Claudio Lucchini – Alcune riflessioni sulle nozioni di felicità e di natura umana nel pensiero di Luca Grecchi.

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Esaminando le caratteristiche peculiari di quel processo di «razionalizzazione irrazionale» che è venuto via via imponendosi nella contemporaneità capitalistica, dissociando infine «la ragione dal valore degli scopi della esistenza umana»,1 Massimo Bontempelli ha cura di evidenziare il nesso che intercorre tra un siffatto paradigma di razionalità e l’ipostatizzazione storico-sociale della categoria ontologica del mezzo: «Nell’universo tecnico la razionalità non può che non avere scopi, ed essere perciò irrazionale, in quanto la tecnica appartiene per definizione alla sfera dei mezzi, non degli scopi. Finché dunque la tecnica è subordinata ad altre istanze sociali, essa è ancora compatibile con una razionalità connessa a scopi. Ma in un universo tecnico lo scopo è lo stesso apparato scientifico-tecnologico, cioè un mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo. Inoltre il nostro universo è anche un universo di merci, e la circolazione delle merci ha come scopo l’accrescimento senza limite del denaro, che è un altro mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo [ossia il suo valere come strumento indispensabile per una cieca affermazione di potenza nel contesto di una società dominata dalle strategie della lotta intercapitalistica nelle sue molteplici dimensioni economiche, politiche, culturali]».2
Sono le modalità sociali attuali, scrive a sua volta Luca Grecchi in pagine di spiccata intelligenza filosofica, a costituire il terreno più fecondo per una simile relativizzazione strumentalistica e nichilistica del valore e del senso del nostro esistere, sollecitando il generalizzarsi intensivo ed estensivo di quella crematistica per la quale si viene gravemente intorbidando l’«originario fiume umanistico» che percorre dall’inizio la storia degli uomini e reca con sé un’essenziale riferimento alla dimensione razionale, morale e comunitaria delle migliori potenzialità della natura umana.3 Se la “regola d’oro” (non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, o, positivamente, fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te) è il «principale comune denominatore, attraverso i secoli e le civiltà» di tale fiume,4 la “regola di latta” è l’espressione quintessenziale del suo contraltare dialettico, negatore e spregiatore, in nome di un cieco utilitarismo individualistico, della pienezza di un contesto di vita eticamente realizzato.5 «Nel clima antiumanistico oggi dominante rappresentato dalla regola di latta – sostiene dunque Grecchi –, l’individuo si percepisce come un atomo isolato dagli altri, e relazionantesi ad essi solo tramite un rapporto strumentale. Quando domina una simile regola, per ciascuno gli altri uomini rappresentano solo dei mezzi necessari al raggiungimento del fine della massimizzazione della propria utilità, ed il pensiero è ritenuto anch’esso soltanto o una modalità in tal senso persuasiva (relativismo, retorica, ecc.), o una modalità strumentale al raggiungimento di un determinato fine (pragmatismo, ecc.). È evidente però come tale regola costituisca solo il risultato di modalità di vita inumane, in cui all’uomo rimane sconosciuta, e dunque impedita, la propria vera essenza, e con essa la comprensione della necessità della sua cura per il raggiungimento di una condizione di felicità».6
L’incessante rinvio di Grecchi a quelle forme storicamente determinate della riproduzione sociale complessiva che inibiscono il ricco sviluppo delle possibilità ontologiche più alte del genere umano, distinguono radicalmente le sue posizioni da quelle – pur tra loro differenziate – diagnosi sui mali del nostro tempo, tendenti a ravvisare nel puro e semplice dominio della tecnica la fonte principale della relativizzazione nichilistica oggi imperante. L’enfasi sulla «centralità della tecnica» quale connotazione essenziale della società e della cultura occidentali finisce infatti col misconoscere una ben più decisiva centralità, quella del modo capitalistico di produzione, la cui dinamica, afferma correttamente Bontempelli nel suo scritto sopra citato, è invece l’unica a poter rendere compiutamente conto della «proliferazione tendenzialmente infinita delle tecniche, e [della] progressiva tecnicizzazione di ogni spazio umano».7 «Indicare la tecnica come essenza dell’Occidente» (e, in prospettiva, per il tramite del mondializzarsi dell’economia e della cultura occidentali, del mondo intero) equivale perciò, commenta ulteriormente Grecchi, ad indicare non «il fenomeno reale, ma solo la sua ombra, e questo comporta indubbiamente dei vantaggi a quegli interpreti che non vogliono inimicarsi troppo le strutture oggi dominanti. Il fenomeno reale è infatti il modo di produzione capitalistico con tutto il suo portato di ingiustizia, sopraffazione e sofferenza, di cui la tecnica capitalistica costituisce semplicemente l’apparato di funzionamento».8
Checché ne dicano Heidegger, Severino o Galimberti, la causa principale della tecnicizzazione vieppiù accresciuta dell’economia e dell’ambiente umano di vita non è dunque certamente da ricercarsi «nella struttura autoincrementativa dell’apparato tecnico», ma, in maniera ben più convincente, «nelle finalità e nelle strutture del modo di produzione sociale» che nella nostra epoca tende ad imporsi su scala globale, determinando «la derealizzazione della vera natura dell’uomo. È infatti la brama del massimo profitto (non l’incremento dell’Apparato tecnico) che conduce alle guerre ed alle attuali modalità della produzione e della distribuzione di beni e servizi. È tale esasperata brama che spezza tuttora il pianeta in ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati, integrati ed emarginati, e che pone l’alienazione come unica (ma indesiderabile) forma di eguagliamento universale. Si tratta forse di una lettura datata o retrò? Può essere, ma finché di questa lettura non verrà data una seria confutazione (ed, a nostra conoscenza, essa non è stata data), continueremo a considerare il modo di produzione capitalistico, e non la tecnica, come il cuore pulsante dell’attuale Occidente».9
Respinta una simile analisi dei guasti prodotti dalle vicende della metafisica occidentale, la quale dovrebbe appunto esprimere la sua natura nichilistica – o, se si preferisce, la sua “follia” – nel dominio planetario della tecnica, e denunciati con altrettanta forza, sulla scorta soprattutto degli studi critici di Domenico Losurdo, i tratti disumanizzanti del pensiero liberale, teoreticamente e storicamente contiguo all’atomizzazione mercificante della crematistica capitalistica,10 Grecchi sostiene risolutamente la necessità inderogabile di recuperare quella che gli appare essere l’insuperata lezione umanistica della grande filosofia greca. È stato infatti Platone, egli precisa, ad aver per primo compreso che l’essere umano «è nella sua essenza un ente razionale, morale e simbolico»,11 portatore dunque di contenuti «che purtroppo la contemporaneità ha rimosso, sfavorendone una effettiva realizzazione e condannando l’uomo all’infelicità».12 Il vero bene dell’umanità consiste infatti, secondo il decisivo insegnamento platonico e aristotelico, nella costituzione storica di un tessuto comunitario del vivere sociale che stimoli positivamente nei singoli l’attuarsi di un equilibrio armonico delle tre componenti suddette della natura umana: la razionalità – intesa soprattutto come ricerca sui significati delle cose in funzione del loro miglior utilizzo per una compiuta realizzazione etico-sociale –,13 la quale «consente di comprendere gli uomini e il mondo, nonché la corretta misura dell’approccio di ogni uomo al mondo»;14 la moralità, nella sua triplice articolazione di affetto, comunitarietà e amore,15 che «consente di rapportarsi al mondo in maniera consapevole, e di incarnare adeguati comportamenti di vita»;16 la simbolicità, che permette invece «di arricchire il proprio approccio esistenziale tenendo conto della ambivalenza dei contenuti che inevitabilmente ci si pongono innanzi».17
L’ostilità costantemente risorgente nella storia contro la possibilità medesima di definire teoreticamente sia le migliori potenzialità dell’uomo sia quella loro proporzionata ed equilibrata combinazione in cui va ravvisata, come si è detto, l’autentica felicità degli esseri umani – ostilità particolarmente accentuata nell’epoca della capillare mercificazione degli ambiti di vita e della relativizzazione consumistico-capitalistica di comportamenti, bisogni, scopi –, deve ricondursi, a parere di Grecchi, ad un duplice ordine di fattori tra loro connessi, il primo di natura antropologica, il secondo di carattere storico-sociale. «Il motivo di ordine antropologico concerne il fatto che l’uomo, come è noto, è il solo fra gli esseri viventi ad essere pienamente consapevole della propria condizione mortale. […] Proprio per l’angoscia che il tema della morte pone innanzi, l’uomo che non sa vivere in buona armonia con se stesso e col mondo tende ad identificare con la morte, ed a temere, tutto ciò che si rapporta a lui come un limite, come una chiusura. In questo senso ogni stabile definizione, ed in particolare ogni sistema di pensiero, tendono a rappresentare all’uomo la dimensione finita dell’esistenza. È anche per questo che tali tematiche sono così spesso state trascurate, rimosse e addirittura combattute nella storia del pensiero filosofico. La de-finizione essenziale dell’uomo, in particolare, è il tema che più appare come una chiusura di orizzonti di vita. Per questo il pensiero filosofico, scientifico, psicologico, letterario, poetico e artistico in genere ha sempre insistito sulla profondità insondabile dell’anima umana (la originaria tesi di Eraclito), e mai sulla struttura essenziale dell’anima stessa, mostrando nei confronti di questo tema un claustrofobico timore».18 L’angoscia antropologicamente connotata nei confronti del proprio morire è stata potentemente accentuata, nel corso della storia, dalle concrete modalità in cui si è venuta articolando la costituzione e la riproduzione della vita della società: le attuali modalità sociali infatti, ribadisce ancora una volta Grecchi, «svuotando di umanità la vita, hanno sempre più lasciato l’uomo in balia del proprio connaturato timore della morte».19
L’esplicita preferenza accordata «al pensiero filosofico greco, che faceva della cura dell’anima e dell’apertura alla vita i propri capisaldi»,20 conduce l’analisi grecchiana a ritenere portatore di indebito riduzionismo qualunque tentativo di mediare una prospettiva onto-assiologica di natura filosofica con gli apporti di una ricerca scientifica volta a chiarire i presupposti biologico-evolutivi del vario complesso di facoltà cognitive ed emozionali umane interagenti nelle concrete risposte etiche elaborate nella densa problematicità dialettica dei processi storici. Il nostro autore, a dimostrazione della validità di ciò che afferma, porta come esempio «un comportamento molto noto, quello di Socrate. Egli, pur ingiustamente condannato per empietà dagli ateniesi, decise di rimanere in cella e di bere la cicuta, nonostante la possibilità di fuga che gli fu apertamente prospettata da alcuni amici. Dobbiamo allora chiederci: Socrate decise forse di rimanere in cella a morire perché i suoi neuroni gli bloccarono le gambe? Niente affatto. Egli prese consapevolmente questa decisione in quanto comprese che la conformità agli ideali che aveva sempre sostenuto non gli avrebbe reso possibile vivere evitando il dialogo filosofico, come invece il tribunale ateniese gli imponeva. […] La biografia di Socrate mostra dunque che le questioni del senso della vita, ossia quelle che più influenzano la felicità, non si determinano sul riduttivo piano biologico, ma sul più complessivo piano umano (o filosofico)».21 Il che, se è vero qualora si pretenda di rintracciare a livello del mero scorrimento della processualità naturale la chiave per interpretare in modo ontologicamente corretto le fondamentali questioni etico-sociali umane, non toglie affatto che solo a partire da una determinata dotazione biologica (evolutivamente sviluppatasi al di fuori di ogni teleologia unitariamente operante nel corso spontaneo della natura) divenga possibile l’apertura alla storicità e alla stessa problematizzazione critica di stampo filosofico ed etico. Il rinvio alle zone cerebrali che controllano il movimento, nel contesto dell’esempio portato da Grecchi, non pare molto ben scelto. Non appena, infatti, si ponga mente al nesso che recenti studi – per fare solo un semplice esempio – hanno mostrato sussistere tra lo sviluppo dell’intelligenza sociale e la facoltà umana di metarappresentazione, l’influsso coevolutivo del linguaggio e delle sue strutture sintattiche completive su di essa, l’accesso conseguente ad una capacità di tematizzazione estesa di alternative possibili e di riflessione (entro certi limiti) autocosciente – tutto ciò ovviamente associato al possesso innato di una serie di inclinazioni empatico-simpatetiche, altruistiche, cooperative, ecc. –,22 appare chiaro come Socrate neppure si sarebbe potuto mentalmente figurare il problema che si è posto se non avesse posseduto un ventaglio articolato e innato (di nuovo, nel senso di evolutivamente formatosi, attraverso exaptation, tramite l’agire da bricoleur della selezione naturale) di facoltà e predisposizioni biologicamente determinate, le quali si manifestano e si sviluppano mediandosi concretamente coi processi storici in atto. Come scrive assai correttamente Edoardo Boncinelli, la nozione umana di male (e del suo correlativo, il bene) può svilupparsi solo in riferimento alla «capacità di confrontare una serie di circostanze con le loro capacità alternative, compiendo un’operazione riflessiva e comparativa che negli animali più evoluti è carente e può riguardare al massimo l’immediato presente, ma non il passato. L’uomo al contrario si lamenta, s’infuria, recrimina e rimpiange, almeno a partire da una certa età».23 Non esiste quindi alcuna scissione radicale tra determinatezza materiale-naturale e concreta storicità umana, dato che è solo sul fondamento della prima che la seconda può svolgersi ed influire sull’ulteriore vicenda evolutiva della specie, la quale però non può mai rescindere il suo legame con la processualità naturale in cui soltanto le ideazioni e le posizioni teleologiche degli uomini possono formarsi e operare. La moralità umana, pur dotata di una sua indiscutibile specificità, pare dunque essersi costituita a partire da «una base naturale. […] Solo gli esseri umani hanno la capacità di ragionamento morale, sanno interiorizzare i bisogni degli altri e sanno valutarli in modo disinteressato. Ma sia gli esseri umani sia gli altri primati hanno la capacità di aiutare gli altri e di non danneggiarli».24
Si comprende, alla luce di queste pur sommarie considerazioni, come il giusto, incessante rinvio di Grecchi alla natura umana quale fondamento di universale verità etico-sociale possa venire potenziato e non condurre necessariamente ad un volgare riduzionismo scientista in virtù di un processo di acquisizione concretizzante – opportunamente mediato sul piano concettuale – di ciò che la ricerca scientifica, neurobiologica, etologica, ecc. viene via via elaborando; questo, in effetti, sembra poter consentire di determinare con sempre maggior approssimazione la stessa nozione di essenza umana, sottraendola tanto alle secche di un’eccessiva genericità quanto al pericolo di un discontinuismo dualistico, che, nonostante la più volte ribadita unità psicofisica sostenuta dai greci, non può non fare capolino quando le matrici evolutivo-biologiche di fondamentali processi cognitivi ed emozionali non siano minimamente prese in considerazione.
In modo analogo, si possono già individuare da tale insieme di valutazioni i contorni del giudizio che, sia nei suoi aspetti largamente positivi sia in quelli più cautamente critici, può essere formulato a proposito di quello che lo stesso Grecchi afferma essere «il fondamento teorico» delle sue argomentazioni e di tutti i suoi scritti. «In conformità al titolo del nostro primo libro pubblicato, [la struttura metafisica sistematica che abbiamo cercato, in questi anni, di elaborare] pone l’anima umana (l’essenza dell’uomo) come fondamento della verità. Questa struttura parte da un assunto molto semplice, ma fondamentale: poiché la totalità dell’essere (ossia la totalità di ciò che è, e che l’uomo può sempre comprendere e comunicare) è tale, nella sua struttura concettuale, solo in quanto pensabile dall’uomo, ne risulta che l’uomo (e nessun altro ente, poiché l’uomo è il solo ente dotato di questa qualità) è il fondamento dell’essere. Poiché l’uomo, approcciandosi all’essere, sa comprenderne la realtà solo quando può relazionarsi all’intero mediante la propria essenza razionale, morale e simbolica (anima), ne risulta che l’anima umana è il solo fondamento della realtà dell’essere. Se si accettano queste assunzioni, si deve necessariamente addivenire ad una conclusione: che l’uomo è il solo ente in grado di attribuire significato all’essere, e che tale significato, se elaborato dalle componenti universali dell’uomo, può assumere valore di verità assoluto».25
Grecchi ha certamente ragione, nella sua duplice battaglia contro il relativismo nichilistico e le modalità sociali che potentemente lo favoriscono, a sottolineare la possibilità dell’uomo di porsi come fondamento di una verità oggettiva. Chi scrive, però, è disposto a seguirlo solo qualora si espliciti che questa verità processualmente universalizzabile non può essere altro che la verità etico-umana, risultato di processi riflessivo-ideativi e di atti teleologici del porre che non possono sussistere svincolati da quella base naturale-materiale – di per sé indifferente ad ogni scopo umano – nella quale soltanto si radica, in ultima istanza, il loro poter essere. Che ad un certo punto del processo evolutivo si costituisca, al di fuori di ogni predeterminata direzione finalistica, un ente capace di attività teleologica e progettuale, dotata di struttura alternativa ed (entro certi limiti) autocosciente, non significa affatto che il divenire storico che ne consegue e la sua oggettiva dialettica di senso riducano effettivamente a sé la totalità (estensiva ed intensiva) della realtà naturale, la quale, nello spontaneo svolgersi delle sue legalità e dei suoi processi, resta rigorosamente ateleologica. È quanto sostiene ripetutamente György Lukács nel suo approccio ontologico-materialistico all’essere sociale, rimarcando per esempio sia il costante risorgere di alternative nello svolgimento processuale della prassi umana,26 sia gli ineliminabili fattori causali che interferiscono con i processi storici («E se ora io mi rifaccio alle più alte forme di unità del reale ritorno [al seguente fatto]: la natura – tanto la natura organica quanto quella inorganica – si svolge secondo la propria dialettica e si realizza indipendentemente dalle posizioni teleologiche dell’uomo. Così la costituzione fisiologica dell’uomo e anche il suo destino psicologico dipendono, socialmente parlando, dal caso. Marx osserva giustamente a questo proposito che dipende appunto dal caso se una determinata situazione rivoluzionaria trova a capo della classe operaia un certo individuo, sebbene ciò non sia già più una circostanza meramente fisiologica o psicologica. In ogni caso rimane un residuo ineliminabile di casualità che scaturisce però dal corso meramente causale degli eventi naturali»).27
Non già, beninteso, che tali considerazioni vanifichino l’intelligente correlazione posta da Grecchi tra definizione della natura umana ed affermazione di un universalismo etico-politico fortemente polemico con le forme sociali attuali e con le loro ideologie relativistico-nichilistiche; soltanto, almeno così sembra a me, possono inquadrarla in una più convincente totalità concettuale concreta, e problematizzarla, ancorandola ad un’ineliminabile condizione di finitezza materiale, al di fuori di qualsiasi tentazione meramente pragmatica, ermeneutica, ecc., insomma al di fuori di correnti di pensiero che possano legittimare direttamente o indirettamente la prassi manipolatoria oggi imperante. Si pensi, in merito a ciò, al modo in cui le precisazioni ontologiche testé esposte possono contribuire a rendere più determinata – sempre ovviamente a parere dello scrivente – l’importante questione affrontata da Grecchi circa il carattere «stabile» di una felicità scaturente da un’avveduta consapevolezza filosofica. Rifacendosi nuovamente al grande pensiero platonico e aristotelico, il nostro autore sostiene infatti che «la felicità è la stabile condizione di chi vive la propria compiutezza umana anche contro, se necessario, le modalità sociali esistenti; l’infelicità è invece la condizione di profonda tristezza di chi non vive la propria compiutezza umana, non riuscendo peraltro nemmeno ad adeguarsi in maniera efficace alle modalità sociali esistenti; la condizione di serenità, che costituisce appunto un mixtum, è invece la condizione di chi, pur non vivendo pienamente la propria compiutezza umana, sa almeno conformarsi alle modalità sociali esistenti, apparentemente senza sofferenza».28 La filosofia greca, in altri termini, pensava correttamente «la felicità come lo stabile raggiungimento, dopo una adeguata ricerca, di una condizione di compiutezza dell’uomo. Da tale condizione indubbiamente, in alcuni momenti, era possibile anche degradare, ma sempre fermo restando il fatto che, una volta compresa e assaporata, la felicità diventava una condizione nella sua essenza non obliabile né perdibile. Contrariamente al possesso di beni esteriori, infatti, la felicità era costituita da una stabile conoscenza dell’uomo e del mondo, che si deposita nell’anima in maniera permanente. Per i Greci, dunque, la felicità non era questione di picchi da mantenere e da innalzare continuamente, come accade oggi per i grafici che indicano i profitti delle aziende. Essa era una condizione di armonica apertura alla vita (harmonìa) che può essere tale solo nella incarnazione di rapporti affettivi e comunitari».29 Ovviamente Grecchi sa benissimo che un compiuto inveramento delle più essenziali caratteristiche della natura umana non può non essere intralciata e ostacolata, in varia misura e maniera, dal dominio ontologico-sociale delle attuali forme capitalistiche di vita; per tal ragione egli, respinto ogni mortificante adattamento del progetto di vita di ciascuno alle coordinate sociali esistenti, e ribadito, di contro alla quasi totalità del pensiero contemporaneo, l’insopprimibile legame ontologico intercorrente tra l’essenza dell’uomo e il pieno dispiegarsi di un’esistenza umana felice, afferma la necessità di «rimarcare che chi consapevolmente cerca di realizzare grandi progetti di vera umanità, analizzando dapprima se stesso ed il mondo, difficilmente si illude che gli stessi possano compiutamente realizzarsi in queste modalità di vita. È anzi molto fermo nella conoscenza della quasi impossibilità di riuscire a mutare in meglio la situazione. Costui, dunque, in realtà non si illude, e pertanto non può, più di tanto, né deludersi né soffrire. La sofferenza gli deriverebbe, invece, dal non aver tentato i propri grandi progetti, il proprio sogno, la realizzazione della propria umanità in un determinato campo della vita».30
Nuovamente, se, da un lato, non si possono non sottolineare le profonde ragioni e la profonda validità teoretica della concezione ontologica della felicità proposta da Grecchi, dall’altro pare indispensabile, rispetto a quest’ultima, formulare talune precisazioni nei termini di una ontologia sobriamente materialistica. Non v’è dubbio che la felicità, quanto al suo nucleo concettuale centrale, sia in un certo senso stabile, una volta che la si intenda come un complesso di capacità, sviluppate a partire dalle più alte potenzialità della natura umana (quelle, in altri termini, concorrenti a realizzare la consapevole «genericità per sé» degli esseri umani) e universalizzabili sulla base della comune dotazione cognitiva ed emozionale della specie. Ma poiché l’intrascendibile radicamento materiale cui sono sottoposti i processi ideativo-riflessivi e gli atti del porre teleologico mediante i quali viene storicamente sostanziandosi l’autocoscienza umana, pongono sempre di nuovo gli uomini di fronte a scelte e decisioni alternative, la cui natura può costituire peraltro un essenziale terreno di ulteriore sviluppo concreto della riflessione autocosciente della specie, l’universalità della felicità e del bene umano non può che assumere la forma essenziale del processo determinato, dell’incessante – ma non relativistico perché ontologicamente fondato – lavorìo problematizzante e riflessivo, aperto a più profonde e circostanziate determinazioni: così, per esempio, il giusto richiamo alla misura cui deve essere sottoposta ogni prassi produttiva trasformatrice della natura, viene innervata di concreti contenuti oggettivamente (approssimativamente) validi dalla riflessione sorta storicamente dai problemi ecologici e antropologici generati da una dissennata accumulazione di beni in forma di merce. La felicità, nella sua maggiore o minore compiutezza, è sempre, in altri termini, l’esisto di disposizioni etiche, di abiti morali fondati sullo sviluppo concreto della propria autocoscienza umano-generica, disposizioni e abiti i quali devono sempre di nuovo rispondere alle risorgenti alternative poste dai processi reali; nel far ciò, essi devono dar prova di saper effettivamente perseguire, senza alcuna aprioristica garanzia e nei limiti di condizioni oggettive non tutte necessariamente conosciute o controllabili, lo scopo di arricchire e sviluppare la più vera (la migliore possibile) umanità dell’uomo (tesi, quest’ultima, su cui, lo ripetiamo, Grecchi ha totalmente ragione). Questo complesso problematico, peraltro, non è certo ignoto al pensiero grecchiano, che pure non sempre considera a dovere la dimensione ontologicamente processuale del bene umano rispetto alle possibilità di concretizzazione universalistica del suo concetto; in un passo assai bello, il nostro autore scrive molto efficacemente: «Così descritto, il tema morale sembra molto facile da sviluppare, ma tale in realtà non è, e ciò non va nascosto. È infatti estremamente problematico – questo il dramma della condizione umana – decidere in concreto le scelte migliori da attuare: destinare il proprio tempo e le proprie risorse ad un’attività anziché ad un’altra, ad una persona anziché ad un’altra, e così via. Ciò nonostante, in questa problematicità, la centralità della cura dell’anima, propria ed altrui, costituisce una bussola nel lungo termine infallibile».31
In che modo queste importanti affermazioni di Grecchi debbano essere intese, in rapporto alle osservazioni svolte in precedenza, dovrebbe ormai essere chiaro, così come non può non apparire chiaramente a chiunque si confronti con essi l’indiscutibile valore dei testi grecchiani qui esaminati, fecondo terreno di dialogo teorico ispirato ad un’idea profondamente sentita di verità etico-umana senza la quale la filosofia è destinata a diventare futile gioco accademico o pedestre apologia dell’esistente.

Claudio Lucchini

Il saggio è stato pubblicato su Koiné, Periodico culturale , Anno XVIII  –  NN° 1-3,  Gennaio-Giugno 2011, pp. 221-229.

Note

1 Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, Petite Plaisance, Pistoia, 1998, p. 123.

2 Ibidem.

3 Cfr. Luca Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro, Il Prato, Saonara (Pd), 2009, pp. 48-50.

4 Ibidem, p. 50.

5 Ibidem, pp. 50-51.

6 Ibidem, p. 51.

7 Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, op. cit., pp. 130-131.

8 Luca Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro, op. cit., pp. 101-102.

9 Ibidem, pp. 104-105.

10 Ibidem, pp. 121-138. Un’efficacissima sintesi delle analisi di Domenico Losurdo è contenuta nel volumetto (da lui medesimo scritto) Il peccato originale del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1998.

11 Luca Grecchi, Conoscenza della felicità, Petite Plaisance, Pistoia, 2005, p. 41.

12 Ibidem, p. 40.

13 Ibidem, p. 41.

14 Ibidem, p. 94.

15 Cfr., in ibidem, p. 43.

16 Ibidem, p. 94.

17 Ibidem.

18 Ibidem, pp. 26-27.

19 Ibidem, p. 27.

20 Ibidem.

21 Ibidem, p. 38.

22 A titolo puramente indicativo, rinviamo per la trattazione di tali questioni al bel libro di Francesco Ferretti, Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana, Laterza, Roma-Bari, 2007; e agli importanti scritti di Frans de Waal, di cui ci limitiamo a menzionare Primati e filosofi. Evoluzione e moralità, Garzanti, Milano, 2008. Un’esposizione sintetica delle argomentazioni di tali autori e una loro discussione critica, inquadrate nel più ampio tentativo di abbozzare un’etica fondata su un’ontologia sociale materialistica, sono contenute nel mio Il bene come processo possibile concreto. Natura umana e ontologia sociale, Mimesis, Milano-Udine, 2010.

23 Edoardo Boncinelli, Il male. Storia naturale e sociale della sofferenza, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2007, p. 6.

24 Vittorio Girotto – Telmo Pievani – Giorgio Vallortigara, Nati per credere, Codice edizioni, Torino, 2008, p. 127.

25 Luca Grecchi, Conoscenza della felicità, op. cit., p. 113.

26 Cfr., a titolo di esempio, quanto Lukács scrive alle pp. 43-45 dell’ Ontologia dell’essere sociale, vol. II, Editori Riuniti, Roma, 1981.

27 Wolfgang Abendroth – Hans Heinz Holz – Leo Kofler, Conversazioni con Lukács, De Donato Editore, Bari, 1968, p. 88.

28 Luca Grecchi, Conoscenza della felicità, op. cit., p. 141.

29 Ibidem, pp. 120-121.

30 Ibidem, pp. 142-143.

31 Ibidem, pp. 44-45.

Il saggio è stato pubblicato su Koiné, Periodico culturale , Anno XVIII  –  NN° 1-3,  Gennaio-Giugno 2011, pp. 149-167.

 

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