Gianluca Cavallo – Potere e natura umana. Paradigmi a confronto

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Premessa

Che cosa sono io? E poi: che cosa è l’uomo, in quanto concetto universale? È possibile definirlo o sono tali e tante le differenze interne al genere cui ciascuno di noi appartiene da rendere questo uno sforzo vano?
Anche se l’uomo è a se stesso il primo e più immediato oggetto di riflessione, queste domande lo seguono da sempre, in maniera forse insolubile. Tuttavia, col rischio di fare un passo più lungo della nostra gamba, tenteremo qui, passando in rassegna le risposte più comuni nella storia del pensiero, di individuare quella che ci pare più corretta o, quanto meno, più persuasiva.
Siccome l’uomo è necessariamente inserito in un contesto sociale (o culturale) che in qualche modo ne determina le credenze e dunque il comportamento, prendere in considerazione diverse ipotesi di risposta su cosa sia l’uomo, significa porre attenzione anche al problema della sua relazione con il potere. Si vedrà, infatti, come diverse idee di “natura umana” coincidano con altrettante concezioni del potere, essendo facilmente assimilabili nel suo discorso di legittimazione.
Occorre allora chiarire, in via preliminare, che per “natura umana” si intende una caratteristica universale che sia condivisa dagli uomini di ogni tempo e di ogni luogo e perciò come un dato inemendabile che determina il comportamento degli individui sul pianeta e, per reazione, una risposta politica che si ritiene adeguata a questo. Le risposte alla domanda “che cos’è la natura umana?” che abbiamo individuato nella storia del pensiero e che abbiamo chiamato “paradigmi” sono le seguenti: 1) il paradigma realista, che considera la natura umana come qualcosa di realizzato e negativo (conflittuale); 2) quello moderno, che ritiene che l’uomo occidentale-europeo abbia realizzato pienamente la natura umana in termini positivi; 3) quello edenico, che considera la natura umana perfettamente realizzata come un dato perduto e irrecuperabile; 4) quello riduzionista, che considera il solo dato biologico dell’essere-umano; 5) quello negazionista, che afferma che una natura umana universale non esiste; 6) quello aristotelico-umanista, che considera la natura umana come una potenzialità da realizzare in base a determinati criteri universali.

Una natura umana compiuta e realizzata
Il paradigma realista
Nella maggior parte degli esempi di riflessione sull’uomo che ci fornisce la storia della filosofia troviamo una concezione della natura umana come un dato di fatto, facilmente constatabile da chiunque osservi la storia, la realtà politica, o, semplicemente, guardi con onestà dentro la propria anima. Tale atteggiamento è stato definito realista, in quanto considera la realtà umana come un fatto di cui il pensiero vero deve essere un rispecchiamento. Ogni proposizione espressa sull’argomento, potrà allora essere facilmente identificabile come vera, se ad essa corrisponde un elemento della realtà (cioè se è dotata di un referente); falsa, altrimenti.
Gli elementi che i pensatori aderenti a questa concezione ritengono di poter con esattezza individuare come caratteristiche universali sono tutti negativi: l’umanità è malvagia ed egoista, caratterizzata dal desiderio di sopraffazione in vista dell’ottenimento di una sempre maggiore quantità di beni ad uso esclusivamente personale (quella che in greco era detta pleonexia); tra gli uomini vige perciò naturalmente uno stato di odio e di guerra, cui solo una società artificialmente istituita può porre un rimedio, mai, peraltro, del tutto sicuro.
Il più prestigioso pensatore dell’antichità ad aver espresso per la prima volta in modo esplicito e compiuto queste idee è Tucidide, autore di quell’ opera fondamentale (per la filosofia, la storia e la storiografia) che è La guerra del Peloponneso. Nell’antichità classica, idee simili a quelle espresse da Tucidide furono sostenute soprattutto dai Sofisti. Che La guerra del Peloponneso narri di rapporti politici di alleanza e conflitto e che i sofisti esercitassero prevalentemente la loro professione nell’ambito della polis greca, sono dati che è utile qui ricordare per sottolineare lo stretto legame che una determinata idea di natura umana intrattiene con la riflessione politica.
Per mettere in luce i rapporti tra un’antropologia così pessimista e le risposte che si suppone la politica debba essere pronta a dare ai conflitti scatenati dall’egoismo umano, è bene fare riferimento all’opera di Thomas Hobbes, il quale può essere considerato il “sistematizzatore” della concezione di natura umana che stiamo descrivendo. Egli visse nell’Inghilterra del XVII secolo, in un’epoca in cui il paese era dilaniato dalle guerre civili, dai conflitti religiosi e politici; da questi fatti egli trasse, con un’induzione di dubbia validità, quelle che riteneva essere le caratteristiche universali dell’umanità e che aveva trovato descritte proprio in Tucidide, del quale, non a caso, egli fu uno dei primi traduttori moderni.
Secondo Hobbes, la natura umana si caratterizza per tre aspetti che la portano inevitabilmente ad ingenerare il conflitto tra i singoli: la competitività, la diffidenza e l’orgoglio. Vi è, poi, il fondamentale istinto alla conservazione della propria vita e dell’integrità del proprio corpo. La «somma» del diritto naturale è infatti «difendersi con tutti i mezzi possibili» [1] e questo è l’unico diritto inalienabile, tanto che nemmeno il sovrano assoluto può forzare il suddito a subire il male senza difesa. Questo è il bene assoluto che viene messo in questione nello «stato di natura», ossia nello stadio prepolitico dell’umanità. In questa condizione, non esistendo alcuna autorità che freni il diritto naturale che ciascuno ha su qualsiasi cosa e che tende a conseguire con qualsiasi mezzo, gli uomini «si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e tale guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo.  […] La natura della guerra non consiste nel combattimento effettivo, ma nella disposizione verso di esso che sia conosciuta e in cui, durante tutto il tempo, non si dia assicurazione del contrario.  […] In tale condizione non c’è posto per l’industria, perché il frutto di essa è incerto, e per conseguenza non v’è cultura della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare per mare, né comodi edifici, né macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza, né conoscenza della faccia della terra, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né società, e, quel che è peggio di tutto, v’è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve».
L’uomo è infatti indotto a ricercare il proprio vantaggio a danno di quello degli altri in parte per necessità, poiché egli deve contendere i pochi beni offerti dalla natura, in parte per sua propria volontà, poiché per natura egli è incline non già alla socievolezza, ma all’aggressività nei confronti del prossimo: «gli uomini non hanno piacere (ma al contrario molta afflizione) nello stare in compagnia, ove non ci sia un potere in grado di tenere in soggezione tutti».
Per uscire da questo stato di natura, in cui la vita e i beni di ciascuno sono costantemente esposti al pericolo, gli uomini debbono allora istituire la società, la quale è dunque un costrutto artificiale, contrario alla natura dell’uomo e limitante le sue libertà, e tuttavia necessario. Questo corpo sociale è descritto da Hobbes con la celebre metafora del Leviatano, figura mostruosa tratta dal libro Giobbe e usata dal filosofo inglese per descrivere l’unione di una moltitudine in una sola persona dei cui atti «ogni membro… con patti reciproci, l’uno nei confronti dell’altro e viceversa, si è fatto autore, affinché possa usare la forza e i mezzi di tutti, come penserà sia vantaggioso per la loro pace e la comune difesa».
Il potere che viene a costituirsi per ovviare agli inconvenienti dello stato di natura è un potere assoluto e coercitivo: la «logica realista» di Hobbes vuole che «dove c’è eguaglianza  […] non può esserci che conflitto, e dove si supera il conflitto non può esserci che gerarchia e struttura di dominio»[2]. Il governo del sovrano dev’essere teso alla conservazione più duratura possibile dell’ordine sociale, pena la ricaduta nello stato di guerra; dev’essere inoltre garantita la continuità al governo, quando un sovrano per qualche ragione decada, di modo che il Leviatano disponga di una «eternità di vita artificiale».
Se è vero che lo Stato hobbesiano è una monarchia assoluta, il cui sovrano può agire secondo arbitrio, non si deve tuttavia supporre che il potere da lui descritto sia di una forma superata da secoli e che non riguardi i nostri attuali regimi di governo, detti democratici. Lo Stato sempre assume le caratteristiche di violenza e coercizione che Hobbes gli attribuisce: il dissenso è disciplinato in maniera tale che non possa nuocere all’autorità e all’ordine costituito e «tutti gli uomini che non sono sudditi o sono nemici, oppure hanno cessato di esserlo per un patto precedente»[3]. Basti pensare a ciò che, in merito, sostiene Kant, considerato uno dei padri del liberalismo moderno: «in una costituzione civile già sussistente il popolo non dispone più di alcun giudizio giuridicamente valido che determini come essa debba essere amministrata»; l’unica libertà concessa è la «libertà della penna», la quale non può però istigare alla sovversione nei confronti del sovrano[4].
È chiaro, allora, come il paradigma realista diviene (se è vero) o è (se è falso) strumento dell’ideologia del potere statale moderno e della società mercantile capitalistica, che all’epoca di Hobbes non era ancora certamente sviluppata in senso industriale, ma di cui già si coglievano le prime avvisaglie.
Date queste premesse, infatti, il potere statale, per quanto coercitivo o violento che sia, o scarsamente rappresentativo degli interessi comuni del popolo di cui è fatto portavoce, è comunque legittimo e la forma peggiore di governo sarà comunque un male da tollerare in quanto migliore di uno stato di anarchia che si suppone asociale e necessariamente conflittuale. Un governo tirannico andrà magari sovvertito in vista di uno più democratico (Hobbes e Kant non contemplavano questa ipotesi, ma l’ha fatto la storia dell’istituzione statale, senza uscire dalle linee fondamentali del loro paradigma teorico), tuttavia il suo potere ordinatore e pacificatore sarà comunque considerato intoccabile ed indiscutibile. In effetti, le società statali occidentali non prevedono nell’ordine del loro discorso5 una riflessione sulla forma e le modalità del potere che metta in dubbio la forma statale, la quale si è trasformata in un corpo dotato di una eterna vita artificiale (come diceva Hobbes) e che non può e non deve mai morire.
Per comprendere meglio questo punto può essere utile esemplificare un atteggiamento opposto, quale quello rintracciabile nella storia di numerosi regni africani di epoca precoloniale, presso i quali era uso tracciare profondi solchi nella temporalità del potere, rendendola discontinua. Ciò era realizzato con l’apertura di una fase di interregno alla morte del sovrano in carica, il quale non veniva sostituito se non dopo una guerra fratricida tra i contendenti al potere, durante la quale la società cadeva nell’anarchia. Addirittura, la capitale del regno veniva abbandonata (o anche distrutta) e ricostruita in un luogo diverso, dove il potere si sarebbe instaurato nuovamente, ponendosi in discontinuità tanto spaziale quanto temporale rispetto alla fase di governo precedente. Contrariamente a quanto è considerato ovvio nella cultura statalista occidentale, secondo la filosofia politica rintracciabile nei regni dell’Africa equatoriale, sarebbe una contraddizione o un non senso l’operazione che invece è stata compiuta nell’Europa tra Medioevo e Rinascimento: ovvero, la concettualizzazione dello Stato come un “corpo” e la sua trasformazione ideologica in un corpo imperituro, che non conosce la morte.  […]
Nei regni dell’Africa equatoriale è individuabile una biologizzazione del potere: per quanto esso si astragga e cerchi di sottrarsi al tempo, il potere viene pur sempre ricondotto alle dimensioni e ai ritmi della vita, periodicamente inglobato nella società e nella natura. La biologizzazione del potere è una rappresentazione che prevede anche, periodicamente, l’ineluttabilità della sua scomparsa[6].

Questa lunga citazione permette di cogliere per contrasto come la nostra cultura abbia ereditato da Hobbes la teoria e la pratica del Leviatano come potere assoluto e imprescindibile. Ma che lo Stato sia un’istituzione neutrale con l’unico compito di rappresentare i cittadini (o sudditi), è un’ideologia che è stata messa in dubbio con serie ragioni da pensatori di diversa appartenenza politica. Per Rousseau e Spinoza soltanto la democrazia diretta realizzata in comunità di ristrette dimensioni potrebbe porre fine al dato coercitivo e violento del potere, che secondo Rousseau rappresenta ciò che non si può rappresentare e dunque inevitabilmente devia dall’esprimere la volontà del cittadino [7]. Per Marx e i marxisti la forma moderna di Stato non è altro che un prodotto della borghesia e, come tale, istituito a bella posta per l’espressione degli interessi particolari di questa classe (perciò lo Stato si sarebbe “dissolto” nella società comunista, dove nessun interesse particolare avrebbe dovuto prevalere su quelli comuni).
Ma, come accennavamo sopra, la concezione realista della natura umana, costituisce anche un terreno ideologico fertile per la società capitalistica. Se si suppone, infatti, che l’uomo sia per natura acquisitivo, individualista ed egoista, tutto teso a massimizzare il proprio interesse privato, la conseguenza logica sarà l’istituzione di una società capitalistica, la quale, così, potrà pure avere tutti i difetti che le si possono imputare, ma tuttavia sarà la migliore e infine anche l’unica possibile, perché rispondente alla natura dell’uomo.
Ci sembra che questa concezione della natura umana sia falsa, in quanto assume come naturale ciò che è invece un prodotto interamente culturale. Infatti sono le logiche di instaurazione e riproduzione del potere politico ed economico che plasmano gli individui in modo da renderli così come i realisti li descrivono, e non il contrario. La persona è portata a massimizzare il proprio interesse privato perché inserita in un contesto sociale in cui prevale la crematistica (criticata dai filosofi dell’antichità classica) o, in termini moderni, la logica del profitto capitalista. Che il contesto strutturale (in termini marxiani) sia determinante nei confronti delle soggettività e della loro elaborazione simbolica ci pare evidente dal momento che sia esempi storici che etnografici possono fornirci un dato valido contro le pretese universalistiche di questa impostazione di pensiero. Non tutte le società che nella storia e nel mondo sono esistite ed esistono vedono agire in esse individui malvagi ed egoisti, frenati nelle loro pulsioni distruttive soltanto dal potere istituito. Non è, infatti, un prodotto universale né lo stato centralizzato, né il capitalismo, che pure sembrano essere indispensabili a chi si ponga in questa prospettiva.
Come ha scritto MacIntyre, «a uno stadio particolare dello sviluppo storico di qualsiasi cultura particolare, la configurazione predominante di emozione, desiderio, soddisfazione e preferenza sarà compresa adeguatamente solo se questi saranno intesi come espressione di una particolare posizione morale e valutativa. Le psicologie intese in questo senso esprimono e presuppongono delle concezioni morali» [8]. In altre parole, se si suppone che certe inclinazioni siano “naturali”, in realtà si sta presupponendo che esse siano moralmente lecite, cosicché la morale precede sempre una teoria degli affetti e dunque non può basarsi su essa, se non in maniera ideologica.
La concezione realista della natura umana è, quindi, falsa, e tuttavia è la più diffusa. Questo non può essere spiegato che in termini di aderenza del discorso esposto alle logiche della riproduzione simbolica della cultura occidentale, la quale è in prevalenza legata ad un antiumanesimo crematistico, legato cioè a doppio filo con le logiche della massimizzazione dei profitti, che invertono mezzi e fini laddove l’economia diventa il fine dell’attività umana, e l’uomo è ridotto a mezzo di funzionamento del sistema. Luca Grecchi ha sostenuto in maniera convincente come questo antiumanesimo sia presente fin dalle origini della cultura occidentale, anche se inizialmente come atteggiamento minoritario (basti pensare che i più grandi filosofi dell’antichità erano ben distanti da posizioni simili, sostenute appunto dai sofisti), storicamente divenuto preminente fino ad assumere la quasi totalità della dimensione simbolica della nostra cultura odierna [9].

Il paradigma moderno
Vi è una seconda concezione che considera la natura umana come qualcosa di compiuto e reale, ma che si differenzia dalla precedente in quanto caratterizza l’umanità come dotata di caratteri essenzialmente positivi. La natura umana, in questa prospettiva, è qualcosa di realizzato in pienezza, ma ancora soltanto da una parte dell’umanità, che si trova in capo al treno della storia e del progresso. Inutile dire che questa minoranza del mondo è localizzata in Europa (o in Occidente) ed è caratterizzata dal trionfo della ragione sulla superstizione, della scienza sulla magia, dell’uomo sulla natura circostante, eccetera. Il resto del mondo è ancora intrappolato nei propri costumi arretrati, che si tratterebbe si spazzare via come un che di superfluo, in modo da far emergere finalmente la vera natura dell’uomo [10]. Fra gli innumerevoli esempi storici possibili, scegliamo quello di un filosofo tanto amato dagli illuministi e ancora oggi da molti filosofi di matrice analitica, cioè David Hume, il quale scrisse: «la grande superiorità degli europei inciviliti rispetto ai barbari indiani ci ha indotto ad immaginarci di essere, nei loro riguardi, allo stesso livello degli uomini rispetto agli animali e ci ha fatto buttar via tutti i freni della giustizia e perfino dell’umanità nei nostri rapporti con loro» [11].
La modernità illuminista elaborò una filosofia della storia essenzialmente ottimistica; formulata in maniera esplicita da Kant e soprattutto da Condorcet, essa divenne un dogma che, pur non accettato da tutti, rimase intatto fino al XX secolo, e vedeva nella modernità un’epoca di progresso sia nel campo della scienza che nel campo della morale e quindi della politica. Lo sviluppo della ragione umana avrebbe infatti portato ad una conoscenza scientifica sempre più dettagliata e onniesplicativa, ma avrebbe altresì garantito l’espulsione dal dominio dell’umano della barbarie morale che caratterizzava i tempi bui precedenti alla nova aetas. In questo modo la violenza ingiustificata dell’uomo sull’uomo sarebbe rimasta soltanto un ricordo lontano.
Analogo ottimismo sul futuro del genere umano mostrano tutte le grandi narrazioni di filosofia della storia elaborate nel secolo successivo: positivismo, hegelismo, marxismo. Il primo si gettava con cieca fiducia nelle mani della scienza, la quale sarebbe stata in grado, presto o tardi, non solo di dare ragione di ogni esistente, ma anche di estendere il dominio della società sull’uomo (in base alla conoscenza scientifica della natura umana si sarebbe infatti potuta costruire una società solida e fondata su dati certi) e sulla natura (conoscendola nei dettagli, la si sarebbe potuta sfruttare con il massimo profitto). «L’uomo, divenuto onnipotente, avrà soggiogato la natura utilizzandone le leggi per fare regnare su questa terra tutta la giustizia e libertà possibili. Non vi è scopo più nobile, più elevato, più grande. In esso consiste il nostro compito di esseri intelligenti: penetrare il come delle cose per dominarle e ridurle allo stato di meccanismi ubbidienti» [12]. L’hegelismo individuava nella storia il dispiegarsi dell’autocoscienza della libertà umana e pretendeva di individuare una forma statale entro la quale si sarebbe realizzata in sommo grado la libertà dell’uomo. Il marxismo, da canto suo, individuava un futuro regno della libertà che le leggi dialettiche intrinseche dello sviluppo delle forze produttive e dei mezzi di produzione avrebbero dovuto rendere prevedibile come esito certo della crisi del capitalismo industriale.
Che questa concezione della natura umana sia falsa è ovvio ormai anche per il senso comune. Da una parte, i progressi stessi della scienza hanno contribuito a metterne in crisi le pretese di onniesplicatività, di conoscenza e dominio (basti pensare al Principio di indeterminazione); dall’altra, la storia ha fatto riemergere, nel XX secolo, una barbarie e una violenza così sconvolgenti da rendere impensabile un ottimismo così ingenuo come a noi giustamente appare quello di certa filosofia moderna. La retorica postmoderna, del resto, ci ha abituati a ritenere che il Novecento abbia posto la parola fine a qualsiasi progetto della modernità, a qualsiasi possibilità di pensiero che domini la totalità del reale pretendendo di indicarne gli esiti futuri.
Se il paradigma moderno della natura umana è ormai inservibile, esso ha comunque avuto un’importanza storica fondamentale e non è del tutto scomparso, sotto certi aspetti, nemmeno oggi. L’individuazione dei caratteri della vera natura umana in ciò che la cultura occidentale aveva prodotto, ingenerava un sentimento di superiorità che portava a considerare l’Europa il luogo della civilizzazione e il resto del mondo vittima della barbarie, dell’inciviltà, dell’ignoranza, che sarebbe stato non solo lecito, ma anche giusto e buono per loro, conquistare e sottomettere, per impiantarvi i germi di una vera civiltà, di modo che tutto il mondo potesse assurgere allo splendore che l’Occidente vedeva nel suo specchio truccato (cioè l’ideologia, ancora una volta). La storia è nota: colonialismo, schiavismo, imperialismo, eccetera.
Naturalmente, abbiamo ancora una volta a che fare con un’ideologia di legittimazione non solo del potere politico, ma anche del capitalismo, il cui sviluppo necessita di un ampliamento costante dei propri spazi d’intervento, sempre e soltanto in nome della massimizzazione del profitto. È evidente, allora, che quest’ideologia non cessa di avere i suoi effetti nel mondo odierno, laddove si identifica l’Occidente con la Democrazia e si giustificano conflitti e mascherano interessi economici dietro la retorica democratica di quei governi che non si fanno problemi ad appoggiare dittatori quando questi sono ligi al dovere e che li abbattono quando diventano fastidiosi o pericolosi.
Se i filosofi postmoderni hanno perlopiù cessato di credere in qualsiasi valore universale e nelle metanarrazioni moderne, i potenti del mondo non hanno cessato di inzuppare di universalismo la loro retorica, attribuendo alla democrazia grosso modo lo stesso ruolo che aveva il comunismo nella teoria ortodossa marxista: un destino, la cui realizzazione deve essere favorita con ogni mezzo e il cui avvento porterà la libertà universale di tutti gli individui. I pensatori postmoderni non possono che prendere atto di questa realtà, ma si esimono dal darne una spiegazione coerente. Perché mai il progetto della modernità dovrebbe considerarsi fallito, quando ancora la maggioranza delle persone del mondo è succube di una retorica modernista e capitalista che ritiene ancora l’Occidente il modello a cui tutto il mondo dovrebbe guardare? La risposta di Lyotard è che l’universalismo cui fa riferimento la retorica politica è falso ed il progetto moderno è fallito proprio in quanto il capitalismo è portatore di un’universalità puramente ideologica [13], mentre qualsiasi alternativa ad esso sembra non poter avanzare alcuna pretesa, essendo peggiore del sistema attuale e pericolosamente totalitaria.
Ciò che qui si vuole sostenere è che il discorso politico odierno è, almeno in parte, assimilabile ad una metanarrazione di stampo illuministico, che vede nel corso della storia la possibilità di realizzare il modello occidentale su scala globale. Da questo punto di vista, il grand récit moderno è sempre stato fautore di un’universalità falsa ed ideologica e la retorica odierna non può esserne considerata il fallimento, bensì la naturale prosecuzione.
A parere di chi scrive, tuttavia, l’universalismo di per sé non costituisce un vizio della modernità da abbandonare in quanto ideologico o fallimentare. Si tratta di capire cosa si intende con universalismo, di modo da abbracciare con questo concetto qualcosa che non sia l’universalizzazione di un particolare (come nel caso della cosiddetta «occidentalizzazione del mondo», secondo un’espressione ormai celebre di Serge Latouche), bensì, se mi si passa il gioco di parole, una particolarizzazione dell’universale. Ma, su ciò, più diffusamente nel seguito.

Il paradigma edenico
Possiamo qui elencare una terza concezione della natura umana, che definiamo edenica, in quanto suppone che vi sia stato un uomo originario (ad esempio Adamo nella tradizione ebraica e cristiana) o un’umanità originaria (ad esempio i popoli primitivi, considerati paradigmi della buona naturalità dell’uomo, nella visione edulcorata che di essi avevano taluni intellettuali occidentali, come Rousseau) in cui erano presenti i caratteri della vera natura umana, i quali sono stati successivamente perduti, a causa del peccato o della corruzione dei costumi originari causata dalla cosiddetta civilizzazione.
Come ha notato Marshall Sahlins, si tratta, evidentemente, di un’inversione, rispetto al paradigma hobbesiano, del rapporto tra natura e cultura, tra physis e nomos, alle quali vengono assegnati qui valori assiologici opposti rispetto a quelli attribuiti da Hobbes e dai realisti. Ma le due concezioni si ricongiungono negli esiti, laddove viene considerata la natura umana corrotta degli edenisti in termini del tutto analoghi a quelli della natura umana originaria degli hobbesiani [14].
Va a finire, così, che anche il paradigma edenico diviene facilmente integrabile nel discorso di legittimazione del potere politico ed economico, il quale corrisponde a determinate caratteristiche umane. In questa prospettiva, tuttavia, la carica ideologica è meno pressante, in quanto, pur facendo propria una concezione realistica della natura conflittuale dell’uomo, non si suppone che questa sia originaria, e perciò si comprende come essa sia un prodotto culturale, contrario alla vera natura dell’uomo.
Il pensiero cattolico ritiene sì che gli uomini, discendenti di Adamo, portino sulle loro spalle il peso del peccato originale ed agiscano malvagiamente per l’inclinazione peccaminosa dei loro animi; tuttavia è sempre presente l’idea del riscatto. A differenza di certa teologia luterana e calvinista, che assume a propria base un rigido determinismo legato alla predestinazione di ciascuno alla vita eterna o alla perdizione, il pensiero cattolico ritiene pur sempre che la volontà umana, per merito della grazia divina, sia in grado di indirizzarsi verso il bene, in maniera tale da tendere ad una condizione adamitica di perfezione morale. È vero, dunque, che anche il pensiero politico cristiano vede nell’istituzione coercitiva una necessità, a causa della prevalente peccaminosità dell’uomo, ma lascia tuttavia aperto lo spiraglio della redenzione e l’ideale della comunità cristiana originaria o della «città di Dio» (Agostino) continua a valere come metro di paragone nei confronti della società esistente.
Per il pensiero roussoviano15 la civiltà ha compromesso definitivamente la naturalità spontanea e positiva dell’umanità originaria, la quale, allo stato odierno, è dunque costretta ad entrare in un sistema gerarchico ed istituzionalizzato che regoli la vita umana, divenuta nel frattempo di una tale complessità da non poter essere gestita dalle persone comuni. Ma anche Rousseau lascia aperta la via del riscatto, che passa attraverso la famiglia (La Nuova Eloisa), l’educazione (Emilio) e la politica (Il contratto sociale).
Pur essendo facilmente integrabile in un discorso di legittimazione del potere, il paradigma edenico mantiene una forza critica che va persa tanto nella concezione realista che in quella moderna della natura umana. Infatti, la condizione originaria (o anche il regno dei Cieli futuro, ove tutti sono uguali al cospetto di Dio) resta pur sempre un paradigma rispetto al quale si può valutare e giudicare la degenerazione del mondo odierno.

La natura umana tra biologia e cultura
Il paradigma riduzionista
Con lo sviluppo delle scienze biologiche, negli ultimi decenni è emersa una concezione della natura umana che intende identificare alcuni dati biologici universali, che si suppongono fondanti alcune caratteristiche tipiche dell’uomo rispetto ad altre specie animali. Queste caratteristiche possono essere positive (ad esempio il linguaggio, la creatività, l’altruismo) ovvero negative (l’egoismo, l’individualismo, l’utilitarismo).
Noam Chomsky è uno dei più prestigiosi teorici a sostenere l’esistenza di caratteristiche universali del comportamento umano determinate, almeno in parte, da meccanismi biologici. Egli sostiene infatti che esiste un insieme di schemi mentali innati, biologicamente determinati, che guidano il comportamento sociale e intellettuale degli individui, ed attribuisce a questi schemi proprio il concetto di «natura umana». In sintesi, si tratta di schemi di elaborazione che permettono al singolo di elaborare una risposta complessa a partire da un input di dati assai ristretto. Un esempio di questo meccanismo è il linguaggio: il bambino – sostiene Chomsky – ha un’esperienza linguistica «limitata e priva di ordine», che gli fornisce una quantità di dati «esigua» e di «bassa qualità». Per comprendere come sia possibile che il bambino, a partire da ciò, giunga ad una conoscenza «articolata, altamente sistematica e profondamente organizzata», è necessario supporre che esistano schemi innati che permettano l’elaborazione dei dati da parte del bambino, il quale fornisce un «contributo straordinario» alla creazione dell’output in termini di «creatività» [16]. Detto altrimenti, «le parole si apprendono, ma il linguaggio si sviluppa (come lo scheletro) più di quanto non s’impari» [17].
Com’è noto, Chomsky, oltre che ad essere un celebre linguista, è anche un militante e pensatore politico. Ancora una volta, dunque, la concezione della natura umana è strettamente legata ad una determinata visione della politica. Nella fattispecie, Chomsky, partendo dal dato della creatività intrinseca nei processi intellettuali umani, afferma che «una società più giusta dovrebbe massimizzare le possibilità di realizzare questa fondamentale caratteristica umana» [18] (cioè, appunto, la creatività).
Come si possa, da un dato biologico definito in maniera così generica, giungere con coerenza logica all’anarco-sindacalismo, non è del tutto chiaro. A parere di chi scrive, voler fondare una progettualità politica su un’astratta nozione di creatività, che si suppone determinata biologicamente, non è né efficace né coerente. È un tentativo che lascia insoddisfatti, per quanto si possa condividere la proposta politica di Chomsky, o il suo discorso sulle capacità innate nel soggetto umano; sono discorsi che restano separati e che possono avere una validità autonoma, ma sembra davvero difficile unirli in maniera convincente.
Possiamo considerare quello di Chomsky una forma di riduzionismo, in quanto riduce tutte le dimensioni dell’umano alla sola biologia, volendo fondare su di essa un cosmo sociale che implica il simbolico, il morale, il politico, ecc. In questo modo l’essere viene ricondotto «nell’angustia della semplice categoria della quantità», in linea con quella tradizione che principia grosso modo con Cartesio e che intende ridurre «il tutto dell’essere a ciò che la scienza ne può conoscere» [19]. Tuttavia, è lo stesso Chomsky a dover riconoscere che «è del tutto probabile che molte delle cose che ci piacerebbe comprendere,  […] come la natura umana o la natura di una società giusta o molto altro ancora, ricadano al di fuori dall’ambito di quel che la scienza può spiegare» [20].
Il riduzionismo biologico, d’altro canto, è utilizzato da alcuni per sostenere tesi sulla natura umana che, con l’apparenza di essere scientificamente fondate, sono opposte a quelle di Chomsky e in parte analoghe a quelle hobbesiane. Per usare le sintetiche parole di Sahlins, «l’idea che l’egoismo sia innato è stata recentemente rinforzata da un ondata di determinismo genetico che trova la sua espressione nel “gene dell’egoismo” dei sociobiologi e nel redivivo darwinismo sociale degli psicologi evoluzionisti» [21]. Ma non solo.
Nel XIX secolo alcuni scienziati positivisti tentarono di dimostrare come supposte differenze biologiche fossero delle barriere immutabili che impedivano lo sviluppo di una società più egualitaria. Il darwinismo ben presto si trasformò in «darwinismo sociale», utilizzato come metodo pseudoscientifico per giustificare le differenze economiche tra gli strati della società e tra le popolazioni in ambito coloniale. Nel XX secolo questa pseudobiologia è stata utilizzata per servire la causa della supremazia dell’uomo bianco o della razza ariana. Più recentemente, la psicologia evolutiva è diventata, nelle mani di qualcuno, una fonte per ammettere il patriarcato [22].
Queste teorie purtroppo non sono state abbandonate, hanno semmai cambiato faccia, e sono alla base delle presunte spiegazioni di qualsiasi tipo di comportamento umano, dall’omosessualità alla depressione, alla violenza, alla criminalità. Addirittura c’è chi millanta di aver individuato un gene per la condizione di senza tetto.
Esattamente come proposto dall’ambiziosa utopia positivista espressa da Zola ne Il romanzo sperimentale, le politiche della Rockefeller Foundation, in seno alla quale nacque negli anni Trenta quella disciplina che ha preso il nome di biologia molecolare, erano orientate – come ebbe a sostenere uno dei direttori della fondazione – «verso il problema generale del comportamento umano, con lo scopo di comprenderlo e quindi controllarlo.  […] La Scienza medica e le Scienze naturali propongono uno studio strettamente coordinato delle scienze che si occupano della comprensione della persona e del suo controllo» [23]. Il direttore della celebre rivista Science, alla domanda «perché dovremmo spendere soldi per il Progetto Genoma quando ci sono tante persone senza casa e senza lavoro?» rispose: «Il Progetto Genoma è più importante per quelle persone che per chiunque altro perché l’essere senza casa e senza lavoro sono una forma di handicap che sarà possibile curare una volta che si conosceranno a fondo i geni» [24].
La neurogenetica, una scienza “giovane”, nata dalla sintesi fra gli studi genetici e quelli neurologici, offre la prospettiva di identificare i geni che influiscono sulle funzioni cerebrali e quindi sul comportamento, ascrivendo loro un potere causale e alla fine modificandoli. La neurogenetica afferma di essere in grado di rispondere a questa domanda: in un mondo pieno di sofferenza individuale e di disordine sociale, dove dovremmo guardare non soltanto per spiegare, ma, ancor di più, per cambiare la nostra condizione?
La più naturale risposta ad una simile domanda, se priva delle premesse strettamente deterministiche che i neurogenetisti avanzano, sarebbe che la soluzione va ricercata in un affinamento delle leggi che regolano la vita sociale. Nel corso dei secoli il compito di risolvere questi problemi è stato affidato alla politica e alle scienze sociali, mentre oggi sembra che questa speranza non sia più sensata, anche perché non si è mai venuti, in nessuna epoca storica e in nessun contesto sociale, a capo di queste problematiche. La soluzione è dietro l’angolo, ed è solo questione di scienza. Del resto, se sono i geni a stabilire che cosa noi siamo e saremo, perché non dovrebbe darsi la possibilità di comprendere tutto solo in base ad essi?
Così, questo riduzionismo-determinismo riconduce il problema della natura umana ad una questione di genetica e la fondazione di una società politica alle scoperte della scienza. Ma sappiamo che queste ricerche sono ben lungi dall’essere neutrali, e identificano l’uomo con quell’atomo sociale utilitarista ed individualista che è l’idealtipo richiesto dal sistema capitalistico. Se infatti l’essenza dell’uomo va rintracciata unicamente nei suoi geni, l’identità di ciascuno sarà determinata in maniera endogena (indipendentemente dal contesto sociale) e gli eventuali comportamenti altruisti non saranno che il riflesso di una necessità biologica di riprodurre i propri geni (questa è la tesi di Richard Dawkins [25]). È facile constatare la somiglianza fra queste tesi e quelle che sostengono come il legame sociale derivi e si mantenga soltanto se i singoli ne derivano un’utilità individuale: tale è la verità per certo pensiero liberale, per il quale l’individualismo possessivo è sinonimo di libertà.
Ma il determinismo genetico è una posizione controversa all’interno della comunità scientifica ed ha ricevuto le sue fondate critiche. Come ha sottolineato in un’intervista Richard Lewontin, genetista di fama mondiale, «anche se avessi la sequenza completa del DNA di un organismo, se non conoscessi la sequenza degli ambienti in cui l’organismo si sviluppa, non potrei sapere quale aspetto avrebbe quell’organismo». Ma nemmeno l’ambiente [26] può servire da spiegazione sufficiente: la differenza, per esempio, tra le impronte digitali della mano destra e della mano sinistra non può essere spiegata né a livello genetico (i geni sono gli stessi per entrambe le mani), né a livello ambientale (l’ambiente in cui le due mani si sono sviluppate è lo stesso, cioè l’utero materno). Come si spiega allora una differenza come questa? Semplicemente non si spiega. Lewontin afferma che «durante lo sviluppo di un organismo probabilmente accade qualcosa a livello di movimenti evolutivi casuali, divisioni di cellule che si verificano per caso, su un lato piuttosto che sull’altro, e che non sono determinati né dai geni né dall’ambiente nell’accezione comune del termine, ma che incidono in maniera rilevante sull’aspetto finale dell’organismo» [27].
Quando si parla specificamente di esseri umani, che è la questione che maggiormente ci interessa, la questione si fa ancora più ardua, a causa dell’estrema complessità del nostro sistema nervoso: le connessioni sinaptiche si sviluppano in buona parte in maniera pressoché casuale, e ciò determina (in un certo senso) il nostro essere, senza nessuna influenza genetica.
Come ha sostenuto Clifford Geertz, le informazioni genetiche fornite dal nostro organismo non sono sufficienti a guidare il nostro comprtamento; per funzionare, lo stesso nostro cervello necessita di acquisire delle informazioni esterne, che sono tratte dal contesto culturale in cui l’individuo (e specialmente il bambino nella fase di formazione delle connessioni cerebrali) è inserito [28].
Alla base della vita sta dunque la complessità: l’espressione dei geni, l’ambiente cellulare ed extra-cellulare, nonché l’ambiente esterno all’organismo sono relazionati tra loro in una rete inestricabile: non vi è unidirezionalità causale; i livelli microscopici condizionano e sono condizionati dai livelli superiori.
Il riduzionismo dunque non è una strada percorribile per ottenere una risposta soddisfacente alle domande sulla natura umana e sulla società politica.

Il paradigma negazionista
Constatando l’inadeguatezza di tutte queste formulazioni del problema della natura umana e forti dei loro studi etnologici, alcuni antropologi hanno proposto di abbandonare l’idea, sostenendo che sia impossibile rintracciare un dato universale che caratterizzi la specie umana, siccome ogni diversa cultura porta a compimento forme diverse di umanità. Scrive Sahlins: «la natura umana è un divenire basato sulla facoltà di comprendere e mettere in atto lo schema culturale appropriato» [29]. La natura umana, secondo questa prospettiva, è qualcosa di non naturale, e viene a coincidere con la cultura; il che equivale a dire che una natura umana non esiste. Coma ha sintetizzato Francesco Remotti, secondo gli sviluppi più recenti dell’antropologia culturale si sostiene «l’irreperibilità dell’uomo al di là delle sue usanze, l’impossibilità di scoprirlo nudo nella sua ‘purezza’ originaria e preculturale» [30]. Essendo poi i costumi e le usanze sempre particolari e soggetti a mutamento, tale sarà allora anche l’idea di uomo, che non sarà più un concetto universale, ma sempre particolare e destinato anch’esso a mutare, in parallelo con il mutare dei costumi. In questo modo, la natura umana perde la sua stabilità e la sua unità, sicché «risulta ormai difficile parlare di ‘essenza’» [31] riferendosi all’uomo.
Il bambino nasce aperto a potenzialità pressoché illimitate (per fare un esempio, un bambino appena nato può potenzialmente apprendere qualsiasi lingua si trovi a sentire), le quali vengono gradualmente selezionate dalla cultura entro la quale si trova inserito, sicché da una parte la cultura si configura come un completamento di potenzialità che, selezionate, vengono attualizzate, e dall’altra come una rinuncia a potenzialità che vengono escluse. Ma la cultura non giunge mai a saturare completamente le possibilità di un individuo, sicché la si può caratterizzare anche come un processo che non giunge mai a compimento, perché l’uomo resta sempre aperto al mondo. L’incompletezza umana è, come ha scritto Remotti, «il presupposto  […] della capacità poietica e autopoietica che contraddistingue Homo sapiens» [32].
Se l’uomo è plasmato dal contesto culturale in cui è inserito, sarà allora impossibile parlare sia di uno stadio preculturale che di uno stadio prepolitico. Così è fatta cadere quella dicotomia fra individuo e società che il pensiero contrattualista dà per scontata e la dimensione sociale viene ad essere immediata, di modo che la caratterizzazione aristotelica dell’uomo come zoon politikon viene ad assumere un significato più preciso.
Tuttavia, questa prospettiva culturalistica, che nega qualunque contenuto alla natura umana, non è esente da rischi. Infatti, se l’uomo è determinato nelle sue scelte comportamentali in buona parte dalla cultura (pur essendo questa frutto di una convenzione sempre precaria ed esposta alla possibilità della revoca) e se di questa la dimensione simbolica è fondamentale per il controllo e la comprensione del comportamento umano, dovremo riconoscere che il potere ha larga parte nel plasmare le diverse forme di umanità. Il potere è infatti ciò che ordina il corpo sociale e ne organizza le forme della produzione e della riproduzione, che investono non soltanto – e nemmeno principalmente – la dimensione materiale, ma anche e soprattutto quella simbolica.
Tenendo conto del carattere gerarchico e coercitivo della maggioranza delle forme di potere diffuse al mondo, possiamo affermare che il potere gerarchizza il corpo sociale e in tal modo opera, all’interno di una stessa cultura, un’imposizione di diverse forme di umanità. L’equazione tra una cultura e una specifica forma di umanità, sostenuta da Geertz, ci sembra approssimativa. Il potere non è soltanto ciò che si differenzia dal resto della società e che opera una differenziazione tra la società da esso rappresentata e le altre [33]; esso è anche ciò che differenzia il corpo sociale. Inoltre al potere è ascrivibile l’organizzazione del discorso, che della cultura è un elemento fondamentale, coinvolgendo la dimensione del simbolico. È anzi mediante la produzione di regimi di discorso che il potere si legittima e in questo modo fonda e riproduce la gerarchia sociale che lo mantiene in vita dal punto di vista materiale.
Michel Foucault, nella lezione inaugurale che tenne al Collège de France il 2 dicembre 1970, individuò una serie di stratagemmi mediante i quali il potere organizza il discorso di una cultura. Quelle che ci paiono più importanti, nonché più diffuse, sono quelle che egli chiamò «procedure d’esclusione». Esse sono 1) l’interdetto; 2) la partizione; 3) l’opposizione del vero e del falso. Brevemente, l’interdetto consiste nell’esclusione di taluni argomenti da ciò che può essere detto: si concretizza in «tabù dell’oggetto, rituale della circostanza, diritto privilegiato del soggetto che parla» [34]. Come Foucalt sottolinea, gli ambiti in cui l’interdetto si applica maggiormente sono quelli della sessualità e della politica.
La partizione consiste nell’organizzare il discorso secondo opposizioni di termini il cui significato è socialmente e storicamente determinato. Ad esempio, l’opposizione tra ragione e follia, che va ben oltre il suo significato psichiatrico (anch’esso, comunque, secondo Foucault, non neutrale), e può essere utilizzato per screditare facilmente una posizione scomoda: un discorso critico radicale nei confronti del potere può essere facilmente tacciato di “follia” o di “utopismo”, termini che non sono poi così distanti.
L’opposizione del vero e del falso non riguarda ovviamente il livello logico della proposizione, ma ha a che fare con quella che Foucault chiama «volontà di verità» o «volontà di sapere», la quale è espressione del potere nelle varie forme che esso ha assunto nella storia. In questo senso, la volontà di verità è «storia dei piani d’oggetti da conoscere, storia degli investimenti materiali, tecnici, strumentali della conoscenza» [35]. Foucault descrive in tratti concisi ma estremamente efficaci quella volontà di verità che è emersa tra il XVI e il XVII secolo e che caratterizza ancora in buona parte la nostra cultura odierna: «una volontà di verità che imponeva al soggetto conoscente (e in certo modo prima di ogni esperienza) una certa posizione, un certo sguardo e una certa funzione (vedere più che leggere, verificare più che commentare); una volontà di sapere che prescriveva (e con modalità più generali di ogni strumento determinato) a che livello tecnico le conoscenze tecniche avrebbero dovuto investirsi per essere verificabili e utili» [36].
Può essere interessante, a questo punto, adottare le categorie elaborate da Ferruccio Rossi-Landi [37], secondo le quali, come il capitalista detiene i mezzi della produzione e della riproduzione materiale, così il potere politico detiene i mezzi della produzione e della riproduzione simbolica. In tal modo, il regime di discorso può essere paragonato al capitale costante di una determinata cultura, mentre ogni parlante può essere paragonato ad un “lavoratore linguistico” che, non detenendo i mezzi della produzione, non può modificarli, ma è costretto ad utilizzare materiale linguistico e comunicativo (generalizzando: simbolico) prestabilito. Si può dunque parlare di una vera e propria alienazione linguistica che, esattamente come l’alienazione del lavoratore nella teoria marxiana, può essere rotta soltanto con un atto rivoluzionario che sconvolga la cultura esistente.
Se si afferma che la cultura è la dimensione che realizza l’umano, non si può ignorare questa dimensione politica; ma se la si prende seriamente in considerazione, una prospettiva culturalistica che strumenti può offrire per un discorso valutativo che chiarisca quali forme di umanità (di cultura, di potere) sono accettabili e quali no? Ci sembra che l’idea che stiamo seguendo, che nega qualsiasi contenuto alla natura umana, non sia in grado di offrirne alcuno. Se non esiste un universale, infatti, non può esistere alcun valore, ed è soltanto in base a questi che si può sostenere con coerenza un discorso valutativo.
Alla base di questo negazionismo, possiamo individuare tre tesi filosofiche fondamentali: 1) non può essere affermata alcuna verità universale se si ritiene che l’uomo sia interamente plasmato dai costumi particolari; 2) ciascun essere particolare è in sé completo e vero: ogni cultura particolare è valida e giustificata secondo i parametri di giudizio da essa stessa elaborati; 3) supporre l’esistenza di una verità assoluta significa universalizzare un ‘noi’ culturale particolare, il quale si pone come superiore agli altri e come tale sempre potenzialmente violento. Com’è facile notare, queste tre tesi confluiscono in un evidente relativismo culturale. Geertz sostiene che il relativismo è una forma di sapere «coraggiosa», che destabilizza le rassicuranti certezze di chi vorrebbe attaccarsi ad una presunta verità. In realtà è il contrario: il relativismo è il frutto della paura della Verità, la quale – si sostiene – è violenta e totalitaria e porta con sé inevitabili derive, di cui gli orrori del XX secolo costituirebbero l’emblema.
Il relativismo è vecchio quanto il veritativismo, ma nella sua forma specificamente postmoderna esso (ri)nasce proprio dalla paura, come elaborazione di un lutto. Lyotard afferma esplicitamente (ne Il postmoderno spiegato ai bambini) che occorre negare validità alle pretese veritative delle grandi narrazioni perché esse hanno avuto come conseguenza – a suo dire – le guerre mondiali e le dittature del Novecento. È quindi una paura per la verità a far sostenere un facile relativismo, che, lungi dall’essere una posizione coraggiosa, è perfettamente inerente al discorso politically correct ed è una forma, nemmeno molto velata, di legittimazione dell’esistente. Si afferma che il relativismo mette al riparo dalla «paura per le differenze», ma lo fa semplicemente negando la possibilità della critica, tanto nei confronti del “noi” quanto dell’ “altro”.
Come insegna Alain Badiou [38], una Verità non può essere paurosa delle differenze, perché ad esse superiore. La Verità è sempre un universale che, come tale, considera, di fronte a se stesso, le differenze come non discriminanti; non già come inesistenti o da sopprimere, ma come un dato di fatto ineliminabile che tuttavia non può intaccare l’universalismo, che vale per chiunque. Anzi, la Verità si realizza solo tramite e grazie alle differenze, non già con una negazione di esse a favore di un Noi che si impone sugli Altri. In un certo senso, verità e universalismo vengono a coincidere, perché ogni verità non può che essere universale.
In tal modo si preserva la possibilità del discorso valutativo, dal momento che potremo considerare una cultura che, ad esempio, tolleri lo schiavismo, la discriminazione, lo sfruttamento, come non aderente al Vero, non già in quanto particolare (ogni cultura è infatti particolare), ma perché negatrice dell’universalismo ed esaltatrice delle differenze. Si noti, peraltro, che valutare non significa discriminare: come ha spiegato chiaramente Diego Marconi, nel considerare un valore che una cultura ritiene tale, noi possiamo benissimo sforzarci di comprenderlo e anche di scusarlo, ma ciò non significa che esso sia vero, per il semplice fatto che coloro che appartengono a quella cultura lo ritengono tale. Né voler riconoscere tutti i valori come equivalenti può sostenere davvero la possibilità di un dialogo interculturale, perché «i valori esigono di essere messi a confronto», sia per mettere alla prova la loro validità, sia per poter comprendere (anche se non giustificare) quelli propri o altrui che risultano falsi [39].
La critica dei relativisti contro la verità assoluta ha di mira un discorso ideologico che universalizza una verità particolare (e che, secondo la classificazione qui proposta, possiamo identificare con il paradigma moderno). In tal senso, la loro critica è indubbiamente corretta e filosoficamente valida. Tuttavia ci sembra che essi gettino via, per così dire, l’acqua sporca della verità così intesa con il bambino della verità tout court.
Seguendo il discorso di Badiou possiamo invece affermare che la Verità non è l’universalizzazione di un particolare, bensì una particolarizzazione dell’universale, nel senso che la speculazione filosofica ci ha insegnato: ogni concretizzazione di un concetto assoluto è storicamente (e geograficamente) determinata; nondimeno, essa corrisponde pur sempre all’Idea.
In tal modo, possiamo concludere che: 1) un’idea di Verità siffatta è perfettamente compatibile con la particolarità dei costumi; 2) non si può affermare che ogni cultura è valida secondo i suoi stessi criteri, ma, adottando il punto di vista dell’universale, si dovrà valutare se e quale cultura è eticamente e politicamente vera; 3) la Verità così intesa non è affatto prevaricatrice e violenta, ma si pone come un universale di fronte al quale le differenze non sono discriminanti.

Il paradigma aristotelico-umanista
Vi è un modo di intendere la natura umana che finora non abbiamo considerato, avendo deciso di porlo al fondo del nostro lavoro, quale conclusione positiva, dopo una serie di presentazioni in negativo di paradigmi che abbiamo ritenuto poco convincenti. Quest’ultima maniera di intendere la natura umana la considera come pura potenzialità, esattamente come il paradigma che abbiamo definito negazionista. A realizzare queste potenzialità (che includono certamente anche un dato biologico, ma che non possono essere limitate a questo, come fanno i riduzionisti), sarà ogni specifica e particolare cultura. A differenza del paradigma culturalista, tuttavia, il paradigma aristotelico-umanista considera tale potenzialità come indirizzata verso un telos determinato, che è la natura dell’uomo completa e realizzata, e che si realizza in una vita felice. Perciò questa prospettiva è insieme teleologica e eudemonistica, ciò che fa storcere il naso alla gran parte dei pensatori moderni e postmoderni, attaccati ai valori di una scienza sperimentale assolutamente non teleologica e ad un’etica che non considera più la felicità come una condizione stabile raggiungibile dall’uomo, ma semmai come momentanea soddisfazione di desideri sempre crescenti e alla fine insoddisfatti.
Siccome l’uomo non vive fuori dalla società, per definire la sua condizione di felicità occorrerà definire anche quale condizione sociale sarebbe la migliore per lo sviluppo delle sue potenzialità, cosa che ancora una volta è contraria al paradigma liberale e individualista, secondo il quale, se una felicità c’è, essa è un fatto individuale e dipende semmai da quanto il singolo è riuscito a sfruttare le occasioni che la società gli ha dato e non certo da una società eventualmente diversa e migliore dalla presente.
Per comprendere come si strutturi la teoria aristotelica (o di quei filosofi che si rifanno ad Aristotele), occorre leggere la sua famosa tesi secondo la quale «l’uomo è per natura un animale politico» [40] a partire dalla sua dottrina della potenza e dell’atto. Secondo quest’ultima, la potenza (dynamis) è capacità, movimento orientato ad un fine; l’atto (energheia) è la causa finale, il telos verso il quale tende qualsiasi dynamis. Per questo, «secondo la sostanza» esso «è anteriore» rispetto alla potenza: «tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso il fine: infatti, lo scopo (telos) costituisce un principio e il divenire ha luogo in funzione del fine. E il fine è l’atto (energheia)» [41]. Ogni cosa realizza pienamente la propria natura soltanto quando perviene all’attualizzazione, in quanto «l’atto è l’esistere della cosa» [42]. In base a questo principio possiamo dire che la politicità è l’essere-in-potenza dell’uomo, una dynamis che può realizzarsi soltanto nella comunità giusta. Il conflitto (il contrario della buona vita politica) e il vizio (il contrario della virtù), sono ciò che si frappone al raggiungimento dell’energheia. Infatti l’uomo è sì un essere naturale, ma soltanto le sue potenzialità fisiche e biologiche possono giungere all’atto «per virtù propria». La sue caratteristiche razionali, che fanno di lui uno zoon politikon logon echon, possono attualizzarsi soltanto «quando siano volute e non intervengano ostacoli dal di fuori» [43].
È chiaro, allora, come, nella definizione, «per natura» non significa che la politicità dell’uomo sottostia a regole naturali del tipo di quelle che regolano la fisica o la biologia. Così si potrebbe intendere se la socialità si risolvesse semplicemente nell’ambito dell’utile, in considerazione del fatto che l’uomo non può fisicamente e biologicamente sopravvivere da solo e perciò ha un bisogno naturale degli altri; ma per Aristotele la polis è molto di più:
la comunità cittadina non è costituita soltanto dall’identità del luogo, dall’astinenza dal danno reciproco e dalla garanzia dei rapporti commerciali, perché, sebbene queste cose siano imprescindibili per l’esistenza della città, tuttavia, anche se si realizzano tutte, non c’è ancora una città, ma questa è la comunità che garantisce la buona vita e alle famiglie e alle stirpi, e ha come fine una vita indipendente e perfetta [44].

Il termine greco per «natura» (physis) include nel proprio campo semantico un dinamismo, che Aristotele concettualizza appunto in termini di passaggio dalla potenza all’atto. Come si vede, secondo questa prospettiva, l’uomo realizza la propria natura soltanto quando vive in una comunità giusta (che secondo Aristotele significa che essa dà a ciascuno quanto gli spetta secondo il proprio merito, il quale va misurato a seconda di quanto il comportamento virtuoso del singolo abbia contribuito alla realizzazione del bene comune) e realizzi una vita «indipendente e perfetta». Come anche per Marx, infatti, l’uomo può realizzare la propria individualità soltanto in un contesto comunitario, il quale non è però oppressivo e totalitario, come sarebbe secondo una concezione meramente organicistica della comunità, ma è la condizione essenziale per il dispiegamento delle potenzialità dell’uomo «onnilaterale» [45].
Secondo la filosofia greca classica al concetto di uomo era immediatamente associata l’idea di ciò che lo rende pienamente e perfettamente tale. Alasdair MacIntyre ha notato come «uomo» sia, così inteso, un concetto funzionale. Esattamente come «il concetto di orologio non può essere definito indipendentemente dal concetto di buon orologio» e «il criterio che fa di qualcosa un orologio e il criterio che fa di qualcosa un buon orologio non sono indipendenti l’uno dall’altro», così l’uomo non può essere definito indipendentemente dall’idea della sua piena realizzazione. Un concetto funzionale può essere poi inserito in asserzioni del tipo ‘questo è un buon x’ (dove ‘x’ sta per un concetto funzionale) e tali asserzioni, che si concludono assiologicamente, saranno argomentazioni valide la cui premessa è basata su dati empirici (conoscendo la natura e la funzione di x potrò dire con certezza cosa è buono per x) [46].
Secondo Luca Grecchi, che interpreta la tradizione classica inserendosi positivamente nel suo solco, nell’uomo sono ritracciabili tre componenti: a) quella razionale, b) quella morale e c) quella simbolica. La a) non va intesa nel senso illuministico del termine (cioè come portatrice di progresso e di superiorità culturale dell’Occidente sulle altre culture), bensì nella sua accezione classica: essa riguarda «non tanto l’operatività sulle cose», quanto il significato che l’uomo attribuisce «ad ogni ente e relazione della vita» e quindi alla «trama complessiva di rapporti che unisce gli uomini fra loro ed al mondo» [47]. La componente b) va invece intesa, secondo Grecchi, come «cura che ogni uomo deve realizzare, per essere realmente uomo, nei confronti di ogni altro essere vivente e del mondo» [48], giacché soltanto in questo modo l’uomo può realizzare una comunità da cui sia espunto il conflitto e in cui la vita possa realizzarsi felicemente alla maniera aristotelica. Infine, la c) include la dimensione del sacro e di tutto ciò che assume un significato per l’uomo indipendentemente dalla sua utilità pratica: se quest’ultima presuppone l’attribuzione ad ogni cosa di un significato e una funzionalità specifica, lo spazio simbolico è ciò che resta aperto «alla ambivalenza dei contenuti» [49]. Il simbolico è forse la dimensione che maggiormente segna la differenza fra le culture, e tuttavia esso non va escluso in nome della verità, ma, proprio in base a questa, ha da essere valorizzato.
In questo modo non giungiamo a conclusioni così distanti da quelle cui giunge chi adotta il paradigma negazionista. Se questi ultimi possono assumere un atteggiamento critico nei confronti di un capitalismo che riduce la vivacità e la varietà culturale e che è in qualche modo percepito (correttamente) come indebita universalizzazione di un particolare, con caratteristiche di violenza e sopraffazione, ingiustizia e criminalità (seppur abilmente mascherate), noi possiamo adeguare la medesima critica al fondamento filosofico che proponiamo di assegnarle ed affermare che un tale sistema è deplorevole in quanto agisce contro la possibilità dell’uomo di realizzare le proprie potenzialità di vita felice e di giustizia. Ma, a differenza dei «negazionisti», non si intende qui destituire il capitalismo inteso come verità universale per valorizzare le differenze e negare la verità; al contrario, si afferma che il sistema che ci domina oggi è falso (in quanto non universale e discriminante le differenze) e che occorre affermare una Verità che confligga tanto con esso quanto con qualsiasi alternativa che debba essere destinata a restare un particolare, chiuso in se stesso e portatore di una verità parziale.

Note

1 Le citazioni seguenti sono tratte dal Leviatano, nella traduzione edita da Rizzoli, Milano, 2011.
2  P. P. Portinaro, Il realismo politico, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 26.
3 Leviatano, XXVIII.
4 I. Kant, Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari, 20098, p. 146 e p. 150.
5 Uso qui un’ espressione desunta da Foucault, su cui tornerò in seguito.
6 F. Remotti, Centri di potere. Capitali e città nell’Africa precoloniale, Trauben, Torino, 2005, p. 156.
7 Rousseau e Spinoza consideravano questa democrazia difficilmente realizzabile e tuttavia ponevano con coerenza un problema che non può essere ignorato.
8 A. MacIntyre, Giustizia e razionalità. Vol. 1. Dai greci a Tommaso d’Aquino, Anabasi, Milano, 1995, p. 98.
9 Cfr. L. Grecchi, Occidente. Radici, essenza, futuro, Il Prato, Padova 2009.
10 Cfr. F. Remotti, Cultura. Dalla complessità all’impoverimento, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 14.
11 D. Hume, Ricerca sui principi della morale, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 41.
12 E. Zola, Il romanzo sperimentale, tr. it I. Zaffagnini, in G. Baldi et al., Dal testo alla storia dalla storia al testo, vol. E, Paravia, Torino, 2000, p. 157.
13 Cfr. J.-F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 28: «la vittoria della tecnoscienza capitalistica sugli altri candidati alla finalità universale è un altro modo di distruggere il progetto moderno con l’aria di realizzarlo».
14 Cfr. M. Sahlins, Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, elèuthera, Milano, 2010, p. 41.
15 Sahlins ricorda come questo pensiero “nostalgico”, che vede nella storia un declino dalla condizione originaria, fosse già presente nella mitologia greca, in riferimento alla perduta età dell’oro di Crono; aggiunge inoltre che resoconti, in epoca moderna, di simili concezioni sono giunte anche dall’America o da Tahiti. Cfr. M. Sahlins, Un grosso sbaglio, op. cit., p. 44.
16 N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana. Invariante biologico e potere politico, DeriveApprodi, Roma, 2005, pp. 8-11.
17 D. Marconi, Il ritorno della natura umana, in N. Chomsky, M. Foucault, Della natura, op. cit., p. 95.
18 N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana …, op. cit., p. 47.
19 C. Vigna, L. Grecchi, Sulla verità e sul bene, Petite Plaisance, Pistoia, 2011, p. 67.
20 N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana …, op. cit., p. 36.
21 M. Sahlins, Un grosso sbaglio …, op. cit., p. 100.
22  B. Ehrenreich, J. McIntosh, The New Creationism, «The Nation», 9 giugno 1997.
23 Cit. in S. Rose, Linee di vita. La biologia oltre il determinismo, Garzanti, Milano, 2001, p. 314.
24 Cit. in R. Lewontin, Il mito del DNA: le false promesse del Progetto Genoma, intervista dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, 1 gennaio 1992, Rai Educational, http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=445. Il Progetto Genoma Umano (HGP, Human Genome Project) è stato un progetto di ricerca finanziato per 3 miliardi di dollari da Stati Uniti e alcuni paesi europei, il cui scopo, raggiunto all’inizio del terzo millennio, era quello di mappare l’intero genoma umano. Di questo progetto Lewontin fu sempre oppositore. Si veda anche R. Lewontin, Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza, Laterza, Roma-Bari, 2002.
25 Celebre è l’affermazione di questo scienziato secondo la quale «noi siamo macchine per la sopravvivenza, veicoli robotici ciecamente programmati per conservare molecole egoiste note come geni». Cfr. R. Dawkins, Il gene egoista, Arnoldo Mondadori, Milano, 1995, cit. in S. Rose, Linee di vita, op. cit., p. 15. Per una sintetica esposizione delle posizioni di Dawkins e un confronto con una posizione critica, si veda B. Goodwin, R. Dawkins, What i san organism? A discussion, in N. S. Thompson, ed., Perspective in Ethology, Volume II: Behavioral Design, Plenum Press, New York, 1995, pp. 47-60, disponibile su google books oppure all’indirizzo http://www.fortunecity.com/emachines/e11/86/organism.html.
26 Con questo termine si intende ciò che va dall’intracellulare all’extracorporeo.
27 R. Lewontin, Critica al riduzionismo genetico, intervista dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, 2 giugno 1992, Rai Educational, http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=446#torna.
28 Cfr. C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987; cit. in F. Remotti, Cultura, op. cit.,, p. 22. Cfr. anche gli scritti di G. Pezzano editi da Petite Plaisance in questi anni.
29 M Sahlins, Un grosso sbaglio …, op. cit., p. 122.
30  F. Remotti, Cultura …, op. cit., p. 15.
31  Ivi, p. 16.
32  Ivi, p. 155.
33  Cfr. F. Remotti, Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio del tempo e del potere, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 49.
34  M. Foucault, L’ordine del discorso e altri interventi, Einaudi, Torino, 2004, p. 5.
35  Ivi, p. 9.
36  Ibidem.
37  F. Rossi-Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Bompiani, Milano, 1968.
38  A. Badiou, San Paolo. La fondazione dell’universalismo, Cronopio, Napoli, 20102.
39  D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino, 2007, pp. 135-138.
40  Etica Nicomachea I, 5, 1097b 11; Politica I, 2, 1253a 2
41  Metafisica Θ, 8, 1050a 7-9.
42  Metafisica Θ 6, 1048a 32.
43  Metafisica Θ, 7, 1049a 5-17.
44  Politica III, 9, 1280 b 31-35.
45  Cfr. D. Fusaro, Marx pensatore della libera individualità, «Giornale Critico di Storia delle Idee», 2009, 1, http://www.giornalecritico.it/ (url visitato 14/11/12)
46  Cfr. A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Armando Editore, Roma, 2007 [1981], pp. 92-93.
47 L. Grecchi, Conoscenza della felicità, Petite Plaisance,  Pistoia, 2005, p. 41.
48  Ivi, p. 44.
49  Ivi, p. 47.