«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Si può considerare la cultura come il perfezionamento degli individui ottenuto mediante lo spirito oggettivato nel lavoro storico della specie. L’essenza soggettiva appare “colta” in quanto la sua unità e la sua totalità giungono a compimento per mezzo dell’ appropriazione di quei valori oggettivi: valori dell’arte e della conoscenza, dell’arte e della religione, delle configurazioni sociali e delle forme di espressione dell’interiorità. La cultura è dunque una sintesi peculiare di spirito soggettivo e spirito oggettivo, il cui senso ultimo può naturalmente risiedere soltanto nel perfezionamento degli individui. Poiché tuttavia a tale processo di perfezionamento i contenuti dello spirito oggettivo devono presentarsi dapprima come indipendenti e separati tanto da chi li crea quanto da chi li riceve, per poi venir compresi in esso come mezzi o stazioni, tali contenuti, ossia tutto ciò che ha trovato espressione e forma, ciò che possiede un’esistenza ideale e un’efficacia reale, il cui insieme costituisce il patrimonio ideale di un’epoca, può essere definito la “cultura oggettiva” di essa. Dalla sua determinazione va distinto il problema della misura, dell’ampiezza e dell’intensità con cui gli individui partecipano dei suoi contenuti: è il problema della “cultura soggettiva”».
Georg Simmel, Filosofia dell’amore, a cura di M. Vozza, trad. di P. Capriolo, Donzelli Editore, Roma 2001, p. 123.
«La scienza è pur sempre un’ideazione che l’umanità ha prodotto nel corso della sua storia; sarebbe perciò assurdo che l’uomo decidesse di lasciarsi definitivamente giudicare da una sola delle sue ideazioni […]».
Edmund Husserl, Die Krisis der europaischen Wissenschaft und die transzendentale Phanomenologie (1934-1937, pubblicata nel 1954); tr. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1972, § 31, p. 147.
«La scienza naturale è una forma culturale che rientra soltanto nel mondo culturale di quell’umanità che l’ha elaborata e solo nel suo ambito esiste la possibilità di comprenderla. Rendersene conto apre la via alla possibilità di tematizzare l’unità universale di un’umanità […] che può essere tematizzata solo nell’unità della sua vita temporale, nell’unità di quella temporalità che costituisce la forma stessa di questa vita, e non per esempio nell’unità della temporalità della natura scientificamente esatta che, in virtù del suo stesso senso, costituisce il tempo identico di una natura assolutamente identica, al di là di tutte le nature di tutte le particolari umanità, e non il tempo relativo che inerisce per essenza a tutte le singole umanità che vivono e sono nella comunità, con tutti i loro passati e nel loro aperto futuro, che è sempre il futuro dell’uomo attuale, e che ha appunto un senso in quanto futuro delia sua umanità»
Edmund Husserl,La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Seconda dissertazione: “L’atteggiamento delle scienze naturali e l’atteggiamento delle scienze dello spirito. Naturalismo, dualismo e psicologia psicofisica”, il Saggiatore, Milano 1972, p. 325.
«Tranquillià benigna, figlia di Giustizia per cui le città fioriscono, tu che hai le chiavi supreme dei consigli e delle guerre […]. Tu che sai agire secondo dolcezza e tuttavia indirizzare con saldo procedere […]. Tu che, quando qualcuno alberghi nel cuore un risentimento amaro, contrastando alla forza degli avversari, precipiti nell’abisso l’hybris».
Pindaro, Pitiche, VIII, vv. 1-12.
Probabilmente una delle ultime odi composte da Pindaro, la Pitica VIII è dedicata al giovane lottatore Aristomene, vincitore nel 446 a.C. Apre l’inno un’invocazione alla Tranquillità personificata che regna in tempo di pace e che, in quanto figlia della Giustizia, sa opporsi alla tracotanza e, sapendo agire con dolcezza, rendere dolce la vitacon la fulgida luce della saggezza.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Il più bello dei mari è quello che non navigammo. Il più bello dei nostri figli non è ancora cresciuto. I più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti. E quello che vorrei dirti di più bello non te l’ho ancora detto.
Il sistema economico è, in effetti, una mera funzione di organizzazione sociale. La tesi della naturale inclinazione dell’uomo primitivo per le attività lucrose sostenuta da Smith è priva di fondamento.
K. Polanyi
«Non è più l’economia ad essere inserita nei rapporti sociali, ma sono i rapporti sociali ad essere inseriti nel sistema economico. L’importanza vitale del fattore economico per l’esistenza della società preclude qualunque altro risultato […]. La società deve essere formata in modo da permettere a questo sistema di funzionare secondo le proprie leggi» (p. 74).
«La causa della degradazione non è, come spesso si è voluto asserire, lo sfruttamento economico ma la disgregazione dell’ambiente culturale della vittima. Il processo economico può naturalmente rappresentare il veicolo di questa distruzione e quasi sempre l’inferiorità economica porterà il più debole a cedere, ma la causa immediata della sua distruzione non è per questo economica; essa si trova nella ferita mortale alle istituzioni nelle quali la sua esistenza è materializzata. Il risultato è la perdita del rispetto di sé e dei valori, sia che l’unità sia un popolo o una classe, sia che il processo abbia origine da un cosiddetto conflitto culturale o dal cambiamento nella posizione di una classe all’interno dei confini di una società» (p. 202).
«Separare il lavoro dalle altre attività della vita ed assoggettarlo alle leggi di mercato significa annullare tutte le forme organiche di esistenza e sostituirle con un tipo diverso di organizzazione, atomistico e individualistico» (p. 210).
Karl Polanyi, La grande trasformazione, introduzione di Alfredo Salsano, traduzione di Alberto Vigevani, Einaudi, Torino 1974.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Nei giovani la frequente dedizione entusiastica ad una causa può terminare al medesimo modo o nella fedeltà (lucida o ottusa) ad essa, o nel passaggio ad un diverso campo, oppure ancora nella perdita di capacità di dedizione in genere […]. I movimenti giovanili così frequenti nell’ultimo mezzo secolo lo mostrano con la massima evidenza, e tanto più quanto più danno valore centrale alla giovinezza stessa […]. Occorre esaminare se e fino a quale punto una dedizione è in grado di indurre l’individuo ad innalzarsi sopra la propria particolarità, oltre che a dar luogo ad una passione durevole».
György Lukács, Ontologia dell’essere sociale. Vol. I, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, Pgrego, Roma 2012.
«[…] qui nessuno ha bisogno del loro ardore e della loro passione […] qui le loro raffinatezze non troverebbero risonanza da nessuna parte; anche se scrivessero le loro poesie, non ci sarebbe nessuno che le amerebbe, se poi volessero realizzare nella vita i loro sogni, non ci sarebbe materia da cui potrebbero formare qualche cosa. Sono uomini spenti e delusi, guerrieri stancati prima della lotta, guerrieri feriti a morte prima dei combattimenti […]. E allora l’uno cade in basso anche esteriormente, l’altro diventa forse anche uno per bene, ma sarà spento, senza canto, senza ebbrezze, uno caduto dai sogni e dai desideri, un uomo qualunque, un uomo morto».
György Lukács, Jób novellái (Le novelle di Job), pubblicato prima in «Ventesimo secolo» e poi in Esztétikai kultúra (Cultura estetica), tr. it Roma, 1977, pp. 56-58. Cfr. György Lukács, Sulla filosofia romantica dell’esistenza: Novalis, e A lelki szegénységről (Sulla povertà di spirito).
Sergei Michajlovic Eisenstein, Il metodo, I, a cura di A. Cervini e M. Meringolo, Marsilio, 2020
Sergej Michajlovič Ėjzenštejn
Al di là delle stelle
Nella primavera del 1926 ero molto agitato. Lasciai Berlino prima che il Potëmkin uscisse sugli schermi in Germania, il primo tra i paesi esteri in cui sarebbe stato proiettato. Alla vigilia della mia partenza avevo avuto una discussione con gli inesperti distributori del film circa la tesi fondamentale della pubblicità che avrebbe accompagnato l’uscita del film. Avevo insistito perché comparisse ovunque la dicitura «Un film senza stelle». I distributori, però, temevano che essa avrebbe avuto un effetto disastroso sugli incassi. In un secondo momento, avrebbero addirittura indicato nei titoli la partecipazione di … attori dello MChAT di Mosca. Ebbi ragione io: il giorno successivo all’uscita sugli schermi, fiumi di recensioni positive scorrevano proprio nel segno di un «film senza stelle». Ricordo ora questo episodio perché l’assenza di stelle fu uno dei motivi per cui in questo film l’attenzione si rivolse naturalmente agli innumerevoli problemi cinematografici che di solito, nelle altre produzioni, rimanevano inevitabilmente in ombra, offuscati dal fulgore stellare dei protagonisti. Il film gettò uno sguardo «al di là delle stelle», oltre i confini della volta celeste del cinema dentro cui ruotavano, in sostanza, tutti i problemi dell’estetica cinematografica. Mi sentivo un monaco, un seguace di Nicola Cusano così come è raffigurato in un’incisione del XVI secolo: sporgendo la testa curiosa oltre i limiti della volta celeste, egli si affaccia su altri mondi. Negli articoli che seguono ho raccolto alcuni dei problemi cinematografici che si trovano «al di là delle stelle». E come frontespizio per questi materiali ho scelto l’immagine del monaco curioso: ci sta troppo bene!
Sergej M. Ėjzenštejn, Il metodo, I, a cura di A. Cervini e M. Meringolo, Marsilio, Venezia 2020, pp. 3-4.
Alessia Cervini
Con gli occhi di Ėjzenštejn
[…] la ricerca vygotskijana sul discorso interiore […] sembra indicare a Ėjzenštejn la chiave attraverso cui tentare almeno di dare una risposta ai problemi fondamentali dell’arte e del suo funzionamento. A differenza di «altri ambiti ad essa vicini, simili, analoghi e somiglianti, nei quali pure si verificano fenomeni propri delle forme primordiali del pensiero», infatti, «la dialettica dell’opera d’arte si fonda su una curiosissima “bi-unità”. L’efficacia dell’opera d’arte si costruisce sul fatto che in essa avviene contemporaneamente un duplice processo: un’impetuosa ascensione progressiva verso i gradini più alti delle idee e della coscienza, e contemporaneamente la penetrazione, attraverso la struttura della forma, negli strati del pensiero sensibile più profondo». Solo tramite la straordinaria tensione fra queste due tendenze opposte si può dunque ottenere l’unità della forma e del contenuto che ogni vera opera d’arte deve realizzare.
[…] Naturalmente, però, Ėjzenštejn comprende benissimo il carattere problematico delle sue posizioni e forse per questo riconosce in una certa dedinazione leniniana della dialettica, intesa come «studio dell’unità degli opposti», il presupposto teorico a fondamento del «metodo» che intende costruire. Ma è soprattutto grazie al richiamo insistito a Engels, e in particolare alla sua Dialettica della natura, che il metodo di cui stiamo parlando diviene lo strumento per scrivere, a partire dalla comprensione del funzionamento della singola opera d’arte, non solo una più generale storia delle arti, ma anche una storia naturale delle forme viventi. Si tratta infatti dell’opera in cui Engels mette alla prova la possibilità di considerare la dialettica come la struttura che informa materialisticamente non solo l’andamento della storia e dell ‘economia, ma anche quello della natura. Per Ėjzenštejn, essa diviene il punto di partenza per la costruzione di una vera e propria Weltanschauung, di cui Il metodo porta senz’altro la traccia più significativa.
[…] Il metodo (dialettico) è dunque il titanico sforzo teorico a cui Ėjzenštejn affida il progetto di ricomposizione di ciascuna delle polarità con cui gli capita di scontrarsi, nel corso di una riflessione che accompagna costantemente la pratica artistica, da quella teatrale a quella cinematografica […]. Il metodo regala al suo lettore il ritratto prezioso di un mondo: quello personale, artistico e teorico di Ėjzenštejn (ripercorso, scandagliato, ossessivamente messo in discussione); e insieme quello di un’intera epoca, passata, eppure sorprendente mente vicina. Con gli occhi di Ėjzenštejn leggiamo il presente e non smettiamo di stupirci del fatto che, sebbene qualcosa sia scomparso, qualcos’altro pervicacemente resista […].
Alessia Cervini, Con gli occhi di Ėjzenštejn, in: Sergej M. Ėjzenštejn, Il metodo, I, a cura di A. Cervini e M. Meringolo, Marsilio, Venezia 2020, pp. IX-XXX.
Risvolto di copertina Il metodo è l’ultima opera teorica di Sergej M. Ejzenštejn, lasciata incompiuta alla sua morte (1948). In queste pagine il regista riattraversa molti dei temi della sua riflessione, allo scopo di sciogliere i nodi teorici di una ricerca che accompagna costantemente la pratica artistica, da quella teatrale a quella cinematografica, senza dimenticare il disegno. Il risultato è un lavoro concepito per chiarire in via definitiva «il problema fondamentale» dell’arte: quello che, nella fattispecie, contiene il segreto del suo funzionamento o, per essere più precisi, della sua «efficacia». La messa a punto di un vero e proprio «metodo» consente a Ejzenštejn di svelare i meccanismi che regolano la vita di un’opera d’arte, dal momento in cui viene ideata fino a quello in cui entra in relazione con il suo spettatore. La tesi che si delinea è tanto chiara, quanto radicale: la forma di pensiero attivata dall’arte e dai suoi prodotti corrisponde, per struttura e funzionamento, a quella del pensiero primitivo. Il «metodo» di cui stiamo parlando diviene così uno strumento prezioso per scrivere, a partire dalla comprensione di una singola opera, non solo una più generale storia delle arti, ma anche una storia naturale delle forme viventi.
Luigi Nono, Ecrits, Editions Contrechaps, Ginevra 2007
«La Resistenza, come fatto concretamente rivoluzionario e fondamentale della nostra vita, provoca e forma scelte precise, una coscienza innovatrice […]. Anche il musicista partecipa a questa lotta. Anzi, proprio nella misura in cui egli vi contribuisce – non come specchio concavo o convesso ma in modo originale e autonomo con i suoi studi, le sue ricerche, i suoi esperimenti, con la sua fantasia inventiva, in quanto insomma dialettizza il momento ideale con quello tecnico-linguistico, proprio in tal modo il musicista può realizzarsi compiutamente. Il tema della Resistenza, nella musica, non va perciò collegato unicamente all’uso di testi e di situazioni di lotta partigiana, ma è potenzialmente presente in ogni espressione dove la verità e la novità di ricerca, di inventiva e di realizzazione ampliano e sviluppano la capacità fantastica, l’intelligenza ricettiva e la coscienza dell’uomo teso all’eliminazione delle varie garrote della società neocapitalista, teso cioè alla liberazione socialista».
Luigi Nono, Musica e Resistenza, in «Rinascita», 7 settembre 1963, p. 27; ripubblicata in Id., Ecrits, Bourgois, Paris 1993, pp. 236-39. 1963, p. 27, ed. I993, p. 237] ripubblicata in Id., Ecrits, Editions Contrechaps, Ginevra 2007
Tout au long de sa vie, Luigi Nono (1924-1990) a défendu l’idée selon laquelle la musique la plus avancée devait être aussi une musique engagée dans son temps. La sienne est nourrie par l’esprit de la résistance antifasciste en Italie, élargie aux luttes contre toutes les formes de domination et d’impérialisme dans le monde. Les moyens nouveaux, ceux du sérialisme puis ceux de la technologie, visent une forme d’utopie sensible à travers laquelle se dessine la possibilité d’une autre société et d’un « homme nouveau ». Jusqu’ici, on connaissait les textes dans lesquels Nono traite des questions esthétiques et musicales, même si celles-ci sont toujours traversées chez lui par des considérations politiques. Mais Nono a écrit une quantité considérable d’autres textes qui, après sa mort, ont été regroupés et archivés. Certains sont liés à son activité politique : reportages, prises de position, polémiques, interventions… D’autres traitent de la musique : conférences, présentations, préfaces, discussions… Ils sont publiés ici pour la première fois en français, de même que les textes connus ont été repris à partir des versions originales, permettant d’enrichir considérablement l’image d’un compositeur qui compte parmi les personnalités les plus importantes de son époque. Cette édition paraît à l’occasion du trentième anniversaire de Contrechamps. Elle a été réalisée par Laurent Feneyrou, qui a traduit lui-même l’ensemble des textes. Elle comporte un enregistrement sur CD d’une conférence donnée par Luigi Nono à la Salle Patiño de Genève, lors d’un concert Contrechamps, le 17 mars 1983.
V’è una questione al centro dell’estetica hegeliana, ed infine di tutta la cultura contemporanea, che ha assunto da molto tempo ai nostri occhi una dimensione teoreticamente rilevante e di capitale importanza anche culturale. E, questo, non solo per una certa chiave interpretativa dell’essenza dialettica che caratterizza il movimento dell’arte contemporanea: chiave che, come pensiamo di poter dimostrare, essa tiene celata nel suo difficile nodo. Ma, ben più in là di questo, per la possibilità ch’essa offre, nel suo fondo teoretico, di un preciso evidenziarsi, sul piano della cultura contemporanea, di una caratteristica idea d’artisticità: e, quindi, per le basi che in questo processo di evidenza possono essere ritrovate, affinché una nuova consapevolezza eidetica e fenomenologica si fondi di fronte ai mutevoli livelli dell’esperienza artistica ed una più aperta ed insieme più rigorosa teoria generale dell’arte possa sorgere su tale acquisita consapevolezza.
Questa questione fondamentale è quella nota come la questione della «morte dell’arte». Un dibattito sorto da un disagio e dalle inquietudini dell’anima romantica in mezzo al volgere sempre più precipitoso della circostante società e della storia, una disputa venuta in chiaro tra Schiller, Novalis ed Hegel, esplosa nell’estetica hegeliana e poi non mai del tutto sopita, anzi di recente rinfocolata, in diversi strati della riflessione, sotto l’urto degli stessi movimenti artistici più avanzati, in tutte le arti e nella connessa teoria.
Un dubbioso quesito pregiudiziale è bene subito toglier di mezzo. Si tratta della questione terminologica: nella lingua italiana il termine «morte» ha una certa pesantezza o naturalistica o mistica. Per cui mal si adatta a significare quel vivo pensiero dialettico, che porta ben al di là della «fine» o comunque del finire, del morire contrapposto e antitetico al nascere. Tenuto conto di questo, preferiamo, tuttavia, «morte» (anziché «fine», come fa – coerentemente, del resto, con la sua tesi – il Croce); con l’avvertimento, cioè, che intendiamo assumere questo termine dal centro stesso dialettico del pensiero hegeliano, già ben chiaro nei noti scritti giovanili, ad esempio nel frammento sull’Amore. È pur vero, poi, che, in genere, per parlare di «morte dell’arte» Hegel userà in prevalenza il termine Auflösung, (dissoluzione-risoluzione); ma anche questo significato può meglio esser recuperato, mi sembra, in un’assunzione dialettica, almeno per il nostro caso, del termine «morte», con la soprindicata precisazione.
Del resto, proprio la disputa sorta in Italia negli ambienti hegeliani, dal De Sanctis al De Meis, usa ripetutamente le espressioni «morte dell’arte», «morte della poesia» (quest’ultima soprattutto) forse con più ragione di quanto non si sia mai creduto e proprio nei confronti della loro validità interpretativa del pensiero dello Hegel.
La questione della «morte dell’arte», dunque, è una questione di fondo, è bene sottolinearlo, che attraversa l’esperienza artistica in atto ed insieme il piano della riflessione estetica che vi si costruisce sopra, generandosi dal suo interno.
Uno dei compiti che mi propongo, a questo punto, consiste propriamente nel far venire in evidenza tutto il rilievo che questa fondamentale ed ancor oggi attualissima questione assume non soltanto per l’interpretazione dei vari movimenti dell’arte contemporanea dal Romanticismo ai giorni nostri, ma per la necessaria e quanto mai urgente analisi preliminare ad ogni fondazione di una teoretica generale dell’arte – o, se si preferisce, di una Estetica generale e speciale –, oggi. Voglio dire che si tratta di un passaggio obbligato, per chi vuol avviarsi nel nostro tempo con qualche sicura consapevolezza a ricerche teoriche sull’arte. Il non averne prese in considerazione tutte le oscure e spesso variamente aggrovigliate implicazioni, l’aver trattato questa questione di volo ed in superficie, ha segnato troppe volte l’indice d’arresto e la dogmatica chiusura di una ricerca in atto.
Com’è avvenuto per Benedetto Croce. Tutti conosciamo la famosa sua tesi, poi strenuamente difesa in polemica col Bosanquet, tendente ad interpretare le affermazioni del pensiero hegeliano a questo proposito come quelle che volevano indicare la definitiva ed avvenuta «fine» dell’arte. E sappiamo come tutto questo possa benissimo rientrare nel grande solco della ermeneutica hegeliana allo stesso titolo e con le stesse polarizzazioni di significato (più o meno metafisica) per cui v’entra la questione – esteriormente analoga – della fine della filosofia.
Ma non è questo il punto: non credo, cioè, che oggi si possa rispondere a quesiti di questo genere con un sì o con un no. La disputa Croce-Bosanquet sul modo di intendere la lezione dei testi hegeliani in proposito, se dunque l’arte si debba dare per storicamente ed effettivamente morta oppure no, direi che non ha più – né può più avere – alcuna seria rilevanza oggi.
Piuttosto è da vedere (e solo in questo modo, a mio avviso, riacquista pieno ed attuale interesse il problema) quale sottile nodo di significati stava sotto quella questione e quali ideali intenzionalizzazioni, quali emergenze di verità, da quel nodo di significati partiva per irradiarsi in tutto il corpo e il corso futuro dell’esperienza artistica e per continuare poi a vibrarvi dentro, come la sua stessa essenza palpitante, fino all’arte dei nostri giorni.
Rimane dunque inteso fin d’ora che, pur nell’obbligo, al quale mi accingo, di ritornare sui testi (spesso anche con ostinata minuzia) per mettere a fuoco filologicamente la vasta questione della «morte dell’arte», non è davvero né l’accertamento né la risposta al quesito se l’arte sia o non sia finita nei tempi fra Hegel e Croce che si dovrà cercare; ma, piuttosto, tutto il senso complesso e fecondo che, da sotto la dura scorza di quei concetti, si veniva aprendo e disseminando nell’oscuro vento dell’esperienza e della storia contemporanea.
È in questa nostra esperienza contemporanea che tutti, in misura diversa e per diverse vie, abbiamo ormai «vissuto» la morte dell’arte. Essa è dentro di noi, irreversibile storia. Ma tutto quello ch’era in sua potenza di significare, forse non è ancora stato interamente significato. Noi non possiamo che avvicinare alcune delle molte direzioni intenzionali di sviluppo che la totalità di verità di un tale insieme intuitivo –folgorato dapprima in senso moderno nei cieli del Romanticismo – cela dentro di sé per la storia dell’uomo. E lo possiamo fare solo partendo dal principio. Un modo di risalire a questo principio può essere la riconsiderazione di quell’occasione italiana che fu la disputa del Croce intorno alla “fine dell’arte” in Hegel.
Dino Formaggio, L’idea di artisticità. Dalla «morte dell’arte» al «ricominciamento» dell’estetica filosofica, Casa Editrice Ceschina, Milano, 1962, pp. 25-27.
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