Herbert Marcuse (1898-1979) – Il presupposto fondamentale della rivoluzione, la necessità di un cambiamento radicale, trae origine dalla soggettività degli individui stessi, dalla loro intelligenza e dalle loro passioni, dai loro sensi e obiettivi. La soggettività liberatrice si costituisce nella storia interiore degli individui. Solo come straniamento l’arte svolge una funzione cognitiva. Essa comunica verità non comunicabili in nessun altro linguaggio: essa contraddice.

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La dimensione estetica

La dimensione estetica

«Se l’ideologia diventa mera ideologia […] si attua una svalutazione dell’intero regno della
soggettività, una svalutazione non solo del soggetto in quanto ego cogito, il soggetto razionale, ma anche dell’interiorità, delle emozioni e dell’immaginazione. La soggettività degli individui, la loro stessa coscienza e l’inconscio tendono a essere dissolti nella coscienza di classe.
In tal modo viene minimizzato un presupposto fondamentale della rivoluzione, cioè il fatto che la necessità di un cambiamento radicale debba trarre origine dalla soggettività degli individui stessi, dalla loro intelligenza e dalle loro passioni, dai loro sensi e obiettivi. La teoria marxista dovette soccombere a quella stessa reificazione che aveva denunciato e combattuto nel complesso della realtà sociale. La soggettività divenne un atomo dell’oggettività; persino nella sua forma ribelle si arrese a una coscienza collettiva. La componente deterministica della teoria marxista non consiste nella relazione tra esistenza sociale e coscienza, ma nel concetto riduttivo di coscienza che neutralizza il contenuto specifico della coscienza individuale e, con ciò, il potenziale soggettivo per la rivoluzione.
[…] La soggettività liberatrice si costituisce nella storia interiore degli individui – la loro storia personale, che non s’identifica con la loro esistenza sociale. È la storia particolare dei loro incontri, delle loro passioni, gioie e sofferenze, esperienze che non traggono necessariamente origine dalla loro condizione di classe e che non sono nemmeno comprensibili in questa prospettiva. Certo, le manifestazioni concrete della storia degli individui sono determinate dalla loro condizione di classe, ma tale condizione non è il fondamento del loro destino, di quello che accade loro. Specialmente nei suoi aspetti non materiali essa infrange la cornice sociale. È troppo facile relegare amore e odio, gioia e dolore, speranza e disperazione nell’ambito della psicologia, escludendoli cosÌ dalla sfera della prassi politica radicale. Per la verità, in termini di economia politica potrebbero non essere “forze produttive”, ma per ogni essere umano questi aspetti sono decisivi e costituiscono la realtà.
Anche tra i suoi esponenti più illustri l’estetica marxista ha partecipato alla svalutazione della soggettività. Da qui la preferenza per il realismo come modello di arte progressiva, la denigrazione del romanticismo in quanto semplicemente reazionario, la condanna dell’arte
“decadente! in generale, l’imbarazzo nel valutare le qualità estetiche di un’opera in termini diversi dalle ideologie di classe.
La tesi che mi accingo a discutere è la seguente: le qualità radicali dell’arte, vale a dire la denuncia della realtà costituita e l’evocazione della bella immagine (schöner Schein) della liberazione, si fondano precisamente nella dimensione in cui l’arte trascende la propria determinazione sociale e si emancipa dall’universo dato del discorso e del comportamento, conservando tuttavia la sua presenza schiacciante. In tal modo l’arte crea il regno in cui diventa possibile il sovvertimento dell’esperienza che le è proprio: il mondo da essa forgiato è riconosciuto come una realtà soffocata e distorta nella realtà data. Questa esperienza culmina in situazioni estreme (di amore e di morte, di colpa e di fallimento, ma anche di gioia, di felicità e di soddisfazione) che fanno esplodere la realtà costituita in nome di una verità solitamente negata o neppure ascoltata. La logica interna dell’opera d’arte sfocia nell’emergere di un’altra ragione, di un’altra sensibilità, che sfidano la razionalità e la sensibilità incorporate nelle istituzioni sociali dominanti.
In nome della legge della forma estetica, la realtà data è necessariamente sublimata: il contenuto immediato è stilizzato, i “dati” vengono rimodellati e riordinati secondo le esigenze della forma artistica, secondo la quale persino la rappresentazione della morte e della distruzione evocano il bisogno della speranza, un bisogno radicato nella nuova coscienza incorporata nell’opera d’arte.
La sublimazione estetica promuove la componente affermativa, riconciliante dell’arte, nonostante sia allo stesso tempo veicolo della funzione critica, di negazione dell’arte. La trascendenza della realtà immediata manda in frantumi l’oggettività reificata dei rapporti sociali costituiti e apre una nuova dimensione dell’esperienza: la rinascita della soggettività ribelle. Così, sulla base della sublimazione estetica, si attua una desublimaziane nella percezione degli individui, dei loro sentimenti, giudizi, pensieri; un’invalidazione delle norme, dei bisogni e dei valori dominanti. Con tutte le sue caratteristiche di ideologia e di conferma, l’arte permane una forza del dissenso.
Possiamo provvisoriamente definire la “forma estetica” come il risultato della trasformazione di un dato contenuto (fatto di cronaca o storico, personale o sociale) in un tutto autosufficiente: una poesia, un lavoro teatrale, un romanzo ecc. L’opera è così “sottratta“ al processo incessante della realtà e assume un significato e una verità che le sono proprie. La trasformazione estetica si attua mediante un rimodellamento del linguaggio, della percezione e della comprensione volto a svelare l’essenza della realtà nella sua apparenza: le potenzialità represse dell’uomo e della natura. In questo modo l’opera d’arte ri-presenta la realtà mentre la denuncia.
La funzione critica dell’arte, il suo contributo alla lotta per la liberazione, risiede nella forma estetica. Un’opera d’arte è autentica o vera non in virtù del suo contenuto (cioè della rappresentazione “corretta” delle condizioni sociali), né della forma “pura”, ma per opera del contenuto che è diventato forma.
Così, se è vero che la forma estetica tiene lontana l’arte dalla realtà della lotta di classe – dalla realtà pura e semplice – ed è ciò che costituisce l’autonomia dell’arte vis à vis con il “dato”, questa dissociazione tuttavia non produce “falsa coscienza” o mera illusione, ma piuttosto controcoscienza: la negazione della mentalità realistico-conformista.
Forma estetica, autonomia e verità sono interdipendenti. Ciascuna di esse è un fenomeno storico-sociale e ciascuna trascende l’arena storico- sociale. Mentre quest’ultima limita l’autonomia dell’arte, non invalida però le verità transstoriche espresse nell’opera. La verità dell’arte consiste nella sua capacità di infrangere il monopolio della realtà costituita (cioè di coloro che l’hanno costituita) e di definire che cosa è reale. In questa rottura, che è la conquista della forma estetica, il mondo fittizio dell’arte appare come la vera realtà.
L’arte si affida a quella percezione del mondo che aliena gli individui dalla loro esistenza funzionale e dalla prestazione fornita nella società – si affida a un’emancipazione della sensibilità, dell’immaginazione e dell’intelligenza a tutti i livelli della soggettività e dell’oggettività.
L’elaborazione estetica diventa veicolo di inquisizione e di denuncia. Ma questa conquista presuppone un grado di autonomia che sottrae l’arte al potere mistificante del dato e la libera all’espressione della propria verità. Dal momento che uomo e natura si costituiscono
entro una società non libera, le loro potenzialità represse e distorte possono essere rappresentate solo in forma estraniante. Il mondo dell’arte è quello di un altro principio di realtà, dello straniamento, e solo come straniamento l’arte svolge una funzione cognitiva. Essa comunica verità non comunicabili in nessun altro linguaggio: essa contraddice».

Herbert Marcuse, La dimensione estetica. Un’educazione politica tra rivolta e trascendenza, a cura di Paolo Perticari, Guerini e Associati, 2002, pp. 15-18.


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