme di soggetti parlanti. Non ha esistenza al di fuori degli individui che parlano (o che scrivono) la lingua; tuttavia ha un’esistenza indipendente da ciascuno di essi perché ad essi s’impone, la sua realtà è quella di un’istituzione sociale, immanente agli individui, ma nello stesso tempo indipendente da ciascuno di essi[…]». […] Non soltanto Meillet dice che la lingua è un sistema inconcepibile al di fuori del complesso dei parlanti e tuttavia esterno perché superiore a ciascuno di essi, ma subito aggiunge che la conservazione del sistema non è garantita linguisticamente ma socialmente. […] Anche la sistemicità della lingua non è dunque carattere naturale, ma sociale; non è insito in tutti i parlanti, ma viene appreso. […] Al di là quindi del suo valore manualistico (non è difficile d’altra parte convenire che si tratta tuttora del più completo e articolato strumento per chi debba accostarsi alla storia della lingua greca), Lineamenti di storia della lingua greca merita di essere oggi riconsiderato anche per le sue prospettive di metodo storiografico e di teoria della lingua. La sua genesi è sì collocabile in un ambiente culturale molto chiaramente determinato, i fermenti di cui è nutrito appaiono di un’epoca conclusa, ma il libro anche se è, come si suoi dire, datato, non può considerarsi superato, perché non appaiono superati i problemi teorici che esso inconsapevolmente affronta. Questi problemi sono stati in parte rimossi, spesso aggirati, talvolta apertamente dichiarati non pertinenti alla linguistica, ma essi si riaffacciano tutte le volte che il linguista, accanto alla riflessione teorica e metodica, pretende di cimentarsi con la reale storia di una lingua. Si tratta della definizione del carattere sociale della lingua non affermata astrattamente, ma concretamente valutata nel rapporto specifico, e perciò mediato, tra una lingua e una società; si tratta della stessa sistemicità di una lingua, che non è eguale per tutti i parlanti, ma presuppone, per essere indagata, la considerazione delle articolazioni proprie della società e l’accertamento del gruppo o dei gruppi che esercitano una effettiva egemonia linguistica sull’intero corpo sociale; si tratta anche dell’accertamento analitico degli usi prevalenti della lingua, uso religioso, giuridico, scientifico, poetico, nella persuasione che tali usi non si presentano mai come il risultato di un’astratta opzione individuale, ma si possono riconoscere collettivamente imposti secondo la logica della stratificazione sociale. In questa prospettiva appare difficile convenire con il liquidatorio giudizio di marginalità espresso sulla riflessione linguistica di Meillet. Si può invece dire che il carattere che più colpisce nell’Aperçu, come nella maggior parte delle altre sue opere, è la tollerante pacatezza […]. La tolleranza non è soltanto dell’uomo, ma anche, soprattutto dello studioso, è un carattere essenziale del suo stesso lavoro scientifico. È anche questa la ragione per la quale un libro come l’Aperçu conserva intatta la propria apertura programmatica e può riuscire utile oggi forse come quando fu scritto. Esso offre coordinate culturali nelle quali non è difficile iscrivere una serie assai importante di studi, di ricerche, di riflessioni recenti sulla tradizione culturale greca, sulla tecnica di composizione e di comunicazione della poesia epica e lirica[…]. L’Aperçu resta anche importante perché il suo vasto disegno originario non esclude arricchimenti, anche assai diversi l’uno dall’altro e ispirati a diverse sollecitazioni. Sono recuperabili all’ampio quadro storiografico qui tracciato sia ricerche lessicografiche di carattere più tradizionale, come quelle pur fondamentali di Mugler; sia indagini ispirate al più rigoroso metodo strutturale, come quelle di Bartonek, o, sul piano semantico, di Lyons; sia infine saggi di ricostruzione insieme linguistica e stilistica come quella di Pavese. E si sono fatti soltanto pochi esempi. Rileggere il libro di Meillet in questa nuova ottica può essere utile. Esso ci offre un’immagine della lingua greca oltremodo ricca, nel costante riferimento a precise condizioni storiche […] Il sistema linguistico resta sempre per Meillet funzione di un più ampio sistema, quello che egli identifica nella struttura della società, cui, evitando la tentazione di affrettate omologie, la ricerca del linguista deve sempre riferirsi, per tendere coerentemente all’obiettivo della globalità di conoscenza delle scienze sociali.
Diego Lanza, Introduzione a Antoine Meillet, Lineamenti di storia della lingua greca, Einaudi, Torino 1976, pp. IX-XXVIII.
«Fin dalla remota antichità due capacità conoscitive sono state considerate come le più nobili: l’ascoltare e il vedere. I diversi popoli talvolta hanno messo l’accento sull’una, talvolta sull’altra; l’antica Grecia esaltava la superiorità del vedere, l’Oriente attribuiva maggior valore all’udire. Ma, comunque si rispondesse alla domanda su quali delle due fosse superiore, mai si è dubitato del ruolo centrale di queste due capacità negli atti conoscitivi e, di conseguenza, mai si è dubitato del valore straordinario dell’arte figurativa e dell’arte della parola: esse sono attività che si radicano nei più preziosi sforzi della conoscenza.
L’osservazione fin qui condotta sulle due massime attività ci consente di trarre un bilancio quanto all’attività conoscitiva in generale. Essa costruisce simboli: simboli del nostro rapporto con la realtà. Il presupposto della nostra attività, sia per l’arte pittorica che per l’arte della parola, è la realtà. Dobbiamo percepire l’effettiva esistenza di ciò con cui veniamo a contatto, di modo che inizi un’attività culturale, riconoscibile nella sua globalità come necessaria e preziosa. Senza il presupposto di questo realismo la nostra attività si rivela o esteriormente utile, al servizio del raggiungimento di qualche profitto molto prossimo, ovvero esteriormente dispersiva, un’occupazione artificiale del tempo. Se non comprendiamo che ogni atto di cultura è verità, non saremo in grado di riconoscergli dignità interiore e vera umanità. L’illusionismo, in quanto attività che non conta sulla realtà, rinnega per sua natura la dignità umana. Il singolo uomo si chiude nel soggettivo e taglia in questo modo il legame con l’umanità, e di conseguenza verso la comprensione umana. Se non si percepisce la realtà del mondo, allora si disgrega l’unità della coscienza universale e, di conseguenza, anche l’unità della personalità cosciente di sé».
Pavel A. Florenskij,Il valore magico della parola, Medusa, Milano 2003, p. 93.
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