Maya Angelou – Puoi svalutarmi nella storia con le tue contorte bugie … Volevi vedermi distrutta? Con la testa china ed occhi bassi? Io mi sollevo. Con la certezza delle maree, proprio come le speranze che si librano alte, ancora mi solleverò. Ci deliziamo nella bellezza della farfalla, ma raramente ammettiamo i cambiamenti a cui ha dovuto sottostare per raggiungere quella bellezza.

Ancora mi sollevo

Puoi svalutarmi nella storia
Con le tue amare, contorte bugie;
Puoi schiacciarmi a fondo nello sporco
Ma ancora, come la polvere, mi solleverò

La mia presunzione ti infastidisce?
Perché sei così coperto di oscurità?
Perché io cammino come se avessi pozzi di petrolio
Che pompano nel mio soggiorno

Proprio come le lune e come i soli,
Con la certezza delle maree,
Proprio come le speranze che si librano alte,
Ancora mi solleverò

Volevi vedermi distrutta?
Testa china ed occhi bassi?
Con le spalle che cadono come lacrime,
Indebolita dai miei pianti di dolore?

La mia arroganza ti offende?
Non prenderla troppo male
Perché io rido come se avessi miniere d’oro
Scavate nel mio giardino

Puoi spararmi con le tue parole,
Puoi tagliarmi coi tuoi occhi,
Puoi uccidermi con il tuo odio,
Ma ancora, come l’aria, mi solleverò.

La mia sensualità ti disturba?
Ti giunge come una sorpresa
Che io balli come se avessi diamanti
Al congiungersi delle mie cosce?

Fuori dalle capanne della vergogna della storia
Io mi sollevo
In alto, da un passato che ha radici nel dolore
Io mi sollevo
Io sono un oceano nero, agitato ed ampio,
Sgorgando e crescendo io genero  nella marea.

Lasciando dietro notti di terrore e paura
Io mi sollevo
In un nuovo giorno che è meravigliosamente limpido
Io mi sollevo
Portando i doni giunti dai miei antenati,
Io sono il sogno e la speranza dello schiavo.
Io mi sollevo
Io mi sollevo
Io mi sollevo

(Still I Rise – da  “And Still I Rise” di Maya Angelou)



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Giacomo Leopardi – Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici

All’uomo sensibile e immaginoso, che viva come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione.

Giacomo Leopardi, Zibaldone, pensiero del 30 novembre 1828.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Andrea Pedrinelli – Roba minima (mica tanto). Tutte le canzoni di Enzo Jannacci, che diceva: «Ricordati, non si traffica con la coscienza. Mai. Se si rinuncia alla dignità una volta, la si è persa per sempre».


«Ricordati, non si traffica con la coscienza. Mai. Se si rinuncia alla dignità una volta, la si è persa per sempre».
E. Jannacci

 

La vita e l’opera del grandissimo cantautore milanese ripercorsa tramite un’accurata e completa disamina che procede dettagliatamente anno per anno, disco per disco, canzone per canzone; e che è integrata da approfondimenti sulle mille attività extramusicali del Dottore, dalla medicina al cinema al cabaret. Roba minima (Mica tanto) è l’unico volume esistente su Jannacci ad aver avuto l’approvazione dell’Artista ancora in vita e l’apprezzamento pubblico della Sua famiglia “perché qui Enzo c’è davvero e c’è tutto”. Con un inserto a colori contenente foto rare e storiche copertine di dischi.

 

«L’esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire
di senso, sempre e comunque».
E. Jannacci


Descrizione

È nel marzo del 1964 che Jannacci Vincenzo diventa Enzo Jannacci: o il Saltimbanco, come amava definirsi dando una forte valenza etica al proprio lavoro di cantautore e autore teatrale nonché televisivo. La canzone che rende Jannacci noto a tutti si intitola “El portava i scarp del tennis” e narra della gente comune, che sarà sempre il vero obiettivo di un’arte senza snobismi. Il “barbon” del brano muore nell’indifferenza, ma i valori che come ogni uomo egli ha in sé non sono “roba minima”, malgrado Jannacci così canti, con pudore. Perché non è “roba minima” la vita di un signore diviso tra la medicina del corpo e quella dell’anima, capace di resistere alle tante censure e banalizzazioni di chi ancora oggi lo definisce “un clown” per cantare emarginazione, razzismo, lavoro minorile, droga, malasanità, mafia, malapolitica, TV senza morale. E soprattutto non è “roba minima” l’eredità umana di un artista che amava dire: “Ricordati, non si traffica con la coscienza. Mai. Se si rinuncia alla dignità una volta, la si è persa per sempre”.


Andrea Pedrinelli

Giornalista di musica e teatro, collabora con Avvenire e altre testate e ha scritto libri dedicati a Gaber, Baglioni, Ron. Ha curato l’opera omnia video di Giorgio Gaber e la prima raccolta critica di filmati della cinquantennale storia dei Pooh. Per Giunti ha pubblicato “Roba minima (mica tanto)”, il libro più completo mai scritto sulle canzoni di Enzo Jannacci, “Universo Zero”, biografia di Renato Zero, “Vasco Rossi”.

 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Gravidanza e dono. La legge sulla «gravidanza solidale» tra donne in Parlamento. Si codifica che la maternità non è dono, ma diritto. Ma il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto, è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica. Si genera nella mente prima che nel corpo: la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva.

Salvatore Bravo
Gravidanza e dono

La legge sulla «gravidanza solidale» tra donne in Parlamento.
Si codifica che la maternità non è dono, ma diritto.
Ma il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto,
è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica.
Si genera nella mente prima che nel corpo:
la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva.



In Parlamento è stata depositata una proposta di legge per regolamentare la così detta e codificata «gravidanza solidale» tra donne. Il ministero orwelliano della verità è continuamente operante: non solo si mutila la storia delle verità disorganiche al sistema, ma anche le parole sono orientate al relativismo semantico.
Il semanticidio è l’ultima frontiera del dominio. Le parole sono curvate ai bisogni delle nuove classi dirigenti globali. Non più madre surrogata: l’ordine del discorso liberista governa con le parole l’immaginario critico dei singoli e dei popoli per neutralizzarlo, si deve dire «madre solidale». Quest’ultima ospita il feto, “senza scopo di lucro”, sviluppato secondo le tecniche della fecondazione in vitreo. In tal modo coppie di ogni orientamento acquisiscono il diritto alla maternità-paternità.
La maternità è, in tal modo, oggetto di giurisprudenza: si codifica il diritto alla maternità e alla paternità. Non più dono, ma diritto!
Il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto, è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica. Si genera nella mente prima che nel corpo, nel sentire l’assenza dell’alterità verso cui ci si dispone in modo integrale: la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva. Il bisogno di incontrarsi per completarsi pone il senso ontologico dell’esistenza di ogni essere umano. Il dono codificato nella gabbia della legge è negato nella sua verità ontologica per essere merce a disposizione del compratore. Si riproduce la logica dell’azienda: la giurisprudenza codifica i doveri e i diritti del compratore e del venditore. La madre incubatrice, il cui ruolo è ideologicamente edulcorato dal termine “solidale”, vende il “nuovo prodotto” alla madre che lo acquisisce. L’esperienza della maternità/paternità è trasformata in “aziendalizzazione della vita sin sul nascere”.
Il capitalismo non può tollerare il dono autenticamente tale, deve monetizzare ogni respiro, gesto e scelta dell’esistenza. La nascita di un nuovo essere (e dunque la maternità donativa) quale dono che offre allora un nuovo sguardo con cui contemplare la vita, non può essere tollerata dal modo di produzione capitalistico: il dono è uno scandalo dove regna solo il profitto, per cui è soffocato sul nascere.
La «gravidanza solidale» – con annessa menzogna semantica – è esperienza assoluta del capitale. Se la maternità da dono diviene un contratto che stabilisce i compensi e gli obblighi delle protagoniste, si cancella l’idea stessa di dono dall’orizzonte percettivo, immaginativo e concettuale dei popoli e dei singoli. Si cancella l’amore donativo e disinteressato di cui la maternità è l’archetipo. L’interesse personale e la tracotanza del denaro divengono le uniche leggi che devono governare la vita.
In maniera analoga a quanto accade per la scelta degli studi fino alle relazioni affettive, tutto dev’essere regolamentato dall’unica legge dell’interesse privato, in cui a prevalere è il diritto del più forte. L’autentica maternità solidale ritrova la sua verità nelle relazioni che rifuggano dalla quantificazione. La maternità solidale tra donne è, d’altronde, un’esperienza antica. Non era raro in passato nelle famiglie allargate meridionali, che una madre consentisse ad un’altra madre che non poteva avere figli di crescere il proprio figlio. Ciò accadeva su un fondo di solidarietà, in cui le due donne non si contendevano il figlio, ma ciascuna contribuiva alla sua crescita secondo modalità diverse. I padri non erano esclusi, ma si inserivano in tali scelte all’interno di convenzioni e valori non codificati. L’unione non era e non dev’essere nella legalità del contratto, ma dev’essere condizione etica orientata al bene che si autoregola.

Monetizzazione della vita
Il sistema globale con le sue oligarchie nichilistiche produce diritti universali sempre in funzione dei diritti individuali e, in particolare delle classi più abbienti: il diritto è in astratto universale, nei fatti è un privilegio di classe. Siamo innanzi ad un episodio della lotta di classe: coppie benestanti si rivolgeranno a donne precarie e bisognose di denaro per usare il loro corpo come incubatrice, in cambio di denaro, da corrispondere in svariate modalità non rintracciabili.
In un contesto generale nel quale l’interesse privato e il profitto sono la legge aurea che tutto guida l’uso del termina “solidale” si svela nella sua ipocrisia manipolatrice. Si manipolano le parole per determinare il modo di pensare e di agire dei subalterni che le impiegano nel loro dire quotidiano. Una donna ricca può comprare il corpo di un’altra donna per soddisfare un proprio desiderio, una “voglia” di maternità (possessiva), senza dover vivere il rischio della gravidanza che “deforma” il corpo femminile conformato su canoni estetizzanti (la gravidanza mette in gioco molteplici aspetti nella persona e nel corpo della donna che dovrà accogliere dentro di sé l’alterità di un altro corpo, altro da sé, e per lunghi nove mesi, per non parlare della maternità che si esprimerà nel periodo dell’allattamento). Oppure pone rimedio alla sua biologica impossibilità di generare (sterilità) col potere che le deriva dal censo. La predazione, legge del modo di produzione capitalistico, affonda i suoi denti vampireschi nella maternità riducendola ad un affare.
La solidarietà diviene nuovo business, ammantato di stucchevole “buonismo”. Il sistema produce menzogne con la patina delle belle parole per vincere le ultime resistenze etiche. Dietro il paravento della gravidanza solidale non è difficile pensare che giovani donne migranti e precarie disperate possano trovare un mezzo per sopravvivere vendendo non solo il loro corpo, ma soprattutto il significato profondo di questa esperienza nella vita di donna e di madre.
La “gravidanza solidale”, inoltre, permetterebbe a donne in carriera che hanno scelto la professione quale obiettivo primo di pianificare la gravidanza usando il corpo delle perdenti della globalizzazione. La maternità diviene un obiettivo individualistico: non più vita che esce alla luce spontaneamente e liberamente.
Altro punto doloroso: la gravidanza è gestita solo da donne. Siamo all’eliminazione della paternità. La gravidanza diviene un affare tra donne, gli uomini sono solo un dettaglio biologico. Si sperimenta una nuova formula della procreazione: la gravidanza tra sole donne.

Femminismo liberista
I parlamentari che hanno proposto la legge sono in linea con il nuovo femminismo liberista che inneggia all’inclusione nel mercato, ma che in realtà produce esclusione sociale. La “maternità solidale” esclude e ridimensiona il ruolo della paternità. La logica implicita in tale proposta di legge è l’individualismo proprietario, per cui il bambino appartiene alle donne, in quanto hanno la potenzialità di produrlo – come fosse merce – per soddisfare un desiderio codificato e legittimato dalla cultura astratta del diritto.
Il femminismo fa un nuovo salto di qualità, si orienta verso la volontà di potenza e di dominio. Se la tecnica consente di rendere il ruolo degli uomini secondario, la gestione della vita e della comunità politica passa al nuovo femminismo in salsa transumana.
Si prepara con parole “buone” e con gradualità una rivoluzione antropologica, in cui il maschio è solo biologia: il resto è un affare tra donne. Il diritto alla maternità tra donne valuta i bisogni della sola madre: il bambino, con il suo naturale diritto ad una identità, è secondario. Non ci si pone dalla parte del bambino, il più debole in queste relazioni di potere. Cosa potrà provare nel sapere da adulto che è il risultato di una tecnica e di un contratto nessuno lo sa e nessuno si pone tale problema.
Non vi è immaginazione empatica, ma solo desiderio di acquisto e conquista.
In ultimo una società atomizzata e senza capacità spirituali non è nelle condizioni culturali di comprendere che la maternità non è solo una condizione del corpo, ma è un atto emotivo e mentale. Si dovrebbe favorire la cultura del dono e del volontariato, in quanto ogni adulto può vivere maternità o paternità nella cura senza possesso delle persone che incontra sul proprio cammino di vita.
La maternità e la paternità sono al plurale nelle loro espressioni, così come è la vita stessa. Naturalmente tale possibilità è colpevolmente ignorata, taciuta, poiché lo scopo è sempre il possesso individualistico e il business.
I “progressisti” arcobaleno continuano nella loro opera di disintegrazione della comunità, e si fanno braccio armato legislativo del relativismo liberista che tutto riduce a tecnica e a possesso personale. In Inghilterra una madre surrogata può richiedere legalmente fino a 15.000 sterline di rimborso spese, ovvero lo stipendio medio di un anno di una donna a basso reddito. Pertanto il denaro e la tecnica sono le palesi chiavi di lettura della “gravidanza solidale” sotto l’arcobaleno del “progressismo” liberista. L’egoismo e lo sfruttamento della vita sono l’unica legge a cui risponde il liberismo arcobaleno, la nuda vita della maternità è ridotta ad ovaie, embrioni e spermatozoi rigorosamente perfetti, e solo per chi se lo può permettere

… In attesa di tempi più umani rileggiamo la poesia Maternità di Tagore:

«Da dove sono venuto?
Dove mi hai trovato?
Domandò il bambino a sua madre.
Ed ella pianse e rise allo stesso tempo
e stringendolo al petto gli rispose:
tu eri nascosto nel mio cuore, bambino mio,
tu eri il suo desiderio.
Tu eri nelle bambole della mia infanzia,
in tutte le mie speranze,
in tutti i miei amori, nella mia vita,
nella vita di mia madre,
tu hai vissuto.
Lo Spirito immortale che presiede nella nostra casa
ti ha cullato nel Suo seno in ogni tempo,
e mentre contemplo il tuo viso,
l’onda del mistero mi sommerge
perché tu che appartieni a tutti,
tu mi sei stato donato.
E per paura che tu fugga via
ti tengo stretto nel mio cuore.
Quale magia ha dunque affidato
il tesoro del mondo nelle mie esili braccia?».


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Alice Bigli – Per Gianni Rodari la scintilla dell’Utopia è il passaggio obbligato dall’accettazione passiva del mondo alla capacità di criticarlo, all’impegno per trasformarlo.


Il grande nucleo tematico attraverso cui rileggere Rodari da adulti per poi riportarlo con pienezza e senza banalizzarlo ai bambini, è quello dell’utopia.

Questa è infatti una vera parola chiave per l’opera di Rodari che chi vorrà approfondirne la conoscenza critica troverà utilizzata da tutti i suoi più importanti studiosi.

Rodari vuole raccontare storie in cui realtà e fantasia siano sempre fuse in modo virtuoso. Nella sua opera, non solo non esiste contrapposizione tra questi due generi, ma l’una sembra indispensabile all’altra.

[…] Anche nei racconti più stravaganti e buffi, l’autore trasfigura spesso temi della realtà o stimola riflessioni su di essa. Contemporaneamente, come si vedrà ben esplicitato nella Grammatica della fantasia, nella ricerca di qualcosa che stimoli la fantasia e l’invenzione si parte sempre da oggetti, fatti, elementi comuni e del quotidiano.

Fantasia e osservazione del reale, critica al presente e sogno sul futuro si mescolano sempre.

Rodari propone ai bambini una spinta continua all’utopia, intesa come passaggio obbligato dall’accettazione passiva del mondo alla capacità di criticarlo, all’impegno per trasformarlo.

Alice Bigli, La scintilla dell’utopia. Rileggere Gianni Rodari con i bambini, Edizioni San Paolo, Cinesello Balsamo 2020, p. 49-52.

Alice Bigli
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Vittorio Morfino – Hegel e l’ombra di Spinoza. I concetti di organismo e violenza.


Vittorio Morfino

Hegel e l’ombra di Spinoza. I concetti di organismo e violenza

ISBN 978-88-7588-321-8, 2022, pp. 216, formato 140×210 mm., Euro 25 – Collana “Il giogo” [145].

indicepresentazioneautoresintesi







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Sabrina Grimaudo – Misurare e pesare nella Grecia classica. Teoria, storia, ideologie.

Sabrina Grimaudoi, Misurare e pesare nella Grecia classica, L’Epos, Palermo 1998.

Sabrina Grimaudo è docente presso l’Università di Palermo. I suoi studi soni principalmente rivoilti ad aspetti storico-epistemologici della scienza antica, al lessico greco della parentela e all’analisi del rapporto potere/violenza nei testi greci. Oltre avari contributi su riviste specializzate, ha pubblicato Misurare e pesare nella Grecia antica. Teorie, storia, ideologie, L’Epos, Palermo 1998.

Curriculum e pubblicazioni di Sabrina Grimaudo.


In copertina: Coppa di Arcesilao (VI sec. a.C.), Parigi, Cabinet des Médailles.
In copertina: Coppa di Arcesilao (VI sec. a.C.), Parigi, Cabinet des Médailles.

Sabrina Grimaudo, «Difendere la salute. Igiene e disciplina del soggetto nel “De sanitate tuenda” di Galeno». Problema medico o questione filosofica?


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Judith Schalansky – La rovina è un luogo utopico in cui passato e futuro diventano una cosa sola. È dolorosa la consapevolezza di essere mortali, e comprensibile il desiderio vanaglorioso di resistere alla fugacità e di lasciare delle tracce a una posterità sconosciuta, non solo di essere ricordati, ma di esserlo “in perpetuo”… Anche se nulla dura per sempre, ci sono cose che si mantengono più a lungo di altre …

Judith Schalansky, Inventario di alcune cose perdute, Nottetempo, 2020.

Judith Schalansky 

La rovina è un luogo utopico in cui passato e futuro diventano una cosa sola. È dolorosa la consapevolezza di essere mortali, e comprensibile il desiderio vanaglorioso di resistere alla fugacità e di lasciare delle tracce a una posterità sconosciuta, non solo di essere ricordati, ma di esserlo “in perpetuo”…
Anche se nulla dura per sempre, ci sono cose che si mantengono più a lungo di altre …

Descrizione

La Storia del mondo è piena di cose che sono andate perdute, smarrite nel corso del tempo o distrutte intenzionalmente, a volte semplicemente dimenticate – o magari, come si racconta nell’Orlando furioso, volate in un archivio sulla Luna. Inventario di alcune cose perdute è una raccolta di dodici storie, ciascuna dedicata a una cosa che non c’è più: narrazioni sospese in un delicato equilibrio tra presenza e assenza, fotografie ben a fuoco ma stampate con inchiostro scuro su carta scura, piccole realtà che solo l’immaginazione è in grado di riportare alla memoria. Si va da Tuanaki, un’isoletta indicata su vecchie mappe che ormai giace sotto il livello del mare, alla tigre del Caspio, il cui ultimo esemplare impagliato andò distrutto in un incendio; dallo scheletro di un presunto unicorno, nascosto chissà dove, a Kinau, un selenografo tedesco dell’800 di cui pare nessuno sappia nulla, fino alle misteriose lacune dei carmi amorosi di Saffo, che custodiscono ipotesi e segreti. Come aveva già fatto nel suo Atlante delle isole remote, in questo libro Judith Schalansky gioca a ricreare mondi del passato a partire da pochi frammenti, si cala nei contesti, nei linguaggi, coglie di volta in volta gamme di colori e sensazioni, restituendo a ogni cosa anche il più piccolo dettaglio, storico o visionario che sia.



Judith Schalansky, nata a Greifswald nel 1980, si è laureata in Storia dell’Arte e in Design e lavora a Berlino come scrittrice e designer, oltre a tenere corsi di tipografia. Il suo Atlante delle isole remote è uscito in Italia per Bompiani nel 2013. Lo splendore casuale delle meduse, pubblicato da nottetempo nel 2013 e tradotto in più di venti lingue, ha vinto nel 2012 il Premio Buchkunst Stiftung per il libro più bello dell’anno e nel 2013 il Premio Salerno Libro d’Europa. Inventario di alcune cose perdute, pubblicato da nottetempo nel 2020, ha vinto in Germania numerosi premi, tra cui il Wilhelm Raabe-Literaturpreis 2018, e in Italia il Premio Strega Europeo 2020.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Zero in condotta agli insegnanti che non si conformano alle direttive ministeriali che richiedono di occuparsi sempre meno di insegnare e sempre più di promuovere condotte docili, irreggimentate. I docenti renitenti siano messi al bando.

Fernanda Mazzoli

Zero in condotta agli insegnanti che non si conformano alle direttive ministeriali
che richiedono di occuparsi sempre meno di insegnare e sempre più di promuovere condotte docili, irreggimentate.
I docenti renitenti siano messi al bando.

 

A ragion veduta, il ministro Bianchi ha ricordato alle maestrine d’Italia che il loro dovere è quello di «non smettere mai di fornire il corretto esempio» ai propri allievi. Pertanto, chi tale corretto esempio non lo ha dato, rifiutando di vaccinarsi, pur essendo riammesso a scuola dal primo aprile, in classe non potrà rientrare, in quanto tale rientro «avrebbe comportato un segnale altamente diseducativo», poiché «la violazione di un obbligo non può restare priva di conseguenze».[1]

Così, circa 4000 insegnanti dalla primaria alle Superiori, cui durante il periodo di sospensione previsto fino al 15 giugno non è stato corrisposto nemmeno l’assegno alimentare,[2] sono stati richiamati a scuola da un governo alle prese con le troppe contraddizioni dei propri decreti, con i ricorsi presentati davanti ai tribunali dalle vittime dell’insolito provvedimento e con l’imbarazzante unicità in Europa e non solo della misura adottata a dicembre. Tuttavia, devono evitare il contatto con gli alunni; saranno dunque destinati a non meglio precisate attività di supporto agli altri docenti, quelli degni di stare in classe. Il loro orario viene, inoltre, portato a 36 ore settimanali, essendo equiparati ai «lavoratori fragili» del comparto scolastico, distaccati solitamente nelle biblioteche degli Istituti.

Sono stati concessi loro i mezzi di sostentamento, a riprova dello spirito umanitario di coloro che ci governano, ma a condizione che restino confinati in una sorta di riserva indiana, che stiano rintanati in sotterranei o stanzini approntati alla meglio, che vengano percepiti – dai ragazzi e dai genitori innanzitutto, ma anche dai colleghi – come degli intoccabili.

Non importa che, da gennaio, studenti, insegnanti e bidelli in stragrande maggioranza vaccinati si siano contagiati, a dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, che né il siero, né il green pass hanno frenato la diffusione del virus, cosa che ormai gli stessi virologi ammettono. Logica e razionalità che da tempo disertano il dibattito pubblico non conoscono miglior sorte nelle aule scolastiche e a prevalere è un criterio punitivo che, al netto di tutte le chiacchiere sulla società aperta ed inclusiva, sta a fondamento di una pedagogia della paura che ha dato buoni frutti nella recente – e non ancora estinta – campagna pandemica.

Se i docenti renitenti alla puntura e al consenso estorto tramite ricatto economico rappresentano un’incrinatura non tollerabile nella trama delle buone azioni e dei corretti comportamenti che si fila a scuola, servono comunque da esempio rovesciato di ciò che accade a chi non si piega ai diktat governativi e pertanto da utile monito ai ragazzi, qualora fossero tentati in futuro di deviare dalla retta via. Per questo, valgono bene lo sperpero di pubblico denaro che costano due insegnanti sulla stessa cattedra, di cui uno inutilizzato. La lezione è chiara anche per gli altri docenti, casomai venissero presi da un improbabile anelito di rivolta, da un impulso di anticonformismo sociale o, più modestamente, da qualche dubbio sul loro ruolo esecutivo nella catena di comando che parte dal Ministero ed arriva a loro, passando per i Dirigenti scolastici promossi datori di lavoro (e che, quindi, hanno comminato nei singoli Istituti le sospensioni).

Lo spreco più inquietante resta quello di intelligenze, competenze e professionalità sacrificate alla vendetta di una classe politica che era certa di avere neutralizzato pensiero critico e conflitto ed invece si è trovata confrontata, a scuola e fuori, con l’imprevista, per quanto variegata, resistenza di una minoranza non proprio trascurabile, alla quale si è cercato in tutti i modi di rendere la vita impossibile e che, proprio per questo, ha deciso di non chinare la testa.

Non si creda, però, che il ministro Bianchi, nella sua reprimenda, abbia voluto solamente lanciare un predicozzo moralistico, nonché umiliare ed isolare ulteriormente i reprobi. Gli va riconosciuto che il suo richiamo al corretto esempio ha centrato un aspetto essenziale del ruolo docente che oltrepassa di molto la presente contingenza: è ormai da anni che l’insegnamento è sempre più svuotato della sua dimensione culturale, a vantaggio di un generico ammaestramento ai virtuosi stili di vita, alle buone pratiche sociali che naturalmente sono quelle individuate dalle strategie europee per l’istruzione e la formazione o dall’agenda Onu 2030.

Pertanto, al titolare del Miur, assai correttamente, innanzitutto importa che maestri e professori si conformino alle direttive date, solo secondariamente che conoscano la materia che insegnano e che sappiano comunicarla ai loro allievi. Anzi, questo tipo di competenze – se non opportunamente diluito – potrebbe essere visto pure con un certo sospetto, come retaggio di una didattica obsoleta ed élitaria.

Questo Ministero, infatti, nel governo dei migliori è il migliore di tutti, il più solidaristico, il più inclusivo, avendo riscoperto una parolina magica che quarant’anni di neoliberismo tronfio e compiaciuto avevano snobbato: comunità. Però, anche la comunità deve essere corretta, deve ritrovarsi in certi parametri non soggetti a pubblica discussione o a ragionata verifica e chi non li rispetta o non vi si riconosce si mette automaticamente fuori dalla stessa e se non ci pensa lui a sloggiare in fretta, interviene il Ministero con la sua longa manus, ovvero il Dirigente Scolastico. Ed ecco che il ministro, nobilmente compreso del suo dovere etico verso la nazione tutta e la comunità scolastica in particolare, ammonisce gli inadempienti all’obbligo vaccinale che essi «disattendono il patto sociale ed educativo su cui si fondano le comunità nelle quali sono inseriti».

Chi scrive pensava ingenuamente che il loro inserimento fosse la conseguenza degli studi intrapresi, dei concorsi pubblici vinti, della passione per le discipline insegnate, non di attitudini morali e di comportamenti allineati sulle politiche governative. Tuttavia, occorre ringraziare il ministro Bianchi, che della comunità educante è un cultore, per avere fugato ogni residuo dubbio sul carattere potenzialmente totalitario della stessa, sulle sue zone d’ombra che ne fanno un potente fattore di conformismo sociale e di conseguente esclusione per eretici e ribelli.[3]

Volendo impartire una bella lezioncina di virtù civiche ai docenti refrattari all’inoculazione forzata, il ministro ha, in realtà, fatto l’apologia di una scuola che richiede agli insegnanti di occuparsi sempre meno di insegnare e sempre più di promuovere condotte docili, irreggimentate, perfette per il nuovo totalitarismo del XXI secolo che si autolegittima su base morale, intorno ad una serie di opposizioni elementari e di sicuro impatto propagandistico: buoni/ cattivi, meritevoli/non meritevoli, degni/indegni, funzionale ad un’ulteriore contrapposizione inclusi/esclusi.

Fernanda Mazzoli

[1]https://www.orizzontescuola.it/obbligo-vaccinale-bianchi-il-rientro-in-classe-dei-docenti-non-vaccinati-sarebbe-stato-segnale-diseducativo/

[2] Gli insegnanti sospesi a gennaio erano in numero decisamente più alto di quelli reintegrati ad aprile: molti si sono ammalati di Covid durante i mesi invernali e, una volta guariti e in possesso di green pass rafforzato da guarigione, sono rientrati in classe, pur accompagnati da un certo alone sulfureo e dall’incertezza sul futuro.

[3] Su questa deriva della comunità educante mi permetto di rinviare al mio Comunità educante e adattamento sociale in AA.VV., Koiné. Ideali di comunità, Petite Plaisance, Pistoia 2021 e a Paolo Di Remigio: Educazione e istruzione (sinistrainrete.info) (https://www.sinistrainrete.info/societa/16151-paolo-di-remigio-educazione-e-istruzione.html)



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Linda Napolitano Valditara – «Filosofi sempre». Ravvisando l’odierna necessità di questa postura filosofica, si deve però chiedersi quanti, che pure si dicono filosofi, abbiano saputo dopo Socrate non solo teorizzare un tale sapere, ma, come lui, testimoniarlo sempre.

L. Napolitano Valditara, Filosofi sempre. Immagini dalla filosofia antica, QuiEdit, 2021

«Occorre che chi dialoga non solo metta lealmente a disposizione dell’interlocutore quanto creda di sapere – prestandosi a esser interrogato (eròtesis), esaminato (exètasis) e semmai confutato (elènchos) – ma che lo faccia con una disposizione affettivo-morale anch’essa opposta a quelle del tiranno-lupo […]. Il filosofo non può né deve nutrir invidia dei beni (risposte e verità comprese) che semmai possedesse e non condividerle con altri, né dei beni altrui (risposte e verità comprese) essendo pronto ad arraffarli, come il tiranno trasimacheo, “con l’inganno o con la violenza”: è infatti proprio lo phthònos, l’autodistruttivo sguardo invìdens, l’anticamera emotivo-morale della pleonexìa, della smisurata, ‘lupesca’ aggressività tirannica.

Il filosofo ha già, pur non abitando insieme ad altri, una “vita in comune” (un syzén) con essi: con quanti, come lui, sappiano di non sapere, continuino ad amare il sapere e siano disposti perciò a dialogare e cercare, ancora e ancora. La benevolenza (eumèneia) reciproca che fonda questa speciale vita in comune, l’assenza d’invidia (phthònos), l’amore costante per la verità e il bene son forse quei “desideri migliori” che possono contenere in ognuno quelli superflui o parànomoi, prevenendone la distruttiva insaziabilità e dando all’anima una forma armonica naturale. Come la scelta libera di leggi che regolino la vita di ognuno e di tutti permette di allontanare il pericolo della ‘licenza’ (exousìa), la libertà individualistica ed eccessiva mutantesi in tirannide. Desideri migliori e buone leggi per una misurata armonia dell’anima: di ognuno e di tutti. E poi buone narrazioni, immagini ‘belle’ e arricchenti, nostre e altrui, che alimentino in ognuno il fuoco della ricerca e diano forma alle emozioni che l’accompagnano e che guidano alle azioni.

Ma solo il lògos filosofico sopporta la fatica (pònos) di questo esercizio perché esso solo vede il valore di tutto ciò: perché sa ch’è solo questo sapere a poter far brillare la scintilla della verità, alimentata dal fuoco dell’amor-di-sapienza nutrito da tutti, esso ch’è il “massimo sforzo” possibile al sapere umano. Molti altri saperi continuano certo aristotelicamente ad essere più necessari di questo, ma nessuno è “migliore” per gli esseri umani che siamo. Occorrono però, per praticarlo, senso lucido e profondo del nostro limite umano; relazionalità dialogante ed esplorativa con ogni altro; vita in comune intesa come ricerca mite, non invidiosa, non predatoria di un vero ogni volta condiviso, nell’intreccio continuo di racconti narrati uno all’altro e di argomentazioni verificate uno con l’altro.

È una postura sapienziale difficile, rara, per cui non stupisce che, quando essa si dica filosofica, si continui a bollarla come inutile e ‘sciocca’. Ma essa pare oggi più che mai necessaria per non incatenarsi, come il prigioniero platonico, in fondo a un antro a gioire di pure ombre, o per non nutrire compulsivamente, nella buia solitudine di un sotterraneo, ogni proprio desiderio, come il Gollum tolkieniano.

Ravvisando l’odierna necessità di questa postura filosofica, si deve però chiedersi quanti, che pure si dicono filosofi, abbiano saputo dopo Socrate non solo teorizzare un tale sapere, ma, come lui, testimoniarlo sempre, nel ragionare, nel sentire, nell’agire e nell’inter-agire: perché forse, finché questo non è fatto da quanti si professano filosofi, il loro sapere continuerà ad apparire solo inutile phlyarìa e potrà ancora – più grave e pericoloso – indurre altri demagoghi (portatori di statue della caverna platonica) ad allevare nuovi temibili ‘lupi’» (Filosofi sempre, pp. 283-285).


Linda M. Napolitano è Professore Ordinario di Storia della filosofia antica e co-responsabile del Centro di ricerca “Asklepios. Filosofia, cura, trasformazione”, presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Verona. Suoi studi: Il sé, l’altro, l’intero. Rileggendo i Dialoghi di Platone, Mimesis 2010; ‘Prospettive’ del gioire e del soffrire nell’etica di Platone, Mimesis 2013; Virtù, felicità e piacere nell’etica dei Greci, AemmeVerona 2014; Il dialogo socratico. Fra tradizione storica e pratica filosofica per la cura di sé, Mimesis 2018. Suoi sono anche studi sulle MedicalHumanities: Pietra filosofale della salute. Filosofia antica e formazione in medicina, QuiEdit 2012. Nel 2019 ha vinto il Bando di ricerca dottorale di CariVerona PHILCARE (Philosophical Care of Emotions in the Platonic and Socratic Literature).





Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Linda Napolitano Valditara…


Le idee, i numeri, l’ordine. La dottrina della «Mathesis universalis» dall’Accademia antica al Neoplatonismo, Biblopolis, 1988

Lo sguardo nel buio. Metafore visive e forme grecoantiche della razionalità, Laterza, 1994

 Platone e le «ragioni» dell’immagine. Percorsi filosofici e deviazioni tra metafore e miti, Vita e pensiero, 2007

La caverna, la skiagraphìa o ‘pittura d’ombra’, il mito degli androgini, il sofista che crea un mondo ruotando attorno uno specchio che lo rifletta, Socrate tafano e torpedine marina: le immagini celeberrime del corpus platonico sono qui rimeditate alla ricerca delle ‘ragioni’ che consentono di leggerle non quali semplici tratti decorativi, ma come veicoli di verità.


 Il sé, l’altro, l’intero. Rileggendo i dialoghi di Platone, Mimesis, 2010,.

Dai Dialoghi di Platone emergono strutture espressive e teoriche ricorrenti. Si esaminano qui in particolare: la struttura del sé (heautòn), di cui vanno saputi lo stato cognitivo e la natura fondante, essenzialmente psichica (il proprio esser anima); la struttura dell’alterità, manifestantesi soprattutto nell’esposizione alla morte e all’aggressività altrui e che trova però mediazione nella pratica del rapporto dialogico. Non c’è in Platone unità che non sia bilanciamento armonico di diversi ed opposti: il rapporto sé-altro è base dinamica di ogni possibile intero, cifra costitutiva della realtà umana e del cosmo stesso nella sua interezza. Un esame puntuale dei Dialoghi e dei loro contesti linguistici ed argomentativi pone in luce tale visione dell’intero quale dinamizzazione armonica del rapporto oppositivo sé-altro: una visione che, fra l’altro, non si riduce a dato archeologico erudito, ma, recuperata oltre consolidali fraintendimenti, perfino sconcerta per la sua parlante attualità.


Le idee, i numeri, l’ordine. La dottrina della «Mathesis universalis» dall’Accademia antica al Neoplatonismo, Bibliopolis, 2010.


‘Prospettive’ del gioire e del soffrire nell’etica di Platone, I ed., Edizioni Università di Trieste, 2011


Pietra filosofale della salute. Filosofia antica e formazione in medicina, QuiEdit, 2011

Il volume rielabora i contributi offerti da una filosofa nell’arco di sei anni ad operatori sanitari (medici e infermieri). I testi meditati sono tratti per lo più dal pensiero antico e mostrano come vi si trovi materia proficuamente utilizzabile anche nell’approccio a problemi odierni. Sono trattate anzitutto le nozioni di ‘salute’ e ‘cura’ e quella di una distribuzione equa del bene stesso ‘salute’; si riflette poi sull’impiego in campo sanitario della ‘narratività’ (medicina narrativa) e sui problemi del dolore e della morte. Il volume, diretto non solo ad addetti ai lavori (filosofi od operatori sanitari), documenta una ‘pratica filosofica’: cioè l’impiego di testi e nozioni propri della filosofia antica in un campo – quello della salute, del dolore e della stessa morte – che ci coinvolge tutti in modo profondo e dove occorre oggi riguadagnare un modo dell”esser sani’ e dello stesso ‘darsi cura’ non declinabili in senso solo tecnologico.


Prospettive del gioire e del soffrire nell’etica di Platone, Mimesis, 2013


Virtù, felicità e piacere nell’etica dei Greci, Aemme, 2014


Il dialogo socratico. Fra tradizione storica e pratica filosofica per la cura di sé, Mimesis, 2018

Il dialogo è oggi rinvio costante di varie discipline umanistiche e perno di molte delle cosiddette pratiche filosofiche. Frequente è anche il rinvio, da parte di autori e filoni odierni, a “Socrate” come testimone di una “modalità dialogica del comunicare”, creduta oggi più che mai necessaria e utile. Si cerca qui anzitutto di verificare in modo non generico, ma preciso, che cosa si possa intendere per “dialogo” rinviando sia alla nascita, tra fine V e inizio IV sec. a.C., del genere letterario del “sokratikòs lògos”, cui gli stessi Dialoghi platonici appartengono, sia a filoni novecenteschi che fanno perno o sul dialogo (pensiero dialogico) o sul ‘metodo socratico’ (scuola nelsoniana) o sullo scambio dialogico stesso (Morineau e teoria della mediazione). Son poi ripresi alcuni dei ‘Socrate’ del ‘900, soprattutto di quei pensatori (Arendt, Patocka, Hadot, Nussbaum) che, da punti di vista e con intenti diversi, valorizzano il metodo dialogico, come espressione propria della natura umana, metodo del ragionare filosofico o mezzo di una formazione democratica. Nella II parte (“Esercizi dialogici”) son esaminati e meditati 20 passi centrali dei Dialoghi platonici, nella presupposizione – se ne sia conscio no – che sia stato e sia tuttora “il Socrate di Platone” a far storia in filosofia. Si cerca per tale via di rispondere ad alcune domande di ricerca: quanto e cosa sappia chi interroga nel dialogo socratico; per quale ragione, per quale fine e con che tipo di domande lo faccia; quali effetti cognitivi ed emozionali inducano nell’interlocutore il domandare e confutare; se vi sia e quale sia la differenza fra pensare e dialogare; quale sia l’esito finale del dialogo. Ciò non solo per chiarire (storicamente) come operasse il dialogo socratico originario, sciogliendo consolidati fraintendimenti in merito, ma anche (teoreticamente) per mostrarne l’attualità quale “pratica filosofica per eccellenza”, da potersi iniziare proprio meditando i testi – quelli dialogici di Platone – che ne fecero non per caso la propria base: non solo letteraria, ma “filosofica”.


Curare le emozioni, curare con le emozioni, Mimesis, 2020

Il libro è dovuto a filosofi, psicologi, sociologi e pedagogisti del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Verona: seguendo le linee di ricerca dipartimentali e riprendendo le emozioni, tema già assai trattato in sede internazionale e nei singoli campi di ricerca, essi avviano qui un nuovo studio interdisciplinare, paragonando linguaggi, problemi, metodi, soluzioni. Focus è riprendere le emozioni, positive e negative, e approfondirne i modi di possibile “regolazione” o “governo” entro la “cura”, di sé e dell’altro. Il tema suppone questioni complesse, ancora discusse: anzitutto che una simile postura di cura esiga un impegno non solo razionale, ma anche emotivo; e, prima ancora, che un’emozione sia non soltanto passivamente subita (secondo il suo archetipo linguistico, pàthos, da pàschein), ma anche attivamente esperita e dunque trasformabile, in quantità e qualità. Che di curar se stessi, l’altro, il mondo si possa anche “coltivare la passione”.


Filosofi sempre. Immagini dalla filosofia antica, QuiEdit, 2021


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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