Raffaele Salvi – Per Mauro Peroni la felicità è possibile eclissando le dinamiche capitaliste che, nell’offerta di infiniti oggetti, rendono illimitato il desiderio. Occorre impegnarsi in una vita ricolma di senso, in cui lo scopo da raggiungere è la vita stessa.

Occorre impegnarsi in una vita ricolma di senso, in cui lo scopo da raggiungere è la vita stessa.

Mauro Peroni

Felicità possibile

Esercizi filosofici su sofferenza, desiderio e tempo

ISBN 978-88-7588-268-6, 2020, pp. 176, Euro 15 – Collana “Il giogo” [122]

indicepresentazioneautoresintesi

Mauro Peroni affronta il tema della felicità in maniera assai differente rispetto ad altre letture, come ad esempio quella socratica ed heideggeriana. Mentre, infatti, tali autori fanno della cura l’oggetto della trattazione, Peroni la considera come stile, piuttosto che come oggetto. Egli, inoltre, prende parzialmente le distanze dal classico tema dell’eudaimonia ed indaga la felicità anche attraverso discipline quali la sociologia e la psicologia, non limitandosi ad uno sguardo di stampo puramente filosofico. La felicità che viene ricercata, inoltre, costituisce il tentativo di raggiungere un’esistenza piena, e non soltanto la soddisfazione di uno stato emotivo transitorio.

Il primo capitolo, dal titolo «Sofferenza e trasformazione», rappresenta il nodo gordiano del problema della ricerca della felicità a partire dal suo opposto, l’infelicità. Ecco perché l’Autore ritiene utile partire da un esame della società contemporanea, in cui la depressione risulta essere una malattia collettiva e simultaneamente uno status costante della società in cui l’individuo si identifica. Perciò la depressione si configura come una mancanza di qualcosa, come una patologia in cui l’individuo non risponde più ad un sistema di virtù collettivamente condiviso. Non ci troviamo, infatti, più di fronte all’idea aristotelica di comunità; al contrario la realtà vigente è quella individualistica, in cui l’individuo è colui che decide ciò che gli manca per essere felice e, in questo modo, diventa l’artefice della propria depressione (che corrisponde alla mancata autorealizzazione). Peroni afferma che «per cogliere appieno la portata sociale e culturale di tale questione, il fenomeno sommerso della depressione va considerato all’interno del più ampio spettro problematico in cui l’io contemporaneo è coinvolto e che può essere condensato nella definizione di individualismo illimitato» (p. 17). Per completare il quadro in cui si alimenta tale fenomeno, bisogna citare anche la dittatura del mercato del lavoro, che si affianca all’insufficienza emotiva di cui ogni individuo diviene artefice: il soggetto viene forzato a desiderare in modo illimitato e così il desiderio, privo di peras, risulta essere il punto di origine della depressione umana. In virtù di questa sua natura, inoltre, la depressione diventa a tal punto interiorizzata da non essere possibile sconfiggerla.

A questo proposito l’Autore dichiara: «si è visto che oggi il ferimento ed il fallimento delle aspirazioni di vita originano dalle stesse dinamiche sociali che inducono tali aspirazioni, pungolando i soggetti a prodursi in un vitalismo drogato» (p. 27). Perciò la depressione costituisce un vero e proprio arcipelago in cui viene relegato il dolore dell’Io, in cui il soggetto sotterra la propria coscienza. Esorcizzando il dolore, viene persa la sua possibile funzione paideutica e così risulta impossibile il superamento della soglia depressiva. La problematica patologica invece viene affrontata da Jung, secondo cui «l’individuazione è un movimento che si offre da sé stesso, naturalmente, ed allo stesso tempo rappresenta un compito, arduo e dai risultati non scontati, perché implica un patire, una passione dell’Io» (p. 43). Così Jung ricorre al concetto di individuazione inquadrandolo come una ricerca per la realizzazione delle potenzialità dell’individuo. Il Sé deve essere colto nella sua dinamicità e non in quella statica visione, destinata alla necrosi, in cui lo relega la psicanalisi di stampo freudiano. Perciò la ricerca della felicità risulta essere una ricerca verso e dentro il Sé, una ricerca dell’Io e della propria identità, una discesa nell’inconscio umano, una ricerca che necessariamente procede attraverso il dolore e lo affronta risolvendolo e potenziando le possibilità dell’Io.

In tal senso il Sé è in continua trasformazione e tale dinamica mutevole deve essere compresa in una forma fluida, in modo tale da poter sconfiggere l’immobilismo della depressione che l’umanità sta affrontando. Successivamente Peroni esamina il nesso tra il desiderio e la vita felice, indagando le motivazioni che sono a fondamento del desiderio. Infatti, alla base dell’agire umano c’è la voglia stessa di vivere, la quale non si riduce alla semplice sopravvivenza fisica del corpo. Proprio per queste ragioni, il desiderio pone la persona all’interno di una molteplicità di scelte.

Inoltre bisogna necessariamente distinguere il desiderio dalla vita felice, poiché se il primo risulta essere infinito, al contrario la vita felice riguarda la nostra finitezza. Il sinologo Francois Jullien definisce la felicità un flusso, perciò un’idea totalmente differente dalla ricerca occidentale dell’autorealizzazione, poiché si perde nel pensiero orientale l’idea e la concretezza dell’Io.

Nella terza sezione viene costruita una traccia di stampo genealogico sul tema della felicità e del desiderio, e viene così affrontato il problema del ritmo, il quale viene definito da Platone come una forma di movimento che il corpo compie durante la danza. In maniera diversa la pensa Bachelard, per cui il ritmo rappresenta il basilare modello di sviluppo della vita, poiché è la radice della dinamica psichica e vitale di ogni essere umano.

L’ultima sezione, intitolata «Pensare bene per agire bene: una proposta educativa», mira a ripercorrere e, al tempo stesso, a concludere il percorso inaugurato nei capitoli precedenti. L’Autore afferma che tale proposta si colloca in uno specifico orizzonte culturale: quello della filosofia pratica di stampo greco. Perciò l’esigenza è quella di educare i ragazzi all’esercizio del kairos aristotelico, inquadrando la ricerca del sé in una specifica temporalità.

Il percorso di Mauro Peroni si declina all’interno di un panorama piuttosto variegato di esemplificazioni e così la stigmatizzazione del desiderio è denotata dalla visione dello stesso nella forma di una ricerca illimitata per un essere limitato come l’uomo. La felicità non deve essere considerata come un traguardo della nostra esistenza, visto che si deve mirare a vivere felicemente e non a raggiungere la felicità. Tale processo può essere accolto soltanto dimenticando le dinamiche capitaliste del desiderio, in cui il desiderio diventa illimitato, poiché gli stessi oggetti del desiderio risultano infiniti. Pertanto, in conclusione, si può dire che l’unica modalità per rimuovere l’infelicità umana e il fenomeno della depressione è la sostituzione degli infiniti oggetti del desiderio con una vita piena, in cui lo scopo da raggiungere è la vita stessa.

Raffaele Salvi

                


Mauro Peroni

Felicità possibile

Esercizi filosofici su sofferenza, desiderio e tempo

ISBN 978-88-7588-268-6, 2020, pp. 176, Euro 15 – Collana “Il giogo” [122]

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«Solo se pensi alla gente saprai qualcosa».

Elias Canetti, Il cuore segreto dell’orologio

 

Questo libro si colloca sulla lunghezza d’onda di quelle che vengono chiamate “pratiche filosofiche”. Esse consistono in modalità di declinazione del filosofare che si prefiggono di integrare, senza volerle sostituire, le tradizionali forme accademiche dell’insegnamento e della ricerca scientifica indirizzata ad un circuito di fruizione prettamente specialistico. A segnare la distanza fra i due orizzonti è, soprattutto, il fatto che le pratiche filosofiche intendono farsi carico delle richieste di senso che circolano diffusamente nell’attuale scenario sociale. Più esattamente, esse provano a fornire possibili risposte a tali richieste: risposte che non esauriscano le domande ma le rendano sostenibili. Ciò significa che mentre la filosofia nella sua configurazione tradizionale tende a limitarsi a studiare il fenomeno contemporaneo della dolorosa mancanza di senso del vivere che molte esistenze vanno sperimentando, le pratiche filosofiche tentano di offrire, ad un’utenza la più vasta possibile, strumenti per ridurre questo spaesamento o almeno limitarne gli effetti più nocivi.

Va evidenziato che esse non costituiscono “applicazioni” della disciplina filosofica (così come, ad esempio, si danno forme di etica applicata all’economia o alla scienza), poiché invece muovono in direzione della promozione di un modo di essere filosofico. Laddove con questa espressione si intende – con chiaro riferimento al tema della saggezza tipico del filosofare antico – anche un modo di vivere, caratterizzato dalla capacità di mettere in discussione se stessi (le proprie idee, i propri criteri di giudizio, la propria maniera di compiere scelte e di relazionarsi agli altri, ecc.), al fine di conseguire un’esistenza coerente, ricca di significato e valore, realmente appagante.

Tali pratiche assumono configurazioni differenti, fra le quali mi limito a segnalare la consulenza rivolta a singoli o a gruppi e la promozione della metodologia dialogico-relazionale all’interno di contesti organizzativi ad alto tasso di complessità gestionale (ad esempio aziende ed ospedali). In tempi recenti esse hanno iniziato a retroagire nella realtà accademica, per cui in alcuni dipartimenti universitari sono stati attivati corsi di pratiche filosofiche. Anche in forza di questo feedback, a mio avviso prezioso, si origina la ricerca concretizzatasi nel presente contributo. Una ricerca in cui l’approccio filosofico essenziale viene affidato al gesto del curare.

Senza dubbio il tema della cura conosce da tempo una vasta diffusione nell’ambito degli studi filosofici, dove viene svolto in una molteplicità di direzioni di indagine che, a seconda dei casi, si rifanno in maniera più o meno esplicita ai due luoghi teorico-concettuali da cui esso proviene: l’epiméleia del pensiero socratico e l’heideggeriana Sorge. Ma si tratta, appunto, del tema della cura. Nel senso che in queste numerose trattazioni la cura rappresenta l’oggetto dei discorsi filosofici, i quali di volta in volta domandano, per esempio, quale sia il significato da attribuire a tale termine, quali siano le pratiche soggettive e collettive che possono essere sussunte sotto di esso, quale sia il suo possibile impiego in sede epistemologica e così via. Questo testo, invece, si caratterizza per un taglio differente, poiché prova a fare della cura lo stile del suo discorso. Esso, cioè, presenta un filosofare che non si occupa di parlare delle pratiche di cura, ma ha l’ambizione di costituire esso stesso una pratica di cura. Nello specifico, presentandosi come serie di esercizi volti a favorire il dispiegamento delle condizioni di possibilità di una vita felice.

Tale intenzione prende corpo, anzitutto, nella scelta preliminare di distanziarsi dall’approccio diffuso che tratta la questione della felicità come se fosse una domanda specifica della filosofia, mentre invece essa è una domanda dell’umano. Una domanda che può essere avvicinata in modo filosofico come anche a partire da altre prospettive, ad esempio psicologiche o teologiche. Facendo della questione della felicità una faccenda di proprietà della filosofia, non di rado si finisce con l’indagarla limitandosi a commentare e confrontare le teorie sulla felicità che la storia del pensiero filosofico ha ampiamente prodotto, smarrendo così il contatto con i mondi di vita storicamente determinati da cui essa continua a scaturire sotto forma, appunto, di domanda di felicità. In questa scelta preliminare è da vedersi la ragione del fatto che nelle pagine che seguono si troveranno rari riferimenti a testi filosofici sulla felicità.

Pertanto, lo stile curante del lavoro si esprime, in primo luogo, nel prendersi cura della domanda di felicità che proviene dal nostro presente e, quindi, nel non impiegare il concetto di felicità come fosse un universale di senso impermeabile al divenire storico.

In secondo luogo, l’assunzione di questo stile ha condotto a non limitarsi a stendere il resoconto delle sciagure del nostro tempo (che pure sono numerose), ma a coniugare la lettura critica dell’oggi con uno sforzo teoretico mirante ad indicare, motivandole, buone pratiche di vita nel presente, ovvero modi di essere che possano rivelarsi capaci di far fiorire l’esistenza anche in un frangente storico che, sotto diversi profili, risulta disumano.

In tal senso, il discorso che segue procede lungo una traiettoria che si distanzia da quelle che mi paiono essere le due prospettive prevalentemente percorse dall’attuale riflessione filosofica intorno alla felicità: da un lato, le indagini che si interrogano sulla plausibilità di un’articolazione interna tra vita felice e vita giusta, distinguendo più o meno nettamente l’aspirazione alla felicità dall’esercizio del dovere; dall’altro lato, gli studi che si propongono di individuare quali siano le istituzioni e le procedure politico-giuridiche capaci di garantire le condizioni sociali dell’esercizio del “diritto alla felicitàˮ. Discostandomi da tali linee di sviluppo – senza tuttavia voler indicare una terza via che le escluda pre­giudizialmente – in questo lavoro indago le condizioni esistenziali, oggi, di una felicità possibile. Come si vedrà, questa indagine ha la natura di un’analisi di carattere etico-antropologico rivolta a tre nuclei fondamentali dell’esperienza umana: la sofferenza, il desiderio ed il tempo. Le si accompagna, a mo’ di appendice, una proposta educativa relativa all’intelligenza pratica.

Inoltre, il proposito di formulare un discorso che potesse risultare curante mi ha indotto a scegliere di lavorare in sinergia con altri saperi del campo delle scienze umane, ai quali mi sono rivolto con la cautela indispensabile quando si maneggiano strumenti che non sono i propri. Così facendo non sono andato alla ricerca di una sorta di attestazione di oggettività per le mie speculazioni; al contrario, spesso mi sono trovato a pensare a partire da contenuti di natura psicologica, sociologica, ecc., ossia grazie ad essi. Ciò è significato procedere in controtendenza rispetto a quell’atteg­giamento di orgogliosa autoreferenzialità che talvolta connota le ricerche che si muovono in ambito etico. Un’autoreferenzialità che – va detto – è anche un’autolimitazione del filosofare, che in questo modo rischia di smarrire la capacità di mantenersi in comunicazione diretta con il vissuto dei soggetti, cioè di non comprendere adeguatamente quel che gli abitanti del presente sperimentano e di non farsi comprendere da loro.

Merita precisare, allo scopo di evitare possibili fraintendimenti, che l’intenzione che ha animato la scrittura del libro – farsi carico dell’attuale domanda di felicità – non è coincisa con la volontà di realizzare un testo che presentasse i tratti tipici di quella produzione pseudo-filosofica che da anni sta conoscendo ampia diffusione e con la quale non simpatizzo affatto. In altre parole, non ho nutrito alcun proposito di imbastire una filosofia prêt-à-porter. Al contrario, la sfida (mi auguro vinta) è consistita nel far convivere il rispetto dei canoni di qualità propri del lavoro scientifico con l’esigenza di comporre un pensiero in grado di dar voce alle istanze che provengono da uno scenario collettivo dove circola, ormai stabilmente, un multiforme disagio esistenziale. Il che significa che questo testo non offre ricette di vita, né avanza tesi senza prendersi la briga di provare a dimostrarle e saltando direttamente alle conclusioni. Il libro presenta, invece, delle rigorose argomentazioni filosofiche, che vengono svolte ed intessute in modo da poter essere comprese (almeno nei loro elementi essenziali) anche dai non “addetti ai lavori”, ossia da coloro che non possiedono una specifica preparazione in questo campo. A loro in particolare chiedo attenzione e pazienza nel seguire i numerosi fili del discorso: una fatica che confido troveranno ben ripagata.

A questo punto, forse si sarà già intuito che la felicità di cui qui si tratta non coincide con una tonalità emotiva (gaiezza, allegria) e nemmeno con la gioia, che, per quanto costituisca una potente elevazione dello stato interiore, possiede un carattere di subitaneità. La felicità che il libro mette a tema non è, insomma, la “condizione positiva” che succede di sperimentare più o meno occasionalmente, secondo quanto espresso dall’inglese happiness (da to happen, “accadere”) o dal francese bonheur e dal tedesco Glück (che significano anche “fortuna”). Si tratta, bensì, del senso di pienezza prolungato, seppur ad intensità variabile, che scaturisce dall’avvertire che la propria esistenza sta riuscendo, ossia sta divenendo ciò che può essere, poiché i semi di vita in cui è racchiusa la propria unicità hanno iniziato a germogliare e a dare frutti. Dunque, non la felicità di momenti di vita, ma la vita felice. L’eudaimonía, nel linguaggio della dottrina etica della filosofia greca.

Per quanto riguarda la distribuzione interna del libro, esso è stato concepito in maniera da presentare quattro capitoli che risultino sia disposti lungo una linea di sviluppo chiaramente percepibile, sia dotati di autonomia argomentativa, tanto da poterli anche leggere separatamente o perfino in un ordine diverso da quello in cui sono collocati.

Nel corposo apparato delle note sono presenti citazioni, riflessioni e proposte di approfondimento che non andrebbero considerate come marginali, poiché sono invece parte integrante del percorso generale. Sono state poste fuori dal testo principale soltanto per evitare di compromettere la fluidità del discorso. Il lettore deciderà se soffermarsi su di esse durante il tragitto o al suo termine.

Mauro Peroni

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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