Salvatore Bravo, Lo studio di Luca Grecchi sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione./Letture.org, Intervista a L. Grecchi: «Come può esserci una filosofia prima della filosofia?».


A seguire:
Introduzione di Daniela Lefèvre-Novaro
Sommario del volume
Intervista a L. Grecchi: 5 domande all’autore da parte di Letture.org.

Salvatore Bravo

Lo studio e la ricostruzione storica di Luca Grecchi
sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione

 

Verità e bene nella pratica filosofica

Vi sono studiosi che non si adattano alle mode accademiche, ma sono fedeli al loro destino. Praticare la filosofia significa avere la chiarezza del fine della stessa. La filosofia è scienza della verità, è attività veritativa che soppesa le opinioni con la forza dialogica delle argomentazioni per uscire dalla palude del conformismo nichilistico. Il presente ci offre un numero notevoli di studiosi, anche di valore, che si sono cadavericamente adeguati alla filosofia nella forma dell’epistemologia o del multiculturalismo. Spesso tali scelte – che negano la filosofia nel suo senso più profondo e nella sua tradizione più antica – sono dovute a pressioni culturali e sociali. In questo contesto gli studiosi che si sottraggono all’omologazione rassicurante sono preziosi, perché ci rammentano il fine autentico della filosofia e ci ricordano che adeguarsi è una scelta: è sempre possibile intraprendere la via più difficile.
La filosofia vive nei filosofi, per cui essa è sempre ad un bivio in cui bisogna scegliere se intraprendere la via dell’opinione o la via della verità. Luca Grecchi è in cammino sul sentiero della verità e le sue pubblicazioni testimoniano il suo percorso. Il suo ultimo testo, La filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C.-Magna Grecia, VIII secolo a.C. (Morcelliana, Brescia 2022) non è una semplice ricostruzione genetica della filosofia, quale pratica della verità nel rispetto della natura comunitaria degli esseri umani. La filosofia difende la buona vita e il bene testimoniandoli, per cui la ricostruzione storica di Luca Grecchi sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione. Il presente è senza speranza, la categoria della necessità regna, per cui l’attuale modello economico e sociale è giudicato come unico e senza alternative. Luca Grecchi attraverso l’analisi documentata degli albori della filosofia nella società cretese palesa che il presente è esperienza storica non assoluta, e specialmente, il futuro è condizione di possibilità progettante, solo se ci si rivolge al passato per esplorare modelli sociali ed economici nei quali il fine è il benessere dell’essere umano e non il profitto. Per mettere in atto tale prassi è necessario porre al centro la filosofia. Essa è analisi critica della totalità: il metodo dialettico concettualizza la totalità per saggiarne la qualità. Senza l’esame critico della totalità il presente si eternizza negando la prassi e la responsabilità etica e storica dell’essere umano:

«La filosofia, infatti, si occupa principalmente di due contenuti, ossia la verità e il bene, di cui nessuna altra scienza si occupa».[1]

La filosofia ha il compito – che si storicizza nel tempo – di porre un argine alla deriva crematistica, nella quale l’essere umano è solo un mezzo per il profitto e non un fine. Se si vive in una totalità in cui si è solo degli enti da consumare e usare all’occorrenza, l’infelicità e l’alienazione sono generali. La filosofia è anche pratica politica, non è l’anima bella che si rifugia nella turris eburnea dell’astratto, ma è concretezza etica sin dalle origini:

«Nell’VII secolo, dunque, la crematistica ricerca del vantaggio privato, era già presente nei processi dominanti della riproduzione sociale della realtà cittadina. Vi era tuttavia la consapevolezza che essa andava tenuta a freno dalle strutture pubbliche della nascente polis. Al crescere della pervasività della crematistica sul piano sociale cercarono infatti di rispondere le strutture politiche della polis, e, poco dopo, le strutture culturali della philosophia».[2]

 

Civiltà cretese e comunitarismo

L’essere umano per natura è comunitario. Anche l’attuale individualismo presuppone la comunità, solo che essa è intesa e vissuta come mezzo e non come fine. L’individualismo comporta la cattiva vita, poiché l’alterità è uno strumento per soddisfare necessità e per estorcere profitto. La filosofia fa emergere la verità del contesto storico per compararlo al bene, ovvero alla comunità in cui l’essere umano è il centro disinteressato di ogni attività e non una semplice comparsa in funzione del profitto. Non bisogna cadere nella trappola di coloro che affermano che la pianificazione comunitaria dell’economia sia possibile solo vi è una società poco sviluppata.
Luca Grecchi palesa la differenza tra la civiltà cretese e le civiltà orientali, in cui vigeva la gerarchizzazione del potere e la comunità era asservita al potere della casta sacerdotale. Condizioni storiche simili possono sviluppare diversi modelli politici. A tal fine la filosofia è fondamentale, poiché il comunitarismo presuppone una adeguata riflessione teoretica. L’architettura della civiltà cretese comporta una visione dell’essere umano e della totalità in cui è implicato. Il fine è il bene di tutti, pertanto l’economia non è crematistica e saccheggio dell’altro, ma equa distribuzione dei beni conservati nei magazzini di stoccaggio. La centralità è il cortile, spazio aperto in cui si svolgono le attività sociali ed in cui si impara la condivisione e la si organizza:

«Il cortile centrale inoltre rappresenta il cuore dei Palazzi cretesi, in quanto fu verosimilmente il luogo della comunicazione politica e della distribuzione economica dei beni, dunque il luogo fondamentale della comunità».[3]

L’architettura non è neutra, ma è l’oggettivazione della teoretica che guida la comunità. L’architettura ha la prima radice nel sostrato silenzioso ed essenziale della visione del mondo di una civiltà. Se guardiamo all’urbanistica delle nostre città (con la privatizzazione di ogni spazio), non è difficile dedurre che è l’interesse privato a condurre ogni azione e a determinare l’isolamento atomistico che deprime le energie creative e plastiche di ogni cittadino. Nella civiltà minoica la centralità del cortile è il segno della consapevolezza che il benessere dev’essere di ognuno, altrimenti non vi è che lotta e “animalizzazione indotta” dell’essere umano:

«Non vi è dubbio, insomma, che i Palazzi minoici siano stati strutture polifunzionali, ospitanti sia attività economiche che assemblee civili, sia feste sportive che cerimonie religiose. Ciò nonostante, la funzione primaria di tali Palazzi – la funzione essenziale – rimase quella economico-politica di coordinamento della pianificazione produttiva-distributiva dei beni necessari alla vita».[4]

 

La comunità come esperienza e aspirazione non cointingente

La fine della civiltà minoica non ha comportato la scomparsa nel nulla dell’esperienza cretese, ma essa rivive in taluni aspetti nella civiltà omerica, pur in condizioni storiche molto modificate e diverse. Non a caso nei testi omerici ritroviamo due parole (idion e demion) che segnalano la prevalenza etica e qualitativa del pubblico-comunità sul privato. L’idion è colui che si dedica solo ai propri interessi privati, per cui rompe il vincolo solidale con la comunità tutta:

«L’utilizzo dei termini idion e demion per indicare privato e pubblico era, del resto, già frequente nei poemi omerici, a riprova di una riflessione su questi temi che non poteva essere acerba».[5]

La società omerica, pur bellicosa, conserva la condivisione comunitaria; non a caso i guerrieri pongono al centro (es meson) il bottino per dividerlo. Il mettere al centro è un residuo vivo del passato che non trascorre, è il germe che sarà pensato e porterà alla polis. L’esperienza cretese non scompare con la civiltà minoica, ma la si ritrova ripensata nelle diverse condizioni storiche nelle civiltà geograficamente limitrofe. Nella polis si ha l’espressione massima di tale visione comunitaria, poiché la città è organizzata per il dialogo comunitario, per cui gli spazi pubblici sono la manifestazione della chiarezza concettuale del bene che deve integrare la città con la natura e gli dèi:

«Oltre alla pianificazione degli spazi pubblici (edifici, piazze, santuari, necropoli, ecc.) e degli spazi privati (ripartizione della terra urbana e agricola, ecc.), la progettualità originaria delle apoikiai prevedeva che, nel territorio, ampi spazi dovessero sempre rimanere di uso comune. Si tratta dei cosiddetti saltus, ovvero spazi agricoli occupati dalle foreste e dalle estensioni di altura, necessari per il pascolo estivo, il legname e la caccia. Inoltre, in pressoché tutte le poleis di Magna Grecia e Sicilia erano sempre assicurate le cosiddette “aree di rispetto”, definibili come aree libere situate a ridosso delle mura urbane, disponibili per vari utilizzi comunitari».[6]

Il percorso che dalla civiltà cretese porta alla polis è un messaggio che giunge fino a noi e ci invita a guardare, pensare e vivere il presente con lo sguardo della civetta che è in ogni essere umano:

«L’uomo ha necessità di vivere bene, e per ottenere questo risultato deve costituire all’interno della physis, ossia della realtà che lo ospita, un contesto comunitario in cui realizzare un’esistenza armonica, caratterizzata da rispetto e cura verso sé stesso, gli altri uomini, la natura e il divino».[7]

Leggere il testo di Grecchi è esperienza teoretica, poiché ci conduce con il suo stile discreto a riscoprire il passato per comprendere il presente, in modo da riportare la possibilità della prassi dove vige l’annientamento del solo profitto.

Salvatore Bravo

***

[1] Luca Grecchi, La Filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C.-Magna Grecia, VIII secolo a.C., Scholé Morcelliana, Brescia 2022, pag. 15.
[2] Ibidem, pag. 116.
[3] Ibidem, pag. 73.
[4] Ibidem, pag. 89.
[5] Ibidem, pag. 115.
[6] Ibidem, pag. 135.
[7] Ibidem, pag. 156.





Intervista  pubblicata il 18 gennaio 2022 su “Letture.org


  • Prof. Luca Grecchi,
    Lei è autore del libro La filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C. – Magna Grecia, VIII secolo a.C. edito da Morcelliana: come può esserci filosofia prima della filosofia?


La domanda è legittima, e la risposta doverosa. Il libro inizia infatti spiegando questo titolo strano, il che si può fare grazie alla coppia concettuale potenza/atto, tematizzata per la prima volta da Aristotele. Detta in modo semplice, la filosofia è un’attività che esiste da sempre in potenza nell’uomo, dato che, per natura, l’uomo – sintetizzo qui le tre caratteristiche essenziali che a mio avviso definiscono la filosofia – necessita, per realizzarsi compiutamente: a) di rapportarsi all’intero, ricercandone il senso; b) di conoscere con verità, agendo per il bene; c) di relazionarsi dialetticamente alla realtà, ponendosi continuamente domande e cercando di formulare risposte, a loro volta da vagliare. Posto che in potenza la filosofia esiste da sempre nella natura umana, essa ha tuttavia iniziato ad esistere in atto solo in un certo luogo ed in un certo momento – poi vedremo dove e quando –, poiché solo in quel luogo ed in quel momento si sono per la prima volta verificate le condizioni, naturali e sociali, favorevoli alla sua nascita.

Cerco di spiegarmi con un esempio. Un uomo e una donna, per natura, hanno sempre in potenza, se si uniscono, almeno in un certo periodo del loro ciclo vitale, la possibilità di procreare. Affinché la procreazione non resti una potenzialità ma si realizzi in atto, occorrono però molte condizioni (che l’uomo e la donna siano fecondi, che vi sia fra loro un’attrazione, che l’interazione della loro genetica non ostacoli la formazione del feto, ecc.). Nel caso mio e di mia moglie, già nei primi giorni dopo il concepimento di nostra figlia Benedetta, si erano verificate queste condizioni, senza che lo sapessimo. Benedetta c’era già, insomma, ma ancora non eravamo consapevoli della sua esistenza. Allo stesso modo, in base a quanto cerco di argomentare nel libro, a partire almeno dalla Creta palaziale del XX secolo a.C., la filosofia in un certo senso c’era già – per quanto non ancora compiutamente formata –, anche se non se ne conosceva l’esistenza; ciò in quanto le sue tre caratteristiche essenziali, che ho poco sopra sintetizzato, cominciarono a formarsi proprio in quel momento ed in quel luogo.

L’obiezione prevalente, tuttavia, che riceverò dagli storici della filosofia antica, immagino si condenserà nella seguente domanda: non è eccessivo andare indietro di 15 secoli nel ricercare l’origine della filosofia rispetto a quanto normalmente si fa, dato che la nascita della stessa è solitamente attribuita al VI-V secolo, coi Presocratici e con Platone? A questa domanda risponderei nel modo seguente: è eccessivo solo in rapporto a quello che si è finora fatto. Così, tuttavia, come non è eccessivo per un neonatologo analizzare un neonato facendo riferimento a tutte le condizioni biologiche del concepimento, all’intero periodo della gestazione e in generale alle varie fasi del processo procreativo, anziché partire solo – come si faceva una volta – dal momento della sua nascita, per lo stesso motivo non è eccessivo, a mio avviso, studiare la filosofia facendo riferimento alle condizioni originarie del suo concepimento, a tutto il periodo della sua gestazione e in generale alle varie fasi della sua “procreazione”. Indubbiamente, con la filosofia si parla di 15 secoli anziché di 9 mesi, e di un processo che riguarda molte generazioni anziché pochi individui, il che rende tutto più complesso. Penso però che sia doveroso considerare tale processo nella sua interezza: dalla cultura minoica del XX secolo alla cultura classica del V secolo vi è una continuità, che nel testo è mostrata in vari modi, la quale deve essere valutata compiutamente se si desidera comprendere in maniera adeguata la nascita della filosofia.

Nel volume ho utilizzato ripetutamente una analogia vegetale – poco fa ho usato quella umana –, assimilando la filosofia a una piantina, uscita dal terreno nel VI-V secolo, e di cui, al massimo, è stata ipotizzata l’esistenza di radici un paio di secoli prima, con la poesia di Omero. La cultura omerica, tuttavia, dipende strettamente dai cosiddetti “secoli oscuri” che l’hanno preceduta (XI-IX), i quali sono, a loro volta, la risultanza del crollo dei regimi micenei (XVII-XII), che ebbero come modello – per quanto senza assimilarne compiutamente la cultura – proprio la civiltà minoica cretese (XX-XV). Possibile, alla luce di quanto ho qui sintetizzato, continuare a studiare la piantina della filosofia considerando solo, al più, i 2 centimetri (secoli) delle sue radici fino a Omero, quando è assai verosimile, per i legami ora esposti, che esse siano lunghe almeno 15 centimetri (secoli) fino a Creta? Mi sembra semplicemente che finora, siccome è molto difficoltoso scavare in profondità, si sia scavato solo in superficie, o spesso addirittura non si sia scavato, essendosi limitati – me compreso – a studiare solo la parte della piantina fuoriuscita dal terreno (ossia la filosofia quando ha iniziato ad essere nominata, coi Presocratici e con Platone), riducendo però di molto, in questo modo, le possibilità di comprensione della stessa.

Mi conceda un’ultima analogia – di quelle che fanno sorridere gli studenti a lezione –, stavolta di genere animale, per par condicio con quelle umana e vegetale utilizzate prima. In una gita ad un parco zoologico di qualche anno fa con mia figlia, ho appurato che la lunghezza delle gambe di una giraffa adulta è di circa 150 centimetri. Sarebbe ben rappresentata, a suo avviso, una giraffa con solo 20 centimetri di gambe? Senza considerare i secoli di cui si occupa questo libro, la filosofia rimane disegnata come una giraffa con le gambe di 20 centimetri. Per quanto la parte più importante di una giraffa sia verosimilmente costituita dal tronco e dal collo, con le gambe così corte essa non è raffigurata in maniera corretta. Ciò nonostante, da secoli, continuiamo a rappresentare la filosofia in questo modo, con tutto quello che ne consegue. Nel libro mostro in merito che molti errati luoghi comuni sulla nascita della filosofia (ad esempio il suo presunto sorgere nelle “colonie”, senza che si specifichi bene questo termine), si originano proprio a causa della mancata analisi delle sue condizioni di base. Per questo motivo ritengo che i futuri manuali di Storia della filosofia dovrebbero essere integrati, nelle loro prime pagine, non col contenuto di questo libro, ma col contenuto di questi secoli. Nutro tuttavia, in merito, poche speranze: lo specialismo accademico non accetta di aprirsi a novità così grandi. La mia proposta sarà per lo più considerata come il testo eccentrico di uno studioso “originale”; o, ancor più probabilmente, sarà ignorata.


  • In che modo, nel XX secolo a. C., a Creta ebbe inizio
    il processo che condurrà alla costituzione della polis
    e alla fioritura della philosophia?


Creta è un’isola grande circa come le Marche, più o meno equidistante fra l’Europa, l’Asia e l’Africa. Per la sua bellezza, fin dal Neolitico, fu abitata da popoli diversi, non esclusivamente da gente ellenica. Solo nel seguito la sua grande civiltà, grazie anche alla mediazione micenea, plasmò la cultura ellenica costituendone la matrice originaria. Lei mi chiede però, giustamente, come sia stato possibile, a partire dai primi insediamenti organizzati dell’Età del Bronzo, giungere progressivamente fino alla costituzione delle poleis ed alla successiva fioritura della philosophia, che è effettivamente un prodotto delle poleis elleniche.

Ebbene, pensi alle tre caratteristiche essenziali della philosophia cui abbiamo accennato sopra: il rivolgimento all’intero; la ricerca della verità e del bene; l’approccio dialettico alla realtà. Pensi a una situazione originaria, in cui vari gruppi di persone vennero ad abitare diverse parti dell’isola cercando di costituire aggregati stabili in cui vivere in maniera armonica. Come ragionarono e come agirono questi gruppi? Essendo nuclei comunitari, come lo sono quasi sempre i nuclei che viaggiano cercando di formare contesti abitativi permanenti, essi in sostanza seguirono – naturalmente senza esserne consapevoli – i tre orientamenti costitutivi della philosophia: a) si rapportarono all’intero, ossia alla natura (scelta di un luogo con corsi d’acqua potabile, con la giusta vicinanza al mare, con luoghi coltivabili nelle vicinanze, ecc.), al divino (scelta dei riti più adatti ad unire la comunità, a rispettare tutte le divinità care ai rispettivi gruppi, a garantire l’armonico svolgimento della vita sociale, ecc.) e all’umano (scelta di modalità economiche comunitarie, di una legislazione attenta alle esigenze di tutti, delle modalità migliori per favorire le espressioni culturali, ecc.). In questo modo essi realizzarono anche, implicitamente, b) una ricerca della verità e del bene, che fu posta in essere in un continuo confronto, ossia c) in maniera dialettica.

A Creta, insomma, rispetto alle coeve civiltà orientali, molto più gerarchiche, autoritarie e dogmatiche, si crearono forse i primi contesti cittadini comunitari di cui abbiamo notizia, i quali scelsero – verosimilmente, per quanto ho potuto ricostruire – di organizzare la loro vita sociale in maniera pianificata, in maniera tale che ognuno potesse dare in base alle proprie capacità e ricevere in base ai propri bisogni. Una simile pianificazione comunitaria, organizzata nei famosi Palazzi, adottata peraltro in tutte le principali città dell’isola, non poté prescindere da una grandiosa elaborazione culturale e da una rilevante condivisione politica: due condizioni essenziali che spiegano forse come, da quelle prime poleis ante litteram, iniziarono ad essere inseriti nel terreno, a mettere radici e a germogliare i primi semi della philosophia.


Quali caratteristiche
presenta
la Creta palaziale?


Ho poco fa parlato di Palazzi, ma non dobbiamo pensare – come pure i primi archeologi scopritori degli stessi, fra cui Evans, hanno lasciato intendere – a qualcosa di simile ai palazzi reali di Versailles. I cosiddetti Palazzi, nelle città minoiche, erano infatti costruzioni molto ampie in cui avevano sede le istituzioni politico-religiose-culturali della città, così come diverse attività produttive. Essi erano in effetti più simili a veri e propri quartieri, in cui erano svolte le attività economico-sociali fondamentali relative alle necessità della vita, fra cui in primo luogo lo stoccaggio e la distribuzione delle risorse alimentari, nonché l’organizzazione – la scrittura nacque verosimilmente a Creta con questo fine – della pianificazione. Erano Palazzi senza mura, aperti alla cittadinanza, non arroccati in difesa del potere. Nonostante l’immaginario collettivo pensi al mitico Minosse come ad un monarca imperialista, l’iconografia rimasta non mostra mai, a Creta, re in posizioni dominanti e sudditi con la testa bassa, come spesso accade nelle coeve civiltà orientali; mostra anzi spesso gruppi di persone felici con la testa alta. L’archeologia conferma peraltro l’iconografia, con situazioni abitative, nei nuclei urbani, tutte fra loro piuttosto omogenee. Si tratta, come dico più volte nel libro, soltanto di indizi (qui ne ho indicati alcuni), ma se tre indizi fanno una prova, nel libro ci sono anche alcune prove.


In mancanza di documenti scritti,
su quali elementi
si basa il Suo studio


Altra domanda doverosa. Mi si potrebbe infatti giustamente chiedere: essendo lei uno storico della filosofia antica – peraltro un po’ anomalo, dato che si occupa anche di filosofia morale e di filosofia teoretica –, cosa ne sa di queste civiltà anteriori ad Omero, di cui restano poco più che le pietre? Naturalmente, mi sono a lungo documentato prima di scrivere questo libro, come la bibliografia citata dimostra. Non solo: ho anche importunato, per diverso tempo, archeologi, storici, orientalisti, ecc., nella convinzione che il sapere non sia caratterizzato da compartimenti stagni. In tal senso, devo ringraziare in modo particolare due archeologi assai interdisciplinari, quali la Professoressa Daniela Lefèvre-Novaro, dell’Università di Strasburgo e il Professor Massimo Cultraro, dell’Università di Palermo, che mi hanno fornito molte utili indicazioni ritenendo, alla fine, plausibile la mia interpretazione.

Queste epoche in effetti, su cui non ci sono fonti scritte dirette – la cosiddetta Lineare A, nonché le altre scritture geroglifiche minoiche, non sono ancora state completamente decifrate; inoltre, il totale dei testi minoici di cui disponiamo ammonta a poche pagine di un attuale libro –, devono necessariamente essere indagate in maniera interdisciplinare. Occorre infatti saper mettere insieme i pezzi scoperti dai singoli specialisti, per arrivare a delineare un quadro coerente di una civiltà così meravigliosa come quella minoica. Questa attività però, oggi, la fanno ormai in pochi. I processi selettivi dell’Università obbligano in effetti ad uno specialismo estremo, tanto che se ci si lascia risucchiare dagli stessi si finisce con lo studiare una sola tesserina del mosaico per tutta la vita, senza andare oltre. Eppure, ci vuole sempre qualcuno che tenti di mettere insieme le tessere, se si desidera avere una immagine complessiva del mosaico.


  • In che modo l’indagine sugli albori della riflessione filosofica
    ci aiuta a comprendere il senso di un fine
    che la filosofia contemporanea sta progressivamente smarrendo?

Questa domanda finale è molto bella, perché condensa veramente il significato che attribuisco a tanti anni di libri e di insegnamento. Indagando le culture antiche, ho sempre cercato di far risaltare il valore comunitario della filosofia, che è appunto una ricerca comune della verità dell’intero, svolta in comune per favorire il bene comune. Il fine del fare ricerca, in filosofia, deve sempre essere l’affrontare problemi importanti per trovare soluzioni importanti, dunque anche modelli di riferimento validi. La Creta minoica, in base a quanto argomento nel libro, rappresenta un possibile paradigma di società comunitaria, pianificata in maniera armonica, in cui a nessuno mancava il necessario, la natura era rispettata e ciascuno partecipava liberamente al processo della riproduzione sociale complessiva. Non abbiamo bisogno, oggi, di un modello simile, vivendo in un modo di produzione che, strumentalizzando tutto al fine del profitto, non rispetta né gli uomini né la natura, mettendo in pericolo la stessa sopravvivenza del pianeta e lasciando nella infelicità centinaia di milioni di persone? 

Sono assolutamente consapevole dei limiti della mia ricerca filosofica, che è “roba minima”, come direbbe Enzo Jannacci. Finché, tuttavia, mi sembrerà di essere almeno un poco utile in questa direzione, continuerò a scrivere; quando capirò di non esserlo più, impiegherò la mia vita in maniera diversa, per quanto sempre con lo stesso fine.

****

Luca Grecchi insegna per le cattedre di Filosofia morale e di Storia della filosofia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Leggere i Presocratici (Morcelliana, 2020) e tre volumi della collana Questioni di filosofia antica (Edizioni Unicopli): Natura (2018), Uomo (2019) e Ricchezza (2021). Con l’editore Petite Plaisance ha curato tre importanti volumi collettivi: Sistema e sistematicità in Aristotele; Immanenza e trascendenza in Aristotele; Teoria e prassi in Aristotele (rispettivamente 2016, 2017 e 2018).

Luca Grecchi – Alcuni suoi libri


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Baruch Spinoza (1632-1677) – L’uomo libero, cioè colui che vive sotto la sola guida della ragione, non è guidato dalla Paura della morte, ma desidera direttamente il bene; perciò a nulla pensa meno che alla morte e la sua saggezza è una meditazione della vita.

Proposizione LXVII

L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte;
e la sua saggezza è una meditazione della vita, non della morte.
L’uomo libero, cioè colui che vive sotto la sola guida della ragione, non è guidato dalla Paura della morte, ma desidera direttamente il bene, cioè agire, vivere, conservare il proprio essere […]; perciò a nulla pensa meno che alla morte e la sua saggezza è una meditazione della vita.

Baruch Spinoza, Etica, in Id., Etica e Trattato Teologico-politico, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Utet, Torino 1980, p. 325.


Baruch Spinoza (1632-1677) – La via che conduce al vero compiacimento dell’animo sembra estremamente difficile, può tuttavia essere trovata. E arduo, in verità, deve essere ciò che tanto raramente si trova. Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare
Baruch Spinoza (1632-1677) – All’uomo niente è più utile dell’uomo. Da questo segue che gli uomini, che siano guidati dalla ragione, cioè quelli che ricercano il proprio utile con la guida della ragione, non bramino per sé niente che non desiderino anche per gli altri, e perciò sono giusti, onesti e fedeli.
Baruch Spinoza (1632-1677) – La Letizia è il passaggio dell’uomo da una minore ad una maggiore perfezione. La Tristezza è l’atto del passare ad una minore perfezione, cioè l’atto dal quale la potenza di agire dell’uomo viene diminuita o ostacolata.
Baruch Spinoza (1632-1677) – Di che cosa sia capace il Corpo, non è stato ancora definito da nessuno. Non sanno di che cosa il Corpo sia capace, e ciò che si possa dedurre dalla sola osservazione della sua propria natura.
Baruch Spinoza (1632-1677) – In quanto concepisce le cose secondo il dettame della ragione, la mente risente egualmente della sua idea tanto se questa sia l’idea di una cosa futura o passata, quanto se sia l’idea di una cosa presente
Baruch Spinoza (1632-1677) – Agire per virtù è agire sotto la guida della ragione. Tutto ciò che ci sforziamo di fare con la ragione è comprendere. Il sommo bene dell’uomo è comune a tutti, proprio perché ciò si deduce dalla stessa essenza umana.
Baruch Spinoza (1632-1677) – Il fine dello Stato non è di dominare gli uomini né di costringerli col timore a sottomettersi, né di convertire in automi esseri dotati di ragione, ma al contrario di far sì che la loro mente e il loro corpo possano con sicurezza  esercitare le loro funzioni, ed essi possano servirsi della libera ragione. Il vero fine dello Stato è, dunque, la libertà.

 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ideali di Comunità. Un genuino e armonioso contatto tra persone umane genuine e armoniose: una condizione del mondo in cui gli uomini possano conoscersi e amarsi, in cui cultura e civiltà non ostacolino l’evoluzione intima dell’uomo.

Il volto di Hannah (Paulette Goddard) che guarda in alto con risorgente speranza,
nelle bellissime immagini finali di The Great Dictator (Il Grande Dittatore),
scritto, diretto e interpretato da Charlie Chaplin, 1940:
«Guarda in alto Hannah! L’animo umano troverà le sue ali …».


Sommario




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Enrico Berti ci ha lasciato. Un ricordo filosofico ed umano di Luca Grecchi

ENRICO BERTI. UN RICORDO FILOSOFICO ED UMANO

 

di Luca Grecchi

 

Con Enrico Berti ci ha lasciato il 5 gennaio 2022 uno dei maggiori storici della filosofia, in particolare del pensiero di Aristotele, nonché uno dei pochi filosofi rimasti, in grado di argomentare in maniera chiara, solida ed originale importanti posizioni teoretiche, illuminando insieme la cultura antica e la realtà del nostro tempo.

Per un bilancio complessivo della sua opera molti saggi, nei prossimi mesi, seguiranno; io stesso sono stato subito incaricato, dalla rivista Humanitas, di redigere un suo profilo. Quanto mi preme fare ora però, nella immediatezza della notizia della sua morte, è realizzare un piccolo ricordo personale, un po’ per consolarmi della perdita di un amico, e un po’ per mettere in risalto, per quanto in maniera sintetica, il valore dello studioso e della persona. Sono felice, peraltro, di avere ricordato più volte a Enrico, negli ultimi tempi, quando si lamentava delle sue peggiorate condizioni di salute – cosa che con gli amici più giovani, per pudore, non faceva – l’importanza di ciò che aveva realizzato nella sua vita, sia come pensatore che come educatore, essendo egli stato un costante sostegno ed un esempio per molte generazioni di studiosi. Per far capire la sua enorme disponibilità anche solo verso gli studenti, rammento semplicemente l’orario di ricevimento affisso sulla porta del suo ufficio all’Università di Padova, quando lo incontrai per la prima volta nel 2002: lunedì, martedì, mercoledì e giovedì dalle 8,30 alle 12! Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro.  

Il mio rapporto con Berti iniziò appunto nel 2002, quando gli spedii una copia del mio primo libro, L’anima umana come fondamento della verità. Berti, con il consueto approccio dialettico, non si lasciò raffreddare dal fatto che in quel libro esprimevo alcune critiche, peraltro eccessive, alla sua interpretazione di Aristotele. Seppe anzi valorizzare il contenuto teoretico del testo, iniziando con me un dialogo, praticato soprattutto in forma scritta, durato fino ai suoi ultimi giorni di vita, quando ancora stava concludendo un saggio che spero si possa recuperare. Uomo di rara dolcezza, Berti era persona schiva e riservata, con cui non era facile entrare in confidenza. Siamo passati al “tu” solo dopo oltre dieci anni di intensi scambi epistolari, e solo dopo sua richiesta (io non mi sarei permesso, tale era per me l’autorevolezza della sua figura).

La prima nostra occasione pubblica di incontro fu a Padova, nel 2006, quando presentammo insieme, alla facoltà di Filosofia, la riedizione del libro del suo maestro Marino Gentile intitolato La metafisica presofistica, nella collana da me diretta presso Petite Plaisance, con introduzione proprio di Berti. Ricordo che in quella occasione, alla presenza dei più importanti docenti della Facoltà, Enrico mi introdusse – con onore assolutamente immeritato – non come semplice “studioso”, bensì addirittura come “filosofo”, con parole che mi imbarazzarono molto (ma che furono verosimilmente da lui dette, al contrario, per togliermi dall’imbarazzo di essere, allora, un “giovane non accademico” che veniva a parlare ad accademici in una delle più prestigiose Università italiane); mi definì appunto “giovane filosofo non accademico, perché non è necessario essere in Università per essere filosofi; anzi, talvolta, per potere fare ricerca ed esprimersi più liberamente, è meglio non esserlo, come dimostra il dottor Grecchi”.

Fu per me un grande complimento, in quanto Berti era persona che pesava le parole, non solo in pubblico. Rare sono state infatti anche le sue introduzioni a libri di altri studiosi, per cui sono davvero felice che ne abbia realizzate addirittura due a miei libri; in particolare, al libro-dialogo da me composto con Carmelo Vigna, Sulla verità e sul bene (Petite Plaisance, 2011). In quella occasione la posizione della metafisica umanistica – la mia posizione teoretica – venne da Berti considerata “su un piano di parità” (pag.7) nel confronto dialettico con la metafisica classica, che pure costituiva la posizione sua e di Vigna.

Sempre nel 2006 Berti pubblicò, ancora presso Petite Plaisance, un suo libro importante, Incontri con la filosofia contemporanea, con mia postfazione. Replicò nel 2019 con un altro volume, Scritti su Heidegger, anche per testimoniare la sua vicinanza alle meritorie iniziative di Petite, nonostante mi abbia confessato che, come proprio editore di riferimento, per la sua storia secolare e le sue radici cattoliche, egli aveva sempre considerato Morcelliana.

Il ricordo più bello del mio rapporto con Berti è, in ogni caso, la realizzazione del libro-dialogo A partire dai filosofi antichi (Il Prato, Padova, 2008), che ci coinvolse in discussioni appassionanti per alcuni giorni, ed in cui emerse una sua forte convergenza con la interpretazione umanistica della filosofia greca che avevo proposto in alcuni libri precedenti (pagg.29-35), oltre che su altri argomenti. Il volume fu peraltro presentato in una splendida sala del Municipio di Padova nel 2010, in cui improvvisammo un dialogo su molti temi che, anche a distanza di tempo, mi pare davvero perfettamente riuscito.  

Sempre per quanto riguarda le iniziative comuni, sono contento di avere preso parte in quegli anni, insieme ad un altro grande studioso scomparso, Mario Vegetti, alla bellissima collana Autentici falsi d’autore, diretta da un altro amico, Giovanni Casertano, per la casa editrice Guida di Napoli. Berti realizzò, naturalmente, il “falso Aristotele”, Vegetti il “falso Platone” e io, indegnamente, il “falso Socrate”. 

Una grande occasione di arricchimento è stata poi, per me, la stesura di quella che è, ad oggi, l’unica monografia esistente sulla sua opera, Il pensiero filosofico di Enrico Berti (Petite Plaisance, 2013), con presentazione di Carmelo Vigna e postfazione dello stesso Berti. Con Vigna e Berti abbiamo peraltro condiviso lunghi periodi di intensi scambi epistolari, soprattutto sulla metafisica, che ho accuratamente raccolto. Parecchi di questi scambi emergono, in controluce, nel confronto fra metafisica umanistica e metafisica classica presente in E. Berti-L. Grecchi, A partire dai filosofi antichi (pagg.89-94), nonché in C. Vigna-L. Grecchi, Sulla verità e sul bene (pagg.29-37) e in L. Grecchi, Il pensiero filosofico di Enrico Berti (pagg.75-93).

Tra il 2016 ed il 2018, infine, ho curato tre volumi aristotelici, molto importanti in quanto hanno raccolto saggi dei principali studiosi di Aristotele italiani. Berti mi ha, anche qui, sempre benevolmente accompagnato. Ciascuno di questi tre volumi (Sistema e sistematicità in Aristotele; Immanenza e trascendenza in Aristotele; Teoria e prassi in Aristotele, tutti editi da Petite Plaisance), inoltre, si apriva con una conversazione fra me e Carmelo Vigna sui temi oggetto di analisi, cui sempre è seguita la presa di posizione di Enrico sulle nostre osservazioni.

Da Berti ho imparato molto, anzi moltissimo. Fra noi vi era una distanza anagrafica di circa 40 anni, e una relativa distanza geografica; mi confidò tuttavia una volta che sarebbe stato contento se fossi stato un suo studente a Padova, poiché il nostro rapporto avrebbe potuto così essere più stretto, nonostante alcune differenze nelle vedute filosofiche.

Concludo dicendo che, alla fine del nostro libro-dialogo, A partire dai filosofi antichi, Enrico ribadì la sua fede in un possibile ritorno alla vita dopo la morte, che ascoltai con doveroso rispetto. Su tante questioni teoriche, su cui inizialmente non concordavo, ho dovuto nel tempo ammettere che aveva ragione lui: spero possa essere così anche questa volta. In ogni caso, una parola vorrei dirgliela sin da ora: “Grazie Enrico, per tutto quello che hai fatto”.

Luca Grecchi

                                                                                                        5 gennaio 2022



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Carl G. Jung (1875-1961) – Qual è l’elemento risolutivo? È sempre qualcosa di antichissimo, e proprio per questo qualcosa di nuovo, perché, quando una cosa passata da molto tempo ritorna, oggi, in un mondo mutato, è nuova. Dar vita a cose antichissime in un’epoca nuova significa creare.

«Qual è l’elemento risolutivo? È sempre qualcosa di antichissimo, e proprio per questo qualcosa di nuovo, perché, quando una cosa passata da molto tempo ritorna, oggi, in un mondo mutato, è nuova. Dar vita a cose antichissime in un’epoca nuova significa creare».

 

Carl Gustav Jung, Il libro rosso, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 217 (Liber secundus, 20)


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – L’età delle parole, ricordando Antonia Pozzi. Non dobbiamo temere i cancelli chiusi dal silenzio: abbiamo bisogno di parole di verità.

 
Salvatore Bravo

L’età delle parole, ricordando Antonia Pozzi

Non dobbiamo temere i cancelli chiusi dal silenzio: abbiamo bisogno di parole di verità
 

“Forse l’età delle parole è finita per sempre”, scrisse nel 1938 Antonia Pozzi al poeta Vittorio Sereni. Le parole di Antonia Pozzi risuonano, ora, e oggi più vere che mai. Vi è il timore che le parole non siano più il luogo topico dell’umanizzazione: hanno dismesso la loro capacità di comunicare, di mettere in comune argomentazioni e vite per capire la verità. Al loro posto vi è solo la parola usata come arma contundente per segnare la potenza di pochi e l’umiliazione di molti. Le parole non solo ci parlano, ma sono la breccia con cui l’irrazionale diviene razionale, sono la partecipazione alla vita, sono la vita nel suo dispiegarsi verso la totalità.

In questo momento storico sono soltanto il mezzo con cui si tolgono i diritti, si occultano i doveri e si alimenta la discriminazione. Il confronto dialogico è stato sostituito dal monologo ubbidiente a cui si obbedisce supinamente. L’obbedienza non è una virtù, Don Milani lo ha testimoniato!

Solo le parole riescono ad emancipare dalla sofistica del dominio. La mortificazione che molti provano è l’effetto delle parole usate come uno sperone di ferro sotto il quale schiacciare i dissenzienti: le loro parole non devono trovare spazio e tempo per apparire, ma devono essere tacitate e oltraggiate.

Assistiamo all’oltraggio delle parole, e quindi alla negazione dell’essere umano. Senza parole l’essere umano è disumanizzato, il logos è sostituito dalla scaltrezza del calcolo e dall’uso arbitrario dei significati.

Non resta che la solitudine. Il rischio è la disperazione silenziosa, poiché il furto delle parole non è un semplice saccheggio, è negazione della profondità umana e della natura dialogica che, per storicizzarsi, necessita dell’incontro. Quest’ultimo è possibile solo se la parola è la soglia nella quale e dalla quale la verità prende forma.

Senza le parole del logos non vi è che la legge del più forte: la violenza pur invisibile è legalizzata e la truffa sociale della governance ai danni della collettività diviene “normalità” e “banalità del male” che penetra nelle relazioni per saccheggiarle della corrente calda dell’incontro senza il quale non vi è pensiero, ma solo dominio.

Antonia Pozzi si è suicidata nel 1938, nell’anno delle leggi razziali. La sua tragica scelta è per noi un monito: non si può vivere senza parole e senza verità. Ella non ha resistito dinanzi all’apparir del vero, come la giovane Silvia (nella parola poetica di Leopardi). Dobbiamo ricordare la sua morte e la cornice in cui è avvenuta per non cedere alla violenza dei nostri giorni, anche se ai più appaia ormai inesorabile. Dinanzi al male che avanza abbiamo bisogno di parole di verità: «L’amore per la verità non è fattore normativo autoritario, ma è intima coerenza tra vita e pensiero», ha scritto una insegnante in questi difficili giorni. Parole di verità per non cedere alla malinconia delle passioni tristi che incombe su tutti. Non dobbiamo temere i cancelli chiusi dal silenzio:

 

Giardino chiuso

 

Come in una fiaba
triste – un altro giardino
si chiude – al margine
della strada –

 Restano soli sul colle
i pioppi con le foglie leggère –
le siepi di bosso – le mammole
delle primavere
perdute –

 Il bosco dei faggi
si fa tutto ombra
senza raggi
di cielo –
tomba
per gli uccelli
che saranno
morti –

 Come in una fiaba
triste – il viandante che porti
per questa strada

la sua

fatica –
vede una fuga di cancelli
chiusi – su l’antica
erta – e imprigionati nel fondo
i castelli
dei sogni ciechi –

 

13 settembre 1933

Antonia Pozzi

I cancelli hanno bisogno di parole per aprirsi alla speranza e alla prassi, ora che il cielo sembra chiudersi su di noi.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Catastrofismo. Amministrazione del disastro e sottomissione sostenibile. Tutta la vita della società industriale divenuta globale si annuncia ormai come un’immensa accumulazione di catastrofi.

Fernanda Mazzoli

Catastrofismo. Amministrazione del disastro e sottomissione sostenibile

Tutta la vita della società industriale divenuta globale
si annuncia ormai come un’immensa accumulazione di catastrofi


Ci sono libri la cui qualità ed importanza – in termini di capacità di leggere la realtà con lenti lucide ed originali, offrendo al lettore una visione delle cose che rovescia i capisaldi delle opinioni correnti – sono inversamente proporzionali alla loro notorietà e diffusione. Paradosso solo apparente e piuttosto scontato di un mercato editoriale che misura la qualità in base al presenzialismo mediatico degli autori e all’adeguamento al pensiero dominante che, di questi tempi, veste progressista e fa l’occhiolino al bene comune, il quale, per una svista della logica e della storia, è andato a cacciarsi sotto l’ombrello protettore dei miliardari filantropi, dei finanzieri divenuti salvatori della patria e dei grands commis ai vertici degli organismi internazionali. Così, un libro poco conosciuto e ancor meno citato come quello scritto a quattro mani da René Riesel e da Jaime Semprun, Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable,1 dovrebbe, invece, essere uno dei testi di riferimento ineludibili per chiunque voglia comprendere il presente – tra minacce di catastrofe sanitaria e ricorso ad un’emergenza divenuta ordinaria amministrazione – senza piegarsi sotto le forche caudine dell’informazione di regime, della narrazione mainstreem e delle troppo facili semplificazioni offerte dagli adepti delle teorie complottiste.

Parodiando un celebre incipit, gli autori affermano che «tutta la vita della società industriale divenuta globale si annuncia ormai come un’immensa accumulazione di catastrofi», diffuse con il supporto mediatico da esperti che si richiamano ad una conoscenza quantitativa, ad un insieme di dati posti a fondamento di un’analisi incontrovertibile della realtà e di risposte altrettanto assolute. Dall’inevitabilità delle catastrofi consegue il successo della propaganda per le misure autoritarie altrettanto inevitabili se si vuole garantire la sopravvivenza del pianeta, la realizzazione delle quali mobilita un apparato burocratico-tecnologico sempre più robusto e più pervasivo, capace di un controllo totale delle condizioni di vita.

Semprun e Reiser si erano dati come oggetto del loro studio l’emergenza ambientale (di cui, peraltro, erano ben lontani dal negare la portata, da convinti avversari della società industriale, nonché del modo di produzione capitalistico, di cui hanno denunciato a più riprese le diverse nocività) ed è quindi particolarmente interessante riscontrare l’aderenza del loro discorso alla situazione determinatasi oggi intorno all’emergenza sanitaria. È anzi ragionevole ritenere che se nello spazio di un anno e mezzo molte società occidentali sono state disposte a rinunciare a quelle libertà individuali e collettive esibite orgogliosamente come cifra distintiva rispetto al resto del mondo chiamato a regolare il proprio passo su quello delle democrazie liberali, il terreno della rinuncia sia stato abbondantemente irrigato in precedenza da un discorso pubblico sempre più centrato sulla minaccia di una catastrofe incombente che ha assunto volti diversi (dal terrorismo al riscaldamento globale, all’esaurimento delle risorse naturali), ma egualmente efficaci ad attivare le condizioni politiche, i presupposti ideologici e i condizionamenti psicologici e mentali atti a legittimare uno stato di perpetua emergenza. La grande paura, creata e diffusa artatamente da istituzioni, informazione, esperti a vario titolo a partire da fenomeni reali, di cui si tende a rimuovere l’origine e la funzionalità, qualora esse mettano in causa l’intero sistema sociale, ha naturalizzato lo stato di emergenza, ha trasformato l’eccezione in normalità, ha sollecitato un enorme bisogno di protezione da parte delle popolazioni, cui solo le misure che si accompagnano allo stato d’emergenza sembrano capaci di dare una risposta. Che il prezzo da pagare siano l’autodeterminazione, le libertà faticosamente conquistate da un’intera civiltà nel corso della sua storia, i legami sociali poco importa, purché la minaccia dell’annichilimento sia stornata o rinviata. Ci si affida, dunque, con abbandono quasi infantile a quelli che prendono in mano «l’amministrazione del disastro», alla burocrazia di esperti incaricata di «una gestione di crisi permanente», si sacrifica loro quel poco che resta di spirito critico e di capacità di pensare ed agire autonomamente. È qui che si annidano tutte le derive autoritarie che oggi non sbandierano più il mito consunto e poco credibile del sangue e della razza, o dell’ortodossia ideologica, ma quello del bene della società, o meglio di ciò che i suoi esponenti di punta avvalorano come tale.

«È un dovere civico quello di essere in buona salute, culturalmente aggiornati, connessi. Gli imperativi ecologici sono l’ultimo argomento senza replica. […] Chi si opporrebbe al mantenimento dell’organizzazione sociale che permetterà di salvare l’umanità, il pianeta e la biosfera?».

Spetta proprio ad una visione antagonista rispetto alla moderna società industriale quale quella sostenuta da Riesel e Semprun e, pertanto, particolarmente sensibile ai problemi posti dalla predazione dell’ambiente individuare con lucidità e denunciare la conversione ecologica del capitale in cerca di nuove frontiere che consentano di avviare un nuovo ciclo di accumulazione.

A questo proposito, gli autori citano uno studio di Pierre Souyri,2 pubblicato postumo nel 1983 e dedicato alle trasformazioni del capitalismo, che fa piazza pulita delle illusioni alimentate oggi dalla green economy – ultimo tentativo in ordine di tempo di dare un volto presentabile a questo modo di produzione e intanto impegnarlo in una nuova fase – e dal diffondersi di una coscienza ecologica di massa sapientemente orchestrata dall’alto e funzionale alla prima.

«Le campagne allarmistiche scatenate intorno alle risorse del pianeta e all’avvelenamento della natura da parte dell’industria non annunciano certamente un progetto degli ambienti capitalistici di fermare la crescita. È piuttosto vero il contrario. Il capitalismo si impegna attualmente in una fase in cui si troverà costretto a mettere a punto un insieme di nuove tecniche di produzione dell’energia, dell’estrazione dei minerali, del riciclaggio dei rifiuti e di trasformare in merce una parte degli elementi naturali necessari alla vita. Tutto ciò annuncia un periodo di intensificazione delle ricerche e di sconvolgimenti tecnologici che richiederanno investimenti giganteschi. I dati scientifici e la presa di coscienza ecologica sono utilizzati e manipolati per costruire dei miti terroristi la cui funzione è quella di fare accettare come imperativi assoluti gli sforzi ed i sacrifici che saranno indispensabili per il compimento del nuovo ciclo di accumulazione capitalistica che si annuncia».

Il catastrofismo, dunque, diventa il dispositivo ideologico perfetto per creare un consenso trasversale nella società intorno a scelte politiche ed economiche di fondo dalle ricadute radicali sulla vita dell’intera collettività, persuasa da una batteria di fuoco aperta da esperti, scienziati, giornalisti, esponenti del mondo dello spettacolo e della cultura non solo ad accettare tali misure coercitive, ma a richiederle con entusiasmo in nome della salvezza propria e del pianeta.

Sono esattamente le stesse dinamiche in gioco nella gestione dell’epidemia sanitaria da Covid 19: la creazione della grande paura, da Apocalissi del nuovo millennio, l’emergenza continua, la demonizzazione di ogni dubbio o dissenso, fino alla secca alternativa tra vaccinarsi o morire, di malattia o di messa al bando dalla società civile fino all’allontanamento dall’attività lavorativa.

Che si tratti di ambiente o di salute, è l’irreggimentazione forzata o volontaria nelle nuove armate del Bene, fertile humus per ogni torsione autoritaria che richiede e al tempo stesso presuppone quella che i nostri autori definiscono «normalizzazione degli spiriti».

«La domanda sociale di protezione nella catastrofe» non chiama più in causa solamente l’apparato statale e burocratico, ma è tutta la società, – «attraverso gli uomini qualunque che vi si mobilitano per raccogliere le sue inquietudini e fabbricare l’immagine di una pretesa “società civile” – che reclama norme e controlli».

Non si tratta tanto di negare la realtà del disastro ambientale o dell’epidemia, quanto di comprendere che il combinato disposto fra allarmismo mediatico, idolatria dei dati, declinazione della scienza in nuovo dogma religioso e conseguente intervento dello Stato in veste di tutore concorrono ad una condizione permanente di amministrazione del disastro dove, ad essere confermata e consolidata, è la sottomissione3 degli individui e dei popoli, mentre nuove catastrofi, ecologiche e sanitarie, si profilano all’orizzonte.

Dove trovare un giacimento di paura e di coercizione altrettanto prezioso per la governance globale, pronta ad approfittarne per ridisegnare l’economia, il modo di vivere, le strutture della politica in una direzione più funzionale alla fase in cui il capitale è entrato?

Fernanda Mazzoli

1 Pubblicato a Parigi nel 2008 dall’Encyclopédie des Nuisances, fondata e diretta dallo stesso Jaime Semprun, il libro è disponibile in traduzione italiana dal 2020 per i tipi della casa editrice dell’Ortica con il titolo Catastrofismo, amministrazione del disastro e sottomissione sostenibile. Le citazioni del presente articolo sono state da me tradotte dal testo originale. Quanto agli autori, entrambi hanno preso parte al Maggio francese e sono stati vicini, per qualche anno, all’Internazionale Situazionista; hanno pubblicato studi di critica sociale, collaborando alla rivista dell’Encyclopédie des Nuisances, poi trasformata in casa editrice. René Riesel, allevatore di ovini, per la sua militanza anti-OGM ha subìto arresti ed un periodo di detenzione.

2 Pierre Souyri, La Dynamique du capitalisme au vingtième siècle, Payot, Paris, 1983. L’autore, di formazione marxista, è stato partigiano, militante comunista (uscito dal PCF nel 1944 su posizioni antistaliniste) e ha fatto parte del gruppo Socialisme ou barbarie.

3 Il titolo del saggio in questione gioca sul doppio significato del francese durable, durevole e sostenibile.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo- Il sei dicembre 2021 entra in vigore il super greenpass.

 

Salvatore Bravo

6 DICEMBRE 2021

Il sei dicembre 2021 entra in vigore il super greenpass

***

Si tratta di un’autentica rivoluzione reazionaria, in quanto i diritti sono concessi nello stile della costituzione ottriata e flessibile. Con un colpo di spugna il governo ha eliminato i diritti costituzionali conquistati dal popolo con la resistenza per inaugurare una nuova fase regressiva della democrazia. Dal sei dicembre vige un nuovo stato di diritto, in cui i cittadini non sono eguali davanti alla legge, ma si conquistano i diritti con l’obbedienza: diritti a punti o se si vuole a livelli. Vi sono tre livelli di cittadinanza: i senza grennpass, coloro che hanno il greenpass minimo e i supercittadini con il super grenpass. Cittadinanza a fasce di livello che mette in atto una discriminazione legalizzata. Il diritto allo studio è in realtà sospeso, gli studenti per poter arrivare nelle scuole devono dotarsi di greenpass.

Se uno Stato impedisce l’istruzione introduce una discriminazione inaudita: si neutralizza la formazione personale, si sottrae la possibilità di educarsi, si insegna che non tutti possono nei fatti entrare in classe. Gli studenti imparano che i diritti sono concessioni temporanee e che la formazione può essere espletata solo con l’obbedienza. Non poco tempo addietro il ministro dell’istruzione introduceva lo slogan “scuola affettuosa”. Una scuola che impedisce l’istruzione e ricatta le famiglie con il greenpass non è affettuosa, ma discrimina e insegna la discriminazione. L’inclusione parola che ossessiva si ripete nelle scuole di ogni ordine e grado mostra la sua tragica verità: non vi è inclusione, ma discriminazione, e se vuoi essere incluso devi obbedire e fingere che lo fai liberamente, magari con un post in cui ci si vaccina senza sapere con precisione cosa ti stanno inoculando. Parlare e discutere agli alunni dell’uguaglianza, battersi il petto dinanzi a ogni forma di violenza e poi impedire ad una parte della popolazione scolastica di viaggiare con treni e autobus è una contraddizione palese, ma taciuta. In TV si continua a ripetere e a quantificare il numero dei greepass scaricati, ma se anche dietro uno dei greenpass vi è una sola persona costretta dalle circostanze a farsi inoculare ciò che non vorrebbe, non si può parlare di stato di diritto, ma di violenza conclamata e velata da slogan ed esemplificazione. Ciò che è più grave è l’incultura della discriminazione che entra nel lessico quotidiano. Il nuovo lessico quotidiano è infarcito di violenza, e questa volta le parole coincidono tragicamente con i fatti. Non solo alunni, ma anche docenti e lavoratori non potranno usare mezzi pubblici, se non accettano gli ordini stabiliti per decreto esautorando il parlamento. Dopo l’eliminazione dell’articolo diciotto dallo Statuto dei lavoratori, si introduce e si rafforza la discriminazione senza giusta causa.

In una democrazia si discute, ma, da noi, d’ora in avanti si obbedisce. Se si guarda lo stato presente con sguardo olistico, non si può che avere la tetra immagine della fine della democrazia e l’inizio di una transizione verso una forte limitazione della stessa. Il senatore Monti lo ha dichiarato apertis verbis, “in Italia vi è troppa democrazia ed informazione, la democrazia va dosata alle circostanze”. Il senatore che ha tagliato i servizi sociali e le pensioni, se ha potuto dichiarare che la democrazia dev’essere adattabile come i fondi di investimento, per cui i diritti sono concessi sul “merito”, lo ha fatto, perché sa che una parte della popolazione è stata rieducata a giudicare la democrazia come un limite. Tali dichiarazioni sono possibili, perché è passata la logica della discriminazione dalla quale non sarà facile tornare indietro. Si sta sperimentando una democrazia limitata e a tempo. Coloro che gongolano per il supergreepass sappiano che nessun diritto è per sempre e che potrebbero ritrovarsi tra i dannati all’improvviso. L’Europa complice tace e applaude all’esperimento italiano. L’Europa dimostra la verità del capitalismo nella sua fase assoluta: il capitale è per suo fondamento discriminatorio ed ha in odio l’uguaglianza. Decenni di tagli ai diritti hanno inoculato l’attuale normalità della discriminazione che non ha nessun fine sanitario, ma è l’inizio di una nuova ideologia da capire e arrestare. Il 6 dicembre non è l’inizio della libertà come i manipolatori vogliono lasciare intendere, ma l’introduzione di un apartheid accettato senza nulla controbattere da partiti e sindacati, e di questo bisogna prendere atto. In ultimo, è bene rileggere l’articolo 3 della Costituzione per comprendere l’abisso in cui siamo:

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Salvatore Bravo


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Costanzo Preve (1943-2013) – Contro il capitalismo, oltre il comunismo. Riflessioni su una eredità storica e su un futuro possibile

Costanzo Preve

Contro il capitalismo, oltre il comunismo

Riflessioni su una eredità storica e su un futuro possibile

ISBN 978-88-7588-311-9, 2021, pp. 112, Euro 10 – Collana “Divergenze” [80].

In copertina: Vincent Van Gogh, Il seminatore, 1888, Van Gogh Museum, Amsterdam.

indicepresentazioneautoresintesi


In questo breve saggio sosterrò una tesi estremamente chiara, e nello stesso tempo estremamente discutibile ed a prima vista assurda e contraddittoria. In breve, sosterrò che il presupposto per una credibile prospettiva anticapitalistica futura è, fra le altre cose, il congedo irreversibile dal comunismo, da considerare come un grande fenomeno storico, legittimo ma anche compiuto, cioè concluso.

Questa tesi va indubbiamente contro un senso comune consolidato. Coloro che infatti aderiscono (in vari gradi di coscienza e consapevolezza) ai valori morali, economici e politici caratteristici del legame sociale capitalistico non hanno alcun interesse ad impegnarsi in una ennesima discussione sul comunismo, da loro ritenuto un’illusione criminale per fortuna tramontata e distrutta dalle proprie contraddizioni, e possono al massimo avere per il comunismo un interesse superficiale di tipo storico o filosofico. Coloro che invece in vario modo rifiutano il legame sociale capitalistico e vorrebbero sostituirlo, pensano invece che il mantenimento di una prospettiva storica di tipo “comunista”, anche dando per scontato che il termine resta vago ed incerto, rimane un presupposto insostituibile per dare un senso storico non puramente congiunturale al proprio rifiuto globale del capitalismo e del legame sociale complessivo che lo costituisce e lo riproduce.

Il paradosso di questo breve saggio sta nel fatto che esso si indirizza esplicitamente al secondo gruppo di persone, la cui identità ed il cui senso di appartenenza sarebbero messi però in pericolo da una semplice presa in considerazione di questa scandalosa tesi, per cui è probabile che non la prendano neppure in considerazione. Ed è un peccato, perché le considerazioni che seguiranno non sono state ispirate da un narcisistico impulso all’originalità pubblicistica, ma sono state mosse da un’urgenza etica, politica e filosofica. Il comico americano Woody Allen disse a suo tempo una battuta di grande profondità: «Comincio a preoccuparmi perché sempre più spesso scopro di avere idee che non condivido». L’idea che il comunismo, inteso come fenomeno globale ad un tempo storico e teorico, possa non essere stato e soprattutto non essere più in futuro un’adeguata forma di opposizione al capitalismo, non può che essere venuta spesso alla mente di comunisti onesti e pensosi sulla propria prospettiva storica e politica. Ma quest’idea, pure affacciatasi alla mente, viene subito respinta come dubbio iperbolico e come tentazione diabolica di integrazione ideologica nella società capitalistica. Questo rifiuto, su cui Freud avrebbe molto più da dire dello stesso Marx, non deve per nulla stupire, in quanto ne va dell’identità, dell’appartenenza, e spesso del senso complessivo della propria intera vita.

Chi scrive ha invece finito con il condividere coscientemente l’idea che gli era progressivamente venuta alla mente. Mettiamo pertanto questo scritto sotto il segno della formula di Woody Allen. Una simile opinione, già fortemente radicata, è stata rafforzata dalla mia partecipazione attiva ad un grande convegno internazionale di marxisti, tenutosi a Parigi nel maggio del 1998, in occasione del centocinquantenario della pubblicazione, nel 1848, del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx. In questo interessantissimo convegno internazionale mi è sembrato di poter verificare due ipotesi da tempo maturate, ed apparse con solare evidenza. In primo luogo, la rete politico-organizzativa che ha reso possibile il convegno, legata al Partito Comunista Francese (un tempo noto per il suo dogmatismo e la sua intolleranza), non solo si è servita di intellettuali di osservanza “eretica”, in particolare trotzkista, ma ha anche concesso a tutti gli intellettuali intervenuti la massima libertà espressiva possibile, per cui nel convegno si sono sentite tutte le tesi possibili, tutto ed il contrario di tutto. Questo è ovviamente positivo, e sarebbe bello interpretarlo come il segno di una profonda autocritica per la propria precedente intolleranza e per la propria precedente pretesa di controllo ideologico sulla produzione scientifica e filosofica (di cui furono vittime i migliori intellettuali marxisti del Novecento, da Lukàcs ad Althusser). Ma purtroppo le cose non sono così semplici. In realtà a me sembra che la rinuncia a proporre una propria sintesi teorica sul capitalismo contemporaneo e la dichiarazione eclettica, alla Feyerabend, che da oggi in poi nel marxismo everything goes, tutto va bene e si può dire ormai tutto, sia il segnale di una sostanziale irrilevanza della teoria, e della separazione ormai consolidata fra produzione teorica “di prospettiva” e tattica politica congiunturale, ispirata al “senso comune”, mai messo in discussione, per cui la socialdemocrazia è comunque meglio del cosiddetto neoliberalismo, e dunque Prodi, Jospin, Blair e Clinton sono comunque meglio dei loro equivalenti definiti sommariamente “conservatori”.

In secondo luogo, è emerso con una certa chiarezza il minimo comun denominatore su cui nei prossimi anni presumibilmente si assesterà a livello mondiale una nuova comunità accademico-universitaria di “marxisti della cattedra”, desiderosa di demarcarsi da altre comunità accademico-universitarie contigue o rivali (neoutilitaristi, neocontrattualisti, comunitaristi, individualisti, tradizionalisti-religiosi, eccetera). Si tratta dell’idea per cui Karl Marx è tuttora il massimo profeta ed il massimo sociologo della globalizzazione capitalistica mondiale oggi in atto, da lui prevista e delineata con ammirevole approssimazione. Il fatto che Marx avesse anche previsto la capacità storica operaia e proletaria di rovesciamento dei rapporti di produzione capitalistici, e che questa cruciale e centrale previsione storica non si è verificata, viene virtuosamente censurato e messo sotto silenzio, perché sarebbe appunto incompatibile con il consolidamento di una comunità accademico-universitaria di marxisti della cattedra, unificati oggi da Internet e dalla lingua inglese così come cento anni fa erano unificati dalla corrispondenza postale e dalla lingua tedesca.

Premetto di non essere assolutamente ostile a queste due novità sopra segnalate, e di non essere assolutamente nostalgico della situazione precedente, che era intollerabile. Da un lato, la libertà di opinione è panglossianamente meglio della persecuzione burocratica attuata in nome di una censura ideologica sulla produzione teorica critica, scientifica o filosofica. Dall’altro, voglio ribadire che il marxismo della cattedra, accademico-universitario, è comunque mille volte meglio del marxismo ideologico catacombale dei gruppetti militanti fondamentalisti che vogliono ricostituire il loro sistema teorico chiuso e paranoico (di tipo volta a volta operaista, staliniano, bordighista, maoista, trotzkista, eccetera). Non intendo dunque oppormi a queste due novità segnalate. Mi limito a segnalare che esse sono il sintomo, da non trascurare per colpevole superficialità trionfalistica, di una sostanziale irrilevanza politica di quello che un tempo era il dibattito marxista, legato con mille fili al comunismo politico. È bene allora interrogarsi apertamente sul comunismo, teorico e politico, nell’ottica del suo rapporto con un possibile anticapitalismo non nostalgico e residuale, ma pienamente all’altezza delle sfide storiche di oggi. È indubbio che con questa interrogazione scopriremo orizzonti assolutamente inediti ed inaspettati.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Robert P. Harrison – … l’anima umana si presta alla coltivazione morale, spirituale e intellettuale, come il giardino … La storia senza i giardini è un deserto. Un giardino staccato dalla storia è superfluo. I giardini che abbelliscono questo nostro Eden mortale sono la prova inconfutabile della ragion d’essere dell’umanità sulla Terra.

Robert Pogue Harrison, Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, Fazi Editore, Roma 2009.

«… l’anima umana si presta

alla coltivazione morale,

spirituale e intellettuale come il giardino …»

«La storia senza i giardini è un deserto.

Un giardino staccato dalla storia è superfluo.

I giardini che abbelliscono questo nostro Eden mortale sono la prova inconfutabile

della ragion d’essere dell’umanità sulla Terra».

Robert Pogue Harrison, Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, tr. it. di M. Matullo e V. Nicolì, Fazi, Roma 2009, p. 90 (cap. 7: «Il Giardino di Epicuro», p. 90) e Prefazione.

Prefazione

Gli esseri umani non sono fatti per guardare troppo a lungo la testa di Medusa sfoggiata dalla storia, la sua rabbia, la morte e la sofferenza infinita. Non è per un difetto nostro, al contrario, la riluttanza a farci pietrificare dalla realtà della storia è alla base di molte di quelle cose che rendono la vita umana tollerabile: l’impulso religioso, l’immaginazione poetica e utopica, gli ideali morali, le proiezioni metafisiche, l’arte narrativa, le trasfigurazioni estetiche del reale, la passione per il gioco, l’amore per la natura. Albert Camus una volta ha detto: «La miseria mi impedì di creder che tutto sia bene sotto il sole e nella storia; il sole mi insegnò che la storia non è tutto». Si potrebbe aggiungere che se la storia diventasse tutto sprofonderemmo nella pazzia.

Per Camus era il sole, ma spesso nella cultura occidentale è stato il giardino, reale o immaginario, a costituire un rifugio dalla frenesia e dal tumulto della storia. Il lettore scoprirà in questo libro giardini remoti come il giardino degli dèi di Gilgamesh, le Isole dei Beati dei greci, il giardino dell’Eden di Dante in cima al monte del Purgatorio; oppure giardini ai margini della città terrena, come l’Accademia di Platone, il giardino di Epicuro e le ville del Decameron di Boccaccio; o ancora giardini che sbocciano nel bel mezzo della città come il Jardin du Luxembourg a Parigi, Villa Borghese a Roma e i giardini dei senzatetto di New York. Ma tutti questi giardini, in un modo o nell’altro, per come sono stati concepiti e per il fatto di essere ambienti creati dalla mano dell’uomo, sono una sorta di rifugio, se non addirittura di paradiso.

Eppure, per quanto riparati, i giardini umani hanno sempre un posto nella storia, se non altro come forze che si contrappongono alle spinte deleterie della storia stessa. Nella celebre frase con cui si conclude il Candide di Voltaire, «Il faut cultiver notre jardin» (‘Dobbiamo coltivare il nostro giardino’), il giardino in questione deve essere interpretato sullo sfondo delle guerre, della pestilenza e delle catastrofi naturali raccontate nel romanzo. Questo porre l’accento sulla coltivazione è fondamentale: è proprio perché siamo gettati nella storia che dobbiamo coltivare il nostro giardino. In un Eden immortale non c’è bisogno di coltivare, poiché tutto è già dato spontaneamente. I giardini umani possono apparirci come piccole aperture sul paradiso nel cuore di un mondo caduto, ma il nostro dover creare, mantenere e prenderci cura dei giardini tradisce la loro origine postlapsaria. La storia senza i giardini è un deserto. Un giardino staccato dalla storia è superfluo.

I giardini che abbelliscono questo nostro Eden mortale sono la prova inconfutabile della ragion d’essere dell’umanità sulla Terra. Quando la storia scatena le sue forze distruttrici e annichilenti, per non cedere alla pazzia e preservare la nostra umanità dobbiamo agire contro e nonostante quelle forze. Dobbiamo ricercare le forze curative e redentrici, lasciandole crescere dentro di noi. Ecco cosa significa prendersi cura del nostro giardino. L’aggettivo possessivo usato da Voltaire – “notre” – si riferisce al mondo che condividiamo. È il mondo della pluralità che pian piano prende forma grazie al potere dell’agire umano. “Notre jardin” non è mai un giardino di interessi esclusivamente individuali in cui rintanarsi per sfuggire al reale: è quel pezzo di terreno sulla Terra, dentro se stessi o all’interno della collettività, in cui vengono coltivate le virtù culturali, etiche e civili che salvano la realtà dai suoi istinti peggiori. Quelle virtù sono sempre nostre.

Aggirandosi per questo libro il lettore attraverserà diversi tipi di giardino – reali, mitici, storici, letterari –, tutti però facenti parte, chi più chi meno, della storia di questo “notre jardin”. Se la storia è in ultima analisi il conflitto terrificante, costante e infinito tra forze di distruzione e forze di coltivazione, allora il mio libro si schiera dalla parte di queste ultime. E cerca in tal modo di partecipare alla vocazione del giardiniere alla cura.




Indice

Prefazione

  1. La vocazione alla cura
  2. Eva
  3. Il giardiniere umano
  4. Giardini dei senzatetto
  5. Mon jardin à moi
  6. Academos
  7. Il giardino di Epicuro
  8. I racconti del giardino di Boccaccio
  9. Giardini monastici, repubblicani e principeschi
  10. Una nota su Versailles
  11. Sull’arte perduta del vedere
  12. Miracoli simpatici
  13. Lo spartiacque del paradiso: islam e cristianesimo
  14. Uomini non distruttori
  15. Il paradosso di un’epoca
  16. Epilogo

Appendice I

Appendice II

Appendice III

Appendice IV


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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